Matteo Lovatti

(1769-1849)

 

 

a cura di Maurilio Lovatti

 

(libero adattamento  con integrazioni di notizie su Matteo Lovatti tratte da ALBERTO CRIELESI, Matteo, Clemente ed Antonio Lovatti: Capimastri, architetti ed imprenditori romani, in «La Strenna dei Romanisti», Roma 2007, pag. 191-224)

 

 

 

Nato a Roma nel 1769 è il primo figlio del capomastro Francesco Antonio Lovatti (che aveva lavorato come decoratore per l'architetto Sebastiano Orlandi nel 1790, poi capomastro camerale nella costruzione della caserma di piazza del Popolo nel 1794).
Raggiunse i livelli più elevati dell'architettura sino ad essere accostato, nonostante fosse partito da capomastro e non avesse mai frequentato l'accademia, ai grandi maestri della fine del Settecento come Cosimo Morelli, Michelangelo Simonetti, Francesco Milizia, Antonio Asprucci, Nicola Forti.
La sua prima opera da architetto fu un grande edificio, a quattro piani, realizzato attorno al 1792 in via del Corso, nei pressi di S. Lorenzo in Lucina.
Divenne poi architetto di fiducia dell'ambasciatore di Spagna presso la Corte pontificia, Nicolao Josè de Azara (1731-1804) che gli commissionò un "casino di campagna" nel quartiere detto Macao, fuori Porta Pia, dietro le terme di Diocleziano.
Queste due opere del Lovatti sono citate in F. Gasperoni, L'architetto girovago. Opera piacevole ed istruttiva, Roma 1841-1843, tomo I, quaderno V.
Commenta il prof. Crielesi:
"Come abbiamo potuto notare le due opere romane citate dal Gasperoni - e che non furono certo le uniche nella Città ("Vorrei di più altre cose del Lovatti cioè notarvi alcune altre opere di lui, così in Roma come fuori") sono ambedue opere civili e ascrivibili all'ultimo ventennio del Settecento e vengono a segnare il limite di una prima fase nell'operato del nostro Matteo che, come rileva sempre il Gasperoni, fu un innovatore nel campo architettonico, in quanto "fu de' primi ad uscire dal lezzo del putridissimo e nefandissimo barocchismo" e ad avvicinarsi alle idee moderne che avrebbero trovato nel Valadier il suo massimo promulgatore qui a Roma." (A. CRIELESI, Matteo, Clemente ed Antonio Lovatti: Capimastri, architetti ed imprenditori romani, in "La Strenna dei Romanisti", Roma 2007, pag. 197).

Negli anni della Repubblica Romana, lo ritroviamo protagonista di notizie di cronaca, in episodi drammatici che accompagnarono l'occupazione francese; nel novembre del 1798, acceso e convinto giacobino, immagazzina nell'Arsenale pontificio di Ripa Grande le numerose opere d'arte, defraudate dagli occupanti alle chiese ed ai musei cittadini, ed i volumi sottratti alla Biblioteca Vaticana, nell'attesa di essere trasportati via mare in Francia, così come documenta un "Avviso" del 13 novembre 1798.
Dopo la ritirata dei Francesi nel 1799 ed il successivo ingresso a Roma del nuovo papa Pio VII, lo ritroviamo presente nei restauri programmati dal Pontefice per ripristinare le chiese danneggiate durante l'occupazione: nel 1801, è titolare di un'impresa interessata nella ricostruzione della Cattedrale di Nepi, incendiata dalle stesse armate francesi nel 1798, il progetto è firmato dall'Architetto Ferdinando Folcari e da lui Capomastro (che allora significava anche impresario edile e direttore dei lavori). A distanza di qualche anno, colla nuova occupazione di Roma delle truppe napoleoniche Matteo Lovatti riappare nelle cronache: nel 1809, il 5 e 6 luglio 1809, è uno dei protagonisti alla "scalata" del palazzo pontificio del Quirinale, impresa che portò al rapimento di Pio VII da parte del generale Miollis. Fra le due e le tre del mattino viene scalato il Quirinale e rotte le imposte, il generale della gendarmeria Radet, con 66 uomini, entra negli appartamenti pontifici e arresta Pio VII, che è fatto partire immediatamente alla volta della Toscana. Matteo fornisce scale da muratore, corde e picconi, dopo aver disegnato una planimetria del palazzo per facilitare il rapimento. Questi comportamenti possono essere spiegati ipotizzando una sua convinta visione politica giacobina, che però è spesso costretto a mascherare per poter lavorare come architetto sotto il governo pontificio.
Nel 1814, rientrato Pio VII a Roma dalla prigionia francese", aveva bandito da Roma molti suoi acerrimi avversari, ma graziandone tant'altri: è il caso di Matteo Lovatti che, quantunque avesse mostrato una chiara simpatia per i Giacobini, una volta ripudiate le sue idee e rappacificatosi colla Chiesa e coll'Autorità pontificia, intraprese una rapida carriera raggiungendo grande floridezza economica e discreto prestigio sociale.
Il 1 maggio 1816, è a Marino per redigere una perizia architettonica, inerente alla sistemazione di un fabbricato nei pressi di una delle torri dell'ex castello Colonna, per un ricco possidente locale, Nicola Vitali. E sempre a Marino è l'autore (1819) di una delle sue opere più conosciute ed apprezzate, il noto pronao in peperino della chiesetta di S. Maria dell'Acquasanta, appena fuori del paese, commissionatogli, come ricorda la scritta sull'architrave, dal canonico marinese Francesco Fumasoni.

