5.1. ASPETTI SOCIALI DEL
COMPORTAMENTO AGGRESSIVO
Si può ritenere che il processo di socializzazione
mobiliti continuamente impulsi aggressivi e, analogamente, indichi ed
imponga i limiti dell'aggressività, poiché la società non potrebbe
sopravvivere qualora la competizione fra gli individui fosse portata a
conclusioni mortali. Dunque i soggetti che non imparano a controllare e a
gestire la loro aggressività, vengono definiti antisociali, e, in quanto
tali, dannosi allo sviluppo sociale.
Il limite oltre il quale l'aggressività diventa patologica sì può
considerare puramente convenzionale, legato alla cultura delle diverse
società.
L'aggressività diventa patologica quando sfocia nella violenza e nella
distruttività, oppure anche quando procura ansia, oppure quando diventa
l'unico rifugio contro la paura o l'insicurezza, oppure quando diventa un
atteggiamento permanente, unica modalità di rapportarsi con noi stessi o
con gli altri.
La persona che manifesta un'aggressività patologica è spesso descritta
come ostinata, brontolona, polemica, autoritaria.
E' stato osservato nel 2° capitolo che anche la depressione può
rappresentare una modalità di comportamento aggressivo, infatti nel
depresso nevrotico esiste quasi sempre un sentimento ostile nei riguardi
degli altri, con desideri dì punizione e di vendetta e con la tendenza
egoistica a manipolare gli altri. L'aggressività può inoltre esprimersi
attraverso numerose modalità che vanno dal comportamento arrogante, alla
maldicenza, dalla satira al motto di spirito, dall'insulto all'ironia.
Dunque, ogni rapporto sociale è fortemente caratterizzato dalla presenza
dell'aggressività e per questo motivo quest'ultima è stata oggetto di
studio da parte di alcuni autori nell'ambito delle teorie sociali sia a
livello sociologico, sia antropologico. Poiché il presente studio è
finalizzato all'approfondimento degli aspetti teorici dell'aggressività
da un punto di vista psicologico, si accennerà brevemente soltanto a
quelle teorie sociologiche e filosofiche che possono contribuire ad
un'adeguata comprensione e definizione del comportamento aggressivo.
5.2. ADORNO: LA "SINDROME AUTORITARIA"
All'interno della Scuola di Francoforte, il
movimento nato negli anni '30, mirante a fondere la ricerca filosofica con
quella psicologica e sociologica, si situa l'opera di Adorno e di altri
collaboratori, intitolata La personalità autoritaria, scritta in base a
ricerche condotte negli Stati Uniti, ma chiaramente influenzato dalle
teorie di due pensatori, entrambi europei: S. Freud e K. Marx.
La crisi economica e l'aumento della disoccupazione di massa, crisi
previste dal capitalismo, portavano ad un'intensificazione delle idee
estremistiche di destra in seno alla piccola borghesia ed alla classe
operaia. Anziché adottare idee rivoluzionarie, numerose persone erano
attirate da un insieme di idee nazionali orientate verso il culto di un
capo forte, la credenza nelle virtù di una razza dominante ed il
disprezzo di tutte le razze considerate inferiori. Questa è la situazione
che Adorno ed i suoi collaboratori avevano osservato nella Germania tra le
due guerre.
Questi ricercatori dovettero però fuggire negli Stati Uniti quando Hitler
arrivò al potere. Lì, avvalendosi anche della collaborazione di
psicologi americani e delle più avanzate tecniche di ricerca,pubblicarono
La personalità autoritaria, che divenne presto un classico della
letteratura socio-psicologica.
La parte della ricerca curata da Adorno risente particolarmente delle
influenze della psicoanalisi: egli riconduce i vari comportamenti, quali
emergono dalle risposte ad una serie di questionari, ai rapporti
preesistenti con le figure genitoriali. Sono dunque le disposizioni
psicologiche individuali, i tratti del carattere formatisi nella famiglia
d'origine che diventano oggetto d'osservazione e di interpretazione
psicologica e non tanto i fenomeni politico-sociali nel loro complesso,
visti come il risultato dì scelte politiche, sociali, religiose o di
modelli di vita dell'individuo, che sono stati però indotte o
"guidate" all'origine dal nucleo familiare.
