4.1. B.F. SKINNER: IL RINFORZO DEL
COMPORTANENTO
Per comprendere l'interpretazione
dell'aggressività elaborata dagli studiosi della scuola comportamentista
è necessario partire dal contributo teorico di B.F. Skinner che, nei
corso degli anni '30, ha studiato le forme di condizionamento del
comportamento formulando in particolare la concezione del rinforzo sia
positivo sia negativo.
Benché gli studi di Skinner negli anni '30 riguardassero in particolare
il comportamento di animali, quali topi e piccioni, i suoi modelli
interpretativi dei comportamento hanno costituito un punto privilegiato di
riferimento per le teorie sull'aggressività formulate alla fine degli
anni '30 e negli anni '40.
Per quanto riguarda invece in particolare la natura dell'aggressività,
Skinner ha ripreso ed approfondito la sua analisi principalmente nello
scritto Contingences of reinforcement. A theoretical analysis [1969].
Skinner distingue tra aggressività filogenetica ed ontogenetica. Questi
due aspetti dell'aggressività si manifestano molto spesso combinati tra
loro e quindi difficilmente distinguibili, anche se la loro origine è
qualitativamente diversa: "Il fatto che contingenze filogenetiche
abbiano contribuito alla disponibilità ad essere rinforzate da
manifestazioni ontogenetiche del male fatto, rende particolarmente confusa
la relazione intercorrente tra i due tipi dì contingenze. Vale però la
pena di cercare le variabili effettive, particolarmente quando si fa uno
sforzo rivolto sia a rafforzare che ad indebolire il comportamento
aggressivo" (1) L'aggressività filogenetica deriva dalla lotta per
la sopravvivenza e in essa rientrano, per esempio, la difesa dei propri
figli da parte della madre o la competizione sessuale tra i maschi.
Scrive Skinner: "Stimoli dolorosi sono associati con la lotta,
indipendentemente dalle contingenze specifiche in dipendenza delle quali
la lotta serve alla sopravvivenza, ed hanno liberato un comportamento
aggressivo in una grande varietà di occasioni. Per ragioni analoghe, sono
efficaci anche il controllo fisico e l'assenza di un rinforzo
caratteristico ("frustrazione"). Il comportamento aggressivo di
origine filogenetica è accompagnato da risposte autonome che
contribuiscono alla sopravvivenza, almeno finché appoggiano un'attività
vigorosa. Queste risposte sono gran parte di ciò che si sente
nell'aggressività. Le distinzioni tra gelosia, rabbia, collera, odio,
ecc. suggeriscono contingenze filogenetiche." (2)
Spesso però l'aggressività si manifesta attraverso comportamenti
acquisiti non ereditari. Per esempio il "far del male agli
altri" può agire da rinforzo suscitando un tipo di comportamento
aggressivo non determinato da variabili filogenetiche: "Quando
vogliamo ferire qualcuno insultandolo, maledicendolo, o dandogli delle
cattive notizie, la topografia del nostro comportamento è determinata da
contingenze organizzate da una comunità verbale." (3)
In entrambi i casi (origine filogenetica o ontogenetica) l'aggressività
è sempre spiegabile in funzione degli stimoli e dei rinforzi: "...
l'aggressività non è mai senza senso se ciò significa senza causa;
quando sembra priva di senso vuol dire che abbiamo semplicemente
trascurato o le variabili presenti o la storia del rinforzo." (4)
Già Pavlov aveva incluso l'aggressività fra i cosiddetti riflessi
assoluti insieme a quello alimentare, sessuale e di gioco. Tuttavia Pavlov
aveva anche supposto una subordinazione dell'istinto aggressivo a quello
alimentare che era ritenuto quello dominante e ciò sembrava confermato
dai suoi noti esperimenti, nei quali le reazioni aggressive si attenuavano
o estinguevano quando veniva provocato il riflesso alimentare [Pavlov,
1943].
Resta chiaro comunque che per Skinner un comportamento aggressivo
presuppone sempre uno stimolo che produce una risposta, la cui forma è
determinata in misura rilevante dall'incidenza del rinforzo.
Skinner polemizza in modo sprezzante con coloro che attribuiscono i
comportamenti aggressivi ad un istinto di morte. Freud e i freudiani
ortodossi sono accusati da Skinner di ricercare "cause fittizie"
del comportamento aggressivo, trascurando così le variabili effettive.
Egli si oppone alla tesi di una pulsione di morte presente in tutti gli
organismi viventi, perché non è osservabile un rapporto tra tale
pulsione e il principio fondamentale della tendenza biologica alla
sopravvivenza.
Skinner rifiuta recisamente non solo la teoria freudiana, ma anche ogni
credenza secondo la quale l'uomo è aggressivo per natura, ritenendola
solo una comoda giustificazione dell'inettitudine dell'uomo a creare un
mondo migliore. Infatti Skinner, come tutti i comportamentisti, crede
nell'onnipotenza dell'educazione, in questo profondamente influenzato da
Watson, e quindi è convinto che i comportamenti aggressivi possono essere
notevolmente ridotti e controllati agendo sull'ambiente, mentre l'ipotesi
istintivista finisce, a suo parere, per svolgere oggettivamente una
funzione di comodo alibi per eludere l'impegno individuale e sociale.
4.2. J. DOLLARD: L'IPOTESI
FRUSTRAZIONE-AGGRESSIONE
L'impianto teoretico formulato da Skinner viene
ampiamente ripreso da Dollard, che accetta e sviluppa l'interpretazione
skinneriana dell'aggressività, includendola però in un progetto di
lavoro, attuato da un gruppo di psicologi comportamentisti
dell'Università di Yale, che si sono proposti la verifica sperimentale
dei principali concetti psicoanalitici.
Per Dollard gli studi suoi e dei suoi collaboratori [Miller, Doob, Mowrer,
Sears], e soprattutto i vari esperimenti effettuati all'Università di
Yale, hanno pienamente confermato la tesi fondamentale sull'origine
dell'aggressività, così riassunta: "Un comportamento aggressivo
presuppone sempre uno stato di frustrazione e, inversamente, l'esistenza
di una frustrazione conduce sempre a qualche forma di aggressività."
(5)
La frustrazione è definita come "an interference with the occurrence
of an instigated goal-response at its proper time in the behaviour
sequence". (6)
L'aggressività è definita da Doliard come "any sequence of
behaviour, the goal response to which is the injury of the person toward
whom it is directed." (7)
Secondo Dollard l'intensità dell'istigazione all'aggressività varia in
proporzione diretta alla quantità della frustrazione; a sua volta
quest'ultima varia in funzione dell'intensità dell'istigazione alla
risposta frustrata, del grado di interferenza con la risposta frustrata e
del numero delle risposte frustrate.
Il legame con la prima variabile è quello più evidente, poiché è
facile osservare una proporzione diretta tra la quantità di frustrazione
e l'intensità del desiderio: così sottrarre il cibo ad un cane affamato
causa una reazione più violenta che non la sottrazione del cibo ad un
cane sazio.
