Lettera mai pubblicata,
indirizzata dal figlio del questore Giancarlo Candrilli a Vincenzo
Cecchini, Direttore del "Giornale di Brescia", in merito alla
"cronaca" giudiziaria del giornalista Bruno Marini.
Roma, 19 gennaio 1974
Egregio Signor Direttore,
Infine (numero del 13 giugno 1945) vuole fare apparire l'ex questore come
un vanesio ed uno sgrammaticato e formula le seguenti considerazioni nel
resoconto del dibattimento: "Candrilli parla con molto sussiego del
suo passato d'industriale (é sempre stata la sua debolezza questa: egli
amava raccontare lunghe e complicate storie di lotte fra le industrie del
sud e i grandi capitalisti del nord, lotte che finivano sempre, per il suo
coraggio e il suo fiuto, con sfolgoranti personali vittorie; dirgli in
qualunque occasione, che egli aveva il temperamento dell'industriale era
come mormorare ad una zitella senza speranza dolcissime parole d'amore; si
ammansiva gonfiandosi d'orgoglio, con commovente umorismo) o marcando le
parole, con goffa prosopopea, afferma di essere in possesso della licenza
liceale, dimenticandosi evidentemente di alcune lettere da lui scritte con
marchiani errori". La prosa su riportata dimostra soltanto che il
livore di parte, portò il giornalista anche ad ironizzare con gusto che
si qualifica da sé, su circostanze per le quali, dato il particolare
frangente in cui si trovava l'imputato, l'ironia era quantomeno fuori
luogo.
AI riguardo le accluse fotocopie di documenti attestano che Manlio
Candrilli fu:
a) industriale zolfifero;
b) esperto alla Corporazione per lo zolfo;
c) sindaco dell'Ente per il miglioramento dell'industria zolfifera
Siciliana;
d) autore di due pubblicazioni "Lo zolfo alla Corporazione"
(1938) e "L'Ente Nazionale Zolfo" (1939), nella prima inquadrò
il problema dell'industria zolfifera e nella seconda ne propose la
radicale soluzione, che sfociò poi per espresso volere di Mussolini,
nella creazione di quell'Ente Zolfi Italiani, rimasto in vita sino a pochi
anni or sono. Questo, egregio Direttore, l'opera svolta in quei lontani
anni dal giornalista Marini sulla quale ho voluto riferire con animo
sereno e soprattutto senza rancore alcuno, anche se in tono
necessariamente polemico.
E' indubbio che i giornali, come le Sentenze della Magistratura,
costituiscono elementi dimostrativi ed insostituibili per interpretare
un'epoca ed un costume. Comunque il 1 settembre 1945 Manlio Candrilli, a
soli 52 anni, concludeva la sua vita terrena sotto i colpi del plotone
d'esecuzione al grido di "Viva l'Italia" dopo aver
"perdonato tutti coloro che gli avevano fatto del male".
Ventotto anni dopo, alla stessa età, Marini muore.
Io mi scuso per essermi così dilungato e mi auguro
che Ella pubblichi questa mia lettera perché dovrebbe essere chiaro a
tutti che il diffondere la verità nell'interesse della storia e della
giustizia è un fondamentale dovere da compiersi in piena coscienza senza
preoccuparsi delle eventuali ripercussioni e nella certezza, anzi, che
tale comportamento gioverebbe in ogni modo alla serietà del nostro
costume civile e politico.Sono il figlio del maggiore dei bersaglieri Manlio
Candrilli che durante la R.S.I. ricoprì la carica di Questore di Brescia
e che nel dopoguerra, dopo essere stato condannato a morte dalla locale
Corte d'Assise Straordinaria e fucilato il 1° settembre 1945, venne
assolto post mortem con sentenza della Corte Suprema di Cassazione del 27
novembre 1959.
Da tempo avevo in animo di rivolgermi a Lei, che ritengo non abbia vissuto
a Brescia nell'immediato dopoguerra, per renderLa edotta, proprio nella
Sua veste di direttore del " Giornale di Brescia" di alcune
'inesattezze' che furono pubblicate in quel periodo dal giornale da Lei
diretto sul conto di mio Padre.
Al riguardo io La prego, nonostante il tempo trascorso, di voler
cortesemente pubblicare la presente lettera che vuole rappresentare una
postuma rettifica, obiettivamente doverosa, nei confronti di quelle
inesattezze.