L'andamento specificamente analitico della ricerca (metodo dei tests
effettuati su 2099 soggetti di classe media) non ha portato alla
formulazione di tesi psicologiche e sociologiche generali e quindi anche
per quanto riguarda l'aggressività non è stata formulata alcuna teoria,
ma si è giunti invece ad una tipizzazione dei soggetti in vari gruppi e
ad una delineazione dei tratti del carattere presenti nella "sindrome
autoritaria", cioè di quei tratti qualificati come patologici, che
concorrono alla formazione del tipo autoritario.
Secondo Adorno, la "sindrome autoritaria" ha i caratteri di una
marcata identificazione con un padre dominatore, potente e severo, nei
confronti del quale il soggetto vive in atteggiamento passivo e di
ammirazione, ma allo stesso tempo ne accoglie i tratti e assume nel
rapporto con gli altri lo stesso atteggiamento aggressivo, violento ed
autoritario dapprima subito. In termini psicoanalitici, questa sindrome
implica una soluzione sado-masochistica del complesso edipico. Adorno
scrive: "L'amore per la madre, nella sua forma primaria, cade sotto
un severo tabù: l'odio che ne deriva contro il padre viene trasformato,
attraverso una formazione reattiva, in amore". (1)
Quando in un individuo, per lo più un bambino, si verifica la necessità
di trasformare l'odio in amore, si profila per lui uno dei compiti più
ardui che possa assolvere nel suo sviluppo e questa trasformazione non
riesce mai in modo completo e sempre genera un Super-Io dalle
caratteristiche particolari.
Accade che una parte dell'aggressività precedente viene assorbita e
trasformata in masochismo, mentre un'altra parte viene lasciata al
sadismo, che va alla ricerca di uno sfogo in coloro con i quali
l'individuo non si identifica. Si è visto, nella storia, come l'ebreo sia
spesso diventato il sostituto del padre odiato e addirittura gli vengano
attribuite le tanto criticate caratteristiche paterne, come il fatto di
essere freddo, dominatore, troppo interessato alle cose pratiche e perfino
rivale in amore.
Altra caratteristica della personalità autoritaria è quella di pensare
per stereotipi, ciò significa che chi rientra in questo caso pensa alle
altre persone servendosi dì stereotipi belve fatti, che ne descrivono il
ruolo sociale o il gruppo etnico di appartenenza piuttosto che i caratteri
individuali e particolari. Adorno e i suoi collaboratori si sono posti
allora il problema di vedere se la maniera di pensare per stereotipi aveva
radici profonde nella personalità dell'individuo soggetto a pregiudizi.
Secondo le loro ipotesi questo stile cognitivo deriva da un'educazione
molto rigida, importata da genitori anch'essi autoritari. Qualsiasi
relazione troppo rigida è caratterizzata da una tendenza ambivalente dei
sentimenti, i quali non sono mai netti, ma misti e spesso ambigui. La
possibilità di riconoscere ed esprimere l'ambivalenza dei propri
sentimenti è un problema per tutti, ma specialmente per i figli di
genitori autoritari, i quali hanno bisogno di credere che i genitori sono
totalmente buoni senza difetti. Allora questi sentimenti negativi vengono
rimossi e tali rimangono anche nella vita adulta. Così i sentimenti
positivi rimangono rivolti ai genitori, ma i sentimenti negativi e ostili
si dirigono verso altri bersagli, per esempio contro i membri di altri
gruppi etnici o individui considerati inferiori per diversi motivi. Queste
esperienze precoci del bambino autoritario producono in questo modo uno
stereotipo psicologico del bene ed uno stereotipo psicologico del male.
Scrive Adorno: "La stereotipia, in questa sindrome, non è soltanto
un mezzo di identificazione sociale, ma ha una vera e propria funzione
"economica" nella psicologia del soggetto: essa contribuisce a
incanalare la sua energia libidica secondo le richieste del suo super-ego
eccessivamente rigido." (2) La dinamica psicologica della
personalità autoritaria ricorre poi al meccanismo della repressione di
tutti i desideri che generano vergogna e che vengono per questo negati e
spostati negli altri. Così si creano gruppi esterni, lontani dal soggetto
autoritario, aventi la funzione di capri espiatori che raccolgano i
sentimenti negativi presenti negli individui portatori di pregiudizi, i
quali si scaricano così del loro senso di colpa, essendosi liberati dei
loro peccati.