Per quanto riguarda la seconda variabile, per Dollard è probabile che
più incida l'interferenza rispetto all'attività volta al raggiungimento
del fine, più aumenti la frustrazione: così un giocatore di golf è meno
probabile che si metta ad imprecare per una interferenza leggera che lo
distragga in un momento cruciale della partita, che non per una
distrazione più forte, la quale rappresenta un'interferenza molto
maggiore.
Per quanto riguarda la terza variabile Dollard ritiene che molte piccole
frustrazioni si sommino producendo una risposta di intensità maggiore di
quanto ci si aspetterebbe normalmente dalla situazione frustrante che
sembra essere l'antecedente immediato dell'aggressività. Pur ritenendo
che il fattore temporale sia di grande importanza, Dollard ammette che:
"Non disponiamo però di dati che indichino esattamente per quanto
tempo dopo la cessazione della frustrazione primaria persista
l'istigazione secondaria all'aggressività". (8)
Per mantenere la validità in ogni situazione del rapporto biunivoca tra
frustrazione e aggressività Dollard ritiene essenziale stabilire una
distinzione tra aggressività palese e non-palese (implicita), poiché è
evidente che non tutte le frustrazioni producano l'aggressività palese.
Fra le due classi di atti aggressivi non esiste una rigida separazione:
"Non riteniamo che questi due termini [palese e non-palese] si
riferiscano a categorie diverse di comportamento aggressiva, ma
semplicemente a casi estremi di un continuum di fenomeni." (9)
Ciò che determina la manifestazione non palese dell'aggressività, cioè
il suo grado di inibizione, è, per Dollard, la previsione della
punizione. Egli ritiene che l'intensità di inibizione di un atto di
aggressività varia in proporzione diretta alla quantità di punizione
prevista come conseguenza di quell'atto. Dollard esamina varie forme di
dislocazione (displacement) dell'aggressività. A questo proposito Fornaro
nota che il termine displacement è usato da Dollard con lo stesso
significato del freudiana verschiebung, che però nelle
traduzioni italiane delle opere di Freud è reso con spostamento [Fornaro, 1983].
La dislocazione si può attuare sia mutando il soggetto verso cui
l'aggressività è diretta, sia mutando la forma (modalità) di
aggressività (umorismo, irrisione, soddisfazioni immaginarie ...).
Anche l'autoaggressività è una forma dislocata di aggressività inibita
nella sua forma diretta: "Gli psicanalisti dispongono di prove che
indicherebbero che non soltanto le autoaccuse, ma anche le lesioni fisiche
e persino i sintomi nevrotici possono essere espressioni di aggressività
rivolta contro se stessi." (10) L'impostazione di Dollard e
collaboratori nello studio dell'aggressività emersa dal citato testo del
1939, presuppone evidentemente un modello pulsionale di funzionamento
dell'apparato psichico. A questo proposito Silvia Bonino e Gianfranco
Saglione notano giustamente che "risulta chiaramente che gli autori
hanno come riferimento un modello idraulico di funzionamento dell'apparato
psichico, visto come una pentola a pressione, in cui si accumula la
tensione provocata dal fuoco della frustrazione."
L'intensità dell'istigazione dell'aggressività è infatti - secondo gli
autori - in rapporto direttamente proporzionale con la quantità della
frustrazione, che è determinata da fattori quali l'intensità con cui
l'individuo era istigato alla risposta-meta frustrata, il grado
d'interferenza con la risposta frustrata, il numero delle risposte
frustrate. Il "coperchio della pentola, ovvero l'inibizione che
impedisce un'immediata e diretta scarica dell'aggressività, è costituita
dalla previsione della punizione, che implica un'esperienza passata di
punizione di certe attività aggressive; gli autori considerano alla
stregua di anticipazione della punizione, la previsione di un insuccesso e
l'offesa a un oggetto amato. Quando l'istigazione all'aggressività supera
una certa soglia, raggiunge cioè un'intensità molto più alta, può
rendere inefficace l'inibizione costituita dalla previsione della
punizione e quindi far "saltare il coperchio della pentola"
dando libero sfogo all'aggressività.
Secondo gli autori, l'inibizione alla scarica diretta dell'aggressività
può dare origine a mutamenti di forma (reazioni aggressive non palesi) e
di direzione (dislocazione e sublimazione. (11)
Va comunque tenuto presente che per Dollard ogni atto aggressivo inibito
costituisce una nuova frustrazione e quindi un aumento dell'istigazione
all'aggressività e inversamente "il manifestarsi di un qualsiasi
atto aggressivo riduce l'istigazione all'aggressività stessa. Nella
terminologia psicoanalitica tale liberazione viene chiamata catarsi".
(12)
La teoria di Dollard sull'aggressività ha costituito un modello di
riferimento costante per l'indagine che successivamente si è sviluppata
e, per Caprara, ancora oggi conserva un indubbio valore euristico,
indipendentemente temente dai numerosi processi di revisione critica che
in oltre trent'anni [Caprara scrive nel '72] ne hanno aggredito e
praticamente modificato il contenuto". (13)
4.3. SVILUPPI E CRITICHE ALL'IPOTESI DI J.
DOLLARD
A questo modello teoretico sono state mosse molte
critiche [Bonino-Saglione, 1978 a], la più rilevante delle quali si
ritiene sia quella di non-scientificità, in quanto risulta impossibile
controllare le risposte aggressive non palesi, considerate da Dollard come
possibili effetti della frustrazione. Le prime critiche e rielaborazioni
della teoria furono sviluppate dagli stessi collaboratori di Dollard negli
anni '40.
Sears [1941] riconobbe che l'aggressività costituisce solo una delle
modalità di reazione alla frustrazione che può dare origine ad altri
tipi di comportamento, i più rilevanti dei quali sono stati così
classificati:
1) il comportamento persistente, nel quale il soggetto continua a ripetere
i medesimi atti anche se questi si sono già dimostrati non idonei al
conseguimento dell'obiettivo di annullamento delle cause di frustrazione;
2) il comportamento regressivo in cui il soggetto persegue il
raggiungimento della risposta meta, attuando comportamenti appresi in una
fase precedente dello sviluppo;
3) il comportamento volto alla ricerca di soluzioni sostitutive o
sublimatorie, in cui l'individuo attua una sequenza comportamentale
diversa da quella interrotta dalle cause frustranti e volta al
raggiungimento di una risposta meta diversa da quella originaria.
Secondo Sears solo quest'ultimo comportamento permette la riduzione della
tensione ed il conseguimento di un nuovo equilibrio.
E' così spezzato il rapporto univoco tra frustrazione ed aggressività,
in quanto si riconosce che la frustrazione non sempre genera
aggressività, ma si conferma che l'aggressività è sempre conseguenza di
una frustrazione.
