Le accuse di John Cornwell alla Chiesa Croata e all'arcivescovo di Zagabria Stepinac 

a cura di Maurilio Lovatti

 

 

Fin dal principio, l'arcivescovo di Zagabria Alojzije Stepinac (di recente beatificato, seppur tra molte polemiche) fu pienamente d'accordo con gli obiettivi generali del nuovo Stato croato, e si impegnò a ottenere per esso il riconoscimento papale. Egli chiamò personalmente Pavelic il 16 aprile 1941, e ascoltò il nuovo leader dichiarare che "non sarà tollerante", come Stepinac riportò nel proprio diario, "verso la Chiesa ortodossa-serba perché per lui essa non rappresenta una Chiesa, ma un organizzazione politica". Ciò diede a Stepinac l'impressione che "il Poglavnik sia un cattolico sincero". La sera stessa, Stepinac diede un ricevimento per Pavelic e i suoi capi ustascia per celebrare il loro ritorno dall'esilio. Il 28 aprile, il giorno stesso in cui 250 serbi vennero massacrati a Bjelovar, fu letta da tutti i pulpiti cattolici una lettera pastorale di Stepinac che richiamava il clero e i fedeli a collaborare all'opera del leader.
Per quale accesso di ingenuità Stepinac fu incapace di capire quel che la collaborazione avrebbe provocato? All'inizio di giugno del 1941, il plenipotenziario generale tedesco accreditato in Croazia, Edmund Glaise von Horstenau, dichiarò che, secondo attendibili rapporti degli osservatori militari e civili tedeschi, "gli ustascia erano diventati pazzi furiosi". Un mese dopo, Glaise riferì l'imbarazzo dei tedeschi che, "con sei battaglioni di fanteria", osservarono impotenti "la cieca, sanguinaria furia degli ustascia".
I sacerdoti, immancabilmente francescani, ebbero un ruolo di comando nei massacri. Molti andavano regolarmente in giro armati e compivano con zelo le loro gesta omicide. Un certo padre Bozidar Bralow, conosciuto per il mitra che lo accompagnava costantemente, fu accusato di aver ballato attorno ai corpi di 180 serbi massacrati a Alipasin-Most. Singoli francescani uccisero, diedero fuoco a case, saccheggiarono villaggi, e fecero terra bruciata nella campagna hosniaca a capo delle bande ustascia. Nel settembre del 1941, un giornalista italiano scrisse che aveva visto un francescano incitare una banda di ustascia con il proprio crocifisso a sud di Banja Luka.
Nell'archivio del Ministero degli Esteri a Roma c'è un'ampia documentazione fotografica delle atrocità: donne con i seni recisi, gli occhi strappati, i genitali mutilati; e gli strumenti della carneficina: coltelli, asce, uncini da macellaio.(...)

Negli anni del dopoguerra si è discusso molto sulla santità personale dell'arcivescovo Stepinac, primate cattolico romano di Croazia, e sulle sue proteste finali contro la persecuzione e i massacri. Eppure, se anche qualcuno lo discolpa per aver perdonato l'odio razziale assassino, è chiaro che egli e il suo episcopato appoggiarono un disprezzo della libertà religiosa che equivaleva alla complicità con la violenza. Stepinac scrisse una lunga lettera a Pavelic sulla questione delle conversioni e dei massacri, che lo scrittore Hubert Butler tradusse da un dattiloscritto a Zagabria nel 1946. Essa cita le opinioni di alcuni dei suoi confratelli vescovi, tutti favorevoli, e include una lettera del vescovo cattolico di Mostar, un certo dottor Miscic, in cui si esprimeva la brama storica che l'episcopato croato nutriva per le conversioni di massa al cattolicesimo.
Il vescovo comincia affermando che "non abbiamo mai avuto un'occasione così buona come adesso per aiutare la Croazia a salvare innumerevoli anime". Scrive entusiasticamente della conversione di massa. Però poi dice di deplorare le "visioni ristrette" delle autorità che catturano perfino i convertiti e "li cacciano come schiavi". Elenca massacri conosciuti di madri, ragazze e bambini sotto gli Otto anni, portati tra le colline "e gettati vivi.., in profondi burroni". Poi fa questa stupefacente affermazione: "Nella parrocchia di Klepca settecento scismatici dei villaggi vicini sono stati massacrati. Il sottoprefetto di Mostar, il signor Bajic, musulmano, ha dichiarato pubblicamente (come dipendente statale avrebbe dovuto tenere la lingua a freno) che nella sola Ljubina in una sola fossa sono stati gettati settecento scismatici".
Come dipendente statale, avrebbe dovuto tenere la lingua a freno!
La confusione morale che questa osservazione casuale denota è parallela alla dissociazione morale implicita nel comportamento dei vescovi, che trassero vantaggio dalla sconfitta della Jugoslavia a opera dei nazisti per incrementare il potere e l'ambito d'azione del cattolicesimo nei Balcani. Nella notevole lettera di Stepinac, un vescovo dopo l'altro avalla la politica di promozione delle conversioni, ammettendo che non ha senso gettare carrettate di scismatici nei burroni. Il fatto che i vescovi abbiano mancato di dissociarsi dal regime, di denunciano, di scomunicare Pavelic e i suoi accoliti, si dovette al loro timore di perdere le opportunità offerte dalla "buona occasione" di costruire una base di potere cattolico nei Balcani. La stessa riluttanza a trascurare la possibilità di far crescere il cattolicesimo nell'est giunse anche in Vaticano, e in ultima analisi a Pacelli stesso. Di fatto fu la stessa riluttanza a far perdere un'opportunità unica di "evangelizzazione", che nel 1913-14 aveva indotto Pacelli a insistere per il Concordato Serbo nella speranza di creare un avamposto di rito latino nella cristianità orientale, quali che fossero le ripercussioni e i pericoli concomitanti.
Durante la Seconda guerra mondiale, Pacchi fu informato della situazione in Croazia meglio di quanto lo fosse per qualunque altra area in Europa, esclusa l'Italia. Il suo delegato apostolico, Marcone, fece la spola tra Zagabria e Roma a piacimento, e furono messi a sua disposizione aeroplani militari per viaggiare nella nuova Croazia. Intanto, i vescovi, alcuni dei quali sedevano nel Parlamento croato, comunica-vano liberamente con il Vaticano, ed erano in grado di compiere le loro regolari visite ad limina presso il Papa a Roma. Era durante tali visite che il Pontefice e i membri competenti della Curia erano liberi di fare domande minuziose circa le vicende della Croazia, e certamente lo fecero.
Pacehhi aveva mezzi di informazione personali alternativi, non ultime le trasmissioni giornaliere della BBC che vennero fedelmente ascoltate e tradotte per lui da Osborne, l'ambasciatore di Londra in Vaticano, per tutta la durata della guerra. C'erano frequenti trasmissioni della BBC sulla situazione in Croazia, tra cui quella del 16 febbraio 1942, un tipico esempio: "Attorno a Stepinac (l'arcivescovo di Zagabria) si commettono le maggiori atrocità. Il sangue fraterno scorre a rivoli... Gli ortodossi vengono convertiti con la forza al cattolicesimo, e noi non sentiamo la voce del l'arcivescovo predicare la ribellione. Leggiamo invece che prende parte a delle parate naziste e fasciste".
Un flusso di direttive ai vescovi croati proveniente dalla Congregazione vaticana per la Chiesa Orientale, che riservava un'attenzione speciale ai cattolici di rito orientale della regione, indica che il Vaticano era a conoscenza delle conversioni forzate fin dal luglio 1941. I documenti s'incentrano sull'insistenza, da parte del Vaticano, che i potenziali convertiti al cattolicesimo venissero allontanati quando ricercassero il battesimo per ragioni manifestamente sbagliate: essendo queste "ragioni sbagliate" (i documenti lo sottintendevano senza esplicitarlo) il terrore e la fuga dalla morte.
Il 14 agosto il presidente dell'Unione delle comunità israelitiche Alatri scrisse al Segretario di Stato Maglione perorando la causa di diverse migliaia di ebrei croati "residenti a Zagabria o in altri centri della Croazia... arrestate senza alcuna ragione, private di ogni loro avere e deportate". Proseguiva descrivendo come seimila ebrei fossero stati abbandonati su un isola arida e montuosa, senza alcuna protezione dalle intemperie, e privi di cibo e acqua. Tutti gli sforzi di andare in loro soccorso erano stati "vietati dalle autorità croate". La lettera richiedeva un intervento della Santa Sede presso i governi italiano e croato. Non c'è traccia di risposta o intervento da parte della Santa Sede.


FONTE: Cornwell 1999, pag. 367-372

 

 

Marco Aurelio Rivelli, nel libro L'Arcivescovo del genocidio, Kaos, Milano 1999 afferma che "la Croazia, Stato-fantoccio riconosciuto solamente da Italia, Germania e Giappone, teneva rapporti persino con il Vaticano che, ipocritamente, aveva un “ambasciatore” non ufficiale a Zagabria mentre intratteneva formali relazioni diplomatiche con il governo di Belgrado in esilio. Ancora più grottescamente, la Santa Sede ospitava a Roma un incaricato del governo croato con il quale evitava accuratamente di incontrarsi durante le occasioni ufficiali in Vaticano - per non creare imbarazzanti commistioni con l’ambasciatore del legittimo governo jugoslavo - ma con il quale andava d’amore e d’accordo nel corso di cerimonie organizzate da associazioni religiose sul territorio italiano, dove la Croazia era riconosciuta come entità statale indipendente.

A capo della creatura messa in piedi da Hitler e Mussolini v’era il poglavnik (duce) Ante Pavelić, fanatico cattolico, anticomunista, antiortodosso e antisemita. Il suo riferimento ideologico era l’arcivescovo Alojzije Stepinac, il più giovane vescovo d’Europa (lo divenne a 36 anni). Stepinac era la mente e Pavelić il braccio. Il programma ideologico del governo clerico-fascista di Pavelić era sintetizzabile in pochi punti: lo Stato croato doveva essere etnicamente puro, composto solo da devoti cattolici, analogamente al Vaticano. Via, quindi, ai massacri di serbo-ortodossi (principale obiettivo degli ustascia), ebrei (non l’obiettivo principale, ma perseguitati per fare un favore al padrone tedesco), rom (sterminati benché non costituissero neppure un problema politico). La gerarchia cattolica, della quale Stepinac era primate, protesse, benedì e promosse attivamente tale politica. Documenti e testimonianze che lo attestano sono innumerevoli. Non mancano neppure testimonianze fotografiche, pubblicate nell’opera: prelati che fanno il saluto romano, frati in uniforme, suore in parata militare, conversioni forzate di massa al cattolicesimo. Un esempio su tutti: il responsabile del lager di Jasenovac (dove fu annientata la gran parte dei serbi), il frate francescano Miroslav Filipovic Majstorovic detto “Fra’ Satana”, appare nel libro fotografato sia in divisa ustascia che in abito talare.

Se le SS tedesche si erano date al metodico sterminio degli ebrei in maniera “burocratica” e più asettica possibile - per quanto si possa definire “asettica” un’atrocità come un genocidio - gli ustascia si abbandonarono a ogni sorta di nefandezze: smembramenti, squartamenti, sgozzamenti, mutilazioni, stupri delle donne serbe e amputazione delle loro mammelle, occhi umani usati come trofeo e lingue tagliate e appese alla cintura esposte come testimonianza delle imprese ustascia: gli stessi alleati nazisti ne furono disgustati e protestarono vibratamente presso i loro comandi perché ponessero un freno ai macellai croati. Nella zona controllata dall’esercito italiano i nostri ufficiali dovettero ordinare di passare per le armi quegli ustascia che si distinguevano per fanatismo nello sterminio dei serbi. Tanto che l’arcivescovo Stepinac si rivolse al Vaticano, sperando che questi facesse pressioni sul governo italiano affinché ordinasse al nostro esercito di non creare problemi alle attività di “conversione” (leggi: “mattanza”) nei confronti delle popolazioni serbe che, sotto l’occupazione italiana, vivevano relativamente tranquille.

Invero disturbanti le foto pubblicate all’interno del libro. Fosse comuni, cadaveri smembrati, decapitati, torturati e sfigurati. Angoscianti le immagini dei sopravvissuti al massacro e le testimonianze di chi scampò alla mattanza fingendosi morto e coprendosi del sangue dei suoi amici massacrati. A dimostrazione che, per quanto l’uomo possa impegnarsi a raggiungere il fondo della propria barbarie, c’è sempre da scavare: al termine di queste imprese, ottocentomila furono i morti, su una popolazione di poco superiore ai quattro milioni.

Quando Josip Broz, il maresciallo Tito, entrò a Zagabria ponendo fine al governo fantoccio di Pavelić, il poglavnik aveva già avuto cura di riparare prima in Austria grazie alle truppe naziste, poi, tramite il Vaticano (nei cui forzieri lasciò l’oro trafugato ai serbi), in Argentina, almeno fin quando la sua presenza non divenne troppo imbarazzante. Riparò poi a Santo Domingo, ospite del dittatore Truijllo, dove si autonominò “rappresentante in esilio dello Stato croato”. L’oro serbo ovviamente sparì e venne usato per finanziare la latitanza dei gerarchi ustascia. È sorprendente, al proposito, che la polemica contro Pio XII per il suo collaborazionismo con il nazifascismo non consideri questa protezione, data a un uomo che aveva il macabro hobby di collezionare i bulbi oculari delle sue vittime. Un documento dell’ex sottosegretario USA Eizenstat sull’argomento conferma che «…con i tesori sottratti agli ebrei, alla fine della seconda guerra mondiale gli ustascia, i fascisti croati, finanziarono la propria fuga in America Latina, e quella di criminali di guerra nazisti come Klaus Barbie, con l’aiuto del Collegio pontificio di San Girolamo degli Illirici, a Roma» (per chi è pratico della Capitale: è il collegio annesso alla Chiesa di San Girolamo dei Croati a via Tomacelli).

Alojzije Stepinac ebbe un ruolo di primo piano nella creazione e nel consolidamento della dittatura ustascia e, successivamente, nel tentativo di evitare che la Croazia tornasse sotto il legittimo governo jugoslavo. Quello che i suoi agiografi tacciono accuratamente è che egli fu anche membro del parlamento e capo dei cappellani militari, decorato al merito con la massima onoreficenza ustascia. Un antisemita al cubo, che arrivò a dichiarare: «ho fatto notare in Vaticano che le leggi ustascia varate contro il crimine dell’aborto giustificano le leggi contro gli ebrei, i quali sono in Croazia i più grandi difensori, i più frequenti esecutori di questo crimine». Tanto coraggioso prima dell’arrivo di Tito quanto pusillanime dopo, una volta finito sotto processo per tradimento (in quanto formalmente cittadino jugoslavo che aveva cospirato contro la propria nazione): interrogato perché avesse accettato l’onoreficenza, non si vergognò di rispondere che «…se avessi rifiutato la massima onorificenza militare ustascia, sarebbero successe delle cose ancora più terribili… Noi abbiamo stabilito in modo chiaro i principî delle conversioni, gli ortodossi erano liberi e nello stato spirituale di convertirsi o meno», senza rendersi conto della plateale contraddizione: infatti, il pubblico ministero gli contestò che non era pensabile che un uomo del suo rango non potesse rifiutare un’onoreficenza per timore di cose terribili, laddove, a dire dello stesso Stepinac, perfino i serbi potevano liberamente scegliere senza conseguenze se diventare ortodossi o meno. Il vile Stepinac non rispose.

Il maresciallo Tito ebbe segreti contatti con il Vaticano, cercando di ottenere da Pio XII la revoca dell’incarico arcivescovile di Stepinac e offrendosi pure di lasciarlo espatriare, per evitare un caso politico. Ma non ci fu nulla da fare. Pacelli aveva bisogno di un martire e, probabilmente, nel suo cinismo, arrivò ad augurarsi che Belgrado condannasse a morte l’arcivescovo. Cosa che non avvenne. Anzi, per essere un traditore del suo popolo, Stepinac fu trattato perfino troppo bene: qualche anno di lavori forzati, poi domicilio coatto e morte tranquilla nel suo letto, avvenuta nel 1960, quando già Pio XII lo aveva nominato cardinale da sette anni. Sorte completamente diversa da quella del monsignore slovacco Tiso, che fu invece impiccato dalle autorità cecoslovacche dopo la fine della guerra. Il fatto che Stepinac fosse morto nel suo letto non impedì comunque agli agiografi di definirlo come martire. Un maldestro e patetico tentativo da parte di due ebrei di origine croata dalla scarsa credibilità di far inserire inserire Stepinac nel Libro dei Giusti fu rispedito indietro dalla commissione ebraica preposta a ciò.

Nel 1998, come ulteriore atto del suo discutibile e discusso papato, Karol Wojtyla ha beatificato Stepinac durante il suo viaggio in Croazia, divenuta indipendente nel 1991 e all’epoca governata da un Pavelić in sedicesimo, quel Franjo Tudjiman becero nazionalista e anti-serbo. La cosa non stupisce, perché è un tratto comune della Chiesa schierarsi sempre a fianco della parte peggiore ogni volta che entra in politica." (testo tratto dalla recensione di Sergio D'afflitto al libro).

La recensione e il libro appaiono guidate da un pregiudizio fortemente anticlericale, tuttavia contengono informazioni interessanti.

 

- stralci del verbale del processo a mons. Stepinac svoltosi a Zagabria dal 30 settembre al 3 ottobre 1946

 

 

 

 

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