L'arcano disegno del Signore Ci ha affidato, senza
alcun Nostro merito, l'altissima dignità e le gravissime sollecitudini
del sommo pontificato proprio nell'anno in cui ricorre il quarantesimo
anniversario della consacrazione dell'umanità al sacratissimo cuore del
Redentore, indetta dal Nostro immortale predecessore, Leone XIII, al
declinare del secolo scorso, alle soglie dell'anno santo.
Con quale gioia, commozione e intimo consenso accogliemmo allora come un
messaggio celeste l'enciclica Annum sacrum,(2) proprio allorquando,
novello levita; avevamo potuto recitare: "Introibo ad altare
Dei" (Sal 42,4). E con che ardente entusiasmo unimmo il Nostro cuore
ai pensieri e alle intenzioni, che animavano e guidavano quell'atto
veramente provvidenziale di un pontefice, che con tanta profonda acutezza
conosceva i bisogni e le piaghe, palesi e occulte, del suo tempo!
Come quindi potremmo non sentire oggi profonda riconoscenza verso la
Provvidenza, che ha voluto far coincidere il Nostro primo anno di
pontificato con un ricordo così importante e caro del Nostro primo anno
di sacerdozio; e come potremmo non cogliere con gioia l'occasione per fare
del culto al "Re dei re e Signore dei dominanti" (1Tm 6,15; Ap
19,16) quasi la preghiera d'introito di questo Nostro pontificato, nello
spirito del Nostro indimenticabile predecessore e in fedele attuazione
delle sue intenzioni? Come non faremmo di esse l'alfa e l'omega del Nostro
volere e del Nostro sperare, del Nostro insegnamento e della Nostra
attività, della Nostra pazienza e delle Nostre sofferenze, consacrate
tutte alla diffusione del regno di Cristo?
Se Noi contempliamo sotto la luce dell'eternità gli eventi esterni e gli
interiori sviluppi degli ultimi quarant'anni e ne misuriamo grandezze e
deficienze, quella consacrazione universale a Cristo re appare allo
sguardo del Nostro spirito sempre più nel suo significato sacro, nel suo
simbolismo esortatore, nel suo scopo di purificazione e di elevazione, di
irrobustimento e di difesa delle anime e in pari tempo nella sua
preveggente saggezza, mirante a guarire e nobilitare ogni umana società e
promuoverne il vero bene. Sempre più chiaramente Ci si rivela come un
messaggio di esortazione e di grazia di Dio non solo alla sua chiesa, ma
anche a un mondo, troppo bisognoso di scuotimento e di guida, il quale,
immerso nel culto del presente, si smarriva sempre più e si esauriva
nella fredda ricerca di terreni ideali; un messaggio a un'umanità, la
quale, in schiere sempre più numerose, si staccava dalla fede in Cristo e
più ancora dal riconoscimento e dall'osservanza della sua legge; un
messaggio contro una concezione del mondo, a cui la dottrina di amore e di
rinunzia del Sermone della montagna e la divina azione d'amore della croce
apparivano scandalo e follia. Come un giorno il precursore del Signore a
coloro che, cercando, interrogavano, proclamava: "Ecco l'Agnello di
Dio" (Gv 1,29), per ammonirli che l'aspettato delle genti (cf. Ag 2,8
Vg) dimorava, sebbene ancora sconosciuto, in mezzo a loro; così il
rappresentante di Cristo rivolgeva scongiurando il suo grido potente:
"Ecco il vostro Re!" (Gv 19,14) ai rinnegatori, ai dubbiosi,
agli indecisi, agli esitanti, i quali o rifiutavano di seguire il
Redentore glorioso, sempre vivente e operante nella sua chiesa, o lo
seguivano con noncuranza e lentezza.
Dalla diffusione e dall'approfondimento del culto del divin cuore del
Redentore - che trovò lo splendido coronamento, oltre che nella
consacrazione dell'umanità al declinare del secolo scorso, anche
nell'introduzione della festa della regalità di Cristo da parte del
Nostro immediato predecessore di felice memoria(3) - sono scaturiti
indicibili beni per innumerevoli anime: "un impeto di fiumana",
che "rallegra la città di Dio" (cf. Sal 45,5). Qual epoca più
della nostra fu così tormentata da vuoto spirituale e da profonda
indigenza interiore, nonostante ogni progresso tecnico e puramente civile?
Non può forse ad essa applicarsi la parola rivelatrice dell'Apocalisse:
"Vai dicendo: sono ricco e dovizioso e non mi manca nulla; e non sai
che tu sei meschino e miserabile e povero e cieco e nudo" (Ap 3,17)?
Venerabili fratelli! vi può essere dovere più grande e più urgente di
"annunziare ... le inscrutabili ricchezze di Cristo" (Ef 3,8)
agli uomini del nostro tempo? E vi può essere cosa più nobile che
sventolare il vessillo del Re davanti ad essi, che hanno seguìto e
seguono bandiere fallaci, e riguadagnare al vittorioso vessillo della
croce coloro che l'hanno abbandonato? Quale cuore non dovrebbe bruciare ed
essere spinto al soccorso, alla vista di tanti fratelli e sorelle, che in
seguito a errori, passioni, incitamenti e pregiudizi si sono allontanati
dalla fede nel vero Dio, e si sono distaccati dal lieto e salvifico
messaggio di Gesù Cristo? Chi appartiene alla milizia di Cristo - sia
ecclesiastico, sia laico - non dovrebbe forse sentirsi spronato e incitato
a maggior vigilanza, a più decisa difesa, quando vede aumentar sempre
più le schiere dei nemici di Cristo, quando s'accorge che i portaparola
di queste tendenze, rinnegando o non curando in pratica le vivificatrici
verità e i valori contenuti nella fede in Dio e in Cristo, spezzano
sacrilegamente le tavole dei comandamenti di Dio per sostituirle con
tavole e norme dalle quali è bandita la sostanza etica della rivelazione
del Sinai, lo spirito del Sermone della montagna e della croce? Chi
potrebbe senza profondo accoramento osservare come questi deviamenti
maturino un tragico raccolto tra coloro che, nei giorni della quiete e
della sicurezza, si annoveravano tra i seguaci di Cristo, ma che -
purtroppo, cristiani più di nome che di fatto - nell'ora in cui bisogna
resistere, lottare, soffrire, affrontare le persecuzioni occulte o palesi,
divengono vittime della pusillanimità, della debolezza, dell'incertezza
e, presi da terrore di fronte ai sacrifici imposti dalla loro professione
cristiana, non trovano la forza di bere il calice amaro dei fedeli di
Cristo?
In queste condizioni di tempo e di spirito, venerabili fratelli, possa
l'imminente festa di Cristo re, in cui vi sarà pervenuta questa Nostra
prima enciclica, essere un giorno di grazia e di profondo rinnovamento e
risveglio nello spirito del regno di Cristo. Sia un giorno, in cui la
consacrazione del genere umano al Cuore divino, la quale dev'essere
celebrata in modo particolarmente solenne, riunisca presso il trono
dell'eterno Re i fedeli di tutti i popoli e di tutte le nazioni in
adorazione e in riparazione, per rinnovare a lui e alla sua legge di
verità e di amore il giuramento di fedeltà ora e sempre. Sia un giorno
di grazia per i fedeli, in cui il fuoco, che il Signore è venuto a
portare sulla terra, si sviluppi in fiamma sempre più luminosa e pura.
Sia un giorno di grazia per i tiepidi, gli stanchi, gli annoiati, e nel
loro cuore, divenuto pusillanime, maturino nuovi frutti di rinnovamento di
spirito, e di rinvigorimento d'animo. Sia un giorno di grazia anche per
coloro che non hanno conosciuto Cristo o che l'hanno perduto; un giorno in
cui si elevi al cielo da milioni di cuori fedeli la preghiera: "La
luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo" (Gv 1,9) possa
rischiarare loro la via della salute e la sua grazia possa suscitare nel
cuore inquieto degli erranti la nostalgia verso i beni eterni, nostalgia
che spinga al ritorno a colui, che dal doloroso trono della croce ha sete
anche delle loro anime e desiderio cocente di divenire anche per esse
"via, verità e vita" (Gv 14,6).
Ponendo questa prima enciclica del Nostro pontificato sotto il segno di
Cristo re con cuore pieno di fiduciosa speranza, Ci sentiamo interamente
sicuri del consenso unanime ed entusiastico dell'intero gregge del
Signore. Le esperienze, le ansietà e le prove dell'ora presente
risvegliano, acuiscono e purificano il sentimento della comunanza della
famiglia cattolica in un grado raramente sperimentato. Esse eccitano in
tutti i credenti in Dio e in Cristo la coscienza di una comune minaccia da
parte di un comune pericolo.
Di questo spirito di comunanza cattolica, potentemente aumentato in così
ardue circostanze, e che è raccoglimento e affermazione, risolutezza e
volontà di vittoria, Noi sentimmo un soffio consolante e indimenticabile
in quei giorni, in cui con trepido passo ma fiduciosi in Dio, prendemmo
possesso della cattedra che la morte del Nostro grande predecessore aveva
lasciata vacante.
Con il vivo ricordo delle innumerevoli testimonianze di filiale
attaccamento alla chiesa e al vicario di Cristo, rivolteCi in occasione
della Nostra elezione e incoronazione, con manifestazioni così tenere,
così calde e spontanee, Ci piace cogliere questa occasione propizia, per
rivolgere a voi, venerabili fratelli, e a quanti appartengono al gregge
del Signore, una parola di commosso ringraziamento per tale pacifico
plebiscito di amore riverente e di inconcussa fedeltà al papato, con il
quale si veniva a riconoscere la provvidenziale missione del sommo
sacerdote e del supremo pastore. Poiché veramente tutte quelle
manifestazioni non erano né potevano essere rivolte alla Nostra povera
persona, ma all'unico, altissimo ufficio, al quale il Signore Ci elevava.