Lo stesso principio è sostenuto da Miller [1941, 1948], il quale afferma
che la reazione aggressiva è una delle possibilità che possono essere
attuate dalla persona frustrata, scelta in una gerarchia di risposte
apprese in precedenza. Nell'ambito di questa ipotizzata gerarchia, la
risposta aggressiva occupa il posto principale, mentre le altre sono
risposte subordinate all'impossibilità di attuare la prima risposta. Il
soggetto inoltre può essere spinto a manifestare aggressività se le
risposte non aggressive messe in atto non producono una diminuzione del
bisogno frustrato con conseguente persistenza del bisogno e della
frustrazione. Miller, nel riconfermare che ogni comportamento aggressivo
deriva da una frustrazione, precisa che "no assumptions are made as
to whether the frustration-aggression relationship is of innate or of
learned origin". (14) Sempre negli anni '40 S. Rosenzweig [1941]
suggerisce l'opportunità di distinguere principalmente due tipi di
reazione alla frustrazione, definiti "need-persistive" (cioè
immediatamente inerenti al singolo bisogno frustrato e che seguono
inevitabilmente ad ogni frustrazione, tendendo a ristabilire le condizioni
di equilibrio preesistente) e "ego-defensive", cioè quelle che
non seguono necessariamente alla frustrazione, ma si verificano soltanto
quando il soggetto vive la frustrazione come una minaccia alla sua
integrità personale.
Per Rosenzweig la possibilità di associare ad una semplice reazione
need-persistive anche una reazione ego-defensive dipende dalla struttura
della personalità del soggetto ed in particolare dalle sue ansie nel
rapporto con la realtà.
Anche in questo caso quindi l'attuazione o meno di una risposta aggressiva
non è più tanto in funzione della frustrazione, ma dipende anche in
misura rilevante dall'equilibrio psichico del soggetto, che non è una
variabile immediatamente osservabile.
In modo analogo e nello stesso periodo, anche A. Naslow [1941, 1943]
distingue, questa volta però a livello di frustrazioni e non di risposte,
tra sheerdeprivation, cioè semplice deprivazione di un bisogno, e
threatening-frustration, cioè quelle frustrazioni che rappresentano un
pericolo che investe il modo di percepire e di reagire del soggetto nella
sua globalità. Ne consegue che la frustrazione si configura come un
esperienza eminentemente soggettiva" [Caprara, 1972] e in questo
senso vanno interpretate le diverse modalità con cui le persone
reagiscono ad essa. Il modo di percepire e di reagire alla frustrazione
costituisce un sintomo della modalità con cui il soggetto affronta la
realtà.
Numerosi studi degli anni '40 e '50 [Bateson, 1941; Zander, 1944; Thibaud,
1952,1955; Pastore, 1950,1952; Cohen, 1955; McKee, 1955] mostrano come le
modalità di percepire e di reagire alla frustrazione variano sia in
relazione all'autostima, ai sentimenti di fiducia, di sicurezza, di colpa,
ecc. (cioè a variabili del carattere), sia in relazione alla
prevedibilità, alla giustificabilità, o arbitrarietà della
frustrazione, e sia, in misura significativa, rispetto al contesto
culturale e sociale.
Secondo Caprara tutti questi sviluppi della teoria dell'aggressività
originati dall'iniziale impostazione di Dollard sono caratterizzati
dall'abbandono deciso di ogni ipotesi riduzionistica del tipo S-R
"per abbracciare, in una visione più unitaria, organica e dinamica
le complessità della realtà psichica. L'ipotesi frustrazione -
aggressività ed i principi ad essa associati relativi all'intensità,
alla direzione ed alla catarsi dell'aggressività, vanno così
riconsiderati secondo una prospettiva personalistica di tipo R = f (S, P).
Il tipo, l'intensità e lo sviluppo della risposta variano in relazione
alle caratteristiche oggettive
dello stimolo frustrante ed in relazione alle caratteristiche soggettive
dell'attività psichica che interpreta lo stimolo e seleziona la
risposta." (15)
Tutti questi studi degli anni '40 e '50 possono quindi, in questa
prospettiva, essere considerati1 insieme alla teoria di Berkowitz, che si
sviluppa negli anni '60 (e che verrà esaminata più avanti), come una
fase di transizione delle originarie impostazioni comportamentiste alla
più organiche interpretazioni dell'aggressività elaborate nelle teorie
neocomportamentiste e cognitiviste degli anni 70 ed '80.
Il giudizio sull'omogeneità di fondo dei citati scritti degli anni '40 e
'50 non è da tutti condiviso. Ad esempio F. Di Maria e S. Di Nuovo
ritengono che, nonostante i tentativi di riformulazione, l'ipotesi di
rapporto biunivoco tra frustrazione e aggressività sul quale si sono
basate le ricerche degli studiosi dell'Università di Yale, non manca
ancora oggi (1984) di suscitare critiche. Infatti: "Gli autori di
questa ipotesi, nel definire la relazione tra stato di blocco
dell'organismo diretto verso una meta e comportamento aggressiva,
oscillano tra il ritenerla fondamentalmente "automatica" (ossia
programmata nell'organismo) oppure frutto di apprendimento. Nel primo caso
ci troveremmo ancora di fronte ad una caratteristica universale,
riscontrabile in tutti gli organismi e in tutte le circostanze; il che non
sembra sperimentalmente sostenibile (...). Nel secondo caso bisognerebbe
stabilire le modalità tramite le quali tale relazione è appresa,
spiegare perché alcuni individui rispondano in un certo modo ed altri in
modo diverso di fronte ad un medesimo evento frustrante." (16)
Queste difficoltà, in ultima analisi, deriverebbero dall'assunto iniziale
degli studiosi di Yale secondo cui l'aggressività è sempre conseguenza
di una frustrazione, mentre De Maria e Di Nuovo ritengono che "nessuna
teoria monocriteriale può rendere conto delle molteplici determinanti
dell'aggressività." (17)
Anche Erich Fromm, riprendendo alcune osservazioni di Berkowitz (di cui si
tratterà più avanti), critica la ria della scuola di Yale, ponendo
l'attenzione sul fatto che il concetto di frustrazione sarebbe utilizzato
in maniera ambigua da Dollard e collaboratori. Per Fromm, infatti,
frustrazione può significare sia l'interruzione di un'attività
finalizzata in corso di attuazione, sia la negazione di un desiderio, nel
senso quindi di semplice privazione. Da questa ambiguità consegue che
"a seconda del significato della frustrazione, ci troviamo di fronte
a due teorie completamente diverse. Nel primo senso, la frustrazione
sarebbe relativamente rara, verificandosi solo quando l'attività
desiderata fosse già cominciata; non sarebbe quindi abbastanza frequente
da spiegare tutta o anche soltanto una parte considerevole
dell'aggressione. Allo stesso tempo, spiegare l'aggressione come risultato
di un'attività interrotta potrebbe essere l'unica parte valida della
teoria. Per smentirla o confermarla, nuovi dati neurofisiologici potranno
essere di valore decisivo. Anche la teoria basata sul secondo significato
della frustrazione non sembra reggere di fronte a tutte le vaste prove
empiriche. Prima di tutto, potremo considerare un fatto fondamentale della
vita: senza frustrazione non si può raggiungere nulla d'importante.
L'idea che si possa imparare senza sforzo, e cioè senza frustrazione,
può andare bene per uno slogan pubblicitario, ma certamente non è vera
per quanto riguarda l'acquisizione di certe capacità fondamentali. Senza
la capacità di accettare la frustrazione, l'uomo non sì sarebbe affatto
evoluto. [...] Quel che può produrre aggressione, come spesso succede, è
il significato che la frustrazione ha per la persona, ed il significato
psicologico della frustrazione varia secondo la costellazione complessiva
in cui si inserisce." (18)
Dunque, per Fromm il carattere di una persona è il fattore più
importante nel determinare il verificarsi e l'intensità della
frustrazione; è il carattere della persona a determinare, in primo luogo,
che cosa può frustrarla, e in secondo luogo l'intensità della sua
reazione alla frustrazione.
