CONTRIBUTI DEI
PARTECIPANTI AL SEMINARIO
Prima
lezione 17
Ottobre 2013
Nella
storia della filosofia occidentale il concetto di Verità ha
assunto un’importanza fondamentale, entrando spesso in dialogo con il
tema della Conoscenza. Dare una definizione univoca di verità non
è semplice, in quanto possiamo individuare almeno tre differenti
concezioni:
-
Verità come CORRISPONDENZA tra
un’affermazione del linguaggio e il mondo reale. Esempio: “Questo
gesso è rosso”. L’affermazione è vera solo se il gesso è
effettivamente rosso, non lo è se il gesso è di un altro colore.
Troviamo questa concezione in Aristotele (IV libro
della Metafisica; scritti di
logica), in San Tommaso d’Aquino e in filosofi più moderni come
Cartesio e Locke.
-
Concezione PRAGMATICA (non
teoretica) della Verità. I primi a difenderla furono i sofisti e in
particolar modo Protagora con il suo relativismo conoscitivo, in base
al quale non esiste una verità oggettiva perché ogni popolo è
portatore di una propria visione soggettiva e spesso la verità varia
persino da individuo a individuo. Sempre secondo Protagora gli uomini
si accordano per considerare vero ciò che è utile alla città. Nel
XX secolo il filosofo Nietzsche riprenderà il discorso affermando che
diventa vero ciò che l’uomo vuole che sia tale.
Per comprendere meglio questo concetto possiamo fare
riferimento a un esempio moderno: il colore della neve. Per gli esseri
umani la neve è bianca, ma per le api è viola: il colore dipende infatti
dalla struttura dell’occhio che impedisce o meno di percepire i raggi
ultravioletti.
-
Verità come COERENZA. Si tratta
della concezione difesa dai filosofi idealisti e da alcuni
neopositivisti e filosofi della scienza: è possibile accettare come
vera una situazione che non contrasta con le altre conoscenze
precedentemente acquisite. Esempio: per quanto possa sembrarmi reale
sognare di nuotare, tutto il contesto (svegliarmi e ritrovarmi nella
mia stanza, nel mio letto…) renderà palese il mio errore.
Nel corso di questo corso cercheremo di capire che
cosa sia la verità e per far questo dobbiamo innanzitutto distinguere tra
ciò che è vero in sé e ciò che ci è consentito conoscere (se non
conosciamo qualcosa, non è detto che non sia vera). Per esempio io non
posso sapere quale sia stato il numero esatto di gatti presenti a Parigi
la notte in cui Napoleone fu incoronato imperatore, ma so che si trattava
senz’altro di un numero naturale e finito. Il fatto che io non conosca
il numero di gatti non rende meno vera la loro presenza.
Il nostro percorso filosofico avrà inizio con il più
celebre tra i discepoli di Socrate: Platone (Atene 428/427 a.C. –
347 a. C.), di cui ci limiteremo a studiare soltanto le dottrine attinenti
alla questione della Verità.
LA DOTTRINA DELLE IDEE
Secondo Platone esistono due tipi di realtà: la
realtà mutevole e imperfetta delle cose ovvero il mondo sensibile che
sperimentiamo (fare esperienza nel senso di esperire con i sensi) ogni
giorno e la realtà immutabile e perfetta delle idee. Per esempio:
una persona bella e una situazione giusta non sono mai perfette quanto le
idee di bellezza e di giustizia; un triangolo disegnato con il gesso è
pieno di imperfezioni se paragonato all’idea euclidea di triangolo
(secondo la geometria euclidea il triangolo ha linee perfettamente dritte
ed è privo di spessore, caratteristiche impossibili da riprodurre da
parte dell’uomo); il bianco del gesso è diverso dal bianco di una
maglietta, ma entrambi sono ben lontani dall’idea di bianco e così via
per tutti gli ambiti.
I sensi ci forniscono soltanto dati parziali, eppure
quando parliamo facciamo sempre riferimento a concetti universali che non
abbiamo mai sperimentato (esperito con i sensi). Come è possibile?
Secondo Platone la nostra anima in epoca prenatale ovvero prima di
incarnarsi (TEORIA DELLA METEMPSICOSI o trasmigrazione dell’anima in un
corpo) viveva nell’Iperuranio, il mondo delle idee (un luogo non
fisico). Fu proprio il momento dell’incarnazione a farle dimenticare la
vita precedente, ma grazie all’esperienza il ricordo delle idee può
lentamente tornare. Per questo motivo, secondo Platone, uno schiavo se
interrogato socraticamente può risolvere un problema complesso di
geometria, pur non avendola mai studiata, in quanto la sua anima ricorda
la soluzione. La conoscenza è dunque ANÁMNESI ovvero una forma di
ricordo, la reminescenza di ciò che esiste da sempre nell’interiorità
della nostra anima.
Perché Platone ha sentito il bisogno di pensare a un
mondo sovrasensibile come l’Iperuranio? Egli era spinto dal desiderio di
creare le basi di una conoscenza certa, incontrovertibile come ben si
comprende dalla lettura di uno dei suoi dialoghi più celebri: la
Repubblica.
Rita
Pilia
Riassunto
lezione del 24 ottobre 2013.
Scorrendo
i primi testi nella sezione dedicata a Platone sulla dispensa verde\libro,
abbiamo cercato di avvicinarci il più possibile al suo concetto di
verità.
Il primo
testo, La seconda navigazione, è tratto dal dialogo intitolato Fedone.
Platone riporta un dialogo che vede protagonista Socrate, negli ultimi
momenti di vita, intento a spiegare ai suoi discepoli le ragioni dell’immortalità
dell’anima attraverso tre prove. Il nostro brano si colloca prima della
terza prova. Se nel lessico marinaresco la prima navigazione si riferisce
alla condizione in cui la nave si trova a navigare a vele spiegate grazie
al sussidio del venti, la seconda navigazione, invece, determina una
condizione di bonaccia in cui si abbassano le vele e si utilizzano i remi.
Questa era una pratica utilizzata per entrare nei porti senza incorrere in
pericoli, ad esempio. Il percorso della nave sarà dunque più lento, ma
anche più sicuro. Fuor di metafora, sulla base della dottrina delle idee
di Platone, questo metodo produrrebbe maggiori risultati nonostante la sua
lentezza. Ovviamente solo accettando i presupposti della dottrina delle
idee sarà possibile giungere alla dimostrazione dell’immortalità dell’anima,
e, se così non fosse, non si potrebbe pervenire alla verità.