 

 

S. Maria dell'Acquasanta

S. Maria dell'Acquasanta è un piccolo santuario sulla strada che da Marino scende alla valle del Bosco Ferentano.
Incavata nella roccia, vi si accede da una scala di trentaquattro gradini e sotto l'altare esiste una sorgente d'acqua creduta miracolosa. La Chiesa ha una struttura molto semplice ricavata in un'antica cava di peperino. Si accede alla Chiesa attraverso un nartece delimitato da due colonne doriche, con architrave modanato molto sporgente, sorretto da mensole, che corre lungo tutta la facciata, datata 1819, disegnata e realizzata da Matteo Lovatti. Il portale di accesso è del '700, presenta un architrave e stipiti modanati.
L'altare è costituito da un blocco di roccia sul quale è scolpita la cornice che racchiude l'affresco della Madonna con Bambino in braccio e nella mano sinistra una ciotola d'acqua. L'opera presenta varie fasi pittoriche fra cui la più antica è datata al VI-IX secolo d.C.

 

 

 

Nel 1818 il comune di Albano decide di realizzare un cimitero pubblico nell'area dell'Anfiteatro Domiziano (ma in realtà fatto costruire da Settimo Severo e completato da Caracalla) e il progetto viene affidato a Matteo Lovatti.
Scrive il prof. Alberto Crielesi, che ha visionato il progetto:
"Il Cimitero, il cui prospetto doveva privilegiare chi veniva da Castelgandolfo, ci appare subito scenografico e celebrativo, in sintonia con le visioni architettoniche rivelate dai "francesi" durante la Repubblica negli apparati fittizi in cartapesta e gesso: ci ricorda un tumulo funerario culminante in un tempietto, idea suggerita anche dagli immancabili trofei, are, acroteri, pigne, urne, tripodi, ecc. che implementano la struttura. La stessa croce sul frontone della cappella, a doppia traversa, coadiuvata alla base da due rami incrociati di palma, ha più l'aria di... un albero della libertà che il simbolo della Redenzione.... Tutti elementi decorativi, quindi, che al pari dei pini e cipressi del contesto della zona, trovano, anche se più mitigati, la sua corresponsione negli interventi, quelli nostrani, del Valadier al Pincio, di cui il Lovatti sembra più che emulare, addirittura anticipare l'idea...
Entrando poi nei dettagli del progetto, si evidenzia come tutto il complesso doveva essere costruito sulla parte in muratura, ossia quella meridionale, dell'antico anfiteatro, essendo l'altra metà dell' emiciclo scavata interamente nel banco di peperino; il materiale da utilizzare era ovviamente questa pietra locale. In quanto ai resti più cospicui dell'antico podio dovevano divenire la struttura di una cappellina che avrebbe ospitato la sepoltura per il clero. Per questo sacello, a pianta quadrata, era prevista una copertura a cupola, con facciata rastremata ed illuminata da una grande finestra termale, decorata ai lati da due Angeli tedofori d'impronta canoviana. Quindi l'ingresso preceduto da un pronao con due colonne doriche sorreggenti un timpano con croce all'apice ed altri estremi due acroteri angolari: da notare - se non fosse per la presenza di questi ultimi elementi architettonici - l'analogia del frontone (egualmente poco "acuminato") con quello dell'Acquasanta di Marino. Ai lati della cappellina, affiancata da sacrestia e camera del custode, infine le sepolture anonime dei "Comuni" utilizzando i "Grottoni", ossia i fornici degli antichi "vomitoria ". Riguardo poi all'utilizzo dell'arena, l'architetto doveva aver molto in visione sia la piazza di S. Pietro al Vaticano, sia, maggiormente, il Colosseo di allora: tant'è che al pari di quello di Roma, lungo l'ellisse meridionale dell'anfiteatro d'Albano vi pone le nicchie per la "Via Crucis e della Ss.ma Addolorata", mentre al centro dell'arena. nell'incrocio di vialetti, s'ergerà, a mo' di gnomone, una grande Croce.
In rapporto al costo di realizzazione, il Lovatti si attiene a poco più di 3090 scudi, una bella cifra per la verità, ben distinta nei dettagli nello "Scandaglio del progetto per il nuovo Cemeterio da costruirsi nelle rovine dell'Anfiteatro Domiziano nella Città d'Albano, con ordinazione dell'Ill.mi Signor Gonfaloniere, e Rappresentanti la Commune della Città di Albano". (pag. 207-208).

Il Governatore di Albano, Stefano Fabrini, trasmette il 14 novembre 1820 il progetto alla Congregazione del Buon Governo di Roma. L'architetto Pietro Bracci, a nome della Congregazione, esprime parere contrario, in particolare adducendo lo scarso spazio destinato alle tombe, alla cappella mortuaria e all'alloggio del custode, nonché inadeguata la somma preventivata delle opere, pur definendo "lodevole" il prospetto dell'opera.

Il progetto verrà accantonato definitivamente dal comune di Albano solo nel 1827.

 

 

chiesa di S. Martino in Velletri

Questa Chiesa appare per la prima volta in un documento del 1065. Viene affidata ai Chierici Regolari Somaschi nel 1616; essendo la struttura antica fatiscente, affidano all'architetto veliterno Nicola Giansimoni la ricostruzione della Chiesa che la realizza nel 1778 in forma di croce greca con una falsa Cupola di buon effetto. La facciata invece viene realizzata nel 1822 su disegno dell'architetto Matteo Lovatti. I quattro Evangelisti nei pennacchi della Cupola sono opera dell'artista pescarese Carlo Gavardini che li realizzò nel 1857. Sull'altare maggiore la grande pala d'altare rappresentante un miracolo di S. Martino è opera di Antonio Maria Garbi che la eseguì nel 1878. Altre opere d'arte conservate nella Chiesa sono la Madonna quattrocentesca detta "dell'orto" e un affresco trecentesco denominato "Madonna della Pace" unico avanzo delle pitture absidali.

Scrive il Laracca [I. Laracca, La chiesa di S. Martino e i Padri Somaschi a Velletri (dalle origini al 1967), Roma 1967]:

"Nonostante le difficoltà finanziarie, i Padri Somaschi nel 1821 affidarono il disegno e il lavoro della facciata all'architetto Matteo Lovatti il quale lo eseguì con lo stile attuale, ripetendo forse in parte l’idea dell’antico portico con la costruzione del pronao tetrastilo di stile dorico, sostenuto da quattro grosse colonne di peperino. I lavori furono inaugurati nell’anno 1825".

 

 

Dopo il 1835, Matteo Lovatti opera prevalentemente a Roma. Scrive il Crielesi:

"Ma oltre ai dintorni di Roma la sua attività si svolgerà maggiormente nella stessa Città, e tanta fu la benemerenza acquisita da Matteo per i suoi servigi che dal papa gli fu concesso il titolo - lui ex giacobino pentito - di Cavaliere dell'Ordine di S. Silvestro della Milizia Aureata e dello Speron d'Oro.
Per consolidare poi il suo prestigio si scelse una dimora adeguata al suo rango: l'ex Palazzo Pichi-Manfroni in Piazza del Paradiso a fianco di S. Andrea della Valle, stabile che dai suoi eredi, in crisi economica avviata, sarà venduto (post 1870) alla Banca Romana; nel 1881, a causa dei lavori per la costruzione di Corso Vittorio Emanuele II, lo stabile subirà la demolizione della facciata principale (ricostruita poi in posizione arretrata) perdendo così lo stemma dei Lovatti che troneggiava sull'ingresso.
L'architetto Matteo morì ottuagenario, il 14 marzo 1849 e fu sepolto nella tomba di famiglia in S. Lorenzo in Lucina, prima cappella a destra dedicata al Titolare della chiesa. Nel patronato di questa cappella i Lovatti erano subentrati ai Montana nella prima metà dell'Ottocento, probabilmente poco prima dei radicali restauri voluti da Pio IX ed apportati dall'architetto Busiri Vici alla basilica coll'ausilio del pittore Roberto Bompiani. Soltanto nel 1855 (quindi a lavori ultimati della basilica) a destra dell'altare fu innalzato il monumento funebre…"

In realtà il palazzo Pichi-Manfroni-Lovatti non fu acquistato da Matteo, ma dal figlio Filippo il 25 gennaio 1862, quando Matteo era già morto.

 

 

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