5.3. FROMM: CARATTERE E SOCIETA'
Nello studio di Adorno e collaboratori è
evidentemente chiara l'influenza delle teorie freudiane, così come nella
stessa matrice psicoanalitica si inserisce l'opera di E. Fromm,
proveniente dalla scuola di Francoforte e trasferitosi negli Stati Uniti
durante il periodo nazista.
Egli si staccò poi dalle società psicoanalitiche ufficiali,
rimproverando a Freud il fatto di aver sopravvalutato il ruolo della
sessualità e del complesso di Edipo, nell'ambito di una soggiacente
filosofia materialista e edonista. Inoltre Fromm giudica insufficiente
l'attenzione rivolta da Freud alle componenti ambientali e sociali per la
spiegazione dei fenomeni psicologici.
Come già riportato nel 3° capitolo, Fromm studia l'aggressività sia nei
suoi aspetti individuali (pulsionali) che in quelli sociali. In Anatomia
della distruttività umana [1973], egli si propone di confutare le
tesi degli "istintivisti" ad esempio quella di Lorenz che reputa
sempre innata l'aggressività e non opera una distinzione tra quella
generata dal bisogno di sopravvivere e quella gratuita. Anche le tesi dei
comportamentisti vengono criticate, in quanto essi sottovalutano le
intenzioni, le motivazioni del comportamento limitandosi a leggere
l'aggressività come una forma di reazione all'ambiente.
Secondo Fromm la tesi freudiana dell'aggressività, ampiamente trattata
anche nell'appendice della sua opera, o meglio la teoria degli istinti
elaborata da Freud, risente in particolare della concezione tradizionale
secondo la quale esiste un "male" insito nella natura umana e
secondo la quale la civilizzazione ha una funzione essenzialmente
anti-istintuale. In questo modo le pulsioni fondamentali, sessualità e
aggressività, vengono represse e trasformate, attraverso processi di sublimazione, in spinte verso i valori culturali, diventando
così i fondamenti stessi della civiltà. Se la quantità di pulsioni
represse è maggiore rispetto alla capacità di sublimazione
dell'individuo, si instaura il meccanismo della nevrosi.
Secondo Fromm questa ipotesi interpretativa è essenzialmente statica ed
egli sostiene che non è affatto possibile generalizzare fenomeni tipici
della cultura in cui visse Freud e considerarli come forze eterne e
immutabili, radicate nella biologia umana.
Dunque Fromm parte dal rifiuto del modello istintivistico e si apre
maggiormente agli apporti della psicologia sociale.
Nella terza parte della sua opera Fromm distingue due tipi di
aggressività: una positiva "benigna", reazione di difesa a
situazioni di pericolo obiettivo, quindi utile sia all'uomo sia
all'animale e programmata filogeneticamente; mentre l'altra è negativa,
"maligna", distruttiva, non adattiva, propria solo dell'uomo e
dannosa sia a chi la compie sia a chi la subisce.
Il primo tipo di aggressività consente all'individuo di far fronte ai
pericoli che lo minacciano, mentre il secondo tipo si manifesta nella
tortura, nel sadismo, nella crudeltà, nella violenza fine a se stessa.
La citata dichiarazione risente in particolare della ricerca etologica,
anche se Fromm si mostra molto critico e polemico nei confronti di questo
tipo di approccio.
Inoltre questa distinzione rimanda a sua volta ad un altra distinzione
più basilare e cioè quella tra "pulsioni organiche"
(biologiche) e "pulsioni del carattere" che Fromm definisce
"la seconda natura dell'uomo". (3) Alla formazione del carattere
di ciascuno concorre l'ambiente culturale, cioè 1 insieme dei valori
trasmessi dalla società; infatti egli scrive: "[il carattere è] il sistema relativamente permanente di tutte le
tensioni non-istintuali attraverso le quali l'uomo si pone in rapporto col
mondo umano e naturale. " (4)
Nel capitolo dedicato all'aggressività benigna Fromm, dopo aver trattato
sinteticamente delle forme di pseudo-aggressione (accidentale, sportiva,
auto-affermativa), affronta e sviluppa il tema dell'aggressione difensiva,
considerata comune ad animali e uomini, anche se presente in modo assai
più marcato nel genere umano.
