Maurilio Lovatti

Emilio Gabaglio e le ACLI

Emilio Gabaglio è eletto presidente delle ACLI dal Consiglio nazionale il 6 luglio 1969, con un larghissimo consenso (69 voti su 84), quando ha solo 32 anni. Vicepresidenti sono Geo Brenna, Maria Fortunato e Marino Carboni.

Gabaglio, nato nel 1937, proveniente dalle ACLI di Como, laureato in economia alla Cattolica, arriva a Roma nel 1962 con la presidenza Labor per occuparsi dell'ufficio studi per le questioni sociali. Nel dicembre del 1963 diviene capo ufficio per i problemi internazionali, dopo il congresso del 1966 entra in presidenza nazionale e due anni dopo è segretario, in seguito alle dimissioni di Vittorio Pozzar, che si candida al Senato per la DC.

Il 17 settembre 1969 il cardinale Giovanni Urbani muore in seguito a grave malattia e il 3 ottobre il card. Antonio Poma, arcivescovo di Bologna, è nominato presidente della CEI da Paolo VI. Durante la fase congressuale e per tutti i restanti mesi del 1969, la CEI si astiene da ogni intervento ufficiale sulle ACLI, al punto che il card. Poma, ricevendo il presidente Gabaglio e l'assistente centrale mons. Cesare Pagani all'inizio di dicembre, non solleva alcun problema. Tuttavia dall'epistolario di Emilio Gabaglio sappiamo che nell'autunno del 1969, mons. Santo Quadri, vescovo ausiliare di Pinerolo (TO) ed ex assistente centrale, si era recato due volte nella sede nazionale delle ACLI per incontrare la presidenza, il 27 ottobre e il 19 novembre 1969. Sia pur ufficiosamente, come esperto della CEI per i problemi sociali, Quadri era intervenuto per uno scambio di vedute sulla definizione della presenza degli assistenti in seguito al più marcato impegno politico delle ACLI dopo il congresso di Torino. In realtà Quadri aveva sottoposto la nuova presidenza quasi ad un esame, chiedendo chiarimenti e precisazioni sulle scelte congressuali. In preparazione del secondo incontro, scrive a Gabaglio: "l'impegno [delle ACLI] nelle scelte temporali opinabili riguardanti l'umanizzazione accentua la necessità di rivedere la posizione del sacerdote e la configurazione del contributo delle ACLI alla pastorale del mondo del lavoro." (lettera del 6 novembre 1969).

Il 15 gennaio 1970 Gabaglio è ricevuto in udienza da Paolo VI. Secondo quanto comunicato dallo stesso Gabaglio al Comitato esecutivo delle ACLI, il colloquio ha per oggetto i problemi relativi alla "specificazione cristiana delle ACLI" e il Pontefice desidera che vi sia in proposito un dialogo chiarificatore con la CEI. Gabaglio afferma di esser stato "personalmente molto confortato" dal colloquio e aggiunge che "il Papa ha espresso vivo e permanente interesse verso le ACLI". Conclude affermando con ottimismo che "se le ACLI realizzano le scelte che hanno fatto, non devono avere preoccupazioni di alcun tipo." (Verbale del Comitato esecutivo del 11 febbraio 1970). Appena uscito dall'udienza, Gabaglio esterna il suo stato d'animo e rivela di sentirsi confortato dall'esito del colloquio; la notizia viene diffusa prima da Panorama e poi dai vari giornali, lasciando intendere che il Pontefice abbia avvallato le scelte del congresso di Torino, che il presidente delle ACLI aveva illustrato nel corso dell'udienza. Gabaglio, dopo aver informato la presidenza, scrive al Pontefice indotto a farlo per "l'insistenza di determinata stampa a voler strumentalizzare l'incontro che, con tanta bontà, Ella mi ha accordato giorni or sono, al punto quasi da coinvolgere la Santità Vostra in questioni di apprezzamenti politici e comunque contingenti" ed esprime il suo "sincero rammarico di fronte a comportamenti così indelicati dei quali, sia pur involontariamente, sono stato occasione." (lettera del 2 febbraio 1970).

A nome del Papa risponde mons. Giovanni Benelli, Sostituto alla Segreteria di Stato vaticana: "Il Santo Padre mi incarica di dirLe la Sua gratitudine per il cortese gesto con cui Ella stessa ha voluto filialmente chiarire un episodio che è stato motivo di non poco disagio". Nell'occasione Benelli ringrazia Gabaglio per la "gentile visita fattami in Segreteria di Stato", e aggiunge alcune considerazioni che ben inquadrano la natura del confronto tra le ACLI e la gerarchia che si svilupperà nei mesi seguenti:

"Credo che sia necessario sinceramente interrogarci se gli attuali indirizzi espressi dalle ACLI, in campo politico e sindacale, nonché il metodo e le iniziative con cui si intende esprimere l'impegno sociale, corrispondono alla vera natura e alle caratteristiche originarie di un movimento che è sorto per la formazione dei lavoratori e per la promozione sociale delle classi lavoratrici, operaie e contadine. Dobbiamo apertamente domandarci se l'ispirazione cristiana del movimento sia effettivamente operante come scopo prevalente e come testimonianza ed animazione cristiana del mondo del lavoro, in cui le ACLI operano e di cui sono parte. Ella ben conosce quanto grande sia l'affezione del Santo Padre per il mondo del lavoro, che occupa un posto preminente nel magistero e nelle cure pastorali del Suo Pontificato; Ella sa quanta fiducia Egli abbia riposto e ripone nella capacità delle ACLI di essere strumento efficace di promozione cristiana delle classi lavoratrici: così, infatti la Gerarchia concepì quelle Associazioni, le attuò e le sostenne durante i loro venticinque anni di esperienza storica. Credo che sia necessario chiarire ai militanti stessi delle ACLI ed a tutta la comunità ecclesiale italiana, se il movimento intende restare fedele a questi compiti statutari e fondamentali, per meritare ancora da parte della Chiesa la stessa fiducia e lo stesso sostegno." (Lettera di mons. Giovanni Benelli del 19 febbraio 1970).

Il 6 marzo 1970 Gabaglio è convocato alla sede della CEI, allora ancora in via della Conciliazione, dove l'arcivescovo mons. Andrea Pangrazio, segretario della conferenza episcopale, alla presenza dall'arcivescovo mons. Franco Costa, presidente della commissione per il laicato ed assistente centrale dell'AC, gli consegna ufficialmente una lunga lettera di mons. Antonio Poma, presidente della CEI, che pone alle ACLI dettagliate richieste di chiarimento da fornire con "indilazionabile urgenza" per un "dovere di lealtà verso gli aderenti e l'intera comunità ecclesiale".

Racconta Gabaglio:

"Letto il contenuto della busta, mi sembrarono subito lontane le basi per l'organizzazione di un dialogo al quale aveva accennato il Papa. Per questo ebbi un piccolo screzio col monsignore [Pangrazio], al quale dissi che il Papa aveva parlato di organizzare un dialogo, mentre la lettera, che mi fu chiesto di leggere subito, non sembrava orientata in questo senso." (E. Gabaglio, Da Torino a Cagliari le ACLI continuano, intervento alla tavola rotonda Paolo VI e la crisi delle ACLI nel 1971, al Convegno nazionale di studi Verso la democrazia associativa, Vallombrosa, 31 agosto 2001, in A. Scarpitti, Le ACLI e la Chiesa, Aesse, Roma 2002, pp. 28-32, alla p. 29).

Nella premessa della lettera Poma espone con chiarezza le ragioni che inducono i vescovi ad intervenire con decisione:

"Ella ben sa quali perplessità i recenti orientamenti dell'Associazione hanno suscitato nei vescovi, nel clero, nel laicato cattolico e nell'opinione pubblica, in ordine alla fedeltà delle ACLI ai compiti statutari, dai quali esse ricevono la loro configurazione, che ne giustifica la presenza e l'attività. Anzi, la stessa Gerarchia - la quale si è sempre preoccupata di non turbare il travaglio del movimento, rispettandone le autonome e responsabili scelte – è ora continuamente chiamata in causa, come se condividesse i nuovi orientamenti e sostenesse determinate sperimentazioni. D'altra parte non si può negare che tra i dirigenti, nazionali e periferici, si manifestino profonde divisioni – avvertite largamente anche dalla pubblica opinione – con valutazioni diverse e, a volte, contrastanti, che toccano persino la sostanziale ispirazione del movimento." (Lettera di mons. Antonio Poma del 2 marzo 1970).

I quattro quesiti posti dalla CEI si possono così riassumere:

  1. l'attività delle ACLI è ancora basata sulla "dottrina del cristianesimo secondo l'insegnamento della Chiesa"?

  2. gli scopi originari delle ACLI di cui all'art. 2 dello statuto (educativi, formativi, previdenziali, cooperativistici e ricreativi) delimitano ancora l'azione del movimento?

  3. le ACLI intendono ancora avvalersi della presenza degli assistenti con il compito di curare che "l'attività delle Associazioni si svolga in armonia con i principi della morale cristiana e con le direttive della Chiesa"?

  4. il metodo che le ACLI "sembrano voler seguire per il cambiamento della società" è ancora conforme all'insegnamento "contenuto nel magistero ecclesiastico, pontificio e conciliare"?

Nello spiegare il punto n. 2, il cardinal Poma non nasconde quale sia la preminente preoccupazione dei vescovi:

"Non posso peraltro, a questo punto, non segnalarle una viva preoccupazione che viene espressa da molte parti e che a noi vescovi, a tutti debitori, non possiamo disattendere. Si teme cioè, da parte di molti, una pericolosa confusione che potrebbe crearsi tra le ACLI – nonostante la loro autonomia statutaria – e nuove formazioni, non dichiaratamente partitiche, ma pur decisamente politiche. A tal riguardo non sembra infondato il timore che l'affermata autonomia delle ACLI in campo politico, oltre ad affievolire il pur sempre libero, ma comune impegno civico dei cattolici, si risolva di fatto a vantaggio diretto di forze, dalla cui tendenza eversiva, autoritaria e distruttrice dei valori essenziali della persona, non può attendersi la vera promozione sociale della classe lavoratrice."

La lettera di Poma non nasce da una specifica esigenza manifestata esplicitamente dai vescovi, anche se rispecchia perplessità diffuse tra i presuli, ma è direttamente sollecitata da Paolo VI. Il card. Jean-Marie Villot, Segretario di Stato, aveva scritto a Poma: "Il Santo Padre ritiene che, di fronte a questa situazione, sia conveniente che l'Eminenza Vostra […] si rivolga con un documento scritto al Presidente delle ACLI per chiedere un preciso chiarimento" (Lettera del card. Villot al card. Poma del 20 febbraio 1970, cit. in A. Riccardi, La Conferenza Episcopale Italiana negli anni Cinquanta e Sessanta, in G. Alberigo, Chiese italiane e Concilio: esperienze pastorali nella chiesa italiana tra Pio XII e Paolo VI, Marietti, Genova 1988, p. 58) allegando anche un promemoria che praticamente indica i contenuti specifici della nota da inoltrare alle ACLI. Il Consiglio di presidenza della CEI del 26 febbraio, nell'incaricare il card. Poma di scrivere a Gabaglio, aveva compiuto un "attento esame" della questione delle ACLI.

Gabaglio informa tempestivamente le sedi provinciali delle ACLI, inviando per conoscenza la lettera di Poma (9 marzo 1970). Tuttavia i dirigenti aclisti protagonisti del tormentato confronto con l'episcopato ignorano l'intervento personale di Paolo VI e tendono a spiegare l'atteggiamento dei vescovi come rispondente ad un esigenza prevalentemente politica. Scrive Gabaglio che dopo il congresso di Torino vi "fu la reazione molto decisa della segreteria della DC che si rivolse immediatamente alla CEI, ma in pratica al Vaticano, per chiedere in definitiva un richiamo all'ordine delle ACLI." (Intervista a Emilio Gabaglio, in C. F. Casula, Le ACLI. Una bella storia italiana, Anicia, Roma 2008, p. 31). E ancora, Gabaglio si riferisce ad una lettera che "Flaminio Piccoli, il segretario della DC, inviò alla Segreteria di Stato", fino a ricordare che "la DC ha continuato a soffiare sul fuoco e a prendere a pretesto ogni episodio." Analoga valutazione esprime la vicepresidente Maria Fortunato: "Sapemmo poi che la segreteria nazionale della DC del tempo aveva più volte invocato la gerarchia per far tacere le ACLI perché le decisioni prese al congresso di Torino non facevano più delle ACLI un movimento collaterale alla DC e si temeva la fine dell'unità politica dei cattolici, che storicamente aveva avuto la sua validità come difesa dal comunismo." (Intervista a Maria Fortunato, in AA. VV., Una lunga fedeltà. Per una storia religiosa delle ACLI, Coop. Ed. Nuova Stampa, Milano 1995, p. 68).

Nel Comitato esecutivo delle ACLI del 14 marzo 1970 è approvata una "memoria", cioè un lunghissimo documento che costituisce il riferimento essenziale per la risposta di Gabaglio alla lettera di Poma e che, fin dall'inizio, riafferma la coerenza degli orientamenti attuali con la storia del movimento: "le ACLI hanno sempre denunciato come ingiuste le strutture capitalistiche prevalenti nella società italiana"; e spiega la "particolare accentuazione degli ultimi anni" come il naturale risultato della loro esperienza nel mondo del lavoro. Vengono difesi con decisione gli orientamenti del congresso di Torino: "per le ACLI essere cristiani ed essere lavoratori comporta oggi […] una scelta di classe, incarnandovi la propria testimonianza cristiana, come singoli e come gruppo. In questo senso scelta di classe significa collocarsi dalla parte dei lavoratori, degli oppressi, degli sfruttati..."