Sono sicuro che Ella non giudicherà inopportuna e ingenua tale richiesta
che anzi La troverà consenziente: sia perché Lei si renderà ben conto
della legittimità del desiderio di un figlio che è animato
dall'esclusivo intendimento di salvaguardare la memoria del proprio Padre;
sia perché non è possibile, neanche lontanamente pensare che dopo
ventotto anni di vita democratica del nostro Paese, il Suo giornale sia
rimasto quello del 1945, tanto da respingere con senso di intolleranza le
idee ed i sentimenti che si distinguano in qualche modo da quelli
ufficialmente in corso.
Inoltre Ella vorrà convenire che l'argomento oggetto della presente,
indipendentemente dall'angolazione di visuale dalla quale verrà
esaminato, non potrà non essere accolto con interesse dai Suoi lettori.
Debbo confessarLe che mi ha spinto a scriverLe soprattutto un avvenimento
verificatosi circa sette mesi or sono: la morte del giornalista avvocato
Bruno Marini.
Nel corso dei lunghi anni che si sono susseguiti dal 1945 al giugno 1973
non ho mai cercato di incontrare il defunto Marini, pur avendo invece dei
buoni motivi per farlo, in quanto nella mia vita, per educazione ricevuta
e per fede religiosa, ho sempre osservato senza alcuna eccezione, il
principio evangelico del perdono.
Inoltre l'incontro non ha avuto luogo perché sin dall'inizio ho
considerato Marini un uomo con il quale non valesse la pena mettersi in
contatto avendo Egli dimostrato, almeno in alcuni frangenti, sui quali mi
soffermerò in appresso, faziosità, cinismo e mancanza di sensibilità
umana.
Il corale cordoglio espresso da Lei, dai numerosi amici, dai conoscenti,
dai concittadini del morto (quali risulta dalle pagine del Suo giornale di
giovedì 21 giugno 1973), condiviso anche da persone professanti idee
politiche certamente diverse da quelle del medesimo, quali l'ex gerarca
fascista Fernando Feliciani ed il giornalista missino Elio Barucco, mi ha
lasciato inizialmente perplesso e mi ha fatto a lungo riflettere.
Se Marini uomo, giornalista, avvocato, ha suscitato così generale
rimpianto ed è stato ricordato in termini tanto entusiasti e riverenti,
se in Tribunale ed in Pretura si è proceduto in pubblica udienza alla sua
commemorazione, se addirittura il Primo cittadino di Brescia ha sentito la
necessità di rievocano in uno scritto interpretando 'la riconoscenza
delle mille e mille persone che custodiscono vivo il ricordo del bene che
"Egli" ha saputo fare al prossimo in ogni circostanza" si
dovrebbe concludere che Marini è stato veramente un uomo di levatura non
comune.
Né, d'altra parte, è possibile pensare che tali manifestazioni di
generale compianto abbiano origine soltanto dall'impressione e, perché
no, dall'inconscia paura, che generalmente suscitano le morti premature ed
improvvise. Ma, purtroppo nella vita di Marini c'è una pagina che
nonostante l'unanime giudizio favorevole espresso su di Lui, mi fa
ritenere ancora giusta la decisione presa a suo tempo di non incontrarlo.
Una pagina che non è facile conciliare con tutte le doti di generosità,
di bontà, di cuore e di rettitudine professionale che gli sono state
pubblicamente riconosciute. In proposito non intendo certo riferirmi alla
mancanza da parte sua dì coerenza politica. Piuttosto al fatto che Egli
nei mesi immediatamente successivi all'aprile 1945, quale giornalista, si
assunse secondo me (e forse il parere potrà essere condiviso da molti
altri) una grave responsabilità: quella di diventare attore ed interprete
(importa poco se d'iniziativa o per incarico ricevuto) di quella campagna
di stampa, calunniosa e vile, rappresentata dalla serie di articoli in cui
Egli si occupò di mio Padre nei giorni dell'arresto e del processo.
Calunniosa, perché Marini qualifica il mio genitore "famigerato
questore", "ripugnante sicario delle esecuzioni fasciste"
"bieco figuro", "miserabile sgherro", "triviale
smargiasso", "bieco criminale", e lo giudica "elemento
violento, facinoroso, feroce" e "capace dì qualsiasi pessima
azione". Vile, perché Egli non considera minimamente che l'imputato
stava per affrontare la prova decisiva di un processo politico con
conseguenze prevedibili di estrema gravità o soprattutto che il medesimo
si trovava nella assoluta impossibilità di difendersi.
Inoltre al di là del caso specifico, basta dare uno sguardo a tutte le
cronache giudiziarie" redatte da Marini in quei giorni per stabilire
che i termini da Lui usati nei confronti dei vinti" ebbero
caratteristiche di uniformità. Era un clima di eccezionale tensione e
proprio questo clima avrebbe dovuto suggerire una certa dose di prudenza.
Anche uno sprovveduto si sarebbe accorto che i processi ai quali assisteva
erano, come li definì allora lo scrittore Silvestri, "feroci
disonoranti sagre di vendetta, non riti di giustizia". E cosa ancora
più grave, Egli non firma quella prosa inqualificabile ma la fa
pubblicare "anonima", non so se per conferire ad essa la
paternità al giornale e per mancanza di quel coraggio che come Lei,
Signor Direttore, ha riferito, Lui stesso diceva di non possedere.
Mi sembra superfluo dilungarmi in questa sede sui gratuiti apprezzamenti
ai quali ha fatto cenno in precedenza e sui particolari relativi alle
false infamanti accuse che furono allora lanciate contro l'ex questore.
Desidero soltanto sottolineare tre punti, perché se è vero che perdonare
significa considerare chiuso un episodio, mettere una pietra sul passato,
decidere un determinato comportamento per i nostri liberi atti di
relazione, non desiderare il male di nessuno e principalmente non fare
male ad alcuno, è altrettanto vero che perdonare non significa essere
immuni da idiosincrasia verso colui che ha diffamato, approvare il male
fatto e soprattutto essere disposti a coprire per sempre con l'oblio il
male stesso.
In primo luogo (numero del 15 maggio 1945) da Il Giornale di
Brescia Marini giunge a definire Manlio Candrilli sedicente maggiore dei
bersaglieri. Al riguardo per constatare che tale qualifica spettava
legittimamente all'esponente fascista, ufficiale superiore proveniente dal
servizio permanente effettivi, basterà che Ella osservi le accluse
fotocopie delle pagine, riprodotte l'una accanto all'altra, dal bollettino
ufficiale del Ministero della Difesa riflettenti la prima i provvedimenti
di perdita del grado e di degradazione inflitti a seguito della condanna a
morte e la seconda l'annullamento del Decreto dei Presidente della
Repubblica relative ai suddetti provvedimenti, dopo l'assoluzione post
mortem pronunziata dalla Corte Suprema di Cassazione.
Poi (numero del 12 giugno 1945) così descrive la figura dell'imputato
all'inizio del processo: 'le grosse labbra saracene screpolate ed aride,
profonde occhiaie, bluastre borse di grasso annerite che gli arrivano sino
agli zigomi, tutta una gonfia rete di vene alle tempie, con quello strano
color grigio che assumono le carnagioni brune quando sono fortemente
impallidite, con i suoi grossolani e carnosi lineamenti afflosciati,
Candrilli ha tutte le caratteristiche nel suo pretenzioso doppio petto
scuro di un volgare gangster ripulito". Esiste egregio Direttore, la
più ampia documentazione fotografica che il Candrilli era quello che sì
dice un bell'uomo nel senso più completo della parola. Chi lo conobbe, in
giovinezza e nella piena maturità, ricorda ancora la simpatia ed il
calore umano che emanavano da lui e l'interesse che suscitava
spontaneamente proprio per queste sue caratteristiche nel gentil sesso. Lo
stato fisico in cui lo "vedeva" Marini, in particolare quelle
"bluastre borse" e quella "gonfia rete di vene",
avrebbero dovuto sollecitare la sensibilità deduttiva del giornalista e
suggerirgli qualche considerazione sul "trattamento" che era
stato riservato in quei giorni all'ex-questore, di cui esiste
inconfutabile dettagliata documentazione.
Nell'attesa dì conoscere il Suo pensiero, La ringrazio e porgo distinti
saluti.
Giancarlo Candrilli
fonte: Ludovico Galli, Il questore di Brescia della
Repubblica Sociale Italiana, Brescia 2005, stampa a cura dell'autore, L.
Galli, via Pavoni, 21 25128 Brescia, pag. 45-51
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