E' proprio la sottovalutazione dell'importanza del carattere che per Fromm
costituisce il limite fondamentale dell'impostazione teoretica degli
studiosi della scuola di Yale.
Nel corso degli anni '60 le teorie
dell'aggressività si arricchiscono di significativi apporti sia per gli
studi di eminenti psicologi comportamentisti come A.H. Buss [1961] e L.
Berkowitz [1962, 1964, 1965, 1969], sia per i noti esperimenti di S.
Milgram [1963] e di Epstein [1966].
Buss mette in discussione la definizione stessa di aggressività proposta
da Dollard, sostenendo che va evitata l'utilizzazione del concetto di
"intento" (nella definizione di Dollard troviamo infatti
l'espressione: "goal response") sia perché esso implica una
prospettiva teleologica, sia perché metodologicamente è difficile
applicare questo concetto agli eventi comportamentali: "l'intento è
un evento privato che può o meno essere suscettibile di verbalizzazione (…
e) costituisce un intralcio superfluo nell'analisi del comportamento
aggressivo; anzi, la questione fondamentale è la natura delle conseguenze
di rinforzo che influenzano l'evento e la forza della risposta
aggressiva". (19)
Buss propone quindi una definizione di aggressione nei seguenti termini:
"reazione che trasmette stimoli nocivi a un altro organismo".
(20)
Per Buss però non tutti gli stimoli nocivi prodotti in un contesto
interpersonale rientrano nella categoria di aggressione: per essere tali
devono essere socialmente non giustificabili (ad esempio non può essere
qualificata come aggressione l'azione del dentista che trapana un dente
per curarlo). Escludendo ogni spiegazione di tipo intenzionale o
motivazionale, per Buss la causa principale dell'agire aggressivamente è
la classe di rinforzi derivati da precedenti azioni che hanno portato
all'acquisizione di specifici vantaggi che possono consistere sia
nell'allontanamento di una condizione di stimolo negativa per il soggetto,
sia nel raggiungimento di specifiche soddisfazioni.
Per S. Bonino - G. Saglione [1978 a] il criterio che determina la condotta
dell'individuo secondo Buss è strumentale, legato alla maggiore o minore
efficacia che la condotta mostra di avere nella specifica situazione. Gli
stessi autori valutano molto negativamente l'impostazione di Buss; infatti
affermano: "Giudichiamo (...) alquanto ambiguo, per non dire
pericoloso, il metro di giudizio introdotto da Buss per definire un atto
come "aggressione": la sua giustificabilità o meno da un punto
di vista sociale. La non concordia degli studiosi nel definire
l'aggressività rischia dì diventare una vera "torre di
Babele"; inoltre ciò che può essere giudicato
"aggressione" in un certo contesto politico, può non essere
considerato tale in un altro". (21)
4.4. L. BERKOWITZ: LE RADICI DELL'AGGRESSIVITA'
Berkowitz riconosce l'importanza dell'ipotesi
frustrazione - aggressività avanzata da Dollard, sia per la grande
quantità di studi e di ricerche a cui ha dato origine, sia per il suo
valore euristico, anche se non sì sente di condividerla integralmente.
Innanzi tutto egli definisce l'aggressività come "behaviour whose
goal response is the inflicting of injury on some object or person".
(22)
Egli afferma di essere convinto che la frustrazione aumenta la
probabilità che un organismo minacciato metta in atto comportamenti
aggressivi e che questa relazione valga sia per molte specie di animali,
sia per l'uomo. Tuttavia la teoria di Dollard risulta "too simple and
too sweeping". Al contrario, egli ritiene che: "The existence of
frustration does not always lead to some form of aggression, and the
occurrence of aggressive behaviour does not necessarily presuppose the
existence of frustration" (23)
In tal modo la relazione biunivoca tra frustrazione ed aggressività
avanzata da Dollard e che era già stata parzialmente criticata da Sears e
Miller, viene in Berkowitz sottoposta a revisione in tutta la sua portata.
In realtà l'ipotesi che l'aggressività non presuppone sempre una
frustrazione, come anche Berkowitz riconosce esplicitamente, era già
stata avanzata in uno studio di A. Bandura, D. Ross e S. Ross [1961]
pubblicato sul "Journal of Abnormal and Social Psychology",
anche se è Berkowitz stesso a svilupparne ampiamente le conseguenze. Per
quanto riguarda l'apporto di Bandura relazione valga sia per molte specie
di animali, sia per l'uomo. Tuttavia la teoria di Dollard risulta "too
simple and too sweeping". Al contrario, egli ritiene che: "The
existence of frustration does not always lead to some form of aggression,
and the occurrence of aggressive behaviour does not necessarily presuppose
the existence of frustration" (23)
In tal modo la relazione biunivoca tra frustrazione ed aggressività
avanzata da Dollard e che era già stata parzialmente criticata da Sears e
Miller, viene in Berkowitz sottoposta a revisione in tutta la sua portata.
In realtà l'ipotesi che l'aggressività non presuppone sempre una
frustrazione, come anche Berkowitz riconosce esplicitamente, era già
stata avanzata in uno studio di A. Bandura, D. Ross e S. Ross [1961]
pubblicato sul "Journal of Abnormal and Social Psychology",
anche se è Berkowitz stesso a svilupparne ampiamente le conseguenze. Per
quanto riguarda l'apporto di Bandura alla critica alla teoria
dell'aggressività degli psicologi dell'Università di Yale, si ritornerà
più dettagliatamente sull'argomento trattando questo autore.
Secondo Berkowitz è necessario approfondire il rapporto che lega
frustrazione ed aggressione: le frustrazioni provocano uno stato emotivo
di ira e rabbia che accresce la probabilità del verificarsi della
risposta aggressiva. Inoltre gli stimoli esterni, che agiscono in
associazione con lo stimolo istigatore della rabbia, concorrono anch'essi
nel determinare la risposta aggressiva. Per Berkowitz, Dollard e gli altri
psicologi di Yale hanno utilizzato il concetto di frustrazione in modo non
rigoroso: "Dollard, Doob et al. (1939) confined their use of the
concept to external events, and refused to make any inferences about
internal emotional states with the exception of some hypothetical
instigation to aggression." (24)
Egli invece distingue tra la semplice deprivazione e la frustrazione vera
e propria che avviene quando una sequenza comportamentale finalizzata
viene interrotta da un evento esterno ostile. Infatti, scrive: "This
failure to distinguish between deprivation and frustration can account for
some of the negative results in tests of the frustration - aggression
hypothesis, and it is also involve in the emphasis upon arbitrary
frustrations as the sole source of aggressive reactions to thwarting".
(25)
Berkowitz sottolinea maggiormente, rispetto agli psicologi di Yale, il
ruolo delle esperienze precedenti: è convinto che esistono delle
abitudini aggressive apprese e suscettibili di manifestarsi alla presenza
di stimoli adatti non necessariamente frustranti e ciò è per Berkowitz
una conferma che la frustrazione non è la sola causa del comportamento
aggressivo.