In particolare sono difese e spiegate le scelte di fondo del congresso di Torino, come "la fine di ogni pratica di collateralismo – senza eccezioni – nei confronti di non importa quale partito o altra formazione che operi nella sfera propriamente politico-partitica, con l'attuazione delle incompatibilità previste dallo statuto" e "l'acquisizione del principio del voto personale, libero e responsabile degli aclisti […] Ciò comporta, tra l'altro, che le ACLI, per parte loro, non danno indicazioni elettorali di nessun tipo, né presenteranno liste proprie e candidature acuiste, come avveniva in passato." A differenza dei vescovi, le ACLI ritengono che "l'esistenza di scelte differenziate ed opinabili sul piano sociale non può e non deve turbare la comunione ecclesiale."

Il documento conclude ricordando che "l'Assistente è, nelle ACLI, voluto, desiderato e onorato nella pienezza della sua funzione sacerdotale" e che "già oggi il sacerdote non è implicato nelle scelte opinabili delle ACLI e non viene invocato a loro sostegno", tuttavia è manifestata la disponibilità delle ACLI "a sperimentare anche ipotesi di tipo diverso da quelle previste [… dallo] statuto, fermi restando la presenza e l'apporto sacerdotale dell'assistente." ( 14 marzo 1970).

Nel verbale della riunione, che riporta la sintesi del dibattito, riferendosi agli incontri delle presidenze provinciali con i rispettivi vescovi, si afferma: "I vescovi hanno dimostrato di non essere a conoscenza della lettera del card. Poma, compresi quelli che fan parte del Consiglio di presidenza della CEI. Sul tono e sul contenuto della lettera più di un vescovo ha dimostrato alcune perplessità ed anche dissenso."

Ovviamente i dirigenti aclisti non potevano sapere dell'intervento di Paolo VI tramite il card. Villot, tuttavia i loro incontri coi vescovi delle varie province sembrano confermare che la lettera di Poma non sia scaturita da esigenze manifestate coralmente dai vescovi. Significativi anche gli interventi di mons. Pagani, che fornisce una interpretazione molto rassicurante e ottimistica sul prospettato confronto con la CEI e sembra assumere la difesa a spada tratta delle scelte delle ACLI; nel riferire gli esiti dell'incontro con gli assistenti periferici convocati a Roma nei giorni precedenti, afferma che gli assistenti stessi "hanno ravvisato l'opportunità di dare una più precisa fondazione teologica alle scelte di Torino; hanno salutato questo episodio come una occasione provvidenziale per agganciare più saldamente i nostri vescovi in un dialogo che sia veramente sostanziale" e ritengono anche "di dover facilitare il dialogo […] aiutando i vescovi stessi ad accettare il metodo della sperimentazione e sollecitandoli a dare più preti alle ACLI." Con un unica, inevitabile riserva: "dopo che gli assistenti avranno fatto tutto il possibile per far capire cosa veramente è dentro il processo in atto […] e dopo che avranno detto chiaramente e onestamente qua l'è il loro pensiero e la loro posizione, dovranno tuttavia considerare in ultima analisi il valore dell'obbedienza." Mons. Pagani conclude dando atto "della grande responsabilità e della significativa testimonianza con cui il CE [Comitato esecutivo delle ACLI] sta gestendo la situazione."

Sollecitato dallo stesso Poma, incontrato il 13 marzo a Bologna, che desidera una risposta tempestiva alla sua lettera per riferire all'assemblea plenaria dei vescovi, Gabaglio invia la lettera di risposta al presidente della CEI il 18 marzo, senza attendere il Consiglio nazionale delle ACLI convocato il 21-22 marzo 1970. Gabaglio, dopo aver premesso che le ACLI aderiscono "volentieri al desiderio di chiarezza che questi interrogativi sottendono", afferma che le ACLI non intendono rinunciare alla loro "qualificazione cristiana", che l'autonomia del movimento aclista non potrà "volgersi a danno dell'affermazione dei valori" cristiani, che le ACLI non intendono rinunciare agli assistenti e "al più potrebbero suggerire l'opportunità di esaminare ulteriori forme pastoralmente adeguate" della loro funzione. Infine il presidente nega che la collaborazione con le forze di sinistra nel movimento operaio possa ledere l'ispirazione cristiana delle ACLI e confida che il "l'intero contenuto della memoria", cioè del documento del CE, che viene inoltrato con la lettera, possa esser "meglio chiarito e documentato negli incontri per i quali Vostra Eminenza mi esprime la Sua piena disponibilità." Nel complesso la lettera appare più morbida nel tono rispetto al documento del CE e anche più puntuale nel riferirsi ai quesiti posti, oltre che molto più breve.

Primi dissidi

Nel Consiglio nazionale delle ACLI del 21-22 marzo si verifica la prima significativa frattura interna relativamente all'atteggiamento da assumere nei rapporti con le autorità della Chiesa. Il documento del CE è approvato a larghissima maggioranza (48 voti su 57 presenti), mentre la minoranza contrappone un documento alternativo, proposto da Enzo Auteri di Catania, portavoce della minoranza guidata da Giovanni Bersani, e firmato da altri 11 consiglieri nazionali, secondo il quale non è sufficiente ribadire la fedeltà delle ACLI all'ispirazione cristiana, ma è necessario eliminare "pronunce, atteggiamenti e comportamenti" che possano indurre dubbi o equivoci in tal senso, e inoltre si deve "separare nettamente dinnanzi all'opinione pubblica le proprie responsabilità" di fronte a comportamenti di dirigenti aclisti interpretabili come "tentativi di nuove scelte collaterali non autorizzate né coerenti con i deliberati congressuali, e suscettibili a provocare, attraverso la politica dei fatti compiuti, soluzioni di tipo neofrontista." Con un realismo disincantato lo stesso Auteri afferma: "E' inutile discutere perché la risposta a Poma è stata già data riproponendo le scelte di Torino, che la gerarchia ha già bocciato." La minoranza è convinta di rappresentare i sentimenti della maggioranza degli aclisti, e infatti Bruno Olini sostiene che "le preoccupazioni della gerarchia coincidono con quelle della gran parte degli iscritti."

Il confronto con la CEI

In un clima di grande incertezza sugli esiti, il 12 maggio 1970, si svolge nella sede della CEI il primo incontro di chiarificazione, della durata di circa tre ore, con "reciproca esposizione dei punti di vista" tra la delegazione della CEI presieduta da mons. Enrico Nicodemo, arcivescovo di Bari e vicepresidente della CEI, con i vescovi Franco Costa e Santo Quadri e da mons. Pietro Pavan in qualità di esperto, e quella delle ACLI, composta dal presidente Gabaglio, dai vicepresidenti Geo Brenna e Maria Fortunato e da mons. Pagani. Ricorda Emilio Gabaglio che protagonisti di questo primo incontro sono Geo Brenna e mons. Quadri che discutono puntigliosamente di questioni teologiche e di interpretazioni della dottrina sociale della Chiesa. Durante questa discussione, mons. Nicodemo si rivolge sottovoce a Gabaglio chiedendogli: "Senta, tutta questa discussione va bene, ma voi come votate alle elezioni regionali?" (intervista a Emilio Gabaglio in Le ACLI e la Chiesa, cit., p. 30). L'impressione di Gabaglio è che in quel momento i timori dell'episcopato fossero più politici che dottrinali o pastorali. Anche Maria Fortunato ricorda: "Mons. Nicodemo, arcivescovo di Bari e presidente della delegazione dei vescovi, entrando nella sala mi battè la mano sulla spalla e disse: «signorina Fortunato, intendiamoci bene; sappiamo che siete dei buoni cristiani e non dubitiamo affatto di questo, ma il problema è un altro. E' politico. Voi per chi votate? E per chi fate votare?». Questo era l'interrogativo, esposto molto chiaramente dai vescovi." (M. Fortunato, Un socialismo ideale, in A. Scarpitti, C. F. Casula, L'ipotesi socialista trent'anni dopo (1970-2000), Aesse, Roma 2001, p. 37). Tuttavia mons. Pagani formula un giudizio più che rassicurante sull'esito dell'incontro, dicendosi "ben impressionato dall'incontro e sottolineando la positività di un dialogo […] ben avviato. Da parte nostra c'è stata l'intuizione delle vere preoccupazioni pastorali dei Vescovi; da parte dei Vescovi c'è stata più consapevolezza che le cose sono molto più complicate di come le hanno tradizionalmente considerate" (Verbale del CE del 23 e 24 maggio 1970).

Il secondo incontro è previsto dopo l'estate, segno evidente del fatto che il confronto poteva svolgersi senza scadenze urgenti e con serenità. A complicare la situazione è il convegno nazionale di studi delle ACLI che si tiene a Vallombrosa (FI) a fine agosto e sopratutto la grande enfasi con cui la stampa nazionale ne amplifica gli esiti.

Il convegno di Vallombrosa

Tra il 27 e il 30 agosto 1970, quasi 500 dirigenti e quadri aclisti partecipano a Vallombrosa al XVIII incontro nazionale di studio delle ACLI, intitolato Movimento operaio, capitalismo, democrazia, a conclusione del quale il presidente nazionale Gabaglio formula la famosa "ipotesi socialista" che suscita un dibattito pubblico molto acceso nel mondo cattolico e ottiene un eco mediatica straordinaria. La relazione politica conclusiva di Gabaglio segue a tre relazioni caratterizzate da un'analisi economica e sociale molto critica del sistema capitalistico, quella di Fausto Tortora, capo dell'ufficio studi delle ACLI, sull'organizzazione dell'impresa e del lavoro, di Gabriele Gheradi sugli aspetti internazionali dello sviluppo capitalistico, e di Pietro Praderi, sulle lotte sociali e sindacali in fabbrica e nella società.

Intervenendo nell'ultima giornata, appoggiandosi alle relazioni precedenti, che nonostante il linguaggio fortemente influenzato dalla cultura marxista allora molto diffusa, si presentavano come contributi di analisi e di studio della società, Gabaglio trae una serie di conseguenze politiche per le ACLI. Secondo il presidente, dal congresso di Torino in poi, il movimento aclista ha preso piena consapevolezza che "il potenziale produttivo e di socializzazione che le società avanzate sono in grado di sviluppare non dovrà più essere impiegato per perpetuare il dominio di ristrette elites attraverso la subordinazione e lo sfruttamento della classe lavoratrice, ma posta al servizio della realizzazione e della promozione, personale e collettiva, dell'uomo come persona e della comunità di tutti gli uomini."

Per Gabaglio, se si concorda sulla tesi che "non esiste democrazia reale se ai cittadini lavoratori viene sottratto il diritto fondamentale, legato al superamento concreto dell'alienazione e delle discriminazioni: il diritto di concorrere effettivamente a determinare la destinazione dei frutti del lavoro sociale", allora ne derivano ben precise indicazioni sui tratti essenziali del modello sociale alternativo al capitalismo che le ACLI intendono proporre. In primo luogo in relazione al diritto di proprietà, Gabaglio afferma che è stata una precisa scelta del Concilio Vaticano II l'aver omesso di ribadire che il diritto di proprietà è un diritto naturale; infatti il diritto "veramente naturale non è quello alla titolarità, al possesso della proprietà, al possesso di beni, ma semmai quello della partecipazione di tutti al dominio dei beni. Uno scopo che, nella forma del possesso privato dei mezzi di produzione, storicamente non è stato raggiunto e non appare raggiungibile per tutti gli uomini, neanche per una maggioranza di loro, ma solo per pochi." Il presidente delle ACLI esprime un giudizio fortemente negativo sui Paesi "socialisti industrializzati" (come l'URSS), che pure hanno abolito la proprietà privata dei mezzi di produzione, e critica apertamente la proprietà statale delle imprese perché "continua a perpetuare l'alienazione del lavoratore rispetto ai mezzi del suo lavoro, escludendolo dalle decisioni che riguardano la produzione, la ripartizione della ricchezza prodotta, l'organizzazione generale dell'economia e della società; inoltre, resta irrisolto il nodo della divisione del lavoro mutuata dai modi capitalistici di produzione e che finisce con il dar luogo ad una vera e propria stratificazione sociale." L'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione è quindi condizione necessaria, ma non sufficiente per costruire una società finalizzata "all'uomo invece che al profitto", senza dimenticare che "non bastano […] le strutture di tipo socialista per edificare da sole una società dell'uomo per l'uomo". La relazione di Gabaglio è caratterizzata da un tono fortemente utopistico e da tensione profetica laddove delinea i tratti della società alternativa al capitalismo, per la cui edificazione le ACLI intendono impegnarsi:

"Non basta eliminare lo sfruttamento intensivo, la riduzione del lavoro a merce. Ma occorre considerare l'impresa come il luogo e il momento in cui l'uomo può realizzare sé stesso nel lavoro, inteso come espansione della sue capacità creative al servizio della comunità, ribaltando i valori ed i comportamenti che derivano dall'organizzazione capitalistica del lavoro. […] Occorre farsi promotori di un progetto radicalmente diverso, in base al quale l'uomo organizzi la propria esistenza personale e comunitaria, secondo valori certamente non precostituiti, ma di cui già si può e si deve dire, che tendono a sostituire rapporti di solidarietà e fratellanza all'atomizzazione della competizione individuale."