Il secondo testo, Filosofi e Filodossi, è tratto dal V dei dieci
libri de La Repubblica scritti da Platone. Il filosofo, facendo
idealmente dialogare Socrate con i suoi discepoli, intende delineare un’idea
di città ideale basata proprio sulla repubblica. Si distinguono in questo
estratto due tipo di sapere:
la scienza: il sapere incontrovertibile che si forma sulle idee
l’opinione: conoscenza mutevole, empirica (che perviene
attraverso i sensi) e che non è sufficiente per conoscere la realtà
A questo
punto, secondo Platone, se il vero essere sono le idee, le
rappresentazioni sono la via di mezzo tra il vero (la scienza) e il nulla.
La stessa opinione, infatti, si trova in posizione intermedia tra la vera
conoscenza e l’ignoranza.
L’ultimo
testo analizzato è il famoso mito della caverna presente nel libro
VII de La Repubblica di Platone. Nel mito probabilmente più famoso
del filosofo si descrive la condizione tragica che si verifica all’interno
di una caverna nella quale schiavi incatenati, immobili e con lo sguardo
sempre teso verso l’unico muro posto davanti a loro sono costretti fin
dalla nascita. Alle spalle dei prigionieri è stato acceso un enorme fuoco
e, tra il fuoco e i prigionieri, corre una strada rialzata. Su questa
strada è stato eretto un muro, lungo il quale alcuni uomini trasportano
forme di vari oggetti, animali, piante e persone. Il loro passaggio
proietta sul muro davanti agli schiavi la rappresentazione distorta di
questi oggetti. Nel momento in cui un prigioniero riesce a liberarsi ed
esce finalmente dalla caverna, si rende conto che quella proiettata sul
muro di fronte a lui e ai suoi compagni sventurati non corrispondeva alla
realtà. Ne era una distorta rappresentazione. L’uomo ormai libero
vorrebbe ridiscendere all’interno della caverna nel tentativo di
liberare i suoi compagni dalle catene e dalle false convinzioni, ma teme
che questi possano non credergli o addirittura ucciderlo una volta
liberatili.
Metaforicamente si potrebbe riassumere il mito affermando che dal momento
in cui pensiamo che la conoscenza sensibile sia la vera conoscenza
impersoniamo il ruolo degli schiavi incatenati e non dell’uomo libero
che gode della “verità” al di fuori della caverna.
Ylenia
Recchia
31
ottobre 2013
IL
BENE E IL SOLE
In questo brano della fine del VI Libro della “Repubblica” Platone
prosegue il dialogo con il fratello, Glaucone a proposito della dottrina
della conoscenza, con lo scopo di arrivare a delineare la società giusta.
Egli analizza l’idea di Bene e tratta poi della metafora del segmento
quadripartito.
Le idee come già detto hanno una natura astratta e universale mentre i
dati sensibili, percepiti hanno una natura particolare (v. ad es. l’idea
del triangolo e invece la sua esatta realizzazione). Ora si passa a
considerare l’idea di Bene. Una buona vista e gli oggetti colorati ci
permettono di vedere, cosa che non accadrebbe però senza la luce, non si
vedrebbe comunque nulla. Occorre quindi il terzo elemento, la luce.
Platone vuole paragonare l’idea del Bene alla luce infatti con il bene
noi possiamo conoscere le altre idee. La scienza è caratterizzata da una
visione nitida e comprensibile mentre la semplice opinione da’ una
visione oscura, imprecisa e sfuggente. Non per questo l’opinione deve
essere evitata, serve per ricercare la vera conoscenza, per arricchirci e
per relazionarci.
Platone non riporta qui semplicemente il pensiero di Socrate, che non
aveva elaborato una teoria delle idee esplicita, ma attraverso Socrate
espone le sue convinzioni. Fa’ vedere come l’opinione non è la forma
più alta di conoscenza. Ecco quindi che si arriva alla metafora del
segmento quadripartito. Platone vuole distinguere i 4 gradi di
conoscenza e più è lungo il segmento più ha importanza quel tipo di
conoscenza.
Si prende
ad esempio un segmento AB e lo si divide in due AC – CB e poi ancora in
due formando così i quattro segmenti AH- HC- CK e KB in cui il rapporto
fra le parti è per esempio di 1:4 sempre costante (AC= 10 di cui AH=2 e
HC=8, CB=40 di cui CK=8 e KB=32). Per inciso, i filosofi fin dall’antichità
si sono occupati anche degli aspetti logico-geometrici-matematici; Eudosso
di Cnido (408 a.C. – 355 a.C) studente e amico di Platone e Aristotele
farà i calcoli per spiegare i movimenti dei pianeti e Platone stesso
sulle travi all’ingresso dell’Accademia da lui fondata farà scrivere:
“Non entri chi non è Geometria” (non è uno studioso di geometria).
Infatti si riteneva che con la matematica si allenano il rigore, le
capacità di dimostrazione, l'uso del principio di non contraddizione e la
logica del pensiero.
La conoscenza per Platone si divide in opinione e scienza che a
loro volta sono divise in altri due tipi in rapporto fra loro
(scienza:opinione=credenza:immaginazione ecc.). Si ha AC = OPINIONE e CB =
SCIENZA.
L’opinione
è divisa in
1-immaginazione o fantasia che include sia cose che non esistono (non
producono nulla di reale), immaginate (es. un riflesso), e anche i ricordi
(non sono così precisi come la sensazione in atto, variano da persona a
persona e dall’investimento emotivo), sono delle percezioni imprecise;
2- credenza ossia quando percepiamo un oggetto chiaro e distinto,
ciò è più attendibile rispetto all’immaginazione ed infatti il
segmento è maggiore.
La scienza è divisa in
3-sapere dianoetico che è un sapere razionale, dimostrativo o
discorsivo, per cui parto da un’ ipotesi e poi giungo ad una
conclusione, ad es. nelle dimostrazioni dei teoremi di geometria
(euclidea) e
4-sapere noetico o intellezione che implica dietro il pensiero l’idea,
la comprensione dell’idea, ad es. nella somma degli angoli le immagini
non danno il significato delle idee di angolo. Noi conosciamo un’idea
quando sappiamo definirla, per dimostrare che la si conosce non basta l’uso
corretto di una parola ma bisogna definirla.
Il segmento dell’intellezione è il più lungo, spesso diamo per
scontato proprio il sapere noetico.
Elena
Castignola
7
novembre 2013
Non esisterebbe il sapere
dianoetico, se non ci fosse quello noetico?
N.B. Si coglie l’essenza di una cosa quando sappiamo cos’è quella
cosa = intuizione, se non posso definire un'idea, non la conosco.
La noesi non corrisponde alla conoscenza intuitiva di
Cartesio, che concepiva come un’intuizione immediata dell’auto-evidenza,
il presupposto per la dimostrazione. Per Platone, il sapere dimostrativo
è identico a come lo concepirà Cartesio, ma non si troverebbero d’accordo
proprio sulla noesi.
Per Platone nella noesi
o intellezione non si dovrebbe ricorrere assolutamente a niente di
sensibile, occorre invece avere a che fare con la pura essenza e
definizione delle idee, una pura astrazione. Il sapere dimostrativo è
intermedio, è utile come lo è l’opinione, ma non basta per conoscere
realmente. Per Platone, chi calcola e ragiona in maniera dimostrativa (lo
scienziato di oggi), è meglio rispetto all'opinione, ma è meno se ci si
riferisce alla vera conoscenza, scienza nel senso platonico. Va comunque
precisato che la conoscenza delle idee (si vede bene nelle opere della
vecchiaia di Platone) non è puramente intuizione immediata.
Brano pag. 31-32
dispensa – La canzone dialettica
Platone, VII libro, Repubblica
La società giusta è quella dei filosofi, questa è l’idea che sta alla
base del pensiero politico di Platone, in cui proprio i filosofi, che sono
gli unici che giungono al 4° stadio della conoscenza, conoscendo tutte le
idee e soprattutto quella del Bene, saranno i soli in grado di reggere lo
stato, indirizzandolo appunto, verso il bene.
Brano pag. 32-33
dispensa – La conoscenza come anamnesi della verità
Platone, Menone
Il Menone è un’ opera della maturità di Platone: Il protagonista è
Socrate che va a trovare l’amico Menone, il quale, come tutti i greci di
buona tradizione, possedeva tanti schiavi. Socrate fa chiamare dall’amico
uno schiavo, ovviamente analfabeta. Socrate allora, comincia a disegnare
sulla sabbia un quadrato e chiede allo schiavo di disegnarne uno più
grande, ma egli non riesce. Facendo vari tentativi, a forza di correzioni,
lo schiavo giunge alla soluzione giusta, ovvero che occorre costruire un
quadrato la cui diagonale sia pari a quella del quadrato iniziale.
Platone in questo dialogo
vuole dimostrare come nella mente umana esistano delle potenzialità
latenti, nascoste, che bisogna far emergere, che non sono legate a studi o
conoscenze pregresse, ma innate nella mente umana di tutti.
Teoria della conoscenza come ricordo e reminiscenza (la religione
originale era quella olimpica, ma accanto vi erano delle religioni
tollerate, come i culti orfici, orgiastici, di Dioniso, che si svolgevano
in piccole minoranze, di notte, non nei luoghi tradizionali di culto,
prendendo il nome di religioni misteriche [oggi le chiameremmo
sette]. Entrambe le religioni credevano nell’immortalità dell’anima,
la quale dopo la morte del corpo si ritrova depotenziata nell’Ade.
Per le minoranze l’anima dopo la morte era in possesso di tutte le sue
capacità originali, ma in un certo senso viveva addirittura in modo
migliore, in quanto slegata dal corpo prigione, e reincarnandosi
(pitagorismo). Platone parla di metempsicosi, credendo appunto che tanto
più la vita sia stata buona, migliore sarà la reincarnazione in altri
corpi umani, possibile anche in animali e legumi).
L’idea di Platone è che noi conosciamo le idee in quanto la nostra
anima, prima di incarnarsi, ha vissuto già nell’Iperuranio, dove ha
potuto contemplare veramente le idee, poi reincarnandosi esse sono state
dimenticate. L’esperienza e i sensi, sono il canale che le risveglia,
seppur esse forniscano qualcosa del tutto particolare, e non universale.
Ecco come si spiega la sua teoria della reminiscenza.
Anna
Ferrari
Lezione del 14
novembre 2013
Pag. 33 brano “Le ali e il destino dell’anima”
Il testo è collocato nel Fedro. Platone fa riferimento al mito delle
anime che si affollano per giungere al mondo dell’iperuranio. Poiché
esse non hanno avuto uno stesso accesso a questo mondo, così anche tutte
le persone non hanno lo stesso accesso alle Idee. Così Platone, in base
alla maggior o minor conoscenze che si è avuta delle Idee, stilla una
classifica sociale (al primo posto stanno i filosofi, poi i re saggi, fino
ad arrivare ai posti più bassi occupati da sofisti, demagoghi e tiranni).
Secondo questo brano la verità non sarebbe per tutti, anche se nel brano
precedente aveva mostrato che le potenzialità erano presenti in ognuno di
noi (anche in uno schiavo). Si può concludere dicendo che per quanto
riguarda l’organizzazione della società Platone è antidemocratico.
Aristotele
Aristotele è il filosofo che ha trattato maggiormente il tema della
verità, influenzando anche il pensiero occidentale.
Egli fu discepolo di Platone e quindi in molti casi hanno mostrano lo
stesso pensiero filosofico. La maggior differenza in merito alla
conoscenza è che per Platone le Idee sono separate dall’uomo, mentre
per Aristotele gli universali sono concetti nella nostra mente.
In merito al tema della
verità, la maggior parte dei brani presenti nel testo sono tratti dalla
Metafisica, mentre due sono presi dagli Analitici Secondi, scritto di
Logica.
Per Aristotele le scienze
si dividono in: teoretiche, pratiche, poietiche.
Le scienze teoretiche (metafisica, matematica, fisica) non hanno
uno scopo pratico, ma derivano alla curiosità umana, la filosofia nasce
dalla meraviglia.
Le scienze pratiche (etica, economia, politica) sono conoscenze che
orientano l’uomo all’azione, in quanto l’uomo si trova sempre nella
situazione di dover scegliere.
Le scienze poietiche (arti e tecniche) sono conoscenze che aiutano
a fare delle cose a livello pratico (ex: chi costruisce navi deve avere
queste conoscenze per sapere come si costruiscono).
Il tema della verità dove si colloca? Nelle scienze teoretiche. Infatti
per Aristotele non c’è l’idea del vero perché utile (come per
Protagora o per i Sofisti). La verità è un concetto puramente teoretico.
