Nato a Roma
nel 1769 è il primo figlio del capomastro Francesco Antonio Lovatti (che aveva
lavorato come decoratore per l'architetto Sebastiano Orlandi nel 1790, poi
capomastro camerale nella costruzione della caserma di piazza del Popolo nel
1794).
Raggiunse i livelli più elevati dell'architettura sino ad essere accostato,
nonostante fosse partito da capomastro e non avesse mai frequentato
l'accademia, ai grandi maestri della fine del Settecento come Cosimo
Morelli, Michelangelo Simonetti, Francesco Milizia, Antonio Asprucci, Nicola Forti.
La sua prima opera da architetto fu un grande edificio, a quattro piani,
realizzato attorno al 1792 in via del Corso, nei pressi di S. Lorenzo in
Lucina.
Divenne poi architetto di fiducia dell'ambasciatore di Spagna presso la
Corte pontificia, Nicolao Josè de Azara (1731-1804) che gli commissionò un
"casino di campagna" nel quartiere detto Macao, fuori Porta Pia,
dietro le terme di Diocleziano.
Queste due opere del Lovatti sono citate in F. Gasperoni, L'architetto
girovago. Opera piacevole ed istruttiva, Roma 1841-1843, tomo I, quaderno V.
Commenta il prof. Crielesi:
"Come abbiamo potuto notare le due opere romane citate dal Gasperoni -
e che non furono certo le uniche nella Città ("Vorrei di più altre
cose del Lovatti cioè notarvi alcune altre opere di lui, così in Roma come
fuori") sono ambedue opere civili e ascrivibili all'ultimo ventennio
del Settecento e vengono a segnare il limite di una prima fase nell'operato
del nostro Matteo che, come rileva sempre il Gasperoni, fu un innovatore nel
campo architettonico, in quanto "fu de' primi ad uscire dal lezzo del
putridissimo e nefandissimo barocchismo" e ad avvicinarsi alle idee
moderne che avrebbero trovato nel Valadier il suo massimo promulgatore qui a
Roma." (A.
CRIELESI, Matteo, Clemente ed Antonio Lovatti: Capimastri, architetti ed
imprenditori romani, in "La Strenna dei Romanisti", Roma 2007, pag.
197).
Negli anni
della Repubblica Romana, lo ritroviamo protagonista di notizie di cronaca,
in episodi drammatici che accompagnarono l'occupazione francese; nel
novembre del 1798, acceso e convinto giacobino, immagazzina
nell'Arsenale pontificio di Ripa Grande le numerose opere d'arte, defraudate
dagli occupanti alle chiese ed ai musei cittadini, ed i volumi sottratti
alla Biblioteca Vaticana, nell'attesa di essere trasportati via mare in
Francia, così come documenta un "Avviso" del 13 novembre 1798.
Dopo la ritirata dei Francesi nel 1799 ed il successivo ingresso a Roma
del nuovo papa Pio VII, lo ritroviamo presente nei restauri programmati dal
Pontefice per ripristinare le chiese danneggiate durante l'occupazione: nel
1801, è titolare di un'impresa interessata nella ricostruzione della
Cattedrale di Nepi, incendiata dalle stesse armate francesi nel 1798, il
progetto è firmato dall'Architetto Ferdinando Folcari e da lui Capomastro
(che allora significava anche impresario edile e direttore dei lavori). A
distanza di qualche anno, colla nuova occupazione di Roma delle truppe
napoleoniche Matteo Lovatti riappare nelle cronache: nel 1809, il 5 e 6
luglio 1809, è uno dei protagonisti alla "scalata" del palazzo
pontificio del Quirinale, impresa che portò al rapimento di Pio VII da
parte del generale Miollis. Fra le due e le tre del mattino viene scalato il
Quirinale e rotte le imposte, il generale della gendarmeria Radet, con 66
uomini, entra negli appartamenti pontifici e arresta Pio VII, che è fatto
partire immediatamente alla volta della Toscana. Matteo fornisce scale da
muratore, corde e picconi, dopo aver disegnato una planimetria del palazzo
per facilitare il rapimento. Questi comportamenti possono essere spiegati
ipotizzando una sua convinta visione politica giacobina, che però è spesso
costretto a mascherare per poter lavorare come architetto sotto il governo
pontificio.
Nel 1814, rientrato Pio VII a Roma dalla prigionia francese", aveva
bandito da Roma molti suoi acerrimi avversari, ma graziandone tant'altri: è
il caso di Matteo Lovatti che, quantunque avesse mostrato una chiara
simpatia per i Giacobini, una volta ripudiate le sue idee e rappacificatosi
colla Chiesa e coll'Autorità pontificia, intraprese una rapida carriera
raggiungendo grande floridezza economica e discreto prestigio sociale.
Il 1 maggio 1816, è a Marino per redigere una perizia architettonica,
inerente alla sistemazione di un fabbricato nei pressi di una delle torri
dell'ex castello Colonna, per un ricco possidente locale, Nicola Vitali. E
sempre a Marino è l'autore (1819) di una delle sue opere più conosciute ed
apprezzate, il noto pronao in peperino della chiesetta di S. Maria
dell'Acquasanta, appena fuori del paese, commissionatogli, come ricorda la
scritta sull'architrave, dal canonico marinese Francesco Fumasoni.
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Nel 1818
il comune di Albano decide di realizzare un cimitero pubblico nell'area
dell'Anfiteatro Domiziano (ma in realtà fatto costruire da Settimo Severo
e completato da Caracalla) e il progetto viene affidato a Matteo Lovatti.
Scrive il prof. Alberto Crielesi, che ha visionato il progetto:
"Il Cimitero, il cui prospetto doveva privilegiare chi veniva da
Castelgandolfo, ci appare subito scenografico e celebrativo, in sintonia
con le visioni architettoniche rivelate dai "francesi" durante
la Repubblica negli apparati fittizi in cartapesta e gesso: ci ricorda un
tumulo funerario culminante in un tempietto, idea suggerita anche dagli
immancabili trofei, are, acroteri, pigne, urne, tripodi, ecc. che
implementano la struttura. La stessa croce sul frontone della cappella, a
doppia traversa, coadiuvata alla base da due rami incrociati di palma, ha
più l'aria di... un albero della libertà che il simbolo della
Redenzione.... Tutti elementi decorativi, quindi, che al pari dei pini e
cipressi del contesto della zona, trovano, anche se più mitigati, la sua
corresponsione negli interventi, quelli nostrani, del Valadier al Pincio,
di cui il Lovatti sembra più che emulare, addirittura anticipare
l'idea...
Entrando poi nei dettagli del progetto, si evidenzia come tutto il
complesso doveva essere costruito sulla parte in muratura, ossia quella
meridionale, dell'antico anfiteatro, essendo l'altra metà dell' emiciclo
scavata interamente nel banco di peperino; il materiale da utilizzare era
ovviamente questa pietra locale. In quanto ai resti più cospicui
dell'antico podio dovevano divenire la struttura di una cappellina che
avrebbe ospitato la sepoltura per il clero. Per questo sacello, a pianta
quadrata, era prevista una copertura a cupola, con facciata rastremata ed
illuminata da una grande finestra termale, decorata ai lati da due Angeli
tedofori d'impronta canoviana. Quindi l'ingresso preceduto da un pronao
con due colonne doriche sorreggenti un timpano con croce all'apice ed
altri estremi due acroteri angolari: da notare - se non fosse per la
presenza di questi ultimi elementi architettonici - l'analogia del
frontone (egualmente poco "acuminato") con quello
dell'Acquasanta di Marino. Ai lati della cappellina, affiancata da
sacrestia e camera del custode, infine le sepolture anonime dei
"Comuni" utilizzando i "Grottoni", ossia i fornici
degli antichi "vomitoria ". Riguardo poi all'utilizzo
dell'arena, l'architetto doveva aver molto in visione sia la piazza di S.
Pietro al Vaticano, sia, maggiormente, il Colosseo di allora: tant'è che
al pari di quello di Roma, lungo l'ellisse meridionale dell'anfiteatro
d'Albano vi pone le nicchie per la "Via Crucis e della Ss.ma
Addolorata", mentre al centro dell'arena. nell'incrocio di vialetti,
s'ergerà, a mo' di gnomone, una grande Croce.
In rapporto al costo di realizzazione, il Lovatti si attiene a poco più
di 3090 scudi, una bella cifra per la verità, ben distinta nei dettagli
nello "Scandaglio del progetto per il nuovo Cemeterio da costruirsi
nelle rovine dell'Anfiteatro Domiziano nella Città d'Albano, con
ordinazione dell'Ill.mi Signor Gonfaloniere, e Rappresentanti la Commune
della Città di Albano". (pag. 207-208).
Il
Governatore di Albano, Stefano Fabrini, trasmette il 14 novembre 1820 il
progetto alla Congregazione del Buon Governo di Roma. L'architetto Pietro
Bracci, a nome della Congregazione, esprime parere contrario, in
particolare adducendo lo scarso spazio destinato alle tombe, alla cappella
mortuaria e all'alloggio del custode, nonché inadeguata la somma
preventivata delle opere, pur definendo "lodevole" il prospetto
dell'opera.
Il
progetto verrà accantonato definitivamente dal comune di Albano solo nel
1827.
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chiesa di S. Martino
in Velletri
Questa Chiesa appare
per la prima volta in
un documento del 1065. Viene affidata ai Chierici Regolari Somaschi nel
1616; essendo la struttura antica fatiscente, affidano all'architetto
veliterno Nicola Giansimoni la ricostruzione della Chiesa che la realizza
nel 1778 in forma di croce greca con una falsa Cupola di buon effetto. La
facciata invece viene realizzata nel 1822 su disegno dell'architetto Matteo
Lovatti. I quattro Evangelisti nei pennacchi della Cupola sono opera
dell'artista pescarese Carlo Gavardini che li realizzò nel 1857.
Sull'altare maggiore la grande pala d'altare rappresentante un miracolo di
S. Martino è opera di Antonio Maria Garbi che la eseguì nel 1878. Altre
opere d'arte conservate nella Chiesa sono la Madonna quattrocentesca detta
"dell'orto" e un affresco trecentesco denominato "Madonna
della Pace" unico avanzo delle pitture absidali.
Scrive
il Laracca [I. Laracca, La chiesa di S. Martino e i Padri Somaschi a
Velletri (dalle origini al 1967), Roma 1967]:
"Nonostante
le difficoltà finanziarie, i Padri Somaschi nel 1821 affidarono il
disegno e il lavoro della facciata all'architetto Matteo Lovatti il quale
lo eseguì con lo stile attuale, ripetendo forse in parte l’idea
dell’antico portico con la costruzione del pronao tetrastilo di stile
dorico, sostenuto da quattro grosse colonne di peperino. I lavori furono
inaugurati nell’anno 1825".
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Dopo
il 1835, Matteo Lovatti opera prevalentemente a Roma. Scrive il Crielesi:
"Ma
oltre ai dintorni di Roma la sua attività si svolgerà maggiormente nella
stessa Città, e tanta fu la benemerenza acquisita da Matteo per i suoi
servigi che dal papa gli fu concesso il titolo - lui ex giacobino pentito
- di Cavaliere dell'Ordine di S. Silvestro della Milizia Aureata e dello
Speron d'Oro.
Per consolidare poi il suo prestigio si scelse una dimora adeguata al suo
rango: l'ex Palazzo Pichi-Manfroni in Piazza del Paradiso a fianco di S.
Andrea della Valle, stabile che dai suoi eredi, in crisi economica
avviata, sarà venduto (post 1870) alla Banca Romana; nel 1881, a causa
dei lavori per la costruzione di Corso Vittorio Emanuele II, lo stabile
subirà la demolizione della facciata principale (ricostruita poi in
posizione arretrata) perdendo così lo stemma dei Lovatti che troneggiava
sull'ingresso.
L'architetto Matteo morì ottuagenario, il 14 marzo 1849 e fu sepolto
nella tomba di famiglia in S. Lorenzo in Lucina, prima cappella a destra
dedicata al Titolare della chiesa. Nel patronato di questa cappella i
Lovatti erano subentrati ai Montana nella prima metà dell'Ottocento,
probabilmente poco prima dei radicali restauri voluti da Pio IX ed
apportati dall'architetto Busiri Vici alla basilica coll'ausilio del
pittore Roberto Bompiani. Soltanto nel 1855 (quindi a lavori ultimati
della basilica) a destra dell'altare fu innalzato il monumento funebre…"
In
realtà il palazzo Pichi-Manfroni-Lovatti non fu acquistato da Matteo, ma
dal figlio Filippo il 25 gennaio 1862, quando Matteo era già morto.
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