Sulla base di queste analisi, l'impegno delle ACLI deve caratterizzarsi per una "scelta anticapitalistica ed autenticamente orientata allo sviluppo umano e che quindi non esclude l'ipotesi socialista"; per Gabaglio tale ipotesi è compatibile con la coscienza cristiana e necessita di un "controprogetto" di cambiamento fondato sulla coscienza di classe. Il presidente conclude la sua lunga e articolata relazione affermando che la scelta anticapitalistica delle ACLI è "irreversibile" e che vi è la necessità "di approfondire la ricerca per un diverso futuro dell'uomo, senza escludere l'ipotesi autenticamente socialista." Benché da un punto di vista formale le relazioni agli annuali incontri di studio nazionali erano a titolo personale, è innegabile che quella di Gabaglio esprima il punto di vista del gruppo dirigente delle ACLI. Interessante e illuminante è anche la testimonianza di Franco Passuello, che conferma che la relazione di Gabaglio non era certamente frutto d'improvvisazione:

"Assieme ad Angelo Gennari […] lavorai per due mesi alla relazione Gabaglio. […] Emilio stava a Como e […] prese la nostra stesura, la dimezzò, la rielaborò e quello che risultò il testo finale è stato vagliato riga per riga, scelto e valutato da lui […] Quando con Angelo rileggemmo di filato tutta la relazione […] ci guardammo in faccia e dicemmo: «Mamma mia, qui succede la fine del mondo»." (F. Passuello, Nel contesto internazionale, in L'ipotesi socialista, cit., p. 41.).

Anche Domenico Rosati conferma che le tesi esposte da Gabaglio esprimevano l'opinione della maggioranza del gruppo dirigente delle ACLI e ricorda che, in una rapida riunione prima della replica dello stesso Gabaglio, il gruppo dirigente aveva condiviso collegialmente la proposta politica del presidente:

"Il testo di Gabaglio […] era stato fatto conoscere ai membri della presidenza solo nell'immediata vigilia della sua lettura, mentre alla sua elaborazione […] ci lavorò per mesi un team centrale. In breve si decise di autorizzare il presidente a impegnare il gruppo dirigente sulla linea della relazione. «Chiediamo» si disse «di essere giudicati su quella proposta»." (D. Rosati, Una storia non ancora completa, intervento alla tavola rotonda del XVIII incontro nazionale di studio di Vallombrosa, in L'ipotesi socialista, cit., pp. 51-52.).

Nei confronti delle tesi esposte da Gabaglio, già nel dibattito della giornata conclusiva del convegno, la minoranza che si era formata al congresso di Torino manifesta le sue critiche. La minoranza formatasi al congresso di Torino l'anno precedente, guidata dai democristiani Giovanni Bersani, Carlo Borrini, Michelangelo Dell'Armellina, Vittorino Colombo ed Enzo Auteri, che aveva cominciato ad organizzarsi come componente interna a livello locale dal febbraio 1970, in Veneto, a Bologna, in Puglia e a Roma e nelle altre poche realtà provinciali dove poteva contare su qualche dirigente locale, incomincerà a prospettare la scissione solo dopo Vallombrosa, con la fondata speranza che l'ipotesi socialista, ritenuta incompatibile con l'orientamento moderato di gran parte degli iscritti alle ACLI, potesse accentuare il malumore della gerarchia verso i dirigenti delle ACLI stesse.

Più complesse da decifrare sono le motivazioni che portano l'ex presidente Livio Labor ad accogliere con freddezza e perplessità le tesi esposte da Gabaglio. Labor, presente a Vallombrosa come semplice iscritto senza responsabilità di gestione nelle ACLI, interviene il 29 agosto (il giorno prima della relazione di Gabaglio) nel dibattito sulla situazione politica italiana che segue alla relazione di Praderi, ma rimane ostentatamente in silenzio nel dibattito sulla relazione del presidente nazionale. Labor, interrogandosi sui compiti dei lavoratori cattolici di fronte al quadro politico del momento, afferma: "La nostra risposta non può, non deve essere e non sarà mai, la rassegnazione agli equilibri di potere e di democrazia esistenti, la rassegnazione ad un presunto «fatale» incontro tra questa DC - moderata, conservatrice, rinunciataria ed irridente a qualsiasi sforzo di creatività politico-democratica – e questo PCI […] rinunciatario e talvolta anch'esso ostile di fronte a qualsiasi tentativo di rinnovamento creativo dei metodi di organizzazione e di gestione delle forze politiche di classe." L'ex presidente centrale presenta anche la sua proposta politica, e cioè "un movimento politico dei lavoratori, autonomo e autonomistico, laico, impegnato per il progresso e la liberazione dell'uomo e per un nuovo internazionalismo."

Per comprendere perché Labor, il cui carisma tra gli aclisti era ancora molto vivo, preferisca insistere sull'inadeguatezza delle forze politiche esistenti nel fronteggiare l'offensiva moderata e conservatrice in atto, tacendo invece sull'ipotesi socialista, occorre tener presente che poche settimane prima si era ufficialmente sciolto l'ACPol (4 luglio) e si era prospettata una fase costituente per un nuovo partito della sinistra, il Movimento Politico del Lavoratori (MPL) promosso dalle stesse componenti che avevano dato origine all'ACPol: sinistra socialista di Riccardo Lombardi, Forze Nuove di Donat-Cattin e Bodrato, sindacalisti CISL e cattolici di provenienza aclista guidati appunto da Labor. La fase costituente inizierà qualche mese dopo, con il convegno di Sorrento del 20-22 novembre 1970. L'intenzione di fondare un nuovo partito, ed anche le sue ragionevoli prospettive d'affermazione, erano legate al fatto che, tra gli ultimi mesi del 1969 e la primavera del 1970, Donat-Cattin, Bodrato e il gruppo dirigente di Forze Nuove, la sinistra lombardiana del PSI e il gruppo di sindacalisti della CISL guidato da Carniti e Macario, avevano manifestato, anche in sedi pubbliche la loro disponibilità a parteciparvi, assieme agli aclisti di Labor che avevano aderito all'ACPol. In particolare Donat-Cattin, in convegno di corrente a Sorrento nel 1967, aveva affermato: "O entro gli anni che stanno sulle dita di una mano noi lasciamo la DC o diventeremo dei notabili" (L. Labor, Non l'MPL ha fatto soffrire le Acli, in Scritti e discorsi, cit., vol. 2, pp. 313-338, alla p. 331): e poi in diverse occasioni ufficiose aveva sostenuto l'inevitabilità della scissione; in particolare due anni dopo, accettando la carica di ministro del lavoro nel governo Rumor II (agosto 1969), aveva rivelato a Labor che "andava al governo per qualificarsi meglio politicamente e rendere quindi più significativa la sua uscita dal partito." (L. Labor, Non si torna indietro, intervista rilasciata a A. Barone, in «Alternativa», 7 maggio 1972).

Invece solo due mesi prima di Vallombrosa, il 6 luglio 1970, la disponibilità di Forze Nuove ad uscire dalla DC e partecipare alla fondazione del MPL viene meno improvvisamente, nella riunione convocata da Gabaglio all'albergo Villa Sciarra di Monte Porzio Catone (Roma) per definire il processo costituente del nuovo partito. Di fatto il quadro politico era in rapido movimento: l'anno precedente Moro aveva lasciato definitivamente i dorotei, verso la cui linea politica diveniva progressivamente più critico, stabilito buoni rapporti con le correnti della sinistra DC e andava elaborando il suo progetto di collaborazione col PCI, progetto che diveniva più realisticamente realizzabile se la DC fosse rimasta unita e le correnti della sinistra interna fossero sempre più in grado d'influenzarne la politica. In questo quadro politico il progetto politico di Labor, contrariamente alle ottimistiche previsioni formulate al momento dello scioglimento dell'ACPol, rischiava d'esser compromesso ancor prima di dare avvio alla fase costituente del MPL. In questa situazione di debolezza, Labor rimane spiazzato dalla relazione di Gabaglio. Qualche anno dopo, parlando di sé in terza persona, spiegherà:

"Visceralmente la parola socialista fa scattare una reazione all'interno del mondo cattolico italiano e della Gerarchia cattolica. Rispetto alle conquiste di Torino, Vallombrosa '70 è stata deviante e scatenante; ha inoltre reso inutile l'uscita di Labor dal movimento. Labor infatti aveva ripetutamente dichiarato che lasciava il movimento perché la scelta socialista andava fatta sulla propria pelle e non sulla pelle del movimento. Così ha scritto al Consiglio nazionale nel dicembre 1969 dando le dimissioni, e rifiutandosi, per sempre, di divenire una specie di eminenza grigia che manovrasse le ACLI dal di fuori, così come, purtroppo, molti, troppi, hanno senza fondamento alcuno immaginato e scritto. Quanto è avvenuto nell'agosto del 1970 a Vallombrosa, a mio avviso, ha bloccato il processo di serena differenziazione politica all'interno, che era stato da noi previsto e voluto, con sincero rispetto verso quella maggioranza di lavoratori aclisti che ancora votano DC, di cui eravamo pienamente coscienti."

La posizione di Labor è in fondo chiara: non dissente nel merito dalle tesi di Vallombrosa, ma le ritiene "un ingenuo errore politico, che ha tirato addosso alle ACLI (non certo la prima volta!) la gerarchia cattolica, ha costretto i dirigenti a due anni di amari incontri e scontri e, successivamente, ha suscitato la dolorosa deplorazione da parte del Pontefice, accompagnata da una scissione manovrata." (L. Labor, Non l'MPL ha fatto soffrire le Acli, cit., pp. 315-16).

Per Labor la scelta socialista poteva essere legittimamente compiuta da singoli militanti aclisti, ma non doveva coinvolgere il movimento in quanto tale. Inoltre il rischio reale era che all'esterno le posizioni di Gabaglio apparissero come ispirate o dettate da Labor stesso, che aveva designato Gabaglio come suo successore alla presidenza nazionale, e lasciassero sospettare una strumentalizzazione delle ACLI a favore del nascente MPL.

Lo stesso Gabaglio conferma: "Come ho scritto a più riprese, Labor non ebbe parte alcuna nella vicenda. In pubblico definiva l'ipotesi socialista «un ingenuo errore» ma a tu per tu non mi risparmiò critiche più severe. Innanzitutto per l'intima sofferenza che l'acuirsi della crisi delle ACLI, apertasi già a Torino, gli procurava e poi per la fondata convinzione che le nostre difficoltà non avrebbero sicuramente agevolato il cammino della sua nuova esperienza politica." (Lettera di Emilio Gabaglio a Luigi Bobba, del 25 giugno 2001, in L'ipotesi socialista, cit., p. 71).

Il percorso con il quale le ACLI pervengono a formulare l'ipotesi socialista è comunque tutto nell'ambito dell'analisi critica delle esigenze sociali che emergono dalla crescente consapevolezza del movimento dei lavoratori maturata nelle lotte sindacali e politiche della seconda metà degli anni Sessanta, sia pure interpretata alla luce dell'ispirazione cristiana delle ACLI stesse, e pertanto differisce significativamente da analoghe, ed apparentemente simili, posizioni emerse in quegli stessi anni dalle comunità cristiane di base per motivazioni prevalentemente religiose. Infatti le comunità di base, all'epoca fortemente partecipate, assumevano la lotta politica come impegno prevalente nella loro vita cristiana, declinandola attraverso interpretazioni più o meno esplicitamente vicine al marxismo, con venature simili a quelle della sinistra extraparlamentare. La grande maggioranza dei loro aderenti non intendeva abbandonare l'appartenenza ecclesiale, ma semplicemente essi ritenevano che il messaggio evangelico dovesse essere interpretato alla luce di categorie politiche e auspicavano una riforma della Chiesa non solo sulla base degli esiti conciliari, ma anche come risultato della prassi politica. L'ipotesi socialista delle ACLI e le elaborazioni filomarxiste di molte comunità di base, per le loro origini e motivazioni, rimangono dunque processi distinti e paralleli, con scarse influenze reciproche, le cui analogie estrinseche documentano soltanto la forte egemonia che la cultura marxista esercitava sulla mentalità media dei militanti politici in quell'epoca, influenzandone il linguaggio e anche la comprensione del rapporto tra teoria e prassi.

Il convegno di studi di Vallombrosa lascia complessivamente aperta la questione della compatibilità dell'ipotesi socialista con la dottrina sociale della Chiesa e con gli orientamenti generali riguardanti la presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo definiti dal Concilio Vaticano II. Prima Gabaglio già a Vallombrosa, e poi la presidenza nazionale delle ACLI in più occasioni e anche, in particolare, negli incontri con la delegazione della CEI, sostengono che l'ipotesi socialista, che emerge come un'esigenza naturale dal ruolo assunto dal movimento dei lavoratori nell'azione sindacale e sociale, non solo è pienamente compatibile con l'ispirazione cristiana delle ACLI, ma rappresenta uno sviluppo positivo dell'impegno tradizionale della Chiesa per umanizzare la società coerentemente coi valori evangelici, pur rimanendo per le sue connotazioni politiche un opzione opinabile e che quindi non deve impegnare o compromettere la gerarchia. All'opposto vari vescovi e intellettuali del mondo cattolico ritengono che l'ipotesi socialista implichi già sul piano logico e valoriale l'assunzione della tesi dell'incorreggibilità del capitalismo e che quindi sia necessariamente destinata ad entrare in rotta di collisione con il magistero sociale della Chiesa.

Nel frattempo, il 1 agosto 1970 Poma aveva confermato mons. Cesare Pagani quale assistente centrale delle ACLI per un ulteriore triennio, ma al biglietto di nomina era allegata una lettera, che viene resa pubblica dal Notiziario della CEI, contenente indicazioni vincolanti sull'esercizio dell'incarico: "L'opera dell'assistente, nel rispetto delle responsabilità che sono proprie dei laici di fronte agli impegni temporali, deve poter costituire [...] sicurezza di fedeltà alla Chiesa, aiuto e coerenza tra ispirazione cristiana e scelte concrete di azione […] Con questo impegno, ogni assistente delle ACLI […] potrà essere di grande aiuto alle associazioni di lavoratori cristiani a restare fedeli alla loro ispirazione ed alle loro finalità originaria, così da garantire la loro credibilità come opera di Chiesa di fronte alla comunità cristiana." (lettera di Poma a Pagani del 1 agosto 1970, prot. 1493/70). Nel notiziario della CEI, in calce alla comunicazione della Segreteria del 2 settembre, con cui viene inoltrata ai vescovi la lettera di Poma, è aggiunto un Nota Bene, particolarmente significativo ("I predetti documenti sono stati predisposti prima del recente convegno ACLI di Vallombrosa") che lascia intendere come gli esiti di Vallombrosa abbiano mutato profondamente il clima del dialogo tra CEI e ACLI.