Questo è probabilmente dovuto al fatto che la gamma degli interessi da
difendere è molto più vasta negli uomini che negli animali, ed inoltre
anche dal punto di vista neuro-fisiologico l'uomo ha una conformazione per
cui il ricorso all'aggressività difensiva è più frequente. Egli ritiene
che non è possibile condizionare la base biologica dell'aggressività
difensiva, poiché si tratta di una reazione predisposta
filogeneticamente. E' invece possibile intervenire sui fattori che
scatenano la risposta aggressiva, eliminandoli, quando è possibile, o
semplicemente diminuendo la loro incidenza. Il rimedio per ridurre questo
eccesso di aggressività consiste nel creare situazioni politico-sociali
che migliorino le condizioni materiali, che eliminino la dipendenza degli
individui dalle suggestioni e dal controllo dei leader e che orientino la
persona all'essere ed al condividere, piuttosto che all'avere e
all'accumulare.
In pratica, debbono essere eliminate le minacce al benessere psico-fisico
dell'uomo, e cioè: fame, miseria, sovraffollamento e qualsiasi situazione
degradante in genere.
E ancora una volta sembra essere l'educazione la strada da percorrere per
risolvere il problema: un'educazione che riduca il narcisismo e la
competitività e renda così l'uomo meno vulnerabile e sensibile alle
minacce reali o immaginarie.
Nello stesso capitolo sono ampiamente trattate situazioni in cui si
manifesta l'aggressività difensiva, come per esempio quando viene
minacciata la libertà, quando il nostro narcisismo viene ferito, oppure
quando vogliamo ottenere uno scopo (aggressività strumentale), ecc.
L'aggressività maligna, essendo una "pulsione del carattere" ed
essendo questa a sua volta determinata socialmente, è strettamente
connessa alle esigenze psichiche dell'individuo e alle condizioni sociali
che caratterizzano la sua esistenza. Scrive Fromm: "L'aggressività
maligna [...] è specificamente umana e non deriva dall'istinto animale.
Non contribuisce alla sopravvivenza fisiologica dell'uomo, ma è un
elemento importante del suo funzionamento mentale. E' una di quelle
passioni potenti e dominanti in certi individui e culture, e non in altre
[. ..]. Essa ha origine, come abbiamo detto prima, dall'interazione di
varie condizioni sociali, con i bisogni esistenziali dell'uomo."(5)
Il problema dell'origine dell'aggressività distruttiva si rapporta ai
valori e ai modelli proposti dalla società, che plasmano la struttura
caratteriale e che possono essere al servizio della vita o della morte.
Fromm individua due forme di aggressione maligna: quella spontanea, che
nasce come esplosione di input distruttivi sopiti e riattivati da
circostanze eccezionali (per esempio, le stragi che seguono episodi di
fanatismo politico o religioso); e quelle legate alla struttura del
carattere come ad esempio il sadismo e la necrofilia di cui poi egli
tratterà più ampiamente attraverso l'analisi del caso clinico di Hitler.
Fromm traccia la storia dello sviluppo del carattere distruttivo nella
storia, evidenziando come il suo affermarsi avvenga parallelamente al
passaggio da strutture sociali egualitarie e collaborative a strutture in
cui l'accumulazione del capitale, la divisione del lavoro, lo
sfruttamento, il potere e l'autoritarismo portano alla formazione di
caratteri sociali innescatori di distruttività.
Scrive nell'Epilogo: "Sfruttamento e manipolazione producono
noia e superficialità, storpiano l'uomo, e tutti i fattori che
penalizzano psichicamente l'individuo e lo trasformano necessariamente in
sadico e distruttivo". (6)
Con queste affermazioni Fromm avanza la proposta di un cambiamento
radicale dell'intero sistema economico-politico, e dei rapporti
interpersonali al suo interno. Come anche Fromm stesso ipotizza, la sua
posizione può essere giudicata ultraottimistica o utopica.
5.4. HELLER: L'ANTROPOLOGIA SOCIALE MARXISTA
Il lavoro di Fromm è stato oggetto di una
dettagliata analisi critica ad opera di Agnes Heller che nel suo Istinto
e aggressività. Introduzione a un'antropologia sociale marxista [1978]
prende in esame il pensiero di alcuni etologi e antropologi sociali
criticandone la tendenza alle forme di naturalismo presenti nelle teorie
contemporanee sugli istinti. Per la Heller si possono considerare
'naturalistiche" tutte quelle concezioni antropologiche che
presuppongono l'esistenza di una natura umana invariabile rispetto ai
condizionamenti storici delle varie epoche.
La Heller si propone di evidenziare le contraddizioni interne di ciascuna
scuola e in particolare di smascherare l'operazione ideologica che sta
dietro ogni tipo di naturalismo, anche quello dello stesso Fromm.
Il comportamento aggressivo non è, secondo la Heller, da ricondurre ad un
istinto. La chiave attraverso la quale leggere l'aggressività è
interamente sociale. La Heller inserisce il pensiero di Fromm all'interno
di un "terzo indirizzo", ossia una terza forza della
psicologia americana che si contrappone sia al freudismo tradizionale e
conservatore, sia al behaviorismo. Le fonti teoriche di questo "terzo
indirizzo" sono molto eterogenee e vanno da un'arbitraria
interpretazione di Freud e di Marx, alla psicologia della forma, alla
fenomenologia, all'esistenzialismo, alla "corrente", influenzata
da Freud denominata Culture and personality, ecc.
La tendenza comune riscontrabile all'interno di questo terzo indirizzo è
la grande importanza attribuita alla personalità, considerata unitaria,
indivisibile e autonoma nel suo sviluppo, la cui struttura dei bisogni è
orientata sull'avere e quindi è da considerarsi
"estraniata" o alienata rispetto alla sua autentica natura.
Più precisamente per la Heller ciò che caratterizza questo nuovo
indirizzo della psicologia americana è il naturalismo teorico della
personalità, cioè l'identificazione più o meno consapevole dei concetti
di natura umana e di essenza generica, vale a dire la derivazione della
"essenza dell'uomo" dalla natura dell'uomo.
Dopo aver criticato le definizioni dell'aggressività date da Lorenz e da
Fromm perché giudicate troppo "larghe", la Heller afferma che
non è possibile definire l'aggressività proprio per il fatto che,
essendo un concetto generale, è per sua natura indefinibile. Ella
sostiene che "l'aggressività è - innanzi tutto - un concetto di
valore, incluso il senso negativo di valore; [...] dal momento che non si
dà "aggressività in generale" (e per conseguenza non è
possibile alcuna definizione generale dell'aggressività), [...] non
userò il concetto di aggressività come una categoria, ma [kantianamente]
come idea teorica regolativa". (7) A proposito della nozione di
"aggressività benigna" elaborata da Fromm, la Heller muove una
serie di critiche atte a mostrare come l'idea frommiana che
l'aggressività benigna è un istinto, sia falsa e insostenibile. In
sostanza la Heller sostiene che, se ogni comportamento innato fosse legato
ad un istinto originario, allora dovremmo parlare anche di "istinto
linguistico", "istinto del pensiero", ecc. Dunque per la
Heller questo tipo di aggressività "indica la protezione degli
interessi vitali (non degli istinti!) innati nell'organismo di
fronte ad attacchi minacciosi". (8) Inoltre la Heller mostra come
l'idea frommiana secondo la quale "l'aggressività benigna" può
essere dimostrata su base neuro-fìsiologica, sia falsa, in quanto la
neurofisiologia ha dimostrato e anche localizzato nel cervello soltanto
l'ira, che non è sinonimo dì aggressività, anche se ne può essere la
causa.
Dunque la Heller conclude il capitolo dedicato agli istinti con questa
affermazione: "[...] l'uomo non possiede alcun istinto aggressivo,
né difensivo né offensivo, né benigno, né maligno. In nessun senso
l'uomo è un essere governato degli istinti." (9) Sempre in
contrapposizione con la nozione frommiana, la Heller propone una
ristrutturazione di questo concetto non più inteso in senso individuale
unitario, bensì distinto su due piani: quello psichico e quello morale.
Il primo, quello psichico, si costituisce relativamente presto e resta
più o meno stabile nel tempo; la casualità ha grande importanza nello
stabilire le predisposizioni, la famiglia, quindi lo status sociale e,
come dice Fromm, il carattere "biofilo" o "non
biofilo" della madre.
Il carattere morale può considerarsi sempre in formazione, anche se in
età adulta tende alla rigidità. Quest'ultimo può modificarsi nonostante
la costanza del carattere psichico.
Il carattere puramente biofilo e quello puramente necrofilo si distinguono
per il fatto che in entrambi tra il carattere psichico e quello morale non
sussiste alcun antagonismo, alcun conflitto.
La Heller auspica una maggiore armonia tra le due forme del carattere,
anche se ritiene che questa sia una mera utopia, fintanto che le norme
astratte della morale, pur restando valide, non riescono ad affermarsi
nella generalità dei casi a causa della struttura sociale; cioè
"fintanto che l'uomo si trova di fronte a sistemi normativi concreti
contraddittori ed eterogenei è altrettanto utopistico parlare di una
simile armonia". (10)
Per la Heller una teoria antropologica può solo escludere
l'impossibilità di un'umanità non aggressiva: "Se l'uomo non ha
nessun impulso innato, specifico del genere, non ha neppure alcun istinto
aggressivo; quindi, da un punto di vista puramente antropologico, non è
esclusa (ossia è possibile) un'umanità che non sia contraddistinta
dall'aggressività". (11)
In altri termini, per la Heller è possibile, in linea di principio, una
umanità in cui ogni singolo disponga di sufficiente stima in sé da
evitare di recuperarla con l'aggressività, e di conseguenza dal punto di
vista antropologico, è possibile una umanità in cui si possa costruire
un sistema di valori conforme a questa finalità.
Tuttavia ciò comporterebbe una trasformazione della totalità della
società e i modi per realizzare questa trasformazione debbono essere
ricercati sul piano economico e politico e quindi fuori dall'ambito
proprio dell'antropologia.
La Heller pertanto in quest'opera,proponendosi dì rimanere nell'ambito
antropologico, non avanza evidentemente alcuna ipotesi complessiva di
trasformazione della società, tuttavia nell'ultimo capitolo del libro
adduce un esempio concreto che lascia intravedere la sua visione
complessiva del problema.
La Heller nota come l'attuale divisione del lavoro consenta solo a una
minoranza di uomini di autorealizzarsi nel lavoro, mentre la maggioranza
è indotta per lo più a cercare la base della stima in sé nel possesso.
All'opposto, l'economia e la sociologia secondo la Heller possono proporre
un nuovo modello di organizzazione del lavoro, basato sulla completa
meccanizzazione dei tipi di lavoro che non offrono possibilità di
autorealizzazione, sulla diminuzione dell'intensità nei tipi di lavoro
disumanizzanti, sulla diminuzione del tempo di lavoro socialmente
necessario, sul superamento della divisione del lavoro ovunque essa non
sia motivata dalla specializzazione scientifica, ecc.
La Heller è ben consapevole dell'utopicità di un simile progetto;
tuttavia ritiene di avere dimostrato incontrovertibilmente almeno la
possibilità di un'umanità non aggressiva, in contrapposizione a tutte le
teorie istintivistiche.
NOTE AL 5° CAPITOLO
(1) T. W. ADORNO - - E. FRENKEL-BRUNSWICK - - D.J.
LEVINSON - - R. NEVITT SANFORD, La personalità autoritaria (1950), trad.
it.di V. Gilardoni Jones, Edizioni di Comunità, Milano, 1973, vol. II,
pag. 369.
(2) Ibidem.
(3) E. FROMM, Anatomia della distruttività umana,
op. cit., pag. 288.
(4) Ibidem.
(5) Ibidem, pag. 278.
(6) Ibidem, pag. 544.
(7) A. HELLER, Istinto e aggressività.
Introduzione a un antropologia sociale marxista, trad. it. di L. Boella e
G. Neri, Feltrinelli, Milano, 1978, pagg. 29-31.
(8) Ibidem, pag. 40.
(9) Ibidem, pag. 42.
(10) Ibidem, pag. 53.
(11) Ibidem, pag. 170.
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