Ne consegue che la ricerca delle cause dell'aggressività diviene molto
più complessa poiché alcune variabili riguardanti gli aspetti cognitivi
della mentalità attuale ed i molteplici stimoli che facilitano e
inibiscono la reazione aggressiva (che erano state in larga parte
trascurate nelle analisi degli studiosi di Yale) acquisiscono invece
un'importanza centrale. Ciò assume particolare rilievo anche per quanto
concerne le possibili azioni sociali volte alla riduzione ed ai
depotenziamento dei comportamenti aggressivi. Infatti: "If aggressive
stimuli in the external environment increase the probability that
frustrated people will attack someone, the likelihood of aggression should
be lessened (but not eliminated altogether) if aggressive cues are removed
from the situation." (26)
Berkowitz, dopo aver mostrato come l'aggressione non derivi
necessariamente da una frustrazione, approfondisce lo studio del rapporto
frustrazione - aggressività, anche determinando i casi in cui la
frustrazione non genera comportamento aggressivo. Si possono
essenzialmente distinguere tre possibilità: o si è in presenza di una
forte inibizione che induce il soggetto a evitare un comportamento
aggressivo manifesto o l'individuo ha appreso ad attuare una reazione non
aggressiva in quel tipo di situazione, oppure l'obiettivo, il cui
raggiungimento è stato frustrato, non assume per il soggetto una
rilevanza tale da motivare il comportamento aggressivo ("the
available target does not have appropriate stimulus qualities").(27)
Secondo Berkowitz le prime due possibilità erano già state individuale
da Miller [1941], mentre la terza era stata trascurata.
Il nesso fra frustrazione e aggressività è analizzato da Berkowitz non
solo dal punto di vista della contestata necessità del rapporto tra causa
ed effetto, ma anche in relazione alla sua origine,che può essere
istintiva o determinata dall'apprendimento. Egli scrive; "people may
learn to aggress much as they learn to display any other type of behaviour".
(28)
Sulla base di questa convinzione egli ha compiuto alcune ricerche per
evidenziare l'importanza che determinati indicatori o "segnali -
stimolo" esistenti nella realtà che circonda l'individuo svolgono
nel determinare o facilitare la messa in atto di condotte aggressive, in
ciò allacciandosi ai principi del condizionamento operante. Egli ritiene
infatti che, se da un lato è possibile ipotizzare che l'uomo sia
geneticamente programmato ad agire con manifestazioni aggressive
all'esperienza del dolore, dall'altro è egualmente possibile ipotizzare
che nell'uomo vi sia una congenita predisposizione secondo la quale la
frustrazione rappresenta un'istigazione all'aggressione. Una simile
posizione sembra avvicinano agli istintivisti, ma in realtà Berkowitz
sottolinea la grande importanza dell'esperienza e dei fattori esterni che
vengono a mediare, con lo stato emotivo del soggetto, l'attuazione
effettiva della risposta aggressiva.
Scrive Berkowitz: "The frustration - aggression relationship may be
learnable without being entirely learned." (29).
A questo proposito egli ricorda come gli esperimenti con gli animali
mostrano che la minaccia può indurre un comportamento aggressivo anche
senza un preventivo apprendimento: "The attack behavior was not a
result of a history of competition over food." (30)
Tra le critiche a Dollard, particolarmente interessante si presenta quella
al concetto di catarsi. Dollard, come si è visto, sosteneva che
l'attività aggressiva riduce necessariamente il bisogno di aggressività.
Analogamente, nota Berkowitz [1976], vi è chi sostiene una teoria,
liberamente tratta dalle idee di Aristotele, sulla funzione catartica
della tragedia, contenuta nella "Poetica", secondo la quale la
violenza sostitutiva, o quella a cui si assiste, svuota le riserve di
ostilità accumulate, e allevia tensioni che altrimenti potrebbero
manifestarsi in comportamenti violenti. Queste interpretazioni per
Berkowitz sono sostanzialmente errate: non solo l'attività aggressiva non
scarica necessariamente l'istigazione all1aggressività, ma anzi può
rinforzare il bisogno aggressivo; e così la rappresentazione della
violenza, comunemente diffusa dai mezzi di comunicazione di massa, può
allentare le inibizioni e determinare la convinzione che gli atti
aggressivi siano tollerati e non puniti: ne deriva così un rinforzo del
comportamento aggressivo. Tuttavia, e questa è per Berkowitz una scoperta
incoraggiante, assistere a spettacoli violenti non autorizza
automaticamente l'azione violenta: può diminuire, ma anche accrescere le
inibizioni, a seconda di come lo spettatore interpreta ciò che vede (a
seconda che l'azione violenta sia percepita come giusta o ingiusta, se
suscita o meno orrore, etc. ...).
Le valutazioni complessive sulle analisi di Berkowitz circa
l'aggressività, appaiono alquanto differenziate: pur se concordano nel
ritenere la sua opera un significativo momento di passaggio verso nuovi
studi ed esperimenti tendenti a sottolineare, nell'ambito delle cause
dell'aggressività, gli aspetti cognitivi della mentalità individuale.
Per esempio S. Bonino - G. Saglione, dopo aver riconosciuto le novità
teoretiche rispetto alle posizioni degli psicologi di Yale, valutano
ancora insufficiente l'importanza attribuita alle caratteristiche
individuali: "Alcuni punti dell'ipotesi interpretativa di Berkowitz
ci sembrano particolarmente stimolanti e validi, ma, fatto del resto
comune a tutti i teorici comportamentalisti, egli dà poca importanza alle
caratteristiche individuali del soggetto, teso com'è alla ricerca di
meccanismi di base di valore universale. Egli dimentica però che la
persona rappresenta un'entità irripetibile, al cui comportamento non
possono essere applicate in modo rigido e meccanico le leggi psicologiche.
Le più recenti ricerche di indirizzo psicodinamico hanno dimostrato
infatti l'importanza rivestita dalle variabili individuali ed il ruolo da
esse svolto nel rapporto tra individuo e ambiente." (31) All'opposto,
Di Maria e Di Nuovo sostengono che Berkowitz affronta il problema
eziologico dell'aggressività in modo molto più complesso rispetto ai
teorici di Yale, prendendo in considerazioni variabili che erano state
minimizzate o completamente trascurate nell'opera di Dollard e "tali
variabili riguardano gli aspetti cognitivi della mentalità individuale,
le determinanti situazionali dell'istigazione all'aggressione, i
molteplici stimoli che facilitano o inibiscono la reazione aggressiva, la
meta o oggetto dell'aggressione stessa". (32)
Sullo stessa linea interpretativa si muove anche Caprara, che ascrive a
Berkowitz il merito di aver contribuito a ridurre il rischio di astrazione
nell'analisi dell'aggressività, che diviene inevitabile se si prescinde
dal contesto reale e dalle persone che agiscono, vivono e valutano il
comportamento offensivo. Ogni comportamento aggressivo è interpretato e
analizzato da Berkowitz "alla luce delle tappe e delle esperienze che
hanno segnato lo sviluppo psico-sociale del soggetto e nel contesto di
un'unità di riferimento, la personalità, che rappresenta il punto di
contatto tra l'individuo e l'ambiente, ed il punto di sintesi tra ciò che
è stato e ciò che è presente alla realtà psichica". (33) In tale
prospettiva, per Caprara, Berkowitz ha diretto l'attenzione a quei
particolari tipi di atteggiamenti aggressivi od ostili che dominano e
caratterizzano la relazione di alcuni soggetti con la realtà, riprendendo
la concezione dell'ostilità di L. Saul [1956], secondo la quale essa è
la patologia di una personalità che ha un senso disturbato della realtà.
Si può quindi concludere che la personalità aggressiva è indotta a
interpretare larga parte della realtà come una fonte permanente di
minaccia e frustrazione.
4.5. L'ESPERIMENTO DI MILGRAN
Sempre negli anni '60 si svolgono i celebri
esperimenti di Milgram e Epstein, che, anche se utilizzati a sostegno di
ipotesi interpretative dell'aggressività rientranti nella psicologia
sociale, devono qui essere richiamati, poiché le divergenti
interpretazioni a cui hanno dato seguito, contribuiscono a vivacizzare
negli anni '60 e '70 il dibattito teoretico sulle radici
dell'aggressività.
Come è noto, l'esperimento di Milgram, condotto nel "Laboratorio di
interazione" dell'università di Yale, ha riguardato quaranta
soggetti maschi tra i 20 ed i 50 anni i quali, credendo di collaborare ad
esperimenti sulla memoria e l'apprendimento, venivano indotti a
somministrare scariche elettriche sempre maggiori ad altri soggetti che,
d'accordo con gli sperimentatori, fingevano sofferenze proporzionate
all'entità delle scariche.
Secondo Milgram [1963] il risultato più significativo è che solo il 35%
dei soggetti ha, in qualche modo, disubbidito agli sperimentatori, mentre
tutti gli altri hanno somministrato tutte le scariche, fino a quelle più
intense (450 Volt). Questo risultato fu interpretato da Nilgram stesso e
da molti studiosi comportamentisti come la prova che l'autorità
deresponsabilizzava i soggetti ed. in tal modo venivano eliminati quei
fattori di inibizione dell'aggressività che normalmente impediscono
all'individuo di attuare comportamenti violenti nei confronti del
prossimo.
Scrive infatti Milgram. "Gente normale, che si occupa soltanto del
suo lavoro e che non è motivato da nessuna particolare aggressività,
può, da un momento all'altro, rendersi complice di un processo di
distruzione. Ancora più grave è il fatto che la maggior parte di loro
non ha le risorse necessarie per opporsi all'autorità, anche quando sì
accorge di compiere atti malvagi, in contrasto con le più elementari
norme morali. Entra in gioco tutta una gamma di inibizioni che impediscono
la rivolta e provocano la sottomissione all'autorità. [...] Una volta che
avevano fatto del male alla vittima questi soggetti non potevano evitare
di considerarla una persona spregevole, che meritava la punizione a causa
della poca intelligenza e della mancanza di carattere dimostrate. [...]
Abbiamo messo in luce qualcosa di ben più pericoloso: la capacità degli
individui di rinunciare alla loro umanità, anzi la necessità di
comportarsi in tal modo al momento in cui la loro personalità individuale
viene incorporata in più vaste strutture istituzionali." (34)
Milgram conclude la sua analisi affermando che il comportamento aggressivo
è determinato più da richieste e condizioni specifiche della situazione
(in questo caso derivanti dall'autorità degli sperimentatori) che da
tratti intrapsichici della personalità del soggetto. Questa conclusione,
secondo Di Maria e Di Nuovo, è "direttamente deducibile da un tipo
di esperimento che non tiene conto delle variabili di personalità"
qual è quello di Milgram. (35)
In effetti l'esperimento di Milgram è stato replicato in Italia da Ancona
e Pareysoin [1968], ottenendo risultati analoghi: solo il 15% dei soggetti
si è arrestato durante la prova. Tuttavia gli autori italiani hanno
spinto più oltre l'esperimento esaminando anche la personalità dei
soggetti attraverso tests e colloqui. I soggetti obbedienti sono risultati
distinguibili in due classi: coloro che proseguono solo perché
personalmente convinti che lo sperimentatore non permetterà un reale
danno alla vittima e coloro che, invece, dotati di un Io debole e rigido,
hanno messo in atto forti meccanismi di difesa quali la negazione, la
proiezione della colpa sullo spettatore o sulla vittima. Tutti i soggetti
che hanno rifiutato di continuare sono risultati avere personalità
esageratamente ansiose di tipo nevrotico.
Le conclusioni di Milgram sono invece apertamente contestate da Fromm, il
quale sottolinea che nello stesso scritto di Milgram è affermato che il
livello di tensione nei soggetti che dovevano somministrare le scosse ha
raggiunto estremi raramente riscontrabili negli sperimenti condotti nei
laboratori sociopsicologici. Questo stato di tensione è per Fromm sintomo
di un dissidio intrapsichico non consapevole: "il conflitto si
manifesta solo inconsciamente, con un aumento di stress, di sintomi
nevrotici, di sensi di colpa ingiustificati". (36)
Per Fromm costituisce anche un'errata interpretazione il ritenere il
principio di autorità come determinante nell'inibire i possibili freni
dell'aggressività. Infatti i soggetti si sentono autorizzati a
somministrare anche scariche violente, non perché è stato loro ordinato
da un'autorità, ma perché, consapevoli di partecipare ad un esperimento
scientifico, hanno fiducia nella scienza: "per il credente, né Dio
né il suo equivalente moderno, la scienza, possono dare un ordine
sbagliato". (37)
Per questo motivo la disobbedienza di circa un terzo dei soggetti può
addirittura apparire incoraggiante per Fromm, anche tenendo conto che la
maggior parte del 65% dei soggetti che subì il condizionamento a
comportarsi con crudeltà "manifestò chiaramente una reazione di
indignazione o di orrore contro tale comportamento sadico". (38)
Dalle discussioni su questi esperimenti emerge con evidenza la difficoltà
di estendere alla vita reale le indicazioni che scaturiscono dagli esiti
di situazioni sperimentali, che necessariamente sono sottoposte a
condizioni artificiose (tra le altre anche la consapevolezza dei soggetti
di partecipare ad un esperimento, anche se ne ignorano il vero scopo,
poiché sono stati opportunamente "ingannati") che possono in
qualche modo influenzarne i significati.
Si possono svolgere analoghe considerazioni sia relativamente
all'esperimento di Epstein [Epstein, 1966; Di Maria - Di Nuovo, 1984] che
introduceva, rispetto all'esperimento di Milgram, un'ulteriore variabile
consistente nell'imitazione di un modello aggressivo, sia per quanto
concerne numerosi altri esperimenti di psicologia sociale aventi per tema
l'aggressività, che si sono effettuati negli anni '60 e '70.
4.6. A. BANDURA: UNA "SOCIAL LEARNING
THEORY"
Nel 1973 Albert Bandura pubblica l'opera Aggression:
a social learning analysis che rappresenta un'articolata e organica
sintesi di vari studi sull'aggressività condotti da Bandura stesso e da
altri collaboratori, quali D. Ross, S. Ross, FI. Walters e altri, a
partire dall'inizio degli anni '60.