Tuttavia Pagani, sul medesimo Notiziario CEI, continua a difendere fermamente gli orientamenti delle ACLI, nonostante la dissociazione della minoranza interna: "Mi sembra di poter dire con serena coscienza che le ACLI rappresentino un'esperienza cristiana essenzialmente positiva. […] Nei confronti del mondo cattolico costituiscono uno scandalo per alcuni, ma anche una speranza per altri." Inoltre manifesta una sostanziale adesione agli orientamenti di Torino e Vallombrosa, anche se espressi in un linguaggio più prudente, ad esempio laddove ribadisce che il fine delle ACLI va oltre il momento formativo ed è "la costruzione di una città terrena a dimensione radicalmente e necessariamente animata dallo spirito evangelico."

La ripresa del confronto con la CEI

Solo a novembre si riapre la serie di incontri tra la delegazione della CEI e quella delle ACLI, ma l'atteggiamento e il tono dei vescovi è più risoluto rispetto all'incontro di maggio. Il colloquio della mattina del 9 novembre ha un carattere preliminare, per le ACLI sono presenti Gabaglio e Pagani, per la CEI mons. Nicodemo e mons. Quadri. Il pomeriggio dello stesso 9 novembre Nicodemo e Quadri ricevono due esponenti della minoranza delle ACLI (Auteri e Borrini) alla Domus Marie.

L'assemblea dei vescovi del 9-14 novembre discute del caso ACLI, e in un quadro interlocutorio vengono sollevati dubbi sulla natura e funzione delle ACLI, ma non mancano interventi del tutto favorevoli al movimento dei lavoratori cristiani, come quello di mons. Luigi Liverzani: "La crisi delle ACLI è determinata dal fatto che esse, più di ogni altra associazione operante nel settore, hanno preso coscienza della situazione, e questo costituisce un fatto positivo. […] E' perciò necessario sostenere le ACLI perché compiano questo servizio in prospettiva ecclesiale." (Verbale dell'Assemblea generale della CEI del 9-14 novembre 1970, in Atti della VII assemblea generale, Edizione riservata ai vescovi, CEI, Roma 1970, p. 192).

Il comunicato finale sembra non nascondere un marcato irrigidimento, laddove i vescovi: "esprimono la convinzione che i colloqui già iniziati con i dirigenti delle ACLI, e ora resi più urgenti da recenti orientamenti dottrinali e programmatici, debbono venir continuati e sollecitamente conclusi, con la chiara assunzione delle rispettive responsabilità." Sorprendentemente il presidente delle ACLI interpreta l'orientamento dell'assemblea plenaria della CEI negando ogni irrigidimento: "Il tono e il clima risulta essere stato molto positivo e la conclusione oltremodo valida anche in ragione della consapevolezza accresciuta nei Vescovi che, relativamente ai temi che comportano giudizi di merito e valutazioni di opportunità, bisogna attrezzarsi scientificamente con strumenti idonei."

I successivi incontri si svolgono il 9 e 10 dicembre 1970 e 8 gennaio e 1 febbraio 1971. La precedente delegazione CEI è integrata dall'arcivescovo di Siracusa, mons. Giuseppe Bonfiglioli, dal vescovo di Frascati, Luigi Liverzani, dal vescovo ausiliare di Bologna, Luigi Dardani e, in qualità di esperto, dal gesuita padre Bartolomeo Sorge, direttore della Civiltà Cattolica. Mons. Costa fa ancora formalmente parte della delegazione, ma di fatto non partecipa più agli incontri. La delegazione delle ACLI permane invece immutata in tutti gli incontri (Gabaglio, Brenna, Fortunato e Pagani). Nel primo colloquio la delegazione della CEI ascolta e prende atto dei chiarimenti di Gabaglio e Brenna su: condanna del capitalismo, analisi marxista della società, proprietà privata, socializzazione dei mezzi di produzione, autogestione, partecipazione e rivoluzione. Tra l'altro Gabaglio afferma: "siamo […] rivoluzionari, ma per una rivoluzione che non poggia sulla violenza, ma sulla convinzione." (Verbale dell'incontro CEI-ACLI del 9 dicembre 1970).

Geo Brenna critica con convinzione e senza mezzi termini il partito cattolico: "un partito politico come la DC, che si pone oggi come sostegno al sistema neocapitalistico e non per cambiarlo, pur se è sociologicamente interclassista, ha in pratica compiuto una scelta contraria alla nostra. I partiti vanno giudicati dalla politica che in concreto fanno e non dai programmi..."

E Gabaglio rincara la dose: "La DC […] tradisce i suoi antichi valori […] Noi non escludiamo tutta la DC, soprattutto la sinistra DC dall'arco dei nostri interlocutori, ma spesso non la troviamo con noi a fianco dei lavoratori." Sui rapporti tra ACLI e gerarchia, Gabaglio precisa che "abbiamo sempre avuto cura di non coinvolgere la Gerarchia in nostre scelte opinabili" e afferma: "noi sentiamo il bisogno di un rapporto sempre più vitale con la Gerarchia. Ci sembra però di essere nella condizione di chi rifugge dai due estremi: quello del rapporto di «mandato» e quello di un rapporto di «giudizio» […] A nostro avviso le ACLI si collocano in un rapporto di «consenso»."

A conclusione dell'incontro, mons. Pagani insiste nel suo ruolo di aspirante mediatore: "Oggi nelle ACLI il fare politica è ricercare un contropotere di base e questo fa crescere le persone e richiede una formazione ai valori; quindi non preclude il momento formativo, che è quello che in definitiva preoccupa la Chiesa."

Dopo questo primo colloquio, mons. Cesare Pagani, in una lettera confidenziale a Gabaglio e Brenna, manifesta il suo dissenso su alcuni aspetti delle tesi sostenute dai dirigenti aclisti nell'incontro con i vescovi e, dopo aver ricordato che "voi sapete che ho delle personali riserve sulle attuali scelte delle ACLI", e affinché il chiarimento dottrinale richiesto dai vescovi possa essere efficace, ritiene che "urgano dei fatti precisi e inconfondibili che indichino l'originalità e, quindi, la credibilità delle ACLI. […] Vi chiedo di trovare con genialità e con coraggio delle proposte concrete che dimostrino coi fatti la chiara distinzione dai gruppi della contestazione estremista […] dal marxismo e dalle forze marxiste; la chiara divisione dal MPL (come fatto oggi emergente); […] un'ipotesi chiara delle forme di presenza e di azione del Sacerdote nel Movimento." (Lettera di Pagani a Gabaglio e Brenna del 1 gennaio 1971).

Poche settimana dopo, prima di recarsi in udienza da Paolo VI, l'Assistente delle ACLI scrive ancora a Gabaglio per confermargli che il "disagio da me avvertito" per gli orientamenti espressi dalla ACLI non è "psicologico né soggettivo": "Ti prego di tenerne calcolo, come tu sai ben fare, per superare le reali difficoltà di questo momento, per impostare con coraggio qualche revisione." (Lettera di Pagani a Gabaglio del 31 gennaio 1971).

Nell'incontro del 8 gennaio 1971, i vescovi esprimono le loro prime valutazioni sui chiarimenti forniti dai dirigenti ACLI nel precedente incontro. Ad esempio, sul tema spinoso del diritto naturale alla proprietà e sulla legittimità di una sua limitazione per favorire il bene complessivo della società, i vescovi ribadiscono che "sembra loro sufficiente, per tutelare il bene comune e assicurare la partecipazione di più ampi strati popolari alla gestione e al potere, la dottrina sociale della Chiesa sulla proprietà privata quale mezzo di garanzia naturale di espansione personale." Riferendosi all'ipotesi socialista di Vallombrosa, i vescovi sostengono che le tesi espresse in un linguaggio marxista devono esser precedute da "una precisazione chiara di quei principi fondamentali che le ACLI, in quanto sono un movimento cristiano, non possono non accettare." (Verbale dell'incontro CEI-ACLI del 8 gennaio 1971).

Il colloquio si conclude con la delegazione ACLI che conferma che "la scelta politica del movimento è irreversibile: le ACLI non potranno mai più tornare ad essere un movimento ecclesiale dei lavoratori, come lo furono 20 anni fa." I vescovi ribattono che allora "è necessario rivedere i rapporti tra gerarchia e ACLI" e le ACLI confermano la loro disponibilità a "rivedere lo statuto su questo punto." Durante l'ultimo incontro, il primo febbraio 1971, mons. Nicodemo comunica che, a suo giudizio, "l'ipotesi di una sconfessione delle ACLI da parte dei vescovi è esclusa" e padre Sorge aggiunge che un giudizio dei vescovi "che suonasse sconfessione, sarebbe un errore storico." (appunti personali di Emilio Gabaglio).

Le ricostruzioni e le valutazioni sull'intera serie di colloqui tra le delegazioni della CEI e delle ACLI risultano alquanto eterogenee. Secondo Gabaglio, che informa il Comitato Esecutivo delle ACLI, "il giudizio dei vescovi circa l'andamento del dialogo è da considerare positivo; mons. Nicodemo ha voluto precisare che i vescovi non si considerano collegio giudicante; che la loro disponibilità è totale", ma permangono "perplessità di ordine dottrinale" sulla proprietà privata, sui metodi usati per l'analisi della società, sulla conciliabilità della lotta di classe con la carità e con la collaborazione con le forze della sinistra. Molti anni dopo lo stesso Gabaglio formula un giudizio molto meno ottimistico: "Ho sempre avuto l'impressione che una parte dei dialoganti avesse la volontà di aiutare a comprendere meglio e a chiarire, mentre altri interlocutori questa volontà l'avevano in modo minore […] Vallombrosa radicalizzò oggettivamente il problema. Se già c'erano degli interrogativi sulle scelte fatte a Torino, che pure erano in qualche modo politicamente neutre, la cosiddetta ipotesi socialista venne immediatamente interpretata come una scelta di campo e non come una ricerca, sia pure discutibile, di natura culturale o tesa a misurarsi con cose nuove. Nonostante ciò il dialogo andò avanti, ma non poté concludersi." (Intervento di Gabaglio alla tavola rotonda Paolo VI e la crisi delle ACLI nel 1971, cit. ).

Nella Nota di sintesi delle opinioni espresse dalla delegazione ACLI negli incontri con la CEI, Gabaglio informa il Comitato Esecutivo che le ACLI hanno meglio precisato i contenuti dell'ipotesi socialista emersa a Vallombrosa. In particolare per quanto concerne la proprietà privata dei mezzi di produzione, le ACLI ritengono giusto che lo Stato ponga "limiti al diritto della persona alla proprietà" e che vadano espropriate le proprietà private che "ostacolano il bene comune", che sia da perseguire la "socializzazione e autogestione" dei mezzi di produzione (escludendone la statalizzazione) e la "pianificazione democratica vincolante." Ancora le ACLI hanno precisato ai vescovi che ritengono vadano "abbandonati come metri assoluti il criterio del profitto e quello dell'espansione produttiva fine a sé stessa, l'elemento guida deve essere il soddisfacimento dei bisogni reali della collettività." Hanno ribadito ai vescovi che "la lotta di classe è un fatto e non un mezzo; per le ACLI non è mai un fine". Per quanto attiene al rapporto del movimento con la gerarchia, secondo le ACLI "dovrebbe esprimersi in un consenso della Gerarchia, secondo l'insegnamento del Concilio, non sulle singole scelte o attività delle ACLI, ma sulla legittimità e validità del loro dichiararsi gruppo di cristiani che, oltre ad un impegno sociale specifico nel movimento operaio, vuole maturare e alimentare comunitariamente la sua testimonianza".

Un'altra protagonista dei colloqui tra ACLI e CEI, Maria Fortunato, ricorda aspetti molto significativi: "Noi c'eravamo divisi i compiti in questo modo: Gabaglio aveva chiesto a Brenna di fare il «duro», di essere quello più inflessibile, mentre lui tenne il ruolo del mediatore: era il presidente, era anche giusto che fosse suo. Io invece, fra i tre, ero quella che meglio conosceva il mondo cattolico e cercavo di dimostrare che le ACLI agivano così proprio perché cristiane. […] Io ero la più pessimista dei tre, nel valutare i possibili risultati. Loro dicevano: ci stanno ad ascoltare. Ma io dicevo: «Emilio, ci ascoltano, ma non accettano una parola di quel che diciamo». Ci accusano di dare troppa importanza all'economia. […] Ci ascoltavano, però continuavano a pensare che eravamo andati al di là di quello che per loro era ammissibile." (Intervista a M. Fortunato, in S. De Fazi, Maria Fortunato, Aesse, Roma 2000, p. 21).

Per quanto riguarda il punto di vista della delegazione della CEI, l'unico ad essere andato oltre lo stretto riserbo e i limiti dell'ufficialità è stato padre Bartolomeo Sorge, segretario verbalizzante degli incontri, oltre che consulente dei vescovi: "Rimasi impressionato dall'andamento di questi incontri: fu un vero bombardamento di domande e risposte, come agli esami. Le domande riguardarono tutte le tesi del marxismo, ma le risposte che gli aclisti davano non erano in contraddizione con la dottrina sociale della Chiesa, semmai il loro era un tentativo di rilettura «battezzata» della terminologia e delle tesi marxiste; insomma era il primo tentativo di «inculturazione» di quella che possiamo considerare la cultura a quel tempo dominante." (Intervento di padre Bartolomeo Sorge alla tavola rotonda Paolo VI e la crisi delle ACLI nel 1971, 31 agosto 2001, cit., pp. 33-38, alla p. 33). L'8 febbraio, una settimana dopo l'ultimo colloquio, il Consiglio di Presidenza della CEI per la prima volta rende pubblica la propria insoddisfazione per l'esito degli incontri: "Le richieste presentate dal Comitato [dei vescovi] hanno dato luogo a risposte esplicative, le quali, pur con la più benevola interpretazione, date le scelte operate dal movimento, non sono valse a dissipare le perplessità e riserve di carattere dottrinale e specialmente pastorale, che avevano originato il dialogo." (Comunicato del Consiglio di Presidenza della CEI del 8 febbraio 1971).