Se già fin da quel primo momento sentivamo tutto il peso delle gravi
responsabilità, connesse con la somma potestà, che Ci veniva conferita
dalla Provvidenza divina, Ci era insieme di conforto il vedere quella
grandiosa e palpabile dimostrazione dell'inscindibile unità della chiesa
cattolica, che tanto più compatta si stringe alla infrangibile rupe di
Pietro e le forma attorno tanto più forti murali e antemurali, quanto
più cresce la baldanza dei nemici di Cristo.
Questo stesso plebiscito di mondiale unità cattolica e di soprannaturale
fraternità di popoli attorno al Padre comune, Ci pareva tanto più ricco
di felici speranze, quanto più tragiche erano le circostanze materiali e
spirituali del momento in cui avveniva; e il suo ricordo Ci andò
confortando anche nei primi mesi del Nostro pontificato, nei quali abbiamo
già sperimentato le fatiche, le ansietà e le prove, di cui è seminato
il cammino della sposa di Cristo attraverso il mondo.
Né vogliamo passare sotto silenzio quanta eco di commossa riconoscenza
abbia suscitato nel Nostro cuore l'augurio di coloro che, sebbene non
appartengano al corpo visibile della chiesa cattolica, non hanno
dimenticato, nella loro nobiltà e sincerità, di sentire tutto ciò che,
o nell'amore alla persona di Cristo o nella credenza di Dio, li unisce a
Noi. A tutti vada l'espressione della Nostra gratitudine. Affidiamo tutti
e ciascuno alla protezione e alla guida del Signore e assicuriamo
solennemente che un solo pensiero domina la Nostra mente: imitare
l'esempio del buon pastore, per condurre tutti alla vera felicità,
"affinché abbiano la vita e l'abbiano abbondantemente" (Gv
10,10).
Ma in singolar modo Ci sentiamo mossi dall'animo Nostro a far palese
l'intima Nostra gratitudine per i segni di riverente omaggio pervenutiCi
da sovrani, da capi di stato e da pubbliche autorità di quelle nazioni,
con le quali la Santa Sede si trova in amichevoli rapporti. E a
particolare letizia si eleva il Nostro cuore nel potere, in questa prima
enciclica indirizzata a tutto il popolo cristiano sparso nel mondo, porre
in tal novero la diletta Italia, fecondo giardino della fede piantata dai
prìncipi degli apostoli, la quale, mercè la provvidenziale opera dei
Patti Lateranensi, occupa ora un posto d'onore tra gli stati ufficialmente
rappresentati presso la sede apostolica. Da quei Patti ebbe felice inizio,
come aurora di tranquilla e fraterna unione di animi innanzi ai sacri
altari e nel consorzio civile, la "pace di Cristo restituita
all'Italia"; pace, per il cui sereno cielo supplichiamo il Signore
che pervada, avvivi, dilati e corrobori fortemente e profondamente l'anima
del popolo italiano, a Noi tanto vicino, in mezzo al quale respiriamo il
medesimo alito di vita, invocando e augurandoci che questo popolo, così
caro ai Nostri predecessori e a Noi, fedele alle sue gloriose tradizioni
cattoliche, senta sempre più nell'alta protezione divina la verità delle
parole del Salmista: "Beato il popolo, che per suo Dio ha il
Signore" (Sal 143,15).
Questa auspicata nuova situazione giuridica e spirituale, che quell'opera,
destinata a lasciare una impronta indelebile nella storia, ha creato e
suggellato per l'Italia e per tutto l'Orbe cattolico, non Ci apparve mai
così grandiosa e unificatrice, come quando dall'eccelsa loggia della
Basilica Vaticana Noi aprimmo e levammo per la prima volta le Nostre
braccia e la Nostra mano benedicente su Roma, sede del papato e Nostra
amatissima città natale, sull'Italia riconciliata con la chiesa, e sui
popoli del mondo intero.
Come vicario di Colui, il quale in un'ora decisiva, dinanzi al
rappresentante della più alta autorità terrena di allora, pronunziò la
grande parola: "Io sono nato e venuto al mondo per render
testimonianza alla verità; chiunque sta per la verità ascolta la mia
voce" (Gv 18,37), Noi di nulla Ci sentiamo più debitori al Nostro
ufficio, e anche al nostro tempo, come di "rendere testimonianza alla
verità". Questo dovere, adempiuto con apostolica fermezza, comprende
necessariamente l'esposizione e la confutazione di errori e di colpe
umane, che è indispensabile conoscere, perché sia possibile la cura e la
guarigione: "Conoscerete la verità e la verità vi farà
liberi" (Gv 8,32). Nell'adempimento di questo Nostro dovere, non Ci
lasceremo influenzare da terrene considerazioni, né Ce ne tratterremo per
diffidenze e contrasti, per rifiuti e incomprensioni, né per timore di
misconoscimenti e di false interpretazioni. Ma lo faremo sempre animati da
quella paterna carità che, mentre soffre dei mali che travagliano i
figli, indica loro il rimedio, sforzandoCi cioè di imitare il divino
modello dei pastori, il buon pastore Gesù, che è luce insieme e amore:
"Seguendo il vero con amore" (Ef 4,15).
All'inizio del cammino, che conduce all'indigenza spirituale e morale dei
tempi presenti, stanno i nefasti sforzi di non pochi per detronizzare
Cristo, il distacco dalla legge della verità, che egli annunziò, dalla
legge dell'amore, che è il soffio vitale del suo regno. Il riconoscimento
dei diritti regali di Cristo e il ritorno dei singoli e della società
alla legge della sua verità e del suo amore sono la sola via di salvezza.
Nel momento in cui, venerabili fratelli, scriviamo queste righe, Ci giunge
la spaventosa notizia, che il terribile uragano della guerra, nonostante
tutti i Nostri tentativi di deprecarlo, si è già scatenato. La Nostra
penna vorrebbe arrestarsi, quando pensiamo all'abisso di sofferenze di
innumerevoli persone, a cui ancora ieri nell'ambiente familiare sorrideva
un raggio di modesto benessere. Il Nostro cuore paterno è preso da
angoscia, quando prevediamo tutto ciò che potrà maturare dal tenebroso
seme della violenza e dell'odio, a cui oggi la spada apre i solchi
sanguinosi. Ma proprio davanti a queste apocalittiche previsioni di
sventure imminenti e future, consideriamo Nostro dovere elevare con
crescente insistenza gli occhi e i cuori di coloro, in cui resta ancora un
sentimento di buona volontà verso l'Unico da cui deriva la salvezza del
mondo, verso l'Unico, la cui mano onnipotente e misericordiosa può
imporre fine a questa tempesta, verso l'Unico, la cui verità e il cui
amore possono illuminare le intelligenze e accendere gli animi di tanta
parte dell'umanità, immersa nell'errore nell'egoismo, nei contrasti e
nella lotta, per riordinarla nello spirito della regalità di Cristo.
Forse - Dio lo voglia - è lecito sperare che quest'ora di massima
indigenza sia anche un'ora di mutamento di pensiero e di sentire per
molti, che finora con cieca fiducia incedevano per il cammino di diffusi
errori moderni, senza sospettare quanto fosse insidioso e incerto il
terreno su cui si trovavano. Forse molti, che non capivano l'importanza
della missione educatrice e pastorale della chiesa, ora ne comprenderanno
meglio gli avvertimenti, da loro trascurati nella falsa sicurezza di tempi
passati. Le angustie del presente sono un'apologia del cristianesimo, che
non potrebbe essere più impressionante. Dal gigantesco vortice di errori
e movimenti anticristiani sono maturati frutti tanto amari da costituire
una condanna, la cui efficacia supera ogni confutazione teorica.
Ore di così penosa delusione sono spesso ore di grazia: un
"passaggio del Signore" (Es 12,11), in cui alla parola del
Salvatore: "Ecco, io sto alla porta e busso" (Ap 3,20) si aprono
le porte, che altrimenti sarebbero rimaste chiuse. Dio sa con quale amore
compassionevole, con quale santa gioia il Nostro cuore si volge a coloro
che, in seguito a simili dolorose esperienze, sentono in sé nascere il
desiderio impellente e salutare della verità, della giustizia e della
pace di Cristo. Ma anche per coloro, per i quali non è ancora suonata
l'ora della suprema illuminazione, il Nostro cuore non conosce che amore e
le Nostre labbra non hanno che preghiere al Padre dei lumi, perché faccia
splendere nei loro animi indifferenti o nemici di Cristo un raggio di
quella luce, che un giorno trasformò Saulo in Paolo, di quella luce che
ha mostrato la sua forza misteriosa proprio nei tempi più difficili per
la chiesa.
Una presa di posizione dottrinale completa contro gli errori dei tempi
presenti può essere rinviata, se occorrerà, ad altro momento meno
sconvolto dalle sciagure degli esterni eventi: ora Ci limitiamo ad alcune
fondamentali osservazioni.
Il tempo presente, venerabili fratelli, aggiungendo alle deviazioni
dottrinali del passato nuovi errori, li ha spinti a estremi, dai quali non
poteva seguire se non smarrimento e rovina. Innanzitutto è certo che la
radice profonda e ultima dei mali che deploriamo nella società moderna
sta nella negazione e nel rifiuto di una norma di moralità universale,
sia della vita individuale, sia della vita sociale e delle relazioni
internazionali; il misconoscimento cioè, così diffuso ai nostri tempi, e
l'oblio della stessa legge naturale.
