Discorso
di Benedetto XVI nella sinagoga di Colonia
a cura di Maurilio Lovatti
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Gentili signore, illustri signori, Schalom lêchém! Era mio profondo desiderio, in
occasione della mia prima visita in Germania dopo l'elezione a successore
dell'apostolo Pietro, di incontrare la comunità ebraica di Colonia e i
rappresentanti del giudaismo tedesco. Con questa visita vorrei riallacciarmi
all'evento del 17 novembre 1980, quando il mio venerato predecessore Papa
Giovanni Paolo II nel suo primo viaggio in Germania, incontrò a Magonza il
Comitato Centrale Ebraico in Germania e la Conferenza Rabbinica. Voglio
confermare anche in questa circostanza che intendo continuare il cammino
verso il miglioramento dei rapporti e dell'amicizia con il popolo ebraico,
in cui Papa Giovanni Paolo II ha fatto passi decisivi (cfr Discorso alla
Delegazione dell'International Jewish Committee on Interreligious
Consultations del 9 giugno 2005: L'Oss. Rom. 10 giugno 2005, p. 5). Quest'anno si celebra il 60o anniversario della
liberazione dei campi di concentramento nazisti, nei quali milioni di ebrei
- uomini, donne e bambini - sono stati fatti morire nelle camere a gas e
bruciati nei forni crematori. Faccio mie le parole scritte dal mio venerato
Predecessore in occasione del 60o anniversario della liberazione di
Auschwitz e dico anch'io: "Chino il capo davanti a tutti coloro che
hanno sperimentato questa manifestazione del mysterium iniquitatis".
Gli avvenimenti terribili di allora devono "incessantemente destare le
coscienze, eliminare conflitti, esortare alla pace" (Messaggio per la
liberazione di Auschwitz: 15 gennaio 2005). Dobbiamo ricordarci insieme di
Dio e del suo sapiente progetto sul mondo da Lui creato: Egli, ammonisce il
Libro della Sapienza, è "amante della vita" (11,26). Ricorre quest'anno anche il 40° anniversario della
promulgazione della Dichiarazione Nostra aetate del Concilio Ecumenico
Vaticano II, che ha aperto nuove prospettive nei rapporti ebreo-cristiani
all'insegna del dialogo e della solidarietà. Questa Dichiarazione, nel
quarto capitolo, ricorda le nostre radici comuni e il ricchissimo patrimonio
spirituale che gli ebrei e i cristiani condividono. Sia gli ebrei che i
cristiani riconoscono in Abramo il loro padre nella fede (cfr Gal 3,7; Rm
4,11s), e fanno riferimento agli insegnamenti di Mosè e dei profeti. La
spiritualità degli ebrei come quella dei cristiani si nutre dei Salmi. Con
l'apostolo Paolo, i cristiani sono convinti che "i doni e la chiamata
di Dio sono irrevocabili" (Rm 11,29; cfr 9,6.11; 11,1s). In
considerazione della radice ebraica del cristianesimo (cfr Rm 11,16-24), il
mio venerato Predecessore, confermando un giudizio dei Vescovi tedeschi,
affermò: "Chi incontra Gesù Cristo incontra l'ebraismo"
(Insegnamenti, vol. III/2, 1980, p. 1272). La Dichiarazione conciliare Nostra aetate, pertanto,
"deplora gli odii, le persecuzioni e tutte le manifestazioni di
antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque" (n.
4). Dio ci ha creati tutti "a sua immagine" (cfr Gn 1,27),
onorandoci con questo di una dignità trascendente. Davanti a Dio tutti gli
uomini hanno la stessa dignità, a qualunque popolo, cultura o religione
appartengano. Per questa ragione la Dichiarazione Nostra aetate parla con
grande stima anche dei musulmani (cfr n. 3) e degli appartenenti alle altre
religioni (cfr n. 2). Sulla base della dignità umana comune a tutti, la
Chiesa cattolica "esecra come contraria alla volontà di Cristo
qualsiasi discriminazione tra gli uomini o persecuzione perpetrata per
motivi di razza o di colore, di condizione sociale o di religione" (Ibid.,
n. 5). La Chiesa è consapevole del suo dovere di trasmettere, nella
catechesi come in ogni aspetto della sua vita, questa dottrina alle nuove
generazioni che non sono state testimoni degli avvenimenti terribili
accaduti prima e durante la Seconda Guerra Mondiale. E' un compito di
speciale importanza in quanto oggi purtroppo emergono nuovamente segni di
antisemitismo e si manifestano varie forme di ostilità generalizzata verso
gli stranieri. Come non vedere in ciò un motivo di preoccupazione e di
vigilanza? La Chiesa cattolica si impegna - lo riaffermo anche in questa
circostanza - per la tolleranza, il rispetto, l'amicizia e la pace tra tutti
i popoli, le culture e le religioni. Nei quarant'anni trascorsi dalla Dichiarazione
conciliare Nostra aetate, in Germania e a livello internazionale è stato
fatto molto per il miglioramento e l'approfondimento dei rapporti tra ebrei
e cristiani. Accanto alle relazioni ufficiali, grazie soprattutto alla
collaborazione tra gli specialisti in scienze bibliche, sono nate molte
amicizie. Ricordo, a questo proposito, le varie dichiarazioni della
Conferenza Episcopale Tedesca e l'attività benefica della "Società
per la collaborazione cristiano-ebraica di Colonia", che ha contribuito
a far sì che la comunità ebraica, a partire dall'anno 1945, potesse di
nuovo sentirsi "a casa" qui a Colonia e instaurasse una buona
convivenza con le comunità cristiane. Resta però ancora molto da fare.
Dobbiamo conoscerci a vicenda molto di più e molto meglio. Perciò
incoraggio un dialogo sincero e fiducioso tra ebrei e cristiani: solo così
sarà possibile giungere ad un'interpretazione condivisa di questioni
storiche ancora discusse e, soprattutto, fare passi avanti nella
valutazione, dal punto di vista teologico, del rapporto tra ebraismo e
cristianesimo. Questo dialogo, se vuole essere sincero, non deve passare
sotto silenzio le differenze esistenti o minimizzarle: anche nelle cose che,
a causa della nostra intima convinzione di fede, ci distinguono gli uni
dagli altri, anzi proprio in esse, dobbiamo rispettarci a vicenda. Infine, il nostro sguardo non dovrebbe volgersi solo
indietro, verso il passato, ma dovrebbe spingersi anche in avanti, verso i
compiti di oggi e di domani. Il nostro ricco patrimonio comune e il nostro
rapporto fraterno ispirato a crescente fiducia ci obbligano a dare insieme
una testimonianza ancora più concorde, collaborando sul piano pratico per
la difesa e la promozione dei diritti dell'uomo e della sacralità della
vita umana, per i valori della famiglia, per la giustizia sociale e per la
pace nel mondo. Il Decalogo (cfr Es 20; Dt 5) è per noi patrimonio e
impegno comune. I dieci comandamenti non sono un peso, ma l'indicazione del
cammino verso una vita riuscita. Lo sono, in particolare, per i giovani che
incontro in questi giorni e che mi stanno tanto a cuore. Il mio augurio è
che essi sappiano riconoscere nel Decalogo la lampada per i loro passi, la
luce per il loro cammino (cfr Sal 119,105). Ai giovani gli adulti hanno la
responsabilità di passare la fiaccola della speranza che da Dio è stata
data agli ebrei come ai cristiani, perché "mai più" le forze del
male arrivino al dominio e le generazioni future, con l'aiuto di Dio,
possano costruire un mondo più giusto e pacifico in cui tutti gli uomini
abbiano uguale diritto di cittadinanza. Concludo con le parole del Salmo 29, che sono un
augurio ed anche una preghiera: "Il Signore darà forza al suo popolo,
il Signore benedirà il suo popolo con la pace". BENEDETTO XVI
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