Quest'opera, che dedica anche particolare attenzione alla ricostruzione
delle precedenti teorie1 può essere considerata come un riepilogo del
dibattito teorico fra gli psicologi americani, nonché il punto di
partenza per un ampliamento degli studi sull'aggressività verso direzioni
che erano state largamente inesplorate nei decenni precedenti.
Bandura definisce l'aggressività "as behaviour that results in
personal injury and in destruction of property. The injury may be
psychological (in the form of devaluation or degradation) as well as
physical". (39) Tuttavia in una "social learning theory"
l'aggressività deve essere trattata come un evento complesso che include
sia i comportamenti che producono danni ed effetti distruttivi, sia i
processi di "social labelling". A questo proposito Bandura, in
evidente polemica con Buss (anche se questi non viene esplicitamente
citato) afferma che nello studio dell'aggressività non si può
assolutamente prescindere dalla valutazione dell'intenzione; l'intenzione
attribuita agli attori altera il modo in cui l'azione è valutata: se gli
atti sono giudicati involontari allora il comportamento non è considerato
aggressivo. Oppure un'azione potrebbe essere interpretata come aggressiva,
indipendentemente dal fatto che qualche danno sia stato inflitto, se
l'osservatore presume che la persona voleva intenzionalmente colpire
qualcuno pur senza riuscirvi. Né deve preoccupare il fatto che
l'intenzione non sia immediatamente osservabile: "Intent is typically
inferred from, among other factors, the social contest of the act, the
role status of the perpetrator of the act, and recent or more remote
antecedent conditions." (40)
Bandura contesta anche a Berkowitz la distinzione tra aggressività
strumentale (finalizzata al raggiungimento di altri obiettivi oltre a
quello della sofferenza della vittima) ed aggressività ostile. Tali
distinzioni rischiano di rendere indeterminato l'oggetto che si sta
studiando e, se attuate rigorosamente, portano a considerare solo una
parte dei molteplici fenomeni che costituiscono realmente l'aggressività.
La differenza fondamentale nella definizione del campo di studi
sull'aggressività sembra determinata dall'inclusione di chi valuta e
considera l'atto come aggressivo: "aggression is characterized as
injurious and destructive behaviour that is socially defined as aggressive
on the basis of a variety of factors, some of which reside in the
evaluator rather than in the performer." (41) Tuttavia Bandura stesso
sottolinea il carattere in qualche modo "provvisorio" della sua
definizione di aggressività, in quanto: "adoption of a definition of
aggression primarily serves to delimit the range of phenomena that a given
theory is designed to explain. But it does not necessarily aid in
identifying causal relationships, because one selects for study only
specific classes of behaviour and not an abstract aggression". (42)
Per Bandura [Bandura, 1981] tutte le teorie sull'aggressività si possono
raggruppare in tre filoni: il primo è quello delle teorie istintiviste,
secondo le quali, in ultima analisi, l'uomo è per natura aggressivo; in
tutte queste interpretazioni si ipotizza l'esistenza di un meccanismo
biologico innato che produce un comportamento aggressivo. Questo vale sia
nel caso dell'istinto di morte della psicoanalisi freudiana, sia
nell'istinto della lotta che Lorenz, estrapolandolo dall'osservazione
etologica, attribuisce all'uomo. Per Bandura, come è facile ipotizzare,
queste interpretazioni non trovano alcun riscontro positivo nei dati della
ricerca; nessuno ha mai portato alcuna prova a favore dell'esistenza di un
istinto aggressivo innato nell'uomo. Egli ritiene che la popolarità dì
queste concezioni possa essere spiegata con l'implicita assoluzione che
esse offrono alla crudeltà dell'uomo, scaricandolo dalle sue
responsabilità di fronte ad una forza biologica impersonale. Il secondo
filone si basa sulla teoria di Dollard, sul nesso frustrazione-aggressività. Questa interpretazione ha avuto molta fortuna,
ma per Bandura i relativi riscontri sperimentali sono molto dubbi. Non
solo, ma per Bandura la stessa nozione di frustrazione, utilizzata da
Dollard, risulta inadeguata. La frustrazione deve venire considerata
semplicemente come un rinvio prolungato per un tempo determinato o
indeterminato (omissione) del rinforzo ad un comportamento in atto. La
dilazione del rinforzo (cioè il mancato raggiungimento dello scopo) può
sorgere o dall'esistenza di barriere poste dall'ambiente, fisico o
sociale, o dalla presenza di limiti di natura personale (fisiologici o
psicologici): quindi anche le paure e i conflitti, così come i rinforzi
negativi, possono essere fonti di frustrazioni.
E' interessante notare come Bandura affermi che le conseguenze delle due
teorie siano piuttosto simili nonostante la diversità delle premesse, in
quanto anche l'interpretazione di Dollard, data l'impossibilità di
eliminare del tutto la frustrazione nell'esperienza umana, implica che
l'aggressività sia destinata a rimanere una componente ineliminabile
della convivenza sociale. Tutte queste ipotesi implicitamente assumono un
modello "idraulico" secondo il quale energia aggressiva si
accumula nell'individuo e non può non scaricarsi; se così stessero le
cose, l'unica possibilità di evitare scoppi incontrollati di
aggressività consisterebbe nell'introdurre valvole di sicurezza che
permettano uno sfogo della stessa in modi e forme socialmente accettabili
e poco dannosi.
Per Bandura esiste invece una teoria alternativa: è necessario prendere
atto che la frustrazione non produce automaticamente una reazione
violenta, ma essa genera uno stato di eccitazione emotiva che si può
risolvere in diversi modi. Certamente egli non nega che la frustrazione
possa, a certe condizioni, favorire la comparsa di risposte aggressive.
L'organismo in condizioni di frustrazione subisce una modificazione
rispetto alle condizioni abituali e lo stress a cui è sottoposto posto
può far sì che i comportamenti di forte intensità, precedentemente
appresi, siano attivati per fronteggiare il pericolo rappresentato dalla
situazione frustrante. La frustrazione può cioè provocare un aumento
temporaneo della motivazione e indurre così a risposte vigorose o
violente.
Per comprendere l'aggressività non è possibile limitarsi ad ipotizzare
un meccanismo di causa - effetto, ma si deve spiegare come si creano i
modelli di comportamento aggressivo, quali sono le condizioni che lo
favoriscono e quali sono le variabili che nei singoli casi svolgono un
ruolo significativo.
Per Bandura l'unica prospettiva che permette di comprendere
realisticamente i comportamenti aggressivi, di formulare ipotesi di lavoro
verificabili e di proporre interventi e rimedi efficaci è quella propria
delle teorie dell'apprendimento sociale.
Secondo questa teoria gli uomini non nascono con un potenziale congegno di
violenza, ma apprendono attraverso l'esperienza il comportamento
aggressivo "people are not born with preformed repertoires of
aggressive behavior; they must learn them in one way or another."