E dove si colloca la logica? In realtà la logica non ha una collocazione
precisa perché, essendo l’arte del ben ragionare è un metodo comune di
tutti gli ambiti (sia di quello teoretico, che di quello pratico o
poietico). Serve quindi ragionare correttamente indipendentemente dal
contenuto. La logica è quindi metodo/arte/scienza del ben ragionare
comune a tutte le scienze.
La verità può essere quindi affrontata sia dal punto di vista teoretico
che logico.
Pag. 39 brano “Il vero
e il falso sono nel pensiero”
Come dice il titolo, il vero e il falso per Aristotele sono nel pensiero e
non nelle Idee come invece sosteneva Platone.
Le singole parole, da sole, non possono essere vere o false, ma per
esserci il vero e il falso è necessario che ci sia almeno una
proposizione. Egli distingue i due ambiti del pensiero e della realtà: se
tra questi c’è connessione ho frase vera, altrimenti sarà falsa.
Quando egli dice nel testo “per quanto concerne gli esseri semplici e le
essenze, non sono neppure nel pensiero”, egli intende dire che la mente
umano non può conoscere tutto, né gli individui singoli, né tutte le
essenze.
Chezia
Zanotti
21
Novembre 2013
Al
termine del brano Il vero e il falso
sono nel pensiero, Aristotele dichiara che «come l’essere per
accidente, così anche l’essere come vero va lasciato da parte»: la
prospettiva metafisica, infatti, tesa a ricercare il proprio oggetto,
richiede che il concetto di verità vada lasciato da parte in quanto
affezione della mente. Il punto di vista cognitivo deve essere dunque
separato da quello ontologico non perché non sia importante, ma per una
questione di pertinenza (la metafisica ha finalità teoretica, non
pratica).
Una
volta chiarito il metodo passiamo ad analizzare il brano La scienza della verità (dispensa, p. 36), tratto dal II Libro
della Metafisica. I punti
fondamentali sono:
-
Constatazione realistica
iniziale: l’uomo non potrà mai conoscere tutto (limite
dell’onniscienza), ma le sue nozioni, anche le più ridotte,
conterranno sempre almeno un barlume di verità. Questa constatazione
deriva dal senso comune, che in Aristotele non è mai rifiutato
totalmente: egli cerca piuttosto di agire con spirito critico,
attingendo a qualsiasi informazione positiva insita nella realtà e
preferisce accettare con fiducia l’idea che ogni uomo nel suo
piccolo possa contribuire alla ricerca della verità piuttosto che
rimpiangere una mancata onniscienza (o conoscenza totale e perfetta).
-
La causa della difficoltà della
ricerca della verità non sta nelle cose, ma in noi: l’uomo resta
abbagliato dalla luminosità delle cause più alte.
-
La scienza della verità ha un
fine teoretico (il bisogno di verità fa parte della natura umana),
mentre il fine della pratica è orientare all’azione.
-
Distinzione tra esseri
contingenti (hanno un inizio e una fine) e eterni. A tal proposito
bisogna ricordare che per gli antichi tutto ciò che esisteva al di là
dell’orbita lunare (i pianeti) era composto parzialmente da materia
incorruttibile e dunque eterna. Qui la metafisica tende a diventare
teologia, teoria dell’Atto puro.
Aristotele
non usa direttamente la parola “metafisica”, ma parla di SCIENZA
DELL’ESSERE IN QUANTO ESSERE (= in quanto esistente) dal momento che, a
differenza di materie più specifiche come la biologia, essa si occupa
della realtà in senso generale. In ogni manuale scolastico sono presenti
quattro celebri definizioni di metafisica, come scienza del:
-
ESSERE IN QUANTO ESSERE
-
SOSTANZA
-
PRIMI PRINCIPI
-
TEOLOGIA, SCIENZA DELL’ATTO
PURO
Aristotele ne parla diffusamente nel corso della sua
opera.
Concentriamoci ora su un terzo brano, La
sapienza divina (p.37 della dispensa). Innanzitutto è opportuno
precisare che per Aristotele la sapienza non coincide con la saggezza,
come il senso comune ci indurrebbe a credere.
SAPIENZA = Conoscenza organizzata, dimostrativa, di
nessi generali. Riguarda tutte le scienze teoretiche come per esempio la
matematica.
SAGGEZZA (phronesis)
= Capacità di scegliere i
mezzi adeguati per un fine pratico. È virtù dianoetica, legata
all’etica, al modo di agire.
Secondo Aristotele se un uomo desidera sapere, sarà
più soddisfatto nel conoscere prima i nessi generali per poi addentrarsi
nel particolare; anche questa constatazione deriva dal senso comune, per
poi affinarsi nel corso dell’analisi.
Dal brano emerge che, prima di dedicarsi alla
filosofia, gli uomini tentarono di interpretare la realtà tramite il mito
(non sono semplici favolette) e solo in seguito elaborarono spiegazioni
razionali e dimostrative (filosofiche). Le Cosmogonie (miti) e soprattutto
le Cosmologie (logos), tuttavia, nacquero soltanto quando l’uomo ebbe
tempo libero a disposizione e smise di essere pressato da bisogni naturali
impellenti (cibo, vestiario…). Lo stesso Aristotele è consapevole che
se non avesse avuto l’aiuto degli schiavi, non avrebbe mai potuto
perfezionarsi nello studio e arrivare a privilegiare 1. Principi e cause
2. Il fine ultimo della realtà (il Sommo Bene).
Rita
Pilia
28
novembre 2013
ARISTOTELE
Metafisica, IX: «Verità come adeguazione del discorso ai diversi modi
dell’essere», p. 39.
Nel libro IX della Metafisica Aristotele parla dei diversi modi dell’essere:
la verità viene intesa come un’adeguazione della nostra conoscenza alla
realtà, perché quest'ultima è oggettiva, né vera né falsa. Da questa
concezione nasce la formula scolastica di San Tommaso d’Aquino “adaequatio
rei et intellectus” ovvero la corrispondenza tra l’intelligenza
giudicante e la realtà obiettiva delle cose giudicate.
Lo scritto su Le categorie dell’essere confluisce nella Logica secondo
la classificazione di Andronico da Rodi, ma esse possiedono un valore
metafisico ed ontologico. La sostanza è la categoria principale, a cui
seguono nove accidenti (quantità, qualità, relazione, tempo, luogo, …)
e rappresentano i capi sommi dell’essere.
La sostanza e l’accidente stanno alla base del nostro linguaggio,
essendo soggetto e predicato (esprime il significato di qualcosa). In
particolare gli accidenti completano il significato del verbo essere
quando esso non ha significato assoluto: l’essere corrisponde alla
verità, quindi questa può essere relativa o assoluta.
Essere in senso relativo - il rapporto tra soggetto e predicato può
variare in determinati casi dando origine a rapporti contingenti; oppure
il rapporto tra soggetto e predicato non varia: sono i rapporti necessari
che danno origine a teoremi sempre veri (come la somma degli angoli
interni di un triangolo: è sempre 180°).
Essere in senso assoluto
- il rapporto tra oggetto ed esistenza (es: questo pezzo di gesso esiste).
Nel caso degli essere incomposti, come li chiama Aristotele, per
determinare la verità bisogna riferirsi all’intuizione e alla
successiva enunciazione. Queste due azioni corrispondono alla potenza e
all’atto, due delle dieci categorie. La potenza è l’intuizione e l’atto
è l’enunciazione (noi conosciamo solo cose in atto). L’intuizione
empirica non presuppone sempre la verità, infatti questa azione può far
cadere nell’ignoranza, nel senso di ignorare altre realtà (ignoranza #
cecità pensare # vedere).
Analitici II: «Il
sapere dimostrativo», p. 40.
Il sillogismo scientifico, o dimostrazione, secondo Aristotele è lo
strumento logico per ottenere la verità. Sono dei ragionamenti che
funzionano indipendentemente dal contenuto grazie alla loro forma logica.
Le premesse di un ragionamento possono essere vere o false, il
ragionamento corretto (o valido) oppure scorretto, ma per dimostrare
bisogna partire da qualcosa di non dimostrato.
Sono necessarie delle premesse vere, più note della conclusione,
anteriori e cause di essa: i principi risultano propri dell’oggetto.
Conoscere gli oggetti è possedere la dimostrazione di essi, se possibile
tramite premesse, cause e conclusioni.
Analitici II, «L’intuizione
dei principi», p. 41.
In questo brano vengono elencati i caratteri della dimostrazione. Le prime
premesse dei sillogismi devono essere intelligibili e quindi colti per
intuizione come immediatamente veri.
Bianca
Galli
5 Dicembre 2013
ARISTOTELE:
IL PRINCIPIO DI NON CONTRADDIZIONE
Metafisica IV: «L’innegabilità del principio di non contraddizione,
supremo fondamento della verità» (p. 42 della dispensa)
Il
principio di non contraddizione costituisce il fondamento di tutte le
scienze, prima tra tutte la metafisica, in quanto disciplina teoretica per
eccellenza: la metafisica si avvale del principio di non contraddizione
per determinare l’attendibilità dei primi principi, dal momento che, a
differenza delle altre scienze matematiche, nelle dimostrazioni non può
partire dagli assiomi (proposizioni che si assumono per vere).
Alla luce del valore che tale principio assume in ambito filosofico,
Aristotele, all’interno del libro IV della Metafisica, si propose
di riformulare il principio di non contraddizione, cercando di sormontare
due problemi: uno a livello storico e l’altro di natura teoretica.
Nella storia della filosofia, vediamo infatti che già nel V secolo
Parmenide di Elea cercò di formulare il principio di non contraddizione,
dicendo che l’essere è e non può non essere.
Platone attribuì a Parmenide il merito di esse il padre della filosofia
poiché mediante tale definizione diede un criterio logico per distinguere
la scienza dalle opinioni; tuttavia sia Platone sia Aristotele si resero
conto che era necessario migliorare la formulazione di Parmenide perché
essa aveva dato luogo a dei paradossi.
La seconda esigenza che Aristotele si propose di soddisfare riguardava una
questione di tipo teoretico: poiché il principio di non contraddizione è
alla base delle dimostrazioni, comprese quelle per assurdo, era necessario
trovare un modo per avvalorare il principio stesso senza ricorrere ad una
dimostrazione (che lo avrebbe necessariamente implicato!).
Dunque Aristotele, dopo aver ribadito che la metafisica è la scienza più
completa e generale poiché studia tutti i livelli dell’essere (sia
nelle forme del divenire sia nelle sue realtà immutabili) e dopo aver
ricordato che i prerequisiti fondamentali per affrontare la questione si
trovano negli Analitici II, formula in questo modo la definizione del
principio: è impossibile che una stessa cosa (uno stesso attributo), ad
un tempo, appartenga e non appartenga ad una medesima cosa (allo stesso
soggetto) secondo lo stesso rispetto.
Tale definizione, rispetto a quella di Parmenide presenta delle
precisazioni:
1. Dal momento che si parla di un soggetto e di un attributo e che quindi
il verbo essere è utilizzato in senso relativo (e non assoluto, come fece
Parmenide, che evidentemente si riferiva esclusivamente a delle realtà
immutabili), la determinazione temporale allo stesso tempo rende
impossibile l’attribuzione di diversi predicati allo stesso soggetto
contemporaneamente, cosa che in tempi differenti è invece ammissibile.
2. Allo stesso modo, il fatto che si abbia un confronto con uno stesso
rispetto impedisce che possano sorgere altre contraddizioni dovute al
fatto che gli elementi con cui si pone in relazione il soggetto siano più
di uno. Ad esempio, se sostengo che 4>3 e che 4 non è >8, non
cadrei in contraddizione dicendo che il numero 4 è maggiore e non
maggiore; in ultima analisi ne deriva che è necessario specificare che ho
preso in esame dei rispetti diversi.
Una volta riformulato il principio, Aristotele cercò di avvalorarlo e,
non potendo dimostrarlo, disse però che era possibile confutare la tesi
opposta: infatti, chiunque rifiuti la validità del principio di non
contraddizione potrà essere facilmente criticato in quanto, non
ricorrendo ad esso nelle dimostrazioni, non sarà in grado di dire nulla
di significativo.
Sara Gambarini
Brano pag. 43-45 dispensa – L’innegabilità
del principio di non contraddizione (12 dicembre 2013)
Aristotele
Sia Eraclito con la sua dottrina del movimento, sia i
sofisti con il Relativismo conoscitivo, erano per Platone un avversario,
dal momento che riconducevano il tutto alla sola conoscenza sensibile, di
fatto impedendo all’uomo il raggiungimento di un possibile conoscenza
dimostrativa.
Il divenire invece presuppone qualcosa che muti, ma allo stesso tempo
anche un sostrato che non muti.
Anche l’esperienza sensibile non potrà mai smentire il principio di non
contraddizione. (es. mangio qualcosa di dolce, oggi però percepisco un
gusto amaro perché non sto bene, ma nello stesso tempo non posso sentire
dolce e amaro).
Le cose che noi conosciamo ci risultano tali, perché esistevano già
prima di noi.
La posizione scettica è auto-contraddittoria: se dico che nulla è vero,
sottintendiamo che la frase dovrebbe essere vera, e di conseguenza non è
possibile che non esistano verità assolute, dato che dobbiamo per forza
passare attraverso almeno una verità assoluta.
Principio del terzo escluso = tra il vero e il falso non può esserci un’altra
scelta
Anna Ferrari
TOMMASO D’AQUINO
Lezione del 27
febbraio 2014
Nacque a Roccasecca (Lazio meridionale) nel 1221 e morì nel monastero
cistercense di Fossanova nel 1274. Era chiamato il “bue muto” per il
suo atteggiamento riservato e silenzioso.
Egli rappresenta una svolta rispetto ai secoli precedenti, più
influenzati dal pensiero platonico che da quello aristotelico. Dal 1248 al
1252 fu discepolo di Alberto Magno a Colonia. In seguito insegnò a Parigi
e poi nelle principali università europee (Colonia, Roma, Napoli) come
era costume dei domenicani, ordine al quale Tommaso apparteneva. Ciò era
abbastanza semplice all’epoca poiché l’Europa era unita dalla lingua
latina, la lingua dell’Università.
Alberto Magno aveva tradotto direttamente dal greco Aristotele, cosa
piuttosto rara a quel tempo in Occidente, dove la filosofia aristotelica
era entrata attraverso le traduzioni dei filosofi arabi Avicenna
(980-1037) e Averroè (1126-1198), che ne forzarono, con il proprio
pensiero, in parte i contenuti. Dunque le traduzioni di Alberto Magno
risultarono molto più fedeli ai principi originali delle opere di
Aristotele. Quindi Alberto Magno prima, Tommaso poi, abbracciarono le
teorie aristoteliche attraverso una lettura più corretta di Aristotele e
riscoprendo il senso più genuino di alcune verità della religione
cristiana. In questo contesto si inserisce, all’inizio del 1200 (1215),
il timore del vescovo di Parigi che il pensiero aristotelico potesse
essere pericoloso per la fede cristiana e perciò bisognoso di essere
corretto da una commissione, la quale fu nominata da Gregorio IX. Tale
commissione non portò a termine il lavoro di revisione degli scritti
aristotelici, ma ciò che non fu fatto d’autorità si realizzò
spontaneamente e progressivamente attraverso le riflessioni dei pensatori
cristiani.
Vennero aperte due strade:
1. Aderenza alle indicazioni di Aristotele, ripensate e corrette nel
contesto di tesi propriamente cristiane (fu la via scelta da San Tommaso).
2. Maggiore aderenza alle indicazioni agostiniane, integrate con elementi
di origine aristotelica (fu la via scelta da San Bonaventura da Bagnoregio).
L’aristotelismo ribalta
il concetto del potere. L’autorità prima proveniva dall’alto (i papi
incoronavano i sovrani), ora sale dal basso. Dal punto di vista teoretico
quindi, con le dovute correzioni, è compatibile con i valori cristiani.
Questa conciliazione tra aristotelismo e cristianesimo porta Tommaso ad
occuparsi più volte del tema della Verità.
Quaestiones disputatae
de veritate (Parigi, ’56-’59)
È un’opera giovanile (Tommaso ha circa 35 anni).
Consideriamo il termine TRASCENDENTE. In italiano e in filosofia significa
“qualcosa che va oltre”. È il contrario di immanente.
TRASCENDENTALE in Tommaso indica “ciò che trascende le categorie
aristoteliche”.
I predicati trascendentali sono tre e riguardano tutti gli enti. Ogni ente
comprende in sé l’uno, il vero e il buono (i cosiddetti trascendentali
dell’essere), per cui si può dire che l’essere è uno, vero e buono.
Ogni ente è qualcosa che esiste ed è uno.
Dire che l’essere è UNO significa affermare che esso è intrinsecamente
non contraddittorio.
L’unità si predica di Dio e dell’uomo solo per analogia (analogia =
simile, ma non uguale). Dio, infatti, è veramente semplice, in Dio l’essere
si identifica con la sua essenza, per cui è detto anche Atto Puro, Essere
sussistente. L’uomo è invece un’unità per composizione (essenza + actus
essendi). È l’essere il fondamento dell’unità: l’unità di Dio
è diversa dall’unità di Carla e questa dall’unità di un sasso,
proprio a causa del diverso grado di essere. L’unità trascendentale non
è identificabile con quella numerica: la prima si predica di ogni ente,
la seconda solo degli esseri quantitativi (che sono misurabili perché in
possesso della quantità o materia). L’unità trascendentale rientra
nell’ambito della metafisica, quella numerica nell’ambito della
matematica.
Il vero è un trascendentale dell’ente nel senso che ogni ente è
intellegibile, razionale. Nel IV libro della Metafisica Aristotele afferma
che il luogo della trattazione della verità è la Logica più che la
Metafisica, poiché la verità è nel pensiero e non nella realtà (di cui
si occupa la metafisica). Tommaso ritiene che anche la metafisica si debba
occupare della verità, perché il mondo e le singole creature sono l’espressione
del progetto divino, sono il frutto del pensiero di Dio.
Affermando che ogni ente è vero Tommaso dice che ogni ente è espressione
dell’Architetto Supremo che creando ha inteso realizzare un preciso
progetto (tutto ciò che è creato da Dio ha un fine). Questa è la
verità ontologica, che si distingue dalla verità logica o verità umana.
Omne ens est bonum non è la tesi portante di Tommaso, ma è
certamente la tesi che qualifica come cristiana la sua metafisica. Ogni
ente è buono perché frutto e espressione della Bontà suprema e
liberamente diffusiva di Dio. Tutto ciò che è stato creato da Dio ha un
fine e corrisponde alla lex aeterna (quello che Dio aveva in mente
prima di dare origine alla Creazione). Il male non esiste come principio
autonomo. Dio ha creato solo il Bene. Il male è mancanza di bene (diminutio
boni).
Carla
Tommaso riprende i temi di Aristotele; infatti il suo obbiettivo è quello
di conciliare i temi di questo grande filosofo con la sapienza cristiana,
ma con la dovuta accortezza ,ad esempio , mentre per Aristotele l’anima
è considerata come eterna per Tommaso e per il cristianesimo l’anima è
creata da Dio.
L’opera più importante di Tommaso D’Aquino è Summa Teologiae dove
egli tratta il problema della Verità, soprattutto da un punto di vista
logico-epistemologico.
Lettura pag 67. Che
cos’è la verità?
Tommaso si attiene al concetto di Aristotele di Verità come
corrispondenza (convenienza = corrispondenza). Entrambi quindi vedono la
verità come qualcosa che appartiene all’intelligenza: “Il vero è
ciò a cui tende l’intelletto”. Come Aristotele , sostiene che ci
siano cinque predicati (trascendentali) che si applicano a tutti gli enti
e ogni ente creato ha un proprio fine (ogni agente agisce in vista di un
fine).
La verità è il rapporto di adeguazione dell’intelligenza nei confronti
dell’essere di una cosa
( ad es. poniamo un sasso che è riscaldato dal sole; nel momento in cui
io colgo che è il sole che fa riscaldare il sasso, allora formulo un
giudizio che corrisponde alla realtà, ma di per se è la proposizione che
è vera. non l’oggetto in se).
La volontà che deriva dalla facoltà appetitiva è caratterizzata dalla
razionalità , cioè la volontà è un desiderio che passa dal vaglio
della ragione; giudizio ultimo pratico, giudizio della ragione .
Nella Summa Theologiae
ogni questione è divisa in articoli e la forma espositiva segue un
determinato schema con quattro fasi:
- sembra che … : Tommaso espone la teoria a cui lui è
contrario,
- in contrario : enuncia la sua tesi, quindi in contrario con
quella sopra citata,
- rispondo : espone gli argomenti che costruisce per
difendere la sua tesi.
- Soluzione delle difficoltà
Lettura
pag 68. Se la verità sia soltanto nell’intelletto
In un primo momento Tommaso espone la teoria di S. Agostino per il quale
“ il vero è quello che si vede” quindi che la verità si trova nelle
cose e non nell’intelletto.
Tommaso è critico anche nei confronti di quei filosofi , come Eraclito e
i Sofisti , per i quali la verità è quella dei sensi.
In contrario: Aristotele dice “ il vero e il falso non sono nelle cose ,
ma nell’intelletto” è questa la tesi che Tommaso vuole dimostrare.
Rispondo: Ciò verso cui tende la facoltà appetitiva ( con la quale egli
intende il desiderio ) è
il Bene , ciò a cui tende l’intelletto invece è la Verità.
Vi è però una differenza tra le due ; mentre quando si desidera il Bene
esso è fuori di noi , quindi noi dobbiamo agire per raggiungerlo . Dunque
il Bene come causa finale che ci fa muovere verso di lui . Nel caso del
Vero , invece , il conoscibile si trova nel soggetto conoscente , quindi
quando la nostra mente contempla la realtà esterna allora essa la
possiede .
L’oggetto conosciuto
può avere con l’intelletto:
rapporti essenziali cioè le idee nella nostra mente poi si traducono in
una realtà ( ad es. la casa che prende forma dall’intelletto dell’architetto)
oppure rapporti accidentali quando altre idee non si traducono in realtà
materiale.
Una cosa si dice vera assolutamente per il rapporto che essa ha con l’intelligenza
dalla quale dipende , quindi per il rapporto essenziale. Secondo Tommaso,
Dio ha creato il mondo seguendo un determinato progetto , quindi la cosa
creata (cosmo ) rispecchia l’idea di mondo che Dio aveva in mente.
Nel Medioevo, ad es. si pensava che il filosofo antico Democrito
sostenesse che il cosmo fosse caratterizzato dal caos , atomi che si
muovono in disordine , ma se pensiamo così ci inganniamo perché crediamo
solo alla verità che poniamo noi a livello soggettivo, negando la verità
ontologica delle cose.
Secondo Aristotele invece , la causa che produce un effetto deve avere
più potere dei quello che poi ha la cosa da lei causata, quindi se
vediamo le cose solo da un punto fisico ci inganniamo perché crediamo che
la verità stia nelle cose ma essa in realtà è nel nostro intelletto.
Elda Gerra
Cartesio
DISTINZIONE
IN CARTESIO TRA RES COGITANS E RES EXTENSA. Per Cartesio non c' è dubbio
di esistere in quanto mente. Res cogitans = ciò che pensa. Il pensare qui
inteso non nel senso aristotelico o kantiano ( il giudicare/ l' unire due
o più concetti per formare una proposizione). Cartesio intende l' insieme
di tutti i contenuti mentali della persona (immagini, ricordi, sentimenti
inclusi). Res extensa = sostanza materiale. È l' estensione ciò che
occupa uno spazio. Gli atti mentali sono inestesi, immateriali. Bisogna
vedere come l' estensione e il pensiero interagiscono. Visione dualistica
della realtà. Sembra quasi un ritorno al platonismo (realtà delle idee e
realtà empirica).
NATURA ATEORETICA DELL' ERRORE. Pag. 85 tesi = l' errore non è derivato
dall' intelletto ma provocato dalla volontà. Per Cartesio l' intelletto
non sbaglierebbe mai. Vi è un errore di "precipitazione" che
porta l' intelletto a formulare giudizi quando però non possiede ancora
tutti gli elementi necessari . Ad esempio ho un appuntamento con il mio
amico in piazza per una data ora. Quando arrivo sul posto vedo una persona
girata di spalle e penso "quello è il mio amico!" poi mi
avvicino e invece non era lui era solo una persona che gli somigliava.
Questo è un tipico errore di precipitazione. Non è l' intelletto che
sbaglia, ma è la volontà che non ci fa concentrare o perché siamo
distratti, o perché pensiamo ad altro oppure semplicemente perche siamo
frettolosi ad emettere giudizi ( come nell' esempio sopra). L' errore per
definizione non è né consapevole( altrimenti non sbaglieremmo) né
deriva dall' intelletto, perché quest' ultimo usato correttamente non
sbaglia. L' intelletto è finito. Noi non siamo onniscienti. L'errore
concettuale, dovuto all'intelletto, per Cartesio non può esistere.