Questa legge naturale trova il suo fondamento in Dio, creatore onnipotente
e padre di tutti, supremo e assoluto legislatore, onnisciente e giusto
vindice delle azioni umane. Quando Dio viene rinnegato, rimane anche
scossa ogni base di moralità, si soffoca, o almeno si affievolisce di
molto, la voce della natura, che insegna, persino agli indotti e alle
tribù non pervenute a civiltà, ciò che è bene e ciò che è male, il
lecito e l'illecito, e fa sentire la responsabilità delle proprie azioni
davanti a un Giudice supremo.
Orbene, la negazione della base fondamentale della moralità ebbe in
Europa la sua originaria radice nel distacco da quella dottrina di Cristo,
di cui la cattedra di Pietro è depositaria e maestra; dottrina che un
tempo aveva dato coesione spirituale all'Europa, la quale, educata,
nobilitata e ingentilita dalla croce, era pervenuta a tal grado di
progresso civile da diventare maestra di altri popoli e di altri
continenti. Distaccatisi invece dal magistero infallibile della chiesa,
non pochi fratelli separati sono arrivati fino a sovvertire il dogma
centrale del cristianesimo, la divinità del Salvatore, accelerando così
il processo di spirituale dissolvimento.
Narra il santo vangelo che quando Gesù venne crocifisso, "si fece
buio per tutta la terra" (Mt 27,45): spaventoso simbolo di ciò che
avvenne e continua ad avvenire spiritualmente dovunque l'incredulità,
cieca e orgogliosa di sé, ha di fatto escluso Cristo dalla vita moderna,
specialmente dalla vita pubblica, e con la fede in Cristo ha scosso anche
la fede in Dio. I valori morali, secondo i quali in altri tempi si
giudicavano le azioni private e pubbliche, sono andati, per conseguenza,
come in disuso; e la tanto vantata laicizzazione della società, che ha
fatto sempre più rapidi progressi, sottraendo l'uomo, la famiglia e lo
stato all'influsso benefico e rigeneratore dell'idea di Dio e
dell'insegnamento della chiesa, ha fatto riapparire anche in regioni,
nelle quali per tanti secoli brillarono i fulgori della civiltà
cristiana, sempre più chiari, sempre più distinti, sempre più
angosciosi i segni di un paganesimo corrotto e corruttore:
"Quand'ebbero crocifisso Gesù si fece buio".(4)
Molti forse nell'allontanarsi dalla dottrina di Cristo, non ebbero piena
coscienza di venire ingannati dal falso miraggio di frasi luccicanti, che
proclamavano simile distacco quale liberazione dal servaggio in cui
sarebbero stati prima ritenuti; né prevedevano le amare conseguenze del
triste baratto tra la verità, che libera, e l'errore, che asservisce; né
pensavano che, rinunziando all'infinitamente saggia e paterna legge di
Dio, all'unificante ed elevante dottrina di amore di Cristo, si
consegnavano all'arbitrio di una povera mutabile saggezza umana: parlarono
di progresso, quando retrocedevano; di elevazione, quando si degradavano;
di ascesa alla maturità, quando cadevano in servaggio; non percepivano la
vanità d'ogni sforzo umano per sostituire la legge di Cristo con qualche
altra cosa che la uguagli: "divennero fatui nei loro
ragionamenti" (Rm 1,21).
Affievolitasi la fede in Dio e in Gesù Cristo, e oscuratasi negli animi
la luce dei princìpi morali, venne scalzato l'unico e insostituibile
fondamento di quella stabilità e tranquillità, di quell'ordine interno
ed esterno, privato e pubblico, che solo può generare e salvaguardare la
prosperità degli stati.
Certamente, anche quando l'Europa era affratellata da identici ideali
ricevuti dalla predicazione cristiana, non mancarono dissidi,
sconvolgimenti e guerre, che la desolarono; ma forse non si sperimentò
mai più acutamente lo scoramento dei nostri giorni sulla possibilità di
comporli, essendo allora viva quella coscienza del giusto e dell'ingiusto,
del lecito e dell'illecito, che agevola le intese, mentre frena lo
scatenarsi delle passioni e lascia aperta la via a una onesta
composizione. Ai nostri giorni, al contrario, i dissidi non provengono
soltanto da impeto di passione ribelle, ma da una profonda crisi
spirituale, che ha sconvolto i sani principi della morale privata e
pubblica.
***
Fra i molteplici errori, che scaturiscono dalla fonte avvelenata
dell'agnosticismo religioso e morale, vogliamo attirare la vostra
attenzione, venerabili fratelli, sopra due in modo particolare, come
quelli che rendono quasi impossibile, o almeno precaria e incerta, la
pacifica convivenza dei popoli.
Il primo di tali perniciosi errori, oggi largamente diffuso, è la
dimenticanza di quella legge di umana solidarietà e carità, che viene
dettata e imposta sia dalla comunanza di origine e dall'uguaglianza della
natura razionale in tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, sia
dal sacrificio di redenzione offerto da Gesù Cristo sull'ara della croce
al Padre suo celeste in favore dell'umanità peccatrice.
Infatti, la prima pagina della Scrittura, con grandiosa semplicità, ci
narra come Dio, quale coronamento della sua opera creatrice, fece l'uomo a
sua immagine e somiglianza (Gn 1,26-27); e la stessa Scrittura ci insegna
che lo arricchì di doni e privilegi soprannaturali, destinandolo a
un'eterna ineffabile felicità. Ci mostra inoltre come dalla prima coppia
trassero origine gli altri uomini, di cui ci fa seguire, con insuperata
plasticità di linguaggio, la divisione in vari gruppi e la dispersione
nelle varie parti del mondo. Anche quando si allontanarono dal loro
Creatore, Dio non cessò di considerarli come figli, i quali, secondo il
suo misericordioso disegno, dovevano un giorno essere ancora una volta
riuniti nella sua amicizia (cf. Gn 12,3).
L'apostolo delle genti poi si fa l'araldo di questa verità, che
affratella gli uomini in una grande famiglia, quando annunzia al mondo
greco che Dio "trasse da uno stesso ceppo la progenie tutta degli
uomini, perché popolasse l'intera superficie della terra, e determinò la
durata della loro esistenza e i confini della loro abitazione, affinché
cercassero il Signore ..." (At 17,26-27). Meravigliosa visione, che
ci fa contemplare il genere umano nell'unità di una comune origine in
Dio: "Un solo Dio e padre di tutti, colui che è sopra tutti e per
tutti e in tutti" (Ef 4,6): nell'unità della natura, ugualmente
costituita in tutti di corpo materiale e di anima spirituale e immortale;
nell'unità del fine immediato e della sua missione nel mondo; nell'unità
di abitazione, la terra, dei beni della quale tutti gli uomini possono per
diritto naturale giovarsi, al fine di sostentare e sviluppare la vita;
nell'unità del fine soprannaturale, Dio stesso, al quale tutti debbono
tendere; nell'unità dei mezzi, per conseguire tale fine.
E lo stesso apostolo ci mostra l'umanità nell'unità dei rapporti con il
Figlio di Dio, immagine del Dio invisibile, "in cui tutte le cose
sono state create" (Col 1,16); nell'unità del suo riscatto, operato
per tutti da Cristo, il quale restituì l'infranta originaria amicizia con
Dio mediante la sua santa acerbissima passione, facendosi mediatore tra
Dio e gli uomini: "Poiché uno è Dio, uno è anche il mediatore fra
Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù" (1Tm 2,5).
E per rendere più intima tale amicizia, tra Dio e l'umanità, questo
stesso Mediatore divino e universale di salvezza e di pace, nel sacro
silenzio del cenacolo, prima di consumare il sacrificio supremo, lasciò
cadere dalle sue labbra divine la parola che si ripercuote altissima
attraverso i secoli, suscitando eroismi di carità in mezzo a un mondo
vuoto d'amore e dilaniato dall'odio: "Ecco il mio comandamento:
amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi" (Gv 15,12).
Verità soprannaturali sono queste che stabiliscono profonde basi e
fortissimi comuni vincoli di unione, rafforzati dall'amore di Dio e del
Redentore divino, dal quale tutti ricevono la salute "per
l'edificazione del corpo di Cristo, finché non giungiamo tutti insieme
all'unità della fede, alla piena conoscenza del Figlio di Dio, allo stato
di uomo perfetto, secondo la misura della pienezza di Cristo" (Ef
4,12-13).
Al lume di questa unità di diritto e di fatto dell'umanità intera gli
individui non ci appaiono slegati tra loro, quali granelli di sabbia,
bensì uniti in organiche, armoniche e mutue relazioni, varie con il
variar dei tempi, per naturale e soprannaturale destinazione e impulso. E
le genti, evolvendosi e differenziandosi secondo condizioni diverse di
vita e di cultura, non sono destinate a spezzare l'unità del genere
umano, ma ad arricchirlo e abbellirlo con la comunicazione delle loro
peculiari doti e con quel reciproco scambio dei beni, che può essere
possibile e insieme efficace, solo quando un amore mutuo e una carità
vivamente sentita unisce tutti i figli dello stesso Padre e tutti i
redenti dal medesimo sangue divino.
La chiesa di Cristo, fedelissima depositaria della divina educatrice
saggezza, non può pensare né pensa d'intaccare o disistimare le
caratteristiche particolari, che ciascun popolo con gelosa pietà e
comprensibile fierezza custodisce e considera qual prezioso patrimonio. Il
suo scopo è l'unità soprannaturale nell'amore universale sentito e
praticato, non l'uniformità, esclusivamente esterna, superficiale e per
ciò stesso debilitante. Tutte quelle direttive e cure, che servono ad un
saggio ordinato svolgimento di forze e tendenze particolari, le quali
hanno radici nei più riposti penetrali d'ogni stirpe, purché non si
oppongano ai doveri derivanti all'umanità dall'unità d'origine e comune
destinazione, la chiesa le saluta con gioia e le accompagna con i suoi
voti materni. Essa ha ripetutamente mostrato, nella sua attività
missionaria, che tale norma è la stella polare del suo apostolato
universale. Innumerevoli ricerche e indagini di pionieri, compiute con
sacrificio, dedizione e amore dai missionari d'ogni tempo, si sono
proposte di agevolare l'intera comprensione e il rispetto delle civiltà
più svariate, e di renderne i valori spirituali fecondi per una viva e
vitale predicazione dell'evangelo di Cristo. Tutto ciò che in tali usi e
costumi non è indissolubilmente legato con errori religiosi troverà
sempre benevolo esame e, quando riesce possibile, verrà tutelato e
promosso. E il Nostro immediato predecessore, di santa e venerata memoria,
applicando tali norme a una questione particolarmente delicata, prese
generose decisioni, che innalzano un monumento alla vastità del suo
intuito e all'ardore del suo spirito apostolico. Né è necessario,
venerabili fratelli, annunziarvi che Noi vogliamo incedere senza
esitazione per questa via. Tutti coloro che entrano nella chiesa,
qualunque sia la loro origine o la lingua, devono sapere che hanno uguale
diritto di figli nella casa del Signore, dove dominano la legge e la pace
di Cristo. In conformità con queste norme di uguaglianza, la chiesa
consacra le sue cure a formare un elevato clero indigeno e ad aumentare
gradualmente le file dei vescovi indigeni. Al fine di dare a queste
intenzioni espressione esteriore, abbiamo scelto l'imminente festa di
Cristo re per elevare alla dignità episcopale, sul sepolcro del principe
degli apostoli, dodici rappresentanti dei più diversi popoli e stirpi.
Tra i laceranti contrasti che dividono l'umana famiglia, possa quest'atto
solenne proclamare a tutti i Nostri figli, sparsi nel mondo, che lo
spirito, l'insegnamento e l'opera della chiesa non potranno mai essere
diversi da ciò che l'apostolo delle genti predicava: "Rivestitevi
dell'uomo nuovo, che si rinnovella dimostrandosi conforme all'immagine di
Colui che lo ha creato; in esso non esiste più greco e giudeo, circonciso
e incirconciso, barbaro e scita, schiavo e libero, ma tutto e in tutti è
Cristo" (Col 3,10-11).
Né è da temere che la coscienza della fratellanza universale, fomentata
dalla dottrina cristiana, e il sentimento che essa ispira, siano in
contrasto con l'amore alle tradizioni e alle glorie della propria patria,
o impediscano di promuoverne la prosperità e gli interessi legittimi,
poiché la medesima dottrina insegna che nell'esercizio della carità
esiste un ordine stabilito da Dio, secondo il quale bisogna amare più
intensamente e beneficare di preferenza coloro che sono a noi uniti con
vincoli speciali. Anche il divino Maestro diede esempio di questa
preferenza verso la sua terra e la sua patria, piangendo sulle incombenti
rovine della città santa. Ma il legittimo giusto amore verso la propria
patria non deve far chiudere gli occhi sulla universalità della carità
cristiana, che fa considerare anche gli altri e la loro prosperità nella
luce pacificante dell'amore.
Tale è la meravigliosa dottrina di amore e di pace, che ha sì nobilmente
contribuito al progresso civile e religioso dell'umanità. E gli araldi
che l'annunziarono, mossi da soprannaturale carità, non solo dissodarono
terreni e curarono morbi, ma soprattutto bonificarono, plasmarono ed
elevarono la vita ad altezze divine, lanciandola verso i culmini della
santità, in cui tutto si vede nella luce di Dio; elevarono monumenti e
templi i quali mostrano a qual volo di geniali altezze spinga l'ideale
cristiano, ma soprattutto fecero degli uomini, saggi o ignoranti, potenti
o deboli, templi viventi di Dio e tralci della stessa vite, Cristo;
trasmisero alle generazioni future tesori di arte e di saggezza antica, ma
soprattutto le resero partecipi di quell'ineffabile dono della sapienza
eterna, che affratella gli uomini con un vincolo di soprannaturale
appartenenza.
***
Venerabili fratelli, se la dimenticanza della legge di carità universale,
che sola può consolidare la pace, spegnendo gli odi e attenuando i
rancori e i contrasti, è fonte di gravissimi mali per la convivenza
pacifica dei popoli, non meno dannoso al benessere delle nazioni e alla
prosperità della grande società umana, che raccoglie e abbraccia entro i
suoi confini tutte le genti, si dimostra l'errore contenuto in quelle
concezioni, le quali non dubitano di sciogliere l'autorità civile da
qualsiasi dipendenza dall'Ente supremo, causa prima e Signore assoluto sia
dell'uomo che della società, e da ogni legame di legge trascendente, che
da Dio deriva come da fonte primaria, e le concedono una facoltà
illimitata di azione, abbandonata all'onda mutevole dell'arbitrio o ai
soli dettami di esigenze storiche contingenti e di interessi relativi.
Rinnegata, in tal modo, l'autorità di Dio e l'impero della sua legge, il
potere civile, per conseguenza ineluttabile, tende ad attribuirsi
quell'assoluta autonomia, che solo compete al Supremo Fattore, e a
sostituirsi all'Onnipotente, elevando lo stato o la collettività a fine
ultimo della vita, a criterio sommo dell'ordine morale e giuridico, e
interdicendo, perciò, ogni appello ai princìpi della ragione naturale e
della coscienza cristiana.
Non disconosciamo, invero, che princìpi errati, fortunatamente, non
sempre esercitano intero il loro influsso, principalmente quando le
tradizioni cristiane, più volte secolari, di cui si sono nutriti i
popoli, rimangono ancora profondamente, anche se inconsciamente, radicate
nei cuori. Tuttavia, non bisogna dimenticare l'essenziale insufficienza e
fragilità di ogni norma di vita sociale che riposi su un fondamento
esclusivamente umano, s'ispiri a motivi esclusivamente terreni e riponga
la sua forza nella sanzione di un'autorità semplicemente esterna.
Dove è negata la dipendenza del diritto umano dal diritto divino, dove
non si fa appello che ad una malsicura idea di autorità meramente terrena
e si rivendica un'autonomia fondata soltanto sopra una morale utilitaria,
qui lo stesso diritto umano perde giustamente nelle sue applicazioni più
gravose la forza morale, che è la condizione essenziale per essere
riconosciuto e per esigere anche sacrifici.
È ben vero che il potere basato sopra fondamenti così deboli e
vacillanti può raggiungere talvolta, per circostanze contingenti,
successi materiali da destar meraviglia ad osservatori meno profondi; ma
viene il momento, nel quale trionfa l'ineluttabile legge che colpisce
tutto quanto è stato costruito sopra una latente o aperta sproporzione
tra la grandezza del successo materiale ed esterno e la debolezza del
valore interno e del suo fondamento morale. Sproporzione che sussiste
sempre, quando la pubblica autorità misconosce o rinnega il dominio del
sommo Legislatore, il quale se ha dato la potestà ai reggitori, ne ha per
altro segnato e determinato i limiti.
La sovranità civile è stata voluta dal Creatore, come sapientemente
insegna il Nostro grande predecessore Leone XIII nell'enciclica Immortale
Dei,(5) affinché regolasse la vita sociale secondo le prescrizioni di un
ordine immutabile nei suoi princìpi universali, rendesse più agevole
alla persona umana, nell'ordine temporale, il conseguimento della
perfezione fisica, intellettuale e morale e l'aiutasse a raggiungere il
fine soprannaturale.
È quindi nobile prerogativa e missione dello stato il controllare,
aiutare e ordinare le attività private e individuali della vita
nazionale, per farle convergere armonicamente al bene comune, il quale non
può essere determinato da concezioni arbitrarie, né ricevere la sua
norma primariamente dalla prosperità materiale della società, ma
piuttosto dallo sviluppo armonico e dalla perfezione naturale dell'uomo al
quale la società è destinata, quale mezzo, dal Creatore.
Considerare lo stato come fine, al quale ogni cosa dovrebbe essere
subordinata e indirizzata, non potrebbe che nuocere alla vera e durevole
prosperità delle nazioni. E ciò avviene, sia che tale dominio illimitato
venga attribuito allo stato, quale mandatario della nazione, del popolo, o
anche di una classe sociale, sia che venga preteso dallo stato, quale
padrone assoluto, indipendente da qualsiasi mandato.
Se lo stato infatti a sé attribuisce e ordina le iniziative private,
queste, governate come sono da delicate e complesse norme interne, che
garantiscono e assicurano il conseguimento dello scopo ad esse proprio,
possono essere danneggiate, con svantaggio del pubblico bene, venendo
avulse dall'ambiente loro naturale, cioè dalla responsabile attività
privata.
Anche la prima ed essenziale cellula della società, la famiglia, come il
suo benessere e il suo accrescimento, correrebbe allora il pericolo di
venir considerata esclusivamente sotto l'angolo della potenza nazionale e
si dimenticherebbe che l'uomo e la famiglia sono per natura anteriori allo
stato, e che il Creatore diede ad entrambi forze e diritti e assegnò una
missione, rispondente a indubbie esigenze naturali.
L'educazione delle nuove generazioni non mirerebbe a un equilibrato
armonico sviluppo delle forze fisiche e di tutte le qualità intellettuali
e morali, ma ad una unilaterale formazione di quelle virtù civiche, che
si considerano necessarie al conseguimento di successi politici; quelle
virtù invece, che danno alla società un profumo di nobiltà, d'umanità
e di rispetto, meno s'inculcherebbero, quasi deprimessero la fierezza del
cittadino.
Davanti al nostro sguardo si profilano con dolorosa chiarezza i pericoli
che temiamo potranno derivare a questa generazione e alle future dal
misconoscimento, dalla diminuzione e dalla progressiva abolizione dei
diritti della famiglia. Perciò Ci eleviamo a fermi difensori di tali
diritti in piena coscienza del dovere che Ci impone il Nostro apostolico
ministero. Le angustie dei nostri tempi, sia esterne che interne, sia
materiali che spirituali, i molteplici errori con le loro innumerevoli
ripercussioni da nessuno vengono assaporati così amaramente come nella
piccola nobile cellula familiare. Un vero coraggio e, nella sua
semplicità, un eroismo degno di ammirato rispetto sono spesso necessari
per sopportare le durezze della vita, il peso quotidiano delle miserie, le
crescenti indigenze e le ristrettezze in una misura mai prima
sperimentata, di cui spesso non si vede né la ragione né la reale
necessità. Chi ha cura d'anime, chi può indagare nei cuori, conosce le
nascoste lacrime delle madri, il rassegnato dolore di numerosi padri, le
innumerevoli amarezze, delle quali nessuna statistica parla né può
parlare; vede con sguardo preoccupato crescere sempre più il cumulo di
queste sofferenze e sa che le potenze dello sconvolgimento e della
distruzione stanno al varco, pronte a servirsene per i loro tenebrosi
disegni.
Nessuno, che abbia buona volontà e occhi aperti, potrà rifiutare nelle
condizioni straordinarie, in cui si trova il mondo, al potere dello stato
un corrispondente più ampio diritto eccezionale per sovvenire ai bisogni
del popolo. Ma l'ordine morale, stabilito da Dio, esige, anche in tali
contingenze, che s'indaghi tanto più seriamente e acutamente sulla
liceità di tali provvedimenti e sulla loro reale necessità, secondo le
norme del bene comune.
Ad ogni modo, quanto più gravosi sono i sacrifici materiali richiesti
dallo stato agli individui e alle famiglie, tanto più sacri e inviolabili
devono essergli i diritti delle coscienze. Può pretendere beni e sangue,
ma non mai l'anima da Dio redenta. La missione assegnata da Dio ai
genitori, di provvedere al bene materiale e spirituale della prole e di
procurare ad essa una formazione armonica pervasa da vero spirito
religioso, non può esser loro strappata senza grave lesione del diritto.
Questa formazione deve certamente aver anche lo scopo di preparare la
gioventù ad adempiere con intelligenza, coscienza e fierezza quei doveri
di nobile patriottismo, che dà alla patria terrestre tutta la dovuta
misura di amore, dedizione e collaborazione. Ma d'altra parte una
formazione che dimentichi, o peggio, volutamente trascuri di dirigere gli
occhi e il cuore della gioventù alla patria soprannaturale, sarebbe
un'ingiustizia contro gli inalienabili doveri e diritti della famiglia
cristiana, uno sconfinamento, a cui deve essere opposto un rimedio anche
nell'interesse del bene del popolo e dello stato. Una simile educazione
potrà forse sembrare a coloro, che ne portano la responsabilità, fonte
di aumentata forza e vigoria; in realtà sarebbe il contrario, e le tristi
conseguenze lo proverebbero. Il delitto di lesa maestà contro "il Re
dei re e il Signore dei dominanti" (1Tm 6,15; Ap 19,16), perpetrato
da un'educazione indifferente o avversa allo spirito cristiano, il
capovolgimento del "lasciate che i pargoli vengano a me" (Mc
10,14) porterebbero amarissimi frutti. Lo stato invece, che toglie ai
sanguinanti e lacerati cuori dei padri e delle madri cristiane le loro
preoccupazioni e ristabilisce i loro diritti, promuove la sua stessa pace
interna e pone il fondamento per un più felice avvenire della patria. Le
anime dei figli, donati da Dio ai genitori, consacrati nel battesimo con
il sigillo regale di Cristo, sono un sacro deposito, su cui vigila l'amore
geloso di Dio. Lo stesso Cristo, che ha pronunziato il "lasciate che
i pargoli vengano a me", ha anche minacciato, nonostante la sua
misericordia e bontà, terribili mali a coloro che danno scandalo ai
prediletti del suo cuore. E quale scandalo più dannoso alle generazioni e
più duraturo di una formazione della gioventù mal diretta verso una
méta, che allontana da Cristo, "via, verità e vita", e conduce
ad un'apostasia manifesta o occulta da Cristo? Questo Cristo, da cui si
vogliono alienare le giovani generazioni presenti e future, è quello
stesso che dall'Eterno Padre ha ricevuto ogni potere in cielo e in terra.
Egli tiene nella sua mano onnipotente il destino degli stati, dei popoli e
delle nazioni. Appartiene a lui il diminuire o prolungare la vita,
l'accrescimento, la prosperità e la grandezza. Di tutto ciò che è sulla
terra, solo l'anima vive immortale. Un sistema di educazione che non
rispettasse il recinto sacro della famiglia cristiana, protetto dalla
santa legge di Dio, ne attaccasse le basi, chiudesse alla gioventù il
cammino a Cristo, alle fonti di vita e di gioia del Salvatore (cf. Is
12,3), considerasse l'apostasia da Cristo e dalla chiesa come simbolo di
fedeltà al popolo o a una determinata classe, pronuncerebbe contro se
stesso la condanna e sperimenterebbe a suo tempo l'ineluttabile verità
delle parole del profeta: "Coloro che si ritirano da te, saranno
scritti in terra" (Ger 17,13).
***
La concezione che assegna allo stato un'autorità illimitata non è,
venerabili fratelli, soltanto un errore pernicioso alla vita interna delle
nazioni, alla loro prosperità e al maggiore e ordinato incremento del
loro benessere, ma arreca altresì nocumento alle relazioni fra i popoli,
perché rompe l'unità della società soprannazionale, toglie fondamento e
valore al diritto delle genti, apre la via alla violazione dei diritti
altrui e rende difficili l'intesa e la convivenza pacifiche.
Infatti il genere umano, quantunque per disposizione dell'ordine naturale
stabilito da Dio si divida in gruppi sociali, nazioni o stati,
indipendenti gli uni dagli altri, in quanto riguarda il modo di
organizzare e di dirigere la loro vita interna, è tuttavia legato, da
mutui vincoli morali e giuridici, in una grande comunità, ordinata al
bene di tutte le genti e regolata da leggi speciali, che ne tutelano
l'unità e ne promuovono la prosperità.
Ora non è chi non veda come l'affermata autonomia assoluta dello stato si
ponga in aperto contrasto con questa legge immanente e naturale, la neghi
anzi radicalmente, lasciando in balìa della volontà dei reggitori la
stabilità delle relazioni internazionali, e togliendo la possibilità di
una vera unione e di una collaborazione feconda in ordine all'interesse
generale. Perché, venerabili fratelli, all'esistenza di contatti armonici
e duraturi e di relazioni fruttuose è indispensabile che i popoli
riconoscano e osservino quei princìpi di diritto naturale internazionale,
che regolano il loro normale svolgimento e funzionamento. Tali princìpi
esigono il rispetto dei relativi diritti all'indipendenza, alla vita e
alla possibilità di uno svolgimento progressivo nelle vie della civiltà;
esigono, inoltre, la fedeltà ai patti, stipulati e sanciti in conformità
alle norme del diritto delle genti.
Il presupposto indispensabile di ogni pacifica convivenza tra le leggi e
l'anima delle relazioni giuridiche, vigenti fra di esse, è senza dubbio
la mutua fiducia, la previsione e persuasione della reciproca fedeltà
alla parola data, la certezza che dall'una e dall'altra parte si è
convinti che "meglio è la sapienza che le armi guerresche" (cf.
Eccle 9,18) e si è disposti a discutere e a non ricorrere alla forza o
alla minaccia della forza nel caso in cui sorgessero ritardi, impedimenti,
mutamenti e contestazioni: cose tutte che possono anche derivare non da
cattiva volontà, ma da mutate circostanze e da reali interessi
contrastanti.
Ma d'altra parte, staccare il diritto delle genti dall'àncora del diritto
divino, per fondarlo sulla volontà autonoma degli stati, significa
detronizzare quello stesso diritto e togliergli i titoli più nobili e
più validi, abbandonandolo all'infausta dinamica dell'interesse privato e
dell'egoismo collettivo tutto intento a far valere i propri diritti e a
disconoscere quelli degli altri.
È pur vero che, col volgere del tempo e il mutar sostanziale delle
circostanze, non previste e forse neanche prevedibili all'atto della
stipulazione, un trattato o alcune sue clausole possono divenire o
apparire ingiusti o inattuabili o troppo gravosi per una delle parti, ed
è chiaro che, quando ciò avvenisse, si dovrebbe tempestivamente
procedere a una leale discussione per modificare o sostituire il patto. Ma
il considerare i patti per principio come effimeri e l'attribuirsi
tacitamente la facoltà di rescinderli unilateralmente, quando più non
convenissero, toglierebbe ogni fiducia reciproca fra gli stati. E così
rimarrebbe scardinato l'ordine naturale, e verrebbero scavate delle fosse
incolmabili di separazione fra i vari popoli e nazioni.
Oggi, venerabili fratelli, tutti osservano con spavento l'abisso a cui
hanno portato gli errori da Noi caratterizzati e le loro pratiche
conseguenze. Son cadute le orgogliose illusioni di un progresso
indefinito; e chi ancora non fosse desto, il tragico presente lo
scuoterebbe con le parole del profetar "Ascoltate, o sordi, e
rimirate, o ciechi" (Is 42,18). Ciò che appariva esternamente
ordine, non era se non invadente perturbamento: scompiglio nelle norme di
vita morale, le quali si erano staccate dalla maestà della legge divina e
avevano inquinato tutti i campi dell'umana attività. Ma lasciamo il
passato e rivolgiamo gli occhi verso quell'avvenire che, secondo le
promesse dei potenti di questo mondo, cessati i sanguinosi scontri
odierni, consisterà in un nuovo ordinamento, fondato sulla giustizia e
sulla prosperità. Sarà tale avvenire veramente diverso, sarà
soprattutto migliore? I trattati di pace, il nuovo ordine internazionale
alla fine di questa guerra saranno animati da giustizia e da equità verso
tutti, da quello spirito, il quale libera e pacifica, o saranno una
lamentevole ripetizione di antichi e recenti errori? Sperare un decisivo
mutamento esclusivamente dallo scontro guerresco e dal suo sbocco finale
è vano, e l'esperienza ce lo dimostra. L'ora della vittoria è un'ora
dell'esterno trionfo per la parte che riesce a conseguirla; ma è in pari
tempo l'ora della tentazione, in cui l'angelo della giustizia lotta con il
dèmone della violenza; il cuore del vincitore troppo facilmente
s'indurisce; la moderazione e una lungimirante saggezza gli appaiono
debolezza; il bollore delle passioni popolari, attizzato dai sacrifici e
dalle sofferenze sopportate, vela spesso l'occhio anche ai responsabili e
fa sì che non badino alla voce ammonitrice dell'umanità e dell'equità,
sopraffatta o spenta dall'inumano "Guai ai vinti!". Le
risoluzioni e le decisioni nate in tali condizioni rischierebbero di non
essere che ingiustizia sotto il manto della giustizia.
No, venerabili fratelli, la salvezza non viene ai popoli dai mezzi
esterni, dalla spada, che può imporre condizioni di pace, ma non crea la
pace. Le energie, che devono rinnovare la faccia della terra, devono
procedere dall'interno, dallo spirito. Il nuovo ordine del mondo, la vita
nazionale e internazionale, una volta cessate le amarezze e le crudeli
lotte presenti, non dovrà più riposare sulla infida sabbia di norme
mutabili ed effimere, lasciate all'arbitrio dell'egoismo collettivo e
individuale. Esse devono piuttosto appoggiarsi sull'inconcusso fondamento,
sulla roccia incrollabile del diritto naturale e della divina rivelazione.
Ivi il legislatore umano deve attingere quello spirito di equilibrio,
quell'acuto senso di responsabilità morale, senza cui è facile
misconoscere i limiti tra il legittimo uso e l'abuso del potere. Solamente
così le sue decisioni avranno interna consistenza, nobile dignità e
sanzione religiosa, e non saranno alla mercé dell'egoismo e della
passione. Se è vero che i mali di cui soffre l'umanità odierna
provengono in parte dallo squilibrio economico e dalla lotta degli
interessi per una più equa distribuzione dei beni che Dio ha concessa
all'uomo come mezzi per il suo sostentamento e il suo progresso, non è
men vero che la loro radice è più profonda e interna, poiché tocca le
credenze religiose e le convinzioni morali pervertitesi con il progressivo
distaccarsi dei popoli dall'unità di dottrina e di fede, di costumi e di
morale, una volta promossa dall'opera indefessa e benefica della chiesa.
La rieducazione dell'umanità, se vuole sortire qualche effetto, deve
essere soprattutto spirituale e religiosa: deve, quindi, muovere da Cristo
come da suo fondamento indispensabile, essere attuata dalla giustizia e
coronata dalla carità.
Compiere quest'opera di rigenerazione, adattando i suoi mezzi alle mutate
condizioni dei tempi e ai nuovi bisogni del genere umano, è ufficio
essenziale e materno della chiesa. La predicazione dell'evangelo,
affidatale dal suo divino Fondatore, nella quale vengono inculcate agli
uomini la verità, la giustizia e la carità, e lo sforzo di radicarne
saldamente i precetti negli animi e nelle coscienze, sono il più nobile e
più fruttuoso lavoro in favore della pace. Questa missione, nella sua
grandiosità, sembrerebbe dover scoraggiare i cuori di coloro che formano
la chiesa militante. Ma l'adoprarsi alla diffusione del regno di Dio, che
ogni secolo compì in vari modi, con diversi mezzi, con molteplici e dure
lotte, è un comando a cui è obbligato chiunque sia stato strappato dalla
grazia del Signore alla schiavitù di satana e chiamato nel battesimo ad
essere cittadino di quel regno. E se appartenere ad esso, vivere conforme
al suo spirito, lavorare al suo incremento e rendere accessibili i suoi
beni anche a quella parte dell'umanità che ancora non ne fa parte, ai
giorni nostri equivale a dover affrontare impedimenti e opposizioni vaste,
profonde e minuziosamente organizzate, come mai prima, ciò non dispensa
dalla franca e coraggiosa professione di fede, ma incita piuttosto a tener
fermo nella lotta, anche a prezzo dei massimi sacrifici. Chi vive dello
spirito di Cristo non si lascia abbattere dalle difficoltà che si
oppongono, anzi si sente spinto a lavorare con tutte le sue forze e con
piena fiducia in Dio; non si sottrae alle strettezze e necessità
dell'ora, ma ne affronta le durezze pronto al soccorso, con quell'amore
che non rifugge dal sacrificio, è più forte della morte, e non si lascia
spegnere dalle impetuose acque della tribolazione.
Un intimo conforto, una gioia celeste, per cui giornalmente rivolgiamo a
Dio il Nostro ringraziamento umile e profondo, Ci dà, venerabili
fratelli, l'osservare in tutte le regioni del mondo cattolico evidenti
segni di uno spirito che coraggiosamente affronta i compiti giganteschi
dell'epoca presente, che con generosità e decisione è teso a riunire in
feconda armonia con il primo ed essenziale dovere della santificazione
propria anche l'attività apostolica per l'accrescimento del regno di Dio.
Dal movimento dei congressi eucaristici, promossi con amorosa cura dai
Nostri predecessori, e dalla collaborazione dei laici, formati nell'Azione
cattolica alla profonda coscienza della loro nobile missione, promanano
fonti di grazia e riserve di forze, che, nei tempi attuali, in cui
aumentano le minacce, maggiori sono i bisogni e arde la lotta tra
cristianesimo e anticristianesimo, difficilmente potrebbero essere
adeguatamente stimate.
Quando si deve con tristezza osservare la sproporzione tra il numero e i
compiti dei sacerdoti, quando vediamo verificarsi anche oggi la parola del
Salvatore: "La messe è molta, gli operai sono pochi" (Mt 9,37;
Lc 10,2), la collaborazione dei laici all'apostolato gerarchico, numerosa,
animata da ardente zelo e generosa dedizione, appare un prezioso ausilio
all'opera dei sacerdoti e mostra possibilità di sviluppo che legittimano
le più belle speranze. La preghiera della chiesa al Signore della messe,
perché mandi operai nella sua vigna (cf. Mt 9,38; Lc 10,2) è stata
esaudita in maniera conforme alle necessità dell'ora presente, e
felicemente supplisce e completa le energie, spesso impedite e
insufficienti, dell'apostolato sacerdotale. Una fervida falange di uomini
e di donne di giovani e di giovinette, ubbidendo alla voce del sommo
pastore, alle direttive dei loro vescovi, si consacra con tutto l'ardore
dell'anima alle opere dell'apostolato, per ricondurre a Cristo le masse di
popolo che da lui s'erano distaccate. Ad essi vada in questo momento,
così importante per la chiesa e l'umanità, il Nostro saluto paterno, il
Nostro commosso ringraziamento, la Nostra fiduciosa speranza. Essi hanno
veramente posto la loro vita e la loro opera sotto il vessillo di Cristo
re, e possono ripetere con il Salmista: "Al re io espongo le opere
mie" (Sal 44,1). "Venga il tuo regno" è non solamente il
voto ardente delle loro preghiere, ma anche la direttiva del loro operare.
In tutte le classi, in tutte le categorie, in tutti i gruppi questa
collaborazione del laicato con il sacerdozio rivela preziose energie, a
cui è affidata una missione che cuori nobili e fedeli non potrebbero
desiderare più alta e consolante. Questo lavoro apostolico, compiuto
secondo lo spirito della chiesa, consacra il laico quasi a "ministro
di Cristo" in quel senso che sant'Agostino così spiega: "O
fratelli, quando udite il Signore che dice: "Dove sono io, ivi sarà
pure il mio ministro", non vogliate correre col pensiero soltanto ai
buoni vescovi e ai buoni chierici. Anche voi, a modo vostro, dovete essere
ministri di Cristo, vivendo bene, facendo elemosine, predicando il suo
nome e la sua dottrina a chi potrete, di modo che ognuno, anche se padre
di famiglia, riconosca di dovere, anche per tale titolo, alla sua famiglia
un affetto paterno. Per Cristo e per la vita eterna ammonisca i suoi, li
istruisca, li esorti, li rimproveri, loro dimostri benevolenza, li
contenga nell'ordine; così egli eserciterà in casa sua l'ufficio di
chierico e in certo qual modo di vescovo, servendo a Cristo, per essere
con lui in eterno".(6)
Nel promuovere questa collaborazione dei laici all'apostolato, così
importante ai tempi nostri, spetta una speciale missione alla famiglia,
perché lo spirito della famiglia influisce essenzialmente sullo spirito
delle giovani generazioni. Fino a che nel focolare domestico splende la
sacra fiamma della fede in Cristo e i genitori foggiano e plasmano la vita
dei figli conforme a questa fede, la gioventù sarà sempre pronta a
riconoscere nelle sue prerogative regali il Redentore, e ad opporsi a chi
lo vuole bandire dalla società o ne vìola sacrilegamente i diritti.
Quando le chiese vengono chiuse, quando si toglie dalle scuole l'immagine
del Crocifisso, la famiglia resta il rifugio provvidenziale e, in un certo
senso, inattaccabile della vita cristiana. E rendiamo infinite grazie a
Dio nel vedere che innumerevoli famiglie compiono questa loro missione con
una fedeltà, che non si lascia abbattere né da attacchi né da
sacrifici. Una potente schiera di giovani e di giovinette, anche in quelle
regioni dove la fede in Cristo significa sofferenza e persecuzione,
restano fermi presso il trono del Redentore con quella tranquillità e
sicura decisione, che Ci fa ricordare i tempi più gloriosi delle lotte
della chiesa. Quali torrenti di beni si riverserebbero sul mondo, quanta
luce, quanto ordine, quanta pacificazione verrebbero alla vita sociale,
quante energie insostituibili e preziose potrebbero contribuire a
promuovere il bene dell'umanità, se si concedesse ovunque alla chiesa,
maestra di giustizia e di amore, quella possibilità di azione, alla quale
ha un diritto sacro e incontrovertibile in forza del mandato divino!
Quante sciagure potrebbero venir evitate, quanta felicità e tranquillità
sarebbero create, se gli sforzi sociali e internazionali per stabilire la
pace si lasciassero permeare dai profondi impulsi dell'evangelo dell'amore
nella lotta contro l'egoismo individuale e collettivo!
Tra le leggi che regolano la vita dei fedeli cristiani e i postulati di
una genuina umanità non vi è contrasto, ma comunanza e mutuo appoggio.
Nell'interesse dell'umanità sofferente e profondamente scossa
materialmente e spiritualmente, Noi non abbiamo desiderio più ardente di
questo: che le angustie presenti aprano gli occhi a molti, affinché
considerino nella loro vera luce il Signore Gesù Cristo e la missione
della sua chiesa su questa terra, e che tutti coloro i quali esercitano il
potere si risolvano a lasciare alla chiesa libero il cammino per lavorare
alla formazione delle generazioni, secondo i princìpi della giustizia e
della pace. Questo lavoro pacificatore suppone che non si frappongano
impedimenti all'esercizio della missione affidata da Dio alla sua chiesa,
non si restringa il campo della sua attività e non si sottraggano le
masse, e specialmente la gioventù, al suo benefico influsso. Perciò Noi,
come rappresentanti sulla terra di colui, che fu detto dal profeta
"Principe della pace" (Is 9,6), facciamo appello ai reggitori
dei popoli e a coloro che hanno in qualsiasi modo influenza nella cosa
pubblica, affinché la chiesa goda sempre piena libertà di compiere la
sua opera educatrice, annunziando alle menti la verità, inculcando la
giustizia, e riscaldando i cuori con la divina carità di Cristo.
Se la chiesa, da una parte, non può rinunziare all'esercizio di questa
sua missione, che ha come fine ultimo di attuare quaggiù il disegno
divino di "instaurare tutte le cose in Cristo, sia le celesti sia le
terrestri" (Ef 1,10), dall'altra, oggi la sua opera si dimostra piú
che in ogni altro tempo necessaria, giacché una triste esperienza insegna
che i soli mezzi esterni e i provvedimenti umani e gli espedienti politici
non portano un efficace lenimento ai mali, dai quali l'umanità è
travagliata.
Edotti appunto dal fallimento doloroso degli espedienti umani per
allontanare le tempeste che minacciano di travolgere la civiltà nel loro
turbine, molti rivolgono con rinnovata speranza lo sguardo alla chiesa,
rocca di verità e di amore, a questa cattedra di Pietro, donde sentono
che può essere ridonata al genere umano quell'unità di dottrina
religiosa e di codice morale, che in altri tempi diede consistenza alle
relazioni pacifiche tra i popoli. Unità, a cui guardano con occhio di
nostalgico rimpianto tanti uomini responsabili delle sorti delle nazioni,
i quali esperimentano giornalmente quanto siano vani i mezzi, nei quali un
giorno avevano posto fiducia; unità, che è il desiderio delle schiere
tanto numerose dei Nostri figli, i quali invocano quotidianamente "il
Dio di pace e di amore" (cf. 2Cor 13,11); unità, che è l'attesa di
tanti nobili spiriti, da Noi lontani, i quali nella loro fame e sete di
giustizia e di pace, volgono gli occhi alla sede di Pietro e ne aspettano
guida e consiglio.
Essi riconoscono nella chiesa cattolica la bimillenaria saldezza delle
norme di fede e di vita, l'incrollabile compattezza della gerarchia
ecclesiastica, la quale, unita al successore di Pietro, si prodiga
nell'illuminare le menti con la dottrina dell'evangelo, nel guidare e
santificare gli uomini, ed è larga di materna condiscendenza verso tutti,
ma ferma, quando, anche a prezzo di tormenti o di martirio, ha da
pronunziare: "Non è lecito".
Eppure, venerabili fratelli, la dottrina di Cristo, che sola può fornire
all'uomo fondamento di fede, tale da allargargli ampiamente la vista e
dilatargli divinamente il cuore e dare un rimedio efficace alle odierne
gravissime difficoltà, e l'operosità della chiesa per insegnare quella
dottrina, diffonderla e modellare gli animi secondo i suoi precetti, sono
fatte talvolta oggetto di sospetti, quasi che scuotessero i cardini della
civile autorità e ne usurpassero i diritti.
Contro tali sospetti Noi con apostolica sincerità dichiariamo - fermo
restando tutto ciò che il Nostro predecessore Pio XI di v.m. nella sua
enciclica Quas primas dell'11 dicembre 1925 insegnò circa la potestà di
Cristo re e della sua chiesa che simili scopi sono del tutto alieni dalla
chiesa medesima, la quale allarga le sue braccia materne verso questo
mondo, non per dominare, ma per servire. Essa non pretende di sostituirsi
nel campo loro proprio alle altre autorità legittime, ma offre loro il
suo aiuto, sull'esempio e nello spirito del suo divino Fondatore, il quale
"passò beneficando" (At 10,38).
La chiesa predica e inculca obbedienza e rispetto all'autorità terrena,
che trae da Dio la sua nobile origine, e si attiene all'insegnamento del
divino Maestro, che disse: "Date a Cesare quel che appartiene a
Cesare" (Mt 22,21); non ha mire usurpatrici e canta nella sua
liturgia: "Non rapisce i regni terreni Colui che dà i regni
celesti".(7) Non deprime le energie umane, ma le eleva a tutto ciò
che è magnanimo e generoso e forma caratteri, che non transigono con la
coscienza. Né essa, che rese civili i popoli, ha mai ritardato il
progresso dell'umanità, del quale anzi con materna fierezza si compiace e
gode. Il fine della sua attività fu dichiarato mirabilmente dagli angeli
sulla culla del Verbo incarnato, quando cantarono gloria a Dio e
annunziarono pace agli uomini di buona volontà (cf. Lc 2,14). Questa
pace, che il mondo non può dare, è stata lasciata come eredità ai suoi
discepoli dallo stesso divino Redentore: "Vi lascio la pace, vi do la
mia pace" (Gv 14,27); e così seguendo la sublime dottrina di Cristo,
compendiata da lui medesimo nel duplice precetto dell'amore di Dio e del
prossimo, milioni di anime l'hanno conseguita, la conseguono e la
conseguiranno. La storia - chiamata sapientemente da un sommo oratore
romano "maestra della vita"(8) - da quasi duemila anni dimostra
quanto sia vera la parola della Scrittura, che non avrà pace chi resiste
a Dio (cf. Gb 9,4). Poiché Cristo solo è la "pietra angolare"
(cf. Ef 2,20), sulla quale l'uomo e la società possono trovare stabilità
e salvezza.
Su questa pietra angolare è fondata la chiesa, e perciò contro di essa
le potenze avverse non potranno mai prevalere: "Le porte dell'inferno
non prevarranno" (Mt 16,18), né potranno mai svigorirla, ché anzi
le lotte interne ed esterne contribuiscono ad accrescerne la forza e ad
aumentare le corone delle sue gloriose vittorie. Al contrario, ogni altro
edificio che non si fondi saldamente sulla dottrina di Cristo, è
appoggiato sulla sabbia mobile, e destinato a rovinare miseramente (cf. Mt
7,26-27).
Venerabili fratelli, il momento in cui vi giunge questa Nostra prima
enciclica è sotto più aspetti una vera ora delle tenebre (cf. Lc 22,53),
in cui lo spirito della violenza e della discordia versa sull'umanità una
sanguinosa coppa di dolori senza nome. È forse necessario assicurarvi che
il Nostro cuore paterno è vicino in compassionevole amore a tutti i suoi
figli, e in modo speciale ai tribolati, agli oppressi, ai perseguitati? I
popoli, travolti nel tragico vortice della guerra, sono forse ancora
soltanto agli "inizi dei dolori" (Mt 24,8), ma già in migliaia
di famiglie regnano morte e desolazione, lamento e miseria. Il sangue di
innumerevoli esseri umani, anche non combattenti, eleva uno straziante
lamento specialmente sopra una diletta nazione, quale è la Polonia, che
per la sua fedeltà verso la chiesa, per i suoi meriti nella difesa della
civiltà cristiana, scritti a caratteri indelebili nei fasti della storia,
ha diritto alla simpatia umana e fraterna del mondo, e attende, fiduciosa
nella potente intercessione di Maria "Soccorso dei cristiani"
l'ora di una risurrezione corrispondente ai princìpi della giustizia e
della vera pace.
Ciò che testé è accaduto e ancora accade appariva al Nostro sguardo
come una visione, quando, non essendo ancora scomparsa ogni speranza,
nulla lasciammo intentato, nella forma suggeritaci dal Nostro apostolico
ministero e dai mezzi a Nostra disposizione, per impedire il ricorso alle
armi e tener aperta la via ad una intesa, onorevole per ambedue le parti.
Convinti che all'uso della forza da una parte avrebbe risposto il ricorso
alle armi dall'altra, considerammo come dovere imprescindibile del Nostro
apostolico ministero e dell'amore cristiano di metter tutto in opera, per
risparmiare all'umanità intera e alla cristianità gli orrori di una
conflagrazione mondiale, anche se vi era pericolo che le Nostre intenzioni
e i Nostri scopi venissero fraintesi. I Nostri ammonimenti, se furono
rispettosamente ascoltati, non vennero peraltro seguiti. E mentre il
Nostro cuore di pastore osserva dolorante e preoccupato, si affaccia al
Nostro sguardo l'immagine del buon pastore e Ci sembra di dover ripetere
al mondo, in nome suo, il lamento:
"Oh, se conoscessi ... quello che giova alla tua pace! Ma ora questo
è celato ai tuoi occhi!" (Lc 19,42).
In mezzo a questo mondo, che presenta oggi uno stridente contrasto alla
pace di Cristo nel regno di Cristo, la chiesa e i suoi fedeli si trovano
in tempi e anni di prove, quali raramente si conobbero nella sua storia di
lotte e sofferenze. Ma proprio in simili tempi, chi rimane fermo nella
fede e ha robusto il cuore, sa che Cristo re non è mai tanto vicino
quanto nell'ora della prova, che è l'ora della fedeltà. Con cuore
straziato per le sofferenze e i patimenti di tanti suoi figli, ma con il
coraggio e la fermezza che provengono dalle promesse del Signore, la sposa
di Cristo cammina verso le incombenti procelle. Ed essa sa: la verità,
che essa annunzia, la carità, che insegna e mette in opera, saranno gli
insostituibili consiglieri e cooperatori degli uomini di buona volontà
nella ricostruzione di un nuovo mondo, secondo la giustizia e l'amore,
dopo che l'umanità, stanca di correre per le vie dell'errore, avrà
assaporato gli amari frutti dell'odio e della violenza.
Nel frattempo, però, venerabili fratelli, il mondo e tutti coloro che
sono colpiti dalla calamità della guerra devono sapere che il dovere
dell'amore cristiano, cardine fondamentale del regno di Cristo, non è una
parola vuota, ma una viva realtà. Un vastissimo campo si apre alla
carità cristiana in tutte le sue forme. Abbiamo piena fiducia che tutti i
Nostri figli, specialmente coloro che non sono provati dal flagello della
guerra, si ricordino, imitando il divino Samaritano, di tutti coloro che,
essendo vittime della guerra, hanno diritto alla pietà e al soccorso.
La chiesa cattolica, città di Dio, "che ha per re la verità, per
legge la carità, per misura l'eternità",(9) annunziando senza
errori né diminuzioni la verità di Cristo, lavorando secondo l'amore di
Cristo con slancio materno, sta come una beata visione di pace sopra il
vortice di errori e passioni e aspetta il momento in cui la mano
onnipotente di Cristo re sederà la tempesta e bandirà gli spiriti della
discordia che l'hanno provocata. Quanto sta in Nostro potere per
accelerare il giorno in cui la colomba della pace su questa terra,
sommersa dal diluvio della discordia, troverà dove posare il piede, Noi
continueremo a farlo, fidando in quegli eminenti uomini di stato che prima
dello scoppio della guerra si sono nobilmente adoperati per allontanare
dai popoli un tanto flagello; fidando nei milioni di anime di tutti i
paesi e di tutti i campi, che invocano non solo giustizia, bensì anche
carità e misericordia; ma soprattutto fidando in Dio onnipotente, al
quale giornalmente rivolgiamo la preghiera: "All'ombra delle tue ali
mi rifugio, finché passi la calamità" (Sal 56,2).
Dio può tutto: al pari della felicità e delle sorti dei popoli, tiene
nelle sue mani anche gli umani consigli e, in qualsiasi parte egli voglia,
dolcemente li inclina: anche gli ostacoli per la sua onnipotenza sono
mezzi a plasmare le cose e gli eventi e a volgere le menti e i liberi
voleri ai suoi altissimi fini.
Pregate, quindi, venerabili fratelli, pregate senza interruzione, pregate,
soprattutto, quando offrite il divino sacrificio d'amore. Pregate voi, ai
quali la professione coraggiosa della fede impone oggi duri, penosi e non
di rado eroici sacrifici; pregate voi, membra sofferenti e doloranti della
chiesa, quando Gesù viene a consolare e lenire le vostre pene.
E non dimenticate di rendere, mediante un vero spirito di mortificazione e
degne opere di penitenza, le vostre preghiere più accette agli occhi di
Colui "che sostiene tutti coloro che cadono e rialza tutti gli
abbattuti" (Sal 144,14), affinché egli nella sua misericordia
abbrevi i giorni della prova e si avverino così le parole del Salmo:
"Gridarono al Signore nella loro tribolazione, e dalle loro angustie
li liberò" (Sal 106,13).
E voi, candide legioni di bimbi, che siete tanto amati e prediletti da
Gesù, nel comunicarvi col Pane di vita innalzate le vostre ingenue e
innocenti preghiere e unitele a quelle di tutta la chiesa. All'innocenza
supplicante non resiste il cuore di Gesù che vi ama: pregate tutti,
"pregate senza interruzione" (1Ts 5,17).
In tal modo metterete in pratica il sublime precetto del divino Maestro,
il più sacro testamento del suo cuore, "che tutti siano una cosa
sola" (Gv 17,21), che tutti vivano in quell'unità di fede e di
amore, da cui riconosca il mondo la potenza e l'efficacia della missione
di Cristo e dell'opera della sua chiesa.
La chiesa primitiva comprese e attuò questo divino precetto e lo espresse
in una magnifica preghiera; e voi unitevi con gli stessi sentimenti, che
tanto bene rispondono alle necessità dell'ora presente: "Ricòrdati,
o Signore, della tua chiesa, per liberarla da ogni male e perfezionarla
nella tua carità e, santificàtala, raccòglila da ogni parte del mondo
nel regno tuo, che le hai preparato; poiché tua è la virtù e la gloria
per tutti i secoli".(10)
Nella fiducia che Dio, autore e amante della pace, ascolti le suppliche
della chiesa, vi impartiamo come pegno dell'abbondanza delle grazie
divine, dalla pienezza del Nostro animo paterno, l'apostolica benedizione.
Castel Gandolfo, presso Roma, il 20 ottobre dell'anno 1939, I del
Nostro pontificato.
PIO PP. XII
(1) PIUS PP. XII, Litt. enc. Summi pontificatus de summi pontificatus
munere, [Venerabilibus Fratribus Patriarchis, Primatibus, Archiepiscopis,
Episcopis aliisque locorum Ordinariis pacem et communionem cum Apostolica
Sede habentibus], 20 octobris 1939: AAS 31(1939), pp. 413-453. - Versione
italiana: AAS 31(1939), pp. 454-480.
Programma di pontificato. A quarant'anni dalla sua ordinazione sacerdotale
e dalla consacrazione dell'umanità a Cristo re. Dolorose constatazioni:
allontanamento dalla fede, invito al rinnovamento e al ritorno al cuore di
Cristo. Ricordo dell'elezione e incoronazione; un solo desiderio: essere
il "buon pastore" per tutti. Primo pensiero per l'Italia.
Rendere testimonianza alla verità. Il terribile uragano della guerra
all'orizzonte. i frutti amari di errori e movimenti anticristiani.
Osservazione fondamentale: il rifiuto di una norma di moralità universale
privata e pubblica. Errori derivanti dall'agnosticismo religioso e morale:
dimenticanza della solidarietà, della comune origine, della fratellanza
universale con gravi danni per la convivenza pacifica dei popoli;
negazione della dipendenza del diritto umano dal diritto divino. Lo stato
non ha un'autorità illimitata: deve far convergere tutto al bene comune.
L'uomo e la famiglia sono anteriori allo stato. Ferma difesa dei diritti
della famiglia. Rispetto del diritto internazionale, del diritto delle
genti, come presupposto della pacifica convivenza. I patti vanno
rispettati. - Il nuovo ordine internazionale non può stabilirsi con le
armi, deve fondarsi sul diritto naturale e rivelato, sulla giustizia e la
carità. Fermo impegno della chiesa, ma gli operai sono pochi. La
collaborazione del laicato con i sacerdoti nell'apostolato. La famiglia ha
una missione speciale. La chiesa rivendica per sé libertà d'azione
nell'annuncio dell'evangelo. Davanti al fallimento degli espedienti umani,
i popoli guardano alla cattedra di Pietro e aspettano guida e consiglio.
La dottrina della chiesa è fondamento sicuro per l'uomo e la società. -
L'ora delle tenebre, l'inizio di tragici eventi, la guerra in Polonia. Gli
amari frutti dell'odio e della violenza. La preghiera per ottenere la fine
delle tribolazioni e un'era nuova.
(2) Acta Leonis XIII, vol. XIX, p. 71; EE 3.
(3) Cf. Litt. enc. Quas primas: AAS 17(1925), pp. 593-610; EE 5/140-163.
(4) Breviarium Romanum, Parasc., respons. IV.
(5) Acta Leonis XIII, vol V, p. 118; EE 3.
(6) In Ev. Io., tract: 51, n. 13.
(7) Hymn. Fest. Epiph.
(8) CIC., Orat., 1. II, 9.
(9) S. AUG., Ep. 86, ad Marcellinum, c. 3, n. 17.
(10) Doctr. Apost., c. 10.
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