(43)
Questa esperienza, questo apprendimento sono un processo sociale: "It
is evident from informal observation that human behaviour is to a large
extent socially transmitted, either deliberately or inadvertently, through
the behavioural examples provided by influential models". (44)
Non si tratta certo di una convinzione ideologica, poiché a partire dal
1961: "Social transmission of aggression through the power of example
has been most clearly demonstrated in controlled experimental situations".
(45)
Per Bandura, quindi, la maggior parte dell'apprendimento si basa
sull'osservazione e l'imitazione dei modelli, mentre il meccanismo dei
tentativi ed errori che era il criterio guida, ad esempio, dì molti
esperimenti di Skinner, ha un'influenza minima per quanto riguarda
l'aggressività. Bandura è convinto che i comportamenti aggressivi e
violenti vengono dapprima osservati negli altri, in seguito il modello
servirà ad orientare il comportamento in condizioni non necessariamente
analoghe.
Nella moderna società complessa, le fonti che offrono questi modelli
comportamentali sono classificate in tre ordini: la famiglia, il gruppo
sociale di appartenenza ed i mezzi di comunicazione di massa.
Egli analizza con molta attenzione ognuno di questi tre livelli,
riportando i risultati di numerosi esperimenti: l'esame dettagliato di
queste analisi non rientra nelle finalità della presente tesi, anche se
è doveroso ricordare che alcune analisi sulla famiglia e sull'influenza
della televisione hanno raggiunto una grande notorietà, non solo fra gli
studiosi, ma anche a livello divulgativo, offrendo stimoli di riflessione
anche a livello pedagogico.
Particolare attenzione è dedicata da Bandura alla prevenzione dei
comportamenti violenti (in particolare nell'opera Analysis of delinquency
and aggression, 1976), che non può affidarsi ovviamente alla buona
volontà dei singoli, ma deve essere affrontata dalla società attraverso
la modifica delle condizioni di vita (ad esempio urbanizzazione,
burocratizzazione, meccanizzazione, ecc.) che possono favorire o indurre
comportamenti per molti versi disumani.
Nonostante il notevole successo dell'opera di Bandura e l'importanza che
essa riveste nell'ambito degli studi sull'aggressività, non mancano,
almeno in Italia, giudizi molto critici sulla sua impostazione che viene
accomunata, con qualche forzatura, a quella di Berkowitz.
Scrivono Bonino-Saglione: "La soluzione del problema
dell'aggressività [...] per Berkowitz e per Bandura, sta nel controllo
dei modelli che vengono offerti all'individuo e nell'eliminazione di
stimoli istigatori pericolosi: ne emerge una visione dell'uomo alquanto
povera e riduttiva. L'uomo è in balia degli stimoli esterni che
condizionano in modo perentorio le sue risposte; non c'è spazio per le
sue emozioni, le sue intenzioni, ecc." (46)
Sulla stessa linea interpretativa si muove anche Caprara: "Sia per
Berkowitz che per Bandura, cioè gli autori di maggior prestigio, larga
parte del problema dell'aggressività si esaurisce in definitiva in un
problema di controllo dei modelli e degli stimoli istigatori [...] ciò
che è preoccupante, in questo, non è soltanto il rifiuto dello psichico
in quanto apparato di elaborazione e di scelta, quanto piuttosto il
rifiuto della cultura in quanto storia [...] La maggior parte delle
ricerche ha trascurato di considerare l'aggressività in quanto tematica
personale, e, conseguentemente, ha trascurato di prendere in
considerazione l'aggressività in quanto tematica sociale, non già per
riproporre l'assoluzione istintivista, ma per scoprire le condizioni
oggettive della sua riproduzione." (47)
NOTE AL 4° CAPITOLO
(1) B.F. SKINNER, Cinquanta anni di
comportamentismo, tr. it. di F.P. Colucci e B. Venturini, Istituto
Librario Internazionale, Milano, 1972, pag. 253.
(2) Ibidem, pag. 251.
(3) Ibidem.
(4) Ibidem, pag. 254.
(5) J. DOLLARD et al., Frustration and Aggression,
Yale University Press, 1957, trad. it. di G. Todeschini, Giunti-Barbera, Firenze, 1967, pag. 13.
(6) Ibidem, pag. 7; trad. it. pag. 18.
(7) Ibidem, pag. 10; trad. it. pag. 21.
(8) Ibidem, pagg. 43-44.
(9) Ibidem, pag. 45.
(10) Ibidem, pag. 59.
(11) S. BONINO - G. SAGLIONE, Aggressività e
adattamento, cit.,, pag. 23.
(12) J. DOLLARD, op. cit.; trad. it. pag. 62.
(13) G.V. CAPRARA, Aggressività e comportamento
aggressiva, cit., pagg. 88-89.
(14) N.E. MILLER, The Frustration-aggression Hypothesis (1941), in "Psychology Review' (48), 1941, pag. 340.
(15) G.V. CAPRARA, op. cit., pagg. 94-95.
(16) F. DI MARIA - S. DI NUOVO, L'aggressività
umana. teorie e tecniche di indagine, Giunti Barbera, Firenze, 1984,
pagg. 34-35.
(17) Ibidem, pag. 35.
(18) E. FROMM, op. cit., pagg. 97-98.
(19) A.H. BUSS, The Psychology of Aggression, Wiley,
New York, 1961, trad. it. in E. Fromm, op. cit., pag. 69.
(20) Ibidem, pag. 68.
(21) S. BONINO - G. SAGLIONE, op. cit., pag. 26.
(22) L. BERKOWITZ, Roots of Aggression. A Re-examination of the
Frustration-aggression Hypothesis, Atherton,
New York, 1969, pag. 3.
(23) Ibidem, pag. 2.
(24) Ibidem, paq. 5.
(25) Ibidem, pag. 6.
(26) Ibidem, pag. 24.
(27) Ibidem, pag. 12.
(28) Ibidem, pag. 13.
(29) Ibidem, pag. 4.
(30) Ibidem.
(31) S. BONINO - G. SAGLIONE, op. cit., pag. 27.
(32) F. DI MARIA - S. DI NUOVO, op. cit., pag. 36.
(33) G.V. CARRARA, op. cit., pag. 95.
(34) S. MILGRAN, Obedience to Authority. An Experimental
View, Harper and Row, London, 1974; trad. it. di R. Ballabeni,
citata in M. Fornaro, "Origini della violenza, antologia sul problema
dell'aggressività", Paravia, Torino, 1983, pagg. 109-111.
(35) F. DI MARIA - S. DI NUOVO, op. cit., pag. 44.
(36) E. FROMM, op. cit., pag. 79.
(37) Ibidem, pag. 78.
(38) Ibidem, pag. 79.
(39) A.BANDURA, Aggression: a Social Learning Analysis, Prentice-Hall Inc., Englewood Cliffs, New Jersey, 1973, pag. 5.
(40) Ibidem, pag. 7.
(41) Ibidem, pag. 8.
(42) Ibidem, pag. 11.
(43) Ibidem, pag. 61.
(44) Ibidem, pag. 68.
(45) Ibidem, pag. 72.
(46) S.BONINO - S.SAGLIONE, op. cit., pag. 28.
(47) V. CAPRAPA, Personalità e aggressività, vol.
1° "I contenuti della teoria del comportamento", Bulzoni, Roma,
1976, pag. 74-75
|