La volontà è: 1) una capacità di scelta; 2) necessaria, come lo è
anche l' intelletto; 3) illimitata, non si può pensare ad essa come
finita. Per Cartesio tutti gli errori sono evitabili, però siccome
abbiamo la possibilità di scegliere a volte sbagliamo. Non si può
immaginare una volontà che valuta solo quando la scelta è corretta. Un
buon uso della volontà per Cartesio è quello di sospendere il giudizio
se non abbiamo tutti gli elementi necessari per valutare ( quello POTREBBE
EESERE il mio amico!). L' uomo per natura non conosce tutto. La volontà
così come è non si può limitare senza distruggerla. L' intelletto è
finito per natura. La volontà è infinita per natura.
SPINOZA. Pag. 92
ACCENNI ALLA VITA: Spinoza nacque ad Amsterdam il 24 Novembre 1632 da una
famiglia ebraica che era stata costretta ad abbandonare la Spagna e poi il
Portogallo per l' intolleranza religiosa. Fu educato nella comunità
israelitica di Amsterdam; ma nel 1656 veniva da essa scomunicato ed
espulso per "eresie praticate ed insegnate". Qualche anno dopo
abbandonò Amsterdam e si trasferì all' Aja dove rimase per il resto
della vita. In ottemperanza al concetto rabbinico, che prescrive ad ogni
uomo di imparare un lavoro manuale, egli aveva appreso l' arte di
fabbricare e pulire lenti per strumenti ottici. Questo mestiere gli dette
una certa fama di ottico che precedette la sua celebrità di filosofo.
Spinoza trascorse una vita modesta e tranquilla. Non pubblicò mai i suoi
libri per prudenza. Il suo libro sull' etica fu pubblicato solo dopo la
sua morte. Il 21 Febbraio 1677 Spinoza moriva a soli 44 anni, di
tubercolosi.
" VERSO LA CONOSCENZA << SUB SPECIE AETERNITATIS>>"
N.B. definizione n. 4, la proposizione n. 5-34-35.
Idea che la verità non deve essere stabilita in base alla corrispondenza
dei fatti, ma deve essere colta all' interno del pensiero. Spinoza si era
formato sugli studi di Cartesio poi però prende una via opposta. Per
Cartesio c' era dualismo tra pensiero ed estensione: A) decido che devo
alzare il braccio( res cogitans); B) alzo il braccio (res extensa). Tra
questi due fatti c' è interazione. Ma il problema è: come è possibile
spiegare che una causa immateriale provochi un fatto fisico? Spinoza pensa
di eliminare questo dualismo cartesiano. Pur mantenendo la distinzione tra
pensiero ed estensione, li considera come "due facce della stesa
medaglia"= cioè il pensiero e l'estensione sono due attributi di una
stessa sostanza, del tutto. Cos' è il tutto? Il tutto per Spinoza è DIO.
Nella prima parte dell' etica sostiene la teoria del PARALLELISMO (implica
che non ci sia causalità tra eventi fisici e psichici).." l' ordine
e la conoscenza delle idee rispecchia l 'ordine e la conoscenza delle cose"
. Cause psichiche creano effetti psichici. Cause materiali creano effetti
materiali. Concetto di verità: il giudizio sarà vero per ragioni interne
al pensiero. Diventa criterio di COERENZA.
Alessia Moreschi
Kant
(1724-1804 )
Tre opere fondamentali :
Critica della Ragion Pura
Critica della Ragion Pratica
Critica del giudizio
Nella Critica della Ragion Pura, prima opera filosofica importante
scritta in tedesco , Kant riflette sulla conoscenza e, in particolare,
critica il concetto tradizionale di verità come adaequatio cioè
come adeguamento del nostro pensiero alla realtà.
Egli parte dalla riflessione sul motivo strutturale che fa delle
conoscenze basate sul metodo scientifico ( ad es. matematica , geometria
ecc…) dei saperi fondati su basi universalmente condivise.
Con Kant si assiste allo spostamento dell'interesse della Filosofia alla
gnoseologia quindi alla spiegazione del funzionamento della conoscenza
umana.
Egli, dunque, analizza i vari tipi di giudizio che la mente umana compie,
in quanto sostiene che la vera differenza tra la Scienza e la Filosofia
stia appunto nella forma di giudizio.
I giudizi si distinguono in:
" Giudizi sintetici a posteriori : cioè giudizi che partono
dall'esperienza quindi permettono il vantaggio di ampliare la conoscenza (
cioè il predicato aggiunge qualcosa di nuovo al soggetto ) ma presentano
come svantaggio il fatto che questa conoscenza non è certa (ne oggettiva,
ne necessaria, ne universale).
" Giudizi analitici a priori : cioè giudizi che permettono una
conoscenza necessaria ( cioè il predicato è già implicito nel
soggetto).Quindi essi dipendono unicamente dal principio di non
contraddizione per cui sono sempre veri, ma allo stesso tempo rimangono
sterili ( cioè la non permettono alla conoscenza di ampliarsi ).
Esistono , però, delle scienze (come la fisica e la geometria) che
possiedono al loro interno i vantaggi dei due tipi di giudizi, fondandosi
su Giudizi sintetici a priori, cioè giudizi che valgono sempre ,
permettono alla conoscenza di ampliarsi e la rendono necessaria e
universale.
Secondo Kant, mostrare come sono possibili i giudizi sintetici a priori
equivale a mostrare la possibilità o meno della filosofia come scienza.
La Critica si divide in:
Estetica trascendentale : analizza la conoscenza sensibile per
individuare gli elementi a priori (intuizioni),
Analitica trascendentale : analizza la coscienza intellettiva per
individuare i giudizi a priori,
Dialettica trascendentale : cerca di conoscere se è possibile applicare
alla Filosofia ( detta Metafisica ) i giudizi sintetici a priori .
Egli afferma che conoscenza sensibile e conoscenza intellettiva sono di
fatto interconesse; le distingue a fini metodologici. Il contenuto della
conoscenza sensibile è sempre a posteriori , quindi nella materia
non vi è mai un contenuto a priori, che possiamo trovare invece nella
forma , cioè nelle relazioni tra i contenuti percettivi (dati del
molteplice sensibile).
Le relazioni tra i contenuti sensibili sono Spazio e Tempo in
quanto la collocazione spaziale e temporale delle esperienze sensibili non
è mai tratta dell'esperienza, ma dipende dal soggetto conoscente stesso,
è soggettiva. Le intuizioni pure a priori , spazio e tempo, sono gli
unici a priori dell'esperienza, quindi nella conoscenza intellettiva i
concetti che servono a creare i giudizi sono a posteriori e gli elementi a
priori sono da ricercare nelle relazioni cioè nelle 12 forme logiche del
giudizio a cui corrispondono 12 categorie.
Elda
Gerra
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