Nella sintesi della relazione del Comitato dei Vescovi, dal titolo Orientamenti per una valutazione della situazione delle ACLI, resa pubblica sempre sul Notiziario della CEI (1971, Supplemento n. 1, pp. 32-35) si ribadiscono le perplessità dottrinali concernenti l'ipotesi socialista, come l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la lotta di classe, ma è sull'aspetto pastorale che le critiche sono più forti e trancianti: "Il facile estremismo e fanatismo che deriva dall'ipotesi socialista, così come è compresa dai lavoratori, può ingenerare tentazioni di violenza [… e] c'è anche il pericolo, nonostante la volontà contraria delle ACLI, di essere strumentalizzati dal PCI, compromettendo i valori della libertà civile e religiosa." Esplicitamente criticato è anche l'impegno politico delle ACLI, che "di fatto coinvolge davanti all'opinione pubblica la responsabilità della Gerarchia in un settore che non le è proprio (le ACLI di fatto compiono tutte le attività che compiono i partiti, escludendo, per ora, solamente la presentazione di proprie liste elettorali e l'assunzione diretta di potere politico)."

Di fronte a questa svolta mons. Cesare Pagani non nasconde più le sue preoccupazioni: "Sembra emergere dai Vescovi un giudizio negativo o quanto meno di sfiducia che potrebbe preludere alla sconfessione delle ACLI. Se di ciò si trattasse sarebbe un errore storico. In via di dottrina non ci sono elementi contrastanti di fondo; circa le scelte sociali è doveroso richiamarsi all'area dell'opinabile, anche se possono sorgere delle perplessità circa i comportamenti pratici. Compete ai laici, in quanto tali, fare le scelte in libertà." (Verbale CE del 11 febbraio 1971). E ancora, sintetizzando le perplessità dei vescovi, Pagani afferma che "mons. Nicodemo ha cercato di dimostrare che non era illogica, ma coscientemente logica, la perplessità di carattere dottrinale. I Vescovi hanno molto sottolineato l'aspetto pedagogico strettamente connesso al comportamento delle ACLI, con gli inevitabili riflessi sui lavoratori come sul mondo cattolico". Sul comunicato della CEI gli sembra "di poter dire che il giudizio sulle ACLI sia pressoché definitivo." Non si esime dal valutare il suo stesso ruolo nella vicenda: si sente "tagliato fuori dal gioco per volontà dei Vescovi perché lo considerano debole ed inadeguato […] Gli assistenti hanno seguito la linea della mediazione fra responsabili: Vescovi e laici. Questa linea è fallita."

Questa percezione di fallimento della missione di Pagani è confermata anche da mons. Giuseppe Pasini, storico delle ACLI delle origini e vice assistente centrale dal 1967 al 1971, che ha vissuto da vicino la vicenda come componente del gruppo degli assistenti nazionali. Afferma, infatti, che mons. Cesare Pagani "era stato chiamato esplicitamente da Paolo VI a Roma per «salvare il movimento» da possibili derive, e godette sino alla fine della simpatia e della fiducia del Papa. Ad un certo punto però nella S. Sede prevalse il giudizio negativo che conosciamo: a lui, in particolare, fu attribuita la responsabilità primaria del mancato salvataggio delle ACLI." (Intervista a mons. Giuseppe Pasini, in Le ACLI e la Chiesa, cit., p. 50). Giudizio molto simile è anche quello di mons. Quadri, che mette in luce un aspetto ulteriore, relativo alle difficoltà di interloquire direttamente col Pontefice: "Anche mons. Pagani, pur molto amico di Montini, non riuscì più a parlare con lui." (Intervista a mons. Santo Quadri, in A. Scarpitti, Santo Quadri, Aesse, Roma 2000, p. 34).

Nonostante il pessimismo di Pagani, che risulterà giustificato alla luce delle decisioni successive, tra i vescovi vi è ancora molta incertezza sull'atteggiamento da tenere con le ACLI. Nella riunione della Commissione episcopale per il laicato del 9 e 10 marzo 1971, mons. Liverzani ammette che le ACLI, nel corso degli incontri con la delegazione della CEI hanno formulato "giudizi storici ed esistenziali non impugnabili sul piano dottrinale" e che "si appellano al marxismo solo per l'analisi della società, ma affermano il valore della persona umana." (Verbale della Commissione per il laicato della CEI del 9-10 marzo 1971, prot. 1340 del 26 maggio 1971). E mons. Bonfiglioli afferma che bisogna riconoscere le competenze degli aclisti nelle scelte politiche, anche se è evidente che sul piano pastorale possono creare difficoltà ed equivoci, ma in ogni caso "una posizione della CEI non dovrebbe essere una sconfessione." (Ivi, p. 28). Lo stesso mons. Costa, intervenendo nel dibattito circoscrive il giudizio negativo sulle ACLI al solo piano delle scelte politiche: "non è da dubitare della buona volontà in genere degli aclisti. Sono le posizioni politiche apertamente assunte che creano un problema pastorale." (Ivi, p. 26). In una memoria più ampia, consegnata ai membri della commissione, Costa esprime un orientamento decisamente pessimista: "Si ritiene che ben poco vi sia da sperare dai colloqui iniziati tra vescovi ed esperti e dirigenti delle ACLI. Le ACLI non intendono fare le loro scelte con i vescovi, ma solo tra loro, nei loro organi. Dopo l'inizio dei colloqui, in seguito al convegno di Vallombrosa, la situazione si è fatta assai più grave." (Allegato n. 3 al Verbale della Commissione per il laicato della CEI del 9-10 marzo 1971).

Nel frattempo, nei giorni immediatamente seguenti il Comitato esecutivo del 11 febbraio 1971, Pagani promuove vari incontri con gli assistenti periferici per valutare la situazione. Tali incontri avvengono senza la presenza dei dirigenti aclisti e ciò suscita la formale protesta di Gabaglio, che gli scrive "nel momento in cui tentiamo di affermare un nuovo tipo di rapporto tra dirigenti e sacerdoti-assistenti e in presenza di un problema di tanto peso, ci pare che la strada seguita contraddica nei fatti a questa diversa prospettiva di lavoro e anziché creare i presupposti di una maggior compenetrazione, rende manifesto un certo distacco, innovando rispetto ad una prassi consolidata." (lettera di Gabaglio a Pagani del 17 febbraio 1971, prot. 34/71). Il presidente esprime anche il disagio della presidenza nazionale per le interpretazioni derivate dall'esclusione dei dirigenti da tali incontri, e teme che "si alimentino così delle ombre che non giovano sicuramente ad un impegno che abbiamo ritenuto e riteniamo comune." Risponde immediatamente mons. Pagani: "non mi nascondo che la lealtà e l'amicizia alle quali fai riferimento dovevano sconsigliare la stesura stessa della lettera" e, dopo aver ricordato che incontri di assistenti senza dirigenti sono spesso avvenuti in passato, sostiene che uno scambio di idee "limitato ai sacerdoti" è più proficuo perché "le ultime prese di posizione della CEI coinvolgono direttamente e gravemente la nostra missione sacerdotale nelle ACLI". (lettera di Pagani a Gabaglio del 22 febbraio 1971).

In ogni caso le preoccupazioni dell'assistente nazionale in merito all'orientamento dei vescovi risultano più che giustificate; infatti a conclusione del Consiglio di Presidenza della CEI del 4-6 maggio 1971 è emessa una dichiarazione sul magistero sociale della Chiesa, nella quale alcuni paragrafi sono dedicati alle ACLI:

"L'episcopato italiano ha dovuto prender atto di alcune scelte, recentemente operate dalle ACLI in piena loro autonomia, riguardanti sia impostazioni concettuali e programmatiche, sia una deliberata linea politica con le forme e con le collaborazioni a questa conseguenti. D'altra parte l'impegno politico, sindacale ed economico, anche se seriamente ispirato ai fondamentali valori cristiani e rivolto ad una autentica testimonianza, nelle sue scelte temporali concrete è compito dei cristiani come cittadini, non della Chiesa in quanto tale, o di una associazione che opera nel suo ambito; e perciò la Gerarchia, mentre rispetta ogni legittima libertà, non può né deve essere compromessa da opinabili opzioni temporali. […] Si è constatato particolarmente che le scelte operate in questi ultimi tempi dalle ACLI hanno suscitato non lievi difficoltà e turbamenti all'interno e fuori delle Associazioni stesse, ed hanno creato non poche situazioni pastoralmente difficili e non compatibili con un'armonica visione unitaria della comunità ecclesiale. Pertanto, nel rispetto dell'autonomia rivendicata dalle ACLI e della loro libera scelta di essere soltanto un movimento di lavoratori cristiani, i Vescovi non ritengono che oggi le ACLI rientrino tra quelle associazioni per le quali il decreto Apostolicam actuositatem prevede il «consenso» della Gerarchia (n. 24)."

Il riferimento dei vescovi è al terzo comma del capitolo 24 del decreto conciliare sull'apostolato dei laici: "Sono molte infatti le iniziative apostoliche che vengono prese dalla libera volontà dei laici e sono rette dal loro prudente criterio. Mediante queste iniziative, in certe circostanze la missione della Chiesa può essere meglio adempiuta; perciò esse vengono non di rado lodate o raccomandate dalla gerarchia. Ma nessuna iniziativa rivendichi a se stessa la denominazione di «cattolica», se non interviene il consenso della legittima autorità ecclesiastica." Presa alla lettera, dunque, la pronuncia dei vescovi non è una sconfessione delle ACLI, e così la interpretano soprattutto molti vescovi. In effetti, da un punto di vista storico, è la prima volta che il principio conciliare della responsabilità e autonomia dei laici nelle scelte politiche è formalmente e autorevolmente applicato alla situazione italiana. Tra le decine di dichiarazioni dei vescovi residenziali, le più significative ed autorevoli nel negare decisamente ogni ipotesi di sconfessione sono quelle dei vescovi di Torino, Novara e Brescia.

Afferma il card. Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino: "La decisione della CEI non significa in nessun modo né riprovazione né disinteresse dell'Episcopato riguardo alle ACLI, ma soltanto il riconoscimento della loro autonomia nel campo temporale […] mentre rimane sempre chiaro che l'impegno di formazione cristiana dei lavoratori e di animazione in senso evangelico del mondo del lavoro è un dovere grave e urgente della Comunità cristiana, che va realizzato con la responsabilità di tutti, sacerdoti e laici, sotto la guida della Gerarchia, che si sente in obbligo di continuare ad aiutare a questo scopo anche le ACLI, in primo luogo con l'opera del sacerdote." (Dichiarazione del card. Michele Pellegrino, in «Avvenire», 13 maggio 1971).

Nella stessa direzione si pronuncia mons. Placido Cambiaghi, vescovo di Novara. Altrettanto favorevole alle ACLI è l'orientamento del vescovo di Brescia, dove le ACLI sono particolarmente diffuse e presenti nella vita sociale e nella chiesa. Scrive mons. Luigi Morstabilini, il 15 maggio 1971, sottolineando che è l'80° anniversario della Rerum Novarum: "Il consiglio di presidenza della CEI, pur constatando che le scelte operate in questi ultimi tempi dalle ACLI hanno suscitato non lievi difficoltà, non ha inteso per nulla sconfessarle. […] Non ha fatto altro che scindere la responsabilità diretta della gerarchia da quella dei «laici che, attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne e direttive, hanno come loro compito specifico di penetrare di spirito cristiano la mentalità, i costumi, le leggi e le strutture della loro comunità di vita». […] In altre parole, la Chiesa ha riconosciuto alle ACLI una più spiccata autonomia nelle loro scelte temporali nel campo sociale, politico e sindacale. Con questo riconoscimento accorda loro implicitamente fiducia e ne riconosce la maturità ad operare responsabilmente nei campi suaccennati." (Dichiarazione di mons. Luigi Morstabilini, pubblicata col titolo Il Vescovo e le ACLI. Fiducia nei lavoratori cristiani e fedeltà agli insegnamenti della Chiesa, in «La Voce del Popolo», 22 maggio 1971).

Anche mons. Cesare Pagani in un'intervista alla televisione di Stato avvalla pubblicamente queste manifestazioni d'appoggio di alcuni vescovi nei confronti delle ACLI: "La Gerarchia, con le ACLI – secondo una visione che era congeniale agli anni '45 (sic), quando le ACLI sono nate – puntava anche e precisamente ad una azione pastorale. Oggi la Gerarchia rivendica più all'interno quest'azione squisitamente pastorale e lascia alle ACLI di agire in modo preciso in campo sociale, in campo temporale, in campo politico, con un'ispirazione cristiana." (intervista televisiva a mons. Cesare Pagani nella rubrica Domenica ore 12, 16 maggio 1971).

Queste interpretazioni benevole del comunicato della CEI sono considerate da gran parte dell'opinione pubblica e dalla stampa conservatrice come "non autentiche".

Anche se l'ipotesi socialista non è esplicitamente richiamata nelle motivazioni del ritiro del consenso da parte dei vescovi, l'importanza determinante svolta dalle conclusioni del convegno di studio di Vallombrosa risulta indubitabile. Da questo punto di vista l'intervento più autorevole è quello del card. Albino Luciani che, nel maggio del 1971, (Per le ACLI una svolta imposta dai tempi, in «Avvenire», 19 maggio 1971) appare critico verso le ACLI, accusate di aver compiuto "la scelta del socialismo", in una visione che implica "l'accettazione dell'analisi marxista della società; la divisione rigida degli uomini in sfruttati e sfruttatori; il negare la proprietà privata perfino dei medi e piccoli mezzi di produzione." Domenico Rosati precisa che, nel 1978, pochi mesi prima di essere eletto Papa, il card. Luciani gli ha rivelato che tale intervento su Avvenire gli era stato esplicitamente chiesto dal Sostituto mons. Benelli, "per correggere un giudizio del cardinale Pellegrino che negava esservi stata una sconfessione delle ACLI" (D. Rosati, Il laico esperimento, Edup, Roma 2006, pp. 150-51) e che i vescovi avevano deciso di ritirare il consenso anche influenzati dal parere di mons. Quadri che aveva affermato che la maggior parte degli aclisti era orientata a votare PCI.

D'altro lato, l'interpretazione benevola del comunicato della CEI non è fatta interamente propria nemmeno da Gabaglio e da gran parte del gruppo dirigente nazionale delle ACLI, sia pure con diverse distinzioni non trascurabili. Il presidente delle ACLI apre il Comitato Esecutivo sostenendo che "la CEI ha dato di più di quanto abbiamo chiesto. Il documento configura una assenza di consenso in termini giuridici […] La determinazione dei Vescovi è corretta […] in termini di logica conciliare. […] Secondo questa visione possiamo compiacerci del passo in avanti. […] La Gerarchia, con questa dichiarazione, si è preclusa e ha precluso ogni possibilità di ricostruire il consenso. […] Siamo oggi ridotti allo «stato laicale». Il nostro Cristianesimo non cesserà però di essere testimoniato, così come siamo chiamati a fare e capaci di fare."

A conclusione del dibattito, il presidente nazionale, pur ammettendo che si dovranno anche "valutare gli aspetti positivi" della dichiarazione CEI, non si nasconde il potenziale impatto negativo per le ACLI dell'orientamento dei vescovi: "siamo qui di fronte ad una realtà nuova che investe non solo le ACLI, ma tutta la Chiesa italiana del post-Concilio; valutiamo se è il caso di rivolgere […] un appello alla base […] E' necessario andare avanti. Non basta certo una dichiarazione dei Vescovi per distruggere un movimento." In sostanza Gabaglio apprezza in linea di principio il ritiro del consenso, ma non si nasconde che nella concreta situazione storica e politica esso si configura come un offensiva e una critica verso l'orientamento politico progressista delle ACLI.

Alla fine della lunga e appassionata discussione, il Comitato Esecutivo delle ACLI approva un documento, che è pubblicato con grande rilievo su Azione Sociale, col titolo un po' provocatorio e a caratteri cubitali Le Acli continuano. Nel testo, riferendosi alla dichiarazione della CEI, si afferma:

"Tale decisione deve essere ritenuta nella sostanza elemento di chiarificazione e di distinzione di responsabilità che da un lato vuole l'Episcopato al riparo da ogni compromissione, anche solo apparente, con opinabili scelte concrete – sociali, sindacali e politiche – e dall'altro intende applicare la Dottrina conciliare dell'autonomia e competenza dei laici nell'ordine temporale. Da questa fondamentale distinzione di piani e di competenze, mentre viene esclusa ogni ipotesi di sconfessione di scelte opinabili, risulta altresì impedita ogni strumentalizzazione integrista dell'insegnamento della Chiesa. […] Le forme mutano, ma la sostanza resta invariata. L'ispirazione cristiana è fuori discussione: essa continuerà ad illuminare e sostenere l'apporto autonomo delle ACLI alle lotte di libertà e giustizia del movimento operaio." (16 maggio 1971).

Il Consiglio nazionale del 5 e 6 giugno 1971 conferma questa linea, ed anzi la relazione di Gabaglio lascia trasparire un senso di maggior sollievo e di tranquillità rispetto alle conseguenze della decisione dei vescovi sul futuro delle ACLI, che appaiono quasi ridimensionate: "La natura delle ACLI, la loro intima essenza, la loro ragion d'essere, sarebbe stata messa in discussione se le ACLI avessero goduto nel passato di un esplicito «mandato» da parte della Gerarchia. Cosa che non è mai stata e di cui non vi è appunto traccia nello Statuto. Oppure se la CEI avesse messo in forse l'ispirazione cristiana delle ACLI. Invece è tutto l'opposto: questa ispirazione cristiana è oggetto della dichiarazione dei Vescovi di vivo e fiducioso auspicio per quanto riguarda anche il futuro. Non c'è quindi nessun vuoto, nessuna situazione di emergenza, quasi che fossimo di fronte a dei mali estremi, e quindi occorressero rimedi. La reazione larga, convinta, della periferia dimostra il contrario. Ha avuto ragione il Comitato Esecutivo nell'affermare che le ACLI continuano. Le ACLI continuano perché non è in discussione né l'ispirazione fondamentale; né il loro ruolo storico; né la loro continuità ideale ed organizzativa." (verbale del CN del 5-6 giugno 1971, relazione del Presidente nazionale al CN).

La convinzione che la situazione causata dal ritiro degli assistenti non fosse drammatica e che il rapporto col gruppo dei sacerdoti ex assistenti centrali potesse sostanzialmente continuare con gli opportuni aggiustamenti formali traspare anche dalla riunione della presidenza nazionale qualche giorno dopo: "per consentire ai cinque sacerdoti di proseguire il loro lavoro con le ACLI nazionali si stanzierà per il secondo semestre 1971 il 50% della somma prevista dal bilancio […] Gabaglio affronterà con i sacerdoti stessi il problema degli uffici." (11 giugno 1971).

La deplorazione di Paolo VI

L'intervento in prima persona del Pontefice modifica completamente la situazione e il taglio del dibattito interpretativo della dichiarazione della CEI del 6 maggio. Così Paolo VI si rivolge ai vescovi il 19 giugno 1971:

"Noi abbiamo visto con rammarico il recente dramma delle ACLI: e cioè abbiamo deplorato, pur lasciando piena libertà, che la direzione delle ACLI abbia voluto mutare l'impegno statutario del movimento e qualificarlo politicamente, scegliendo per di più una linea socialista, con le sue discutibili e pericolose implicazioni dottrinali e sociali. Il movimento, che ha goduto in Italia per non brevi anni di particolare interessamento da parte della Chiesa, è purtroppo così uscito, di sua iniziativa, dall'ambito delle associazioni per le quali la Gerarchia accorda il suo «consenso». Noi condividiamo il vostro voto che, anche nella presente situazione, le ACLI vogliano ricordare l'origine e lo scopo per cui sono state istituite, e non vogliano scostarsi dalla conformità ai principi professati dal magistero della Chiesa nel campo degli orientamenti sociali."

Anche solo leggendo i titoli dei quotidiani del giorno successivo (domenica 20 giugno) il senso del discorso di Paolo VI appare indiscutibile: il Papa "deplora" le ACLI (per Il Giorno e Paese Sera), le "sconfessa" (per Il Messaggero), le "condanna" (per L'Unità e Il Tempo).

Autorevoli esponenti della Chiesa italiana non usano più toni morbidi. Mons. Pangrazio, segretario della CEI dichiara: "Il Papa non ha fatto altro che tradurre in chiaro ciò che nella dichiarazione dei vescovi era stato sfumato e che i dirigenti aclisti non avevano voluto capire." (G. Zizola, Paolo VI deplora la nuova linea ACLI, in «Il Giorno», 20 giugno 1971). E mons. Nicodemo, vicepresidente della CEI, accusa le ACLI di "essere direttamente responsabili del pronunciamento dell'episcopato attuato con grande dolore e non certo con lode." (M. Politi, Il Papa sconfessa la scelta delle ACLI, in «Il Messaggero», 20 giugno 1971).

Trent'anni dopo, mons. Giuseppe Pasini ricostruisce con efficacia l'impatto del discorso di Paolo VI sul gruppo dei dirigenti aclisti:

"La sconfessione delle ACLI, sia come fatto in sé, sia per l'enfasi con cui fu espressa, fu un fatto traumatico per il movimento e per la maggioranza del mondo cattolico. Dobbiamo anche aggiungere che il pronunciamento pontificio ha costituito una sorpresa per quanti erano a conoscenza dell'andamento dei colloqui tra i rappresentanti della gerarchia ecclesiastica e i dirigenti delle ACLI: tali colloqui si stavano avviando, dopo le comprensibili difficoltà iniziali, a conclusioni soddisfacenti per ambedue le parti. Improvvisamente giunsero disposizioni dall'alto di sospendere gli incontri, giacche erano imminenti decisioni importanti. Non risultò chiaro quali fatti avessero determinato la brusca rottura del dialogo in corso: l'interpretazione più diffusa al momento si concentrò su forti e improvvise pressioni giunte in Vaticano, da parte di dirigenti o assistenti aclisti dissidenti dalla linea ufficiale e tendenti a rafforzare la tesi della inattendibilità dei responsabili del movimento. In altre parole, la Chiesa non poteva fidarsi di queste persone: doveva tagliare i ponti e impartire una severa lezione. E' anche possibile che Paolo VI avesse già maturato personalmente la convinzione di dover procedere alla rottura con le ACLI, a causa delle scelte operate negli ultimi anni che davano l'impressione di sconvolgere l'impostazione e l'ispirazione originaria. Possono aver pesato sul Pontefice le informazioni esterne malevole e tendenziose, ma non va dimenticato il ruolo svolto da Montini nel momento della «rifondazione» delle ACLI. […] In un certo senso, Paolo VI, è pensabile, si sentì tradito dalle scelte acliste del '70 rispetto al progetto che egli aveva concepito nei confronti del movimento." (Intervista a G. Pasini, in Le ACLI e la Chiesa, cit., pp. 47-48).

Sarà possibile comprendere pienamente le ragioni che inducono il Pontefice ad un intervento così duro, tale da interpretare la pubblica posizione assunta dalla CEI in modo più severo (aggiungendovi la deplorazione esplicita) solo a tempo debito, quando i documenti relativi al pontificato di Paolo VI saranno resi consultabili agli studiosi. Tuttavia, anche in assenza delle fonti dirette vaticane, è possibile formulare delle ipotesi, quantomeno verosimili, anche se non definitive. La spiegazione più verosimile dell'atteggiamento di Paolo VI non può che derivare ed essere organicamente inserita nella visione complessiva della Chiesa e dell'attuazione del Concilio del Pontefice bresciano. In questa prospettiva, l'interpretazione proposta da mons. Antonio Acerbi, insigne storico della Chiesa e già docente all'Università Cattolica, risulta la più compiuta ed attendibile e ha il pregio di esser compatibile con tutti gli elementi già acquisiti dagli storici. Per Acerbi Paolo VI mirava ad un profondo rinnovamento della vita religiosa italiana:

"Il papa aveva abbandonato da tempo lo stereotipo dell'Italia come «nazione cattolica» e rifuggiva per natura e per cultura dall'organizzativismo, che era stato, invece, fino al Concilio, la strategia dell'Azione Cattolica. […] La religiosità tradizionale non garantiva il rapporto fra la coscienza collettiva e il messaggio cristiano. La risposta al problema andava cercata in quel che il papa stesso chiamava la «scelta religiosa», che voleva dire, in senso negativo, l'abbandono dell'idea che i rischi per la fede del popolo italiano provenissero solo dall'esterno, per l'assalto delle forze politiche portatrici di ideologie anticristiane, e, quindi, il distacco dalla linea temporalista; e, in senso positivo, il riorientamento conciliare della vita della comunità cristiana." (A. Acerbi, La Chiesa italiana dalla conclusione del Concilio alla fine della DC, in La Chiesa e l'Italia, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 457)

In questa prospettiva, il Papa intendeva principalmente da un lato valorizzare la Conferenza Episcopale italiana, nella quale l'intero episcopato potesse esprimersi come un soggetto collettivo responsabile dell'azione pastorale, e dall'altro riformare l'Azione Cattolica, alla quale non spettava più, come negli anni Cinquanta, di assicurare che la presenza politica dei cattolici consentisse un governo dello Stato e della società in vista dell'instaurazione di un ordine cristiano. L'AC, considerato anche il superamento determinato dal Concilio dell'idea tradizionale di ordine cristiano della società, doveva operare una "scelta religiosa" e divenire lo strumento principale per coinvolgere il laicato, attraverso la formazione e l'apostolato, nella riforma conciliare della Chiesa. Da questo punto di vista, il compito della Chiesa non era più di condizionare le scelte programmatiche della DC (come era storicamente avvenuto ad esempio con il congresso del 1959), ma semmai di formare cattolici preparati che ne divenissero classe dirigente e di sostenerla nell'impegno di coerenza attraverso un dialogo perseverante. Pur se così ridimensionato il ruolo della DC era comunque imprescindibile: "Nella DC Paolo VI vedeva la garanzia di certi valori, quelli cioè di democrazia e di equilibrato processo sociale; ciò assicurava la tenuta di quel quadro politico generale che per lui era una condizione, sia pur esterna, ma necessaria, per il rinnovamento della Chiesa italiana, anzi in un certo senso, per il suo stesso futuro." (A. Acerbi, Paolo VI. Il Papa che baciò la terra, San Paolo, Cinisello B. (MI) 1997, p. 115).

Di conseguenza l'unità politica dei cattolici andava mantenuta in Italia, sebbene non fosse in sé un precetto valido in linea di principio, ed anzi fosse esplicitamente negato dagli orientamenti conciliari, e anche nella stessa Octogesima Adveniens, pubblicata il mese precedente alla deplorazione delle ACLI. Si può così comprendere come tale deplorazione potesse esser sentita come una spiacevole necessità per evitare la rottura dell'unità politica dei cattolici, o quanto meno limitarne gli effetti, a prescindere dalla possibile ragionevolezza delle critiche acliste all'incapacità della DC di riformare la società nella direzione auspicata dal movimento dei lavoratori. Per l'importanza che Montini attribuiva alle ACLI, per il suo particolare affetto e la sua predilezione per il movimento, la scelta era particolarmente dolorosa e sofferta, come avremo occasione di vedere meglio in seguito. Le scelte delle ACLI secondo Acerbi comportavano due conseguenze inaccettabili per Paolo VI, e cioè la legittimazione dell'assunzione di categorie marxiste nel giudizio sulla società e nel contempo la rinuncia ad una presenza specifica della Chiesa negli spazi della vita sociale: "Sotto entrambi gli aspetti si sarebbe trattato di un cedimento al secolarismo. Il contrasto era, dunque, tra due posizioni che riconoscevano gli stessi principi teologici, ma li leggevano all'interno di due diversi schemi culturali, e che, ultimamente, avevano due baricentri ideali diversi, l'uno collocato nella società civile e nelle sue tensioni interne e l'altro nella comunità ecclesiale e nella sua missione apostolica. L'urto era, perciò, inevitabile"

A fronte di un esplicito e consapevole dissenso di Paolo VI sull'impostazione di Vallombrosa, e in particolare sull'uso di categorie marxiste per interpretare le dinamiche sociali, si aggiungono poi come aggravanti le informazioni spesso imprecise e distorte sulla vita interna delle ACLI, che vengono riferite al Pontefice da parte di mons. Grillo, stretto collaboratore di mons. Benelli. Importante a questo proposito è la testimonianza dello stesso Grillo, raccolta da Andrea Tornielli, secondo la quale abitualmente nelle ACLI "c'è chi saluta col pugno chiuso e chi intona L'Internazionale, come riferisce al Pontefice monsignor Girolamo Grillo, futuro vescovo di Civitavecchia, all'epoca collaboratore di Benelli in segreteria di Stato, inviato in incognito ai raduni aclisti." (A. Tornielli, Paolo VI, Mondadori, Milano 2009, p. 531. Il colloquio tra Tornielli e mons. Grillo risale al gennaio 2009).

In ogni caso le ripercussioni, non solo politiche ma anche psicologiche, della deplorazione di Paolo VI sul gruppo dirigente aclista sono traumatiche. Ricorda Maria Fortunato: "Fu un momento difficile. Anche perché l'intervento del Papa fu improvviso e pesante." (Intervista a M. Fortunato, in S. De Fazi, Maria Fortunato, cit., p. 23). E Domenico Rosati: "Il cenno del Papa alle ACLI nel discorso ai vescovi […] colse di sorpresa la presidenza..." (D. Rosati, La questione politica delle ACLI, Dehoniane, Napoli 1975, p. 187). La Presidenza si riunisce immediatamente. Il verbale di questa riunione, così come pochi altri della primavera-estate del 1971, non è conservato nell'Archivio storico delle ACLI. Tuttavia gli sviluppi sono nelle grandi linee agevolmente ricostruibili sulla base delle testimonianze dei presenti. Rosati scrive: "La presidenza si riunì immediatamente e discusse a lungo. Furono scartate l'ipotesi delle dimissioni e quella di una semplice dichiarazione di riscontro – preparata a caldo – il cui testo fu «girato» alla vicepresidente Maria Fortunato, che lo pronunciò davanti ad una turbolenta assemblea sul problema della casa in corso a S. Giovanni Valdarno." (Ivi, pp. 187-88). La presidenza in sostanza rimise le decisioni al Consiglio Nazionale, organo statutariamente dotato di poteri deliberativi. La dichiarazione della Fortunato, che costituisce il primo commento ufficiale delle ACLI alla deplorazione pontificia, in sintesi si limita a confermare che il magistero della Chiesa costituisce per le ACLI un "costante punto di riferimento cui ispirare e confermare le scelte concrete, opinabili e contingenti" che esse compiono nella "riconosciuta autonomia" del laicato cristiano."

Il Consiglio nazionale delle ACLI si riunisce il 10 e 11 luglio 1971 nel salone Pio XII della sede nazionale in via Monte della Farina a Roma. Sono presenti 75 consiglieri con voto deliberativo e 17 con voto consultivo (Geo Brenna è assente per malattia); in via del tutto eccezionale il diritto d'intervenire è stato allargato: sono quindi presenti ben 66 presidenti provinciali, 14 regionali e tutto il comitato nazionale di Gioventù aclista.

La meditata e sofferta relazione introduttiva di Gabaglio affronta con realismo la delicatissima situazione, senza alcun tentativo di minimizzare:

"Le parole di rammarico e di deplorazione del S. Padre ci hanno intimamente colpito. Esse ci interpellano come cristiani e non possono né debbono essere disattese dalle ACLI come tali, in quanto movimento di lavoratori cristiani. Oltretutto sono ben vivi in tutti noi il ricordo per il ruolo determinante che l'attuale Pontefice ebbe nella fondazione delle ACLI e la riconoscenza per le molteplici manifestazioni di affetto e di attenzione nelle quali si è espressa in seguito la sua sollecitudine pastorale per il movimento operaio cristiano. In ogni caso le parole del Papa, per il posto di prima grandezza che esse hanno per ciascuno di noi nella formazione della propria coscienza, ci spingono ad un ulteriore riflessione sul nostro operato. Una chiarificazione, d'altra parte è dovuta, in relazione al fatto che, pur sottolineando la giusta e necessaria autonomia delle ACLI e la specificità del nostro impegno, di ordine temporale, nel mondo del lavoro, vogliamo continuare, per nostra libera scelta, ad ispirare questo impegno all'insegnamento cristiano anche per quanto riguarda gli orientamenti sociali. […] Se amarezza e qualche sconcerto le parole del Papa hanno provocato nelle nostre file, ci sembra di poter dire che ciò sia dovuto alla repentina scoperta che quanto avevamo pensato di proporre proprio sulla base di indicazioni cristiane sinceramente vissute, potesse quasi condurre a mettere in forse questo radicamento essenziale." (verbale del 10-11 luglio 1971).

Gabaglio ammette limiti ed errori di cui sembra assumersi la responsabilità politica e morale in quanto presidente: "Dobbiamo ammettere che vi sono state delle insufficienze e degli scompensi nella nostra elaborazione culturale. Lo stesso insegnamento cristiano in campo sociale richiede da parte nostra una più approfondita considerazione nelle attività di studio e di formazione." Ammette che sia necessario "un confronto più esplicito e diretto" con i contenuti dei documenti sociali della Chiesa. Il presidente si trova in difficoltà: da un lato, la minoranza interna che giudica del tutto insufficiente la correzione di rotta prospettata, dall'altro la maggior parte degli intervenuti nel dibattito che giudica eccessiva la pur prudente e circoscritta autocritica contenuta nella relazione introduttiva. Gabaglio, Rosati, Carboni e il gruppo dirigente ritengono che l'unità del movimento possa contribuire al superamento del grave momento vissuto dalle ACLI e facilitare la desiderata riconciliazione con la gerarchia. Pertanto il presidente propone alla minoranza l'anticipo di qualche mese del congresso nazionale (la cui scadenza naturale era nel giugno del 1972), la modifica dei regolamenti congressuali per rafforzare la presenza della minoranza (il vigente metodo del panachage amplificava la rappresentatività della maggioranza) e la gestione unitaria del movimento. Durante il pomeriggio e la serata di sabato 10 si svolgono numerosi incontri tra la delegazione della maggioranza e quella della minoranza, guidata da Bersani, Castellani e Auteri, ma senza esito. La minoranza pretende le dimissioni della presidenza nazionale. Lo aveva chiesto lo stesso Auteri, intervenendo, a nome della minoranza, a trattativa ancora aperta: "Se c'è un modo di salvare le ACLI è quello di operare una decisa correzione della linea […] si impone necessariamente un cambio dei dirigenti che hanno gestito la linea passata: se i dirigenti rimangono gli stessi la linea non cambia." Per Auteri le ACLI devono tornare ad essere in sintonia col magistero della Chiesa, "anche di quello sociale e ordinario, storico, contingente." E aggiunge: "Noi abbiamo scelto un ruolo di opposizione e lo esercitiamo […] con l'estrema durezza che la situazione comporta. […] La responsabilità è della maggioranza, trovi la maggioranza le sue energie per modificare la situazione."

Castellani, intervenendo il giorno successivo, domenica mattina, quando ormai la trattativa è fallita, pur con toni meno duri di Auteri, invita il Consiglio nazionale "ad avviare fin da ora un serio processo per riacquistare credibilità nel mondo cattolico" e, rilevato che la presidenza rifiuta di dimettersi, dichiara che la minoranza non può accettare la proposta di Gabaglio per una gestione unitaria.

Si passa così alla votazione di due documenti contrapposti. Quello di maggioranza, presentato da Renato Morandina, che recepisce i contenuti della relazione di Gabaglio e prevede l'impegno per la convocazione anticipata del congresso, ottiene 57 voti a favore e 11 contrari. E' invece respinto il documento della minoranza, che chiede le dimissioni sia della presidenza sia del CE e che dichiara indispensabile "una sostanziale correzione della linea […] nell'intento di realizzare il pieno recupero dell'identità e dell'autenticità del Movimento."

Nonostante la consistente maggioranza favorevole alla "sostanziale correzione della linea" proposta da Gabaglio, diversi esponenti del gruppo dirigente nutrivano dei dubbi sull'efficacia di tale svolta. Ad esempio, Maria Fortunato ricorda: "Parlai a lungo con Gabaglio, e glielo dissi: «Emilio, guarda, questa cosa sarà anche contro di te, non ti illudere che cambiando linea politica cambino anche certe situazioni». Sapevo benissimo che la DC avrebbe chiesto la sua testa, come la chiese: non si fidavano più di lui. Come sapevo che il mondo cattolico è disposto anche a dare l'onore delle armi a un cristiano che sbaglia e si ritira, ma non a uno che cambia linea. Quelli che sono stati mandati via, se ne sono andati: da Carlo Carretto a Mario Rossi." (Intervista a M. Fortunato, in S. De Fazi, Maria Fortunato, cit., p. 23).

Nel riferire dei lavori e delle conclusioni del Consiglio nazionale, quasi tutta la stampa sottolinea la correzione di rotta nella linea di Gabaglio e del gruppo dirigente delle ACLI, enfatizzandone la portata. Definiscono la svolta delle ACLI come "ripensamento" o "riflessione" L'Avvenire, L'Unità, Il Popolo, Il Giorno, Il Messaggero e Il Mattino. La definiscono invece più decisamente fin dai titoli come "autocritica", tra gli altri, Il Corriere della Sera, La Stampa, Il Resto del Carlino, Il Tempo, La gazzetta del Popolo, La Nazione e Il Piccolo. Particolarmente significativo ed esplicito in questo senso è il commento del Corriere della Sera: "A questo punto la crisi è già dramma. Le ACLI possono sopportare tutto - la scissione strisciante, le incertezze dei vescovi, le pressioni della DC per il ritorno al vecchio rapporto, la lotta interna - ma non la deplorazione ufficiale e motivata del Pontefice, l'accusa di aver violato i principi del magistero della Chiesa. La reazione infatti è stata fulminea. I dirigenti del nuovo corso hanno fatto un'autocritica completa, hanno ammesso la pericolosità della strada imboccata, si sono impegnati a «riconsiderare criticamente l'ipotesi socialista», escludendo in modo formale «ogni tardiva adesione all'ideologia marxista» […] La lunga marcia di ritorno verso le origini è appena cominciata e non se ne può intravvedere il punto di arrivo." (A. Sensini, Il dramma delle ACLI, in «Il Corriere della Sera», 15 luglio 1971).

Gabaglio trent'anni dopo propone un giudizio più equilibrato sulle responsabilità acliste nel provocare la deplorazione, senza peraltro recedere dalle sue convinzioni: "Sicuramente vennero fatti degli errori di gioventù. Io stesso fui eletto presidente delle ACLI a trentatré anni e tutto il gruppo dirigente era molto giovane. Ma soprattutto ci fu da parte nostra una certa inflessibilità. Sono infatti convinto […] che avremmo dovuto ascoltare, ad esempio, Maria Fortunato ed essere più dialogici. Eravamo fortemente convinti delle nostre buone ragioni e della nostra franca, aperta, onesta ricerca di cristiani. Se la situazione precipitò fu soprattutto perché nella gerarchia di allora prevalse, non so dire a quale livello, una valutazione sostanzialmente politica. Il timore non fu che singoli intellettuali cattolici votassero o militassero a sinistra, o altri movimenti importanti come la FUCI facessero scelte non dissimili dalle nostre; ma che un movimento di massa, radicato nel mondo del lavoro, potesse spostare gli equilibri politici e rompere quello che allora era considerato, nel caso italiano, un elemento di unità del mondo cattolico in politica. Fu questo, secondo me, il vero motivo che portò alla deplorazione." 

Gabaglio ricorda anche che, essendo convinto che con l'ipotesi socialista le ACLI si fossero collocate in una prospettiva di ricerca certamente opinabile, ma pur sempre non incompatibile col magistero sociale delle Chiesa, "mi presentai da mons. Benelli per fargli notare, con la necessaria prudenza, che nella lettera enciclica Octogesima adveniens, pubblicata in quei giorni, in uno dei passaggi, in pratica, si diceva che in certe circostanze i cristiani possono misurarsi con opzioni socialiste. Benelli mi rispose: «L'Italia non è il Senegal»." (E. Gabaglio, Da Torino a Cagliari le ACLI continuano, cit., p. 32). Sembra di capire dalla lettura della lettera pastorale, ed in particolare del paragrafo 31, che Paolo VI ritenesse lecito l'impegno dei cristiani in partiti socialisti non marxisti, come ad esempio i cattolici inglesi nel partito laburista, ma non, come si è visto, l'accettazione del marxismo come metodo d'analisi della società.

Tra le conseguenze di questa crisi nei rapporti tra le ACLI e la Gerarchia vi è il ritiro degli assistenti. Va tenuto presente che, sebbene la revoca dell'incarico formale avvenga rapidamente (già nella stessa estate del 1971), molti vescovi lasciarono alle ACLI gli stessi sacerdoti di prima, solo col ruolo più sfumato e meno formale di consiglieri spirituali o come operatori della pastorale del lavoro diocesana. I casi sono numerosi. Si può citare quanto afferma ancora mons. Giuseppe Pasini: "A livello locale, in un certo numero di diocesi, l'assistente ha continuato di fatto a collaborare con le ACLI. Pensiamo a Padova: il nostro vescovo di allora, mons. Bortignon, considerato un rigido, chiamò l'assistente delle ACLI, don Angelo Zillo, e gli disse: «Delle ACLI di Padova sono contento, per me van bene così. Tu continua a fare quello che facevi prima, allargando il tuo lavoro alla pastorale del lavoro». Lo stesso è avvenuto in molte altre diocesi." (Intervista a mons. Giuseppe Pasini, in Le ACLI e la Chiesa, cit., p. 29).

Inoltre molti sacerdoti, anche senza incarichi specifici, continuarono a collaborare volontariamente con le ACLI. Mons. Fernando Charrier, allora facente parte del gruppo degli assistenti centrali e poi responsabile per la CEI della pastorale del lavoro, racconta che nel giugno del 1971, quando giunse la deplorazione, si trovava ad un convegno delle ACLI milanesi, e "due sacerdoti che erano con me ebbero l'idea di iscriversi alle ACLI: «Se non possiamo essere aclisti come preti, vuol dire che lo saremo diversamente», dissero." (F. Charrier, intervento alla tavola rotonda Paolo VI e la crisi delle ACLI, 31 agosto 2001, cit., p. 25). La fiducia nelle ACLI, la convinzione nella validità e importanza della loro funzione formativa e d'apostolato e anche l'affetto nei confronti del movimento rimasero ben radicati nella gran parte dei sacerdoti assistenti anche dopo la deplorazione; tra i tanti esempi, basta ricordarne uno dei più significativi: padre Aurelio Boschini, che pure in diverse occasioni aveva riferito al Pontefice alcune perplessità sugli orientamenti delle ACLI durante la presidenza Gabaglio, nel testamento del 1974, rivolgendosi alle ACLI scrive: "Grazie per il bene grande che avete fatto al mio sacerdozio […] voi mi avete fatto crescere, come uomo e come prete. Mi avete stimolato ad amare e servire con più zelo i miei fratelli lavoratori, che Gesù tanto amò. […] Un desiderio, se possibile e non disdicevole per un religioso: nella mia cassa da morto, con me una bandiera delle ACLI." (A. Boschini, Il testamento aclista del 1 luglio 1974, aperto dopo la morte (1978), in F. Volpi, Aurelio Boschini, Aesse, Roma 2002, p. 60).

Ulteriore conseguenza della crisi nei rapporti con la gerarchia furono le varie scissioni delle minoranze interne. Complessivamente le scissioni coinvolgono un numero poco rilevante di soci delle ACLI (decisamente meno del 10%), ma costituiscono un significativo fattore di pressione verso il gruppo dirigente delle ACLI e contribuiscono a determinare una svolta nelle stesse ACLI. A posteriori lo riconosce anche mons. Girolamo Grillo, che è tra gli ecclesiastici uno dei più ostili alla linea delle ACLI, molto vicino a mons. Benelli e convinto sostenitore delle scissioni. Nel ricordare il 20° anniversario del MCL, scrive: "Obtorto collo si pensò che una scissione dal ceppo materno di quanti non condividevano quelle scelte [Torino e Vallombrosa] andava fatta per salvare il salvabile. Si riuscì nell'intento, perché da quel momento le ACLI incominciarono a ritirare il piede dall'acceleratore, evitando la china pericolosissima che era stata impressa e ponendo rimedio ai propri errori. Povere ACLI, dove sarebbero andate a finire, se non ci si fosse dimostrati energici e lineari..." (G. Grillo, MCL, vent'anni in cammino, in «Avvenire», 6 dicembre 1992). Sempre secondo mons. Grillo, anche il Pontefice appoggia convintamente l'MCL: "Paolo VI ne favorì la nascita e lo aiutò. […] Io fui incaricato di tenere i contatti e di far giungere il sostegno del Papa." (A. Tornielli, Paolo VI, cit., p. 532).

Accantonare Vallombrosa: il congresso di Cagliari

A partire dall'estate del 1971 il gruppo dirigente delle ACLI, nel tentativo di rendere visibile ai vescovi e all'opinione pubblica l'autenticità del ripensamento e della conseguente correzione di linea, cerca innanzitutto di ridimensionare e poi accantonare l'ipotesi socialista di Vallombrosa, preservando e difendendo invece le scelte qualificanti del congresso di Torino e in particolare l'irreversibilità della fine del collateralismo con la DC.

In vista del congresso di Cagliari, convocato per l'aprile del 1972, si confrontano tre distinte linee di pensiero. La maggioranza di Gabaglio, che intende difendere le scelte del congresso di Torino (autonomia, libertà di voto, fine del collateralismo) ma ritiene necessario ed opportuno accantonare l'ipotesi socialista per cercare di recuperare un rapporto costruttivo con la Chiesa, la sinistra di Brenna, che intende invece confermare e sviluppare le conclusioni di Vallombrosa, e la destra di Pozzar e Castellani che propugna un'inversione di rotta più decisa, pur rifiutando la prospettiva scissionistica. La differenza di fondo tra la maggioranza e la sinistra interna è data proprio dal significato e valore delle conclusioni di Vallombrosa. La sinistra aclista, con l'appoggio anche di GA, intende confermare pienamente l'ipotesi socialista.

Il 13 aprile 1972 si aprono i lavori del XII congresso nazionale delle ACLI a Cagliari, con una notevole copertura della stampa nazionale e con la presenza di numerose e qualificate delegazioni estere, a conferma della grande attenzione dell'opinione pubblica per le vicende del movimento. Sono infatti presenti 16 delegazioni sindacali straniere, di cui 10 pronunciano interventi in aula, altre 8 delegazioni a titolo di osservatori, e vengono letti 11 messaggi di saluto, tra cui spicca quello particolarmente caloroso di Nguyen Van Tien, del Fronte di liberazione del Sud Vietnam.

Sono particolarmente significative, nell'ampia relazione di Gabaglio, le affermazioni sull'ispirazione cristiana delle ACLI e le valutazioni sulla tanto controversa ipotesi socialista. Sulla prima questione il presidente uscente precisa: "C'è sempre stata da parte delle ACLI una disponibilità all'ascolto e al dialogo, unitamente alla convinzione di avere anche noi, come gruppo di lavoratori cristiani, qualcosa da dare all'intera comunità. Disponibilità che trova fondamento nella nostra radicata e sempre confermata volontà di essere parte della Chiesa, di tutta la Chiesa." E aggiunge: "Nell'ispirazione cristiana però non cerchiamo una ideologia buona per scrivere un programma politico [… ma un] orientamento per una liberazione più profonda, duratura e totale, dell'uomo da ogni sorta di schiavismo e di egoismo" nella consapevolezza che la fede cristiana è compatibile con la milizia nel movimento operaio e che tale consapevolezza deve divenire tendenzialmente un patrimonio di tutta la comunità cristiana: "spetta forse a noi in questo campo essere l'avanguardia."

Sul secondo punto, dopo aver confermato la scelta anticapitalistica del congresso di Torino e aver precisato nuovamente che a Vallombrosa era emersa un'ipotesi socialista e non una scelta socialista, insiste però sulla validità della prospettata socializzazione dei mezzi di produzione: "Le strutture capitalistiche tendono a diffondere la proprietà dei beni di consumo, pur in modo tanto ineguale, ma confiscano di fatto a favore di pochi la proprietà dei mezzi di produzione, cioè il potere di decidere per tutti. Il progresso dell'uomo […] è fatto anche e soprattutto della sua possibilità reale di contare, di prender parte attiva alle decisioni che costituiscono il proprio futuro […] Ecco perché, per dare al maggior numero possibile di uomini, e non solo a chi ha il capitale ed ai suoi delegati, il potere di decidere, dobbiamo arrivare a forme di socializzazione della proprietà, l'estensione delle quali resta da determinare: per socializzare il potere, per costruire ed estendere gradualmente le basi della democrazia economica e sociale. Questa è secondo noi una condizione necessaria, ma non sufficiente, per porre le basi dell'alternativa."

Non sufficiente perché deve essere affiancata dall'autogestione delle imprese e da una pianificazione democratica vincolante dell'economia. Anche nella mozione finale approvata dal congresso, la scelta anticapitalistica, già stabilita a Torino, è quanto meno rafforzata da un giudizio radicalmente negativo sul sistema capitalistico "non corrispondente alle esigenze materiali e spirituali dell'uomo [… e] per la sua stessa natura, non riformabile." Appare evidente che un'impostazione di questo tipo non può essere accettata dalla destra interna, ma non convince nemmeno la sinistra, che considera le tesi di Gabaglio sul superamento del capitalismo poco più che affermazioni teoriche e meramente verbali, poiché è convinta che l'ipotesi socialista sia stata di fatto già archiviata. Pozzar spiega con chiarezza le ragioni del dissenso della destra interna: l'ipotesi socialista va totalmente rifiutata, sia per il modo verticistico con cui è stata formulata, senza consultare la base, sia perché manca di "approfondimento culturale", ha assunto un "significato polemico" verso la gerarchia, ed è stata "elemento di divisione e di contrasto" nelle ACLI, indebolendole.

All'opposto la sinistra interna vorrebbe che l'ipotesi socialista di Vallombrosa fosse la base per l'impegno politico del gruppo dirigente finalizzato a far maturare la coscienza di classe degli aclisti anche in periferia. Come sintetizza efficacemente uno dei leader della sinistra interna, Giuseppe Anni, presidente delle ACLI di Brescia: compito della classe dirigente non è quello di assecondare il moderatismo, ma di combatterlo recuperando ad un ruolo di classe gli strati sociali che ne sono prigionieri.

Le tre diverse prospettive per le ACLI proposte ai delegati sono dunque molto differenti e non rendono possibile una convergenza unitaria. Si vota dunque sulle tre mozioni contrapposte, per la prima volta col nuovo sistema proporzionale, che ha sostituito il tradizionale panachage. La lista di Gabaglio (Autonomia e unità) ottiene il 56% dei voti, che tenuto conto dei rappresentanti delle regioni e dei membri di diritto le garantisce una maggioranza pari al 61% del nuovo Consiglio nazionale; la sinistra ottiene il 18% e la lista Pozzar-Castellani il 26%.

All'unanimità è invece approvata dal congresso una mozione sui rapporti ecclesiali, nella quale si prende atto del ritiro del consenso da parte della gerarchia ecclesiastica, nel dichiarato "rispetto" per la "preoccupazione dell'Episcopato di non essere coinvolto in scelte sociali e politiche opinabili delle quali i laici, nell'autonomia loro propria, debbono farsi responsabilmente carico", e si afferma che "la riflessione delle ACLI sull'ispirazione cristiana del loro impegno associativo porta a concludere che in esse si configura tuttora uno spazio di animazione e di formazione che attribuisce alla presenza del sacerdote, in un ruolo pastorale, un significato ed un'importanza particolarmente rilevanti."

Da un appunto di Rosati sappiamo che durante il congresso, il 15 aprile, "Gabaglio m'informa di aver avuto un incontro con mons. Macchi, segretario del Papa. Paolo VI sente molto la questione ACLI. Insiste su due punti: niente socialismo e connotazione originale del movimento. Alle spiegazioni di Gabaglio, Macchi aveva reagito dicendo che «se il Papa avesse saputo certe cose, forse tutto sarebbe andato diversamente». Apprendo da Gabaglio che le faccende ACLI sono lette e presentate al Papa da mons. Grillo, che ci è molto ostile e che opera su incarico di Benelli." (appunto di Domenico Rosati del 5 maggio 1972). Le "certe cose" non meglio determinate nell'appunto si riferiscono, secondo Gabaglio, alla inattendibilità delle informazioni passate al Papa, secondo le quali quasi tutti i dirigenti aclisti votavano PCI, salutavano col pugno chiuso e cantavano l'internazionale alla fine delle riunioni.

Gli orientamenti definiti nel congresso di Cagliari e le conseguenti modifiche statutarie sono accolte piuttosto freddamente dalla CEI. Nell'assemblea dei vescovi del giugno 1972, mons. Nicodemo afferma che le ACLI "sono semplicemente organizzazioni di lavoratori", non riconoscendo loro alcuna funzione di apostolato e di testimonianza cristiana: "Le conclusioni del congresso di Cagliari non mostrano che le ACLI hanno mutato la propria posizione, ma piuttosto ribadito la scelta già fatta; hanno infatti cambiato la propria natura originaria e non perseguono le finalità statutarie […] non possono più dirsi un'associazione di tipo ecclesiale, perché non operano più in seno alla Chiesa e si prefiggono finalità direttamente sociali e politiche." (verbale dell'Assemblea generale della CEI del 1972, lavori del 13 giugno 1972, in Atti della IX assemblea generale, Edizione riservata ai vescovi, CEI, Roma 1972, pp. 178-79). Di conseguenza "l'assistenza del sacerdote" sarà data quando richiesta, ma non sarà "organica".

Nella stessa assemblea Nicodemo si lamenta che vari vescovi, a livello locale abbiano assunto atteggiamenti meno critici verso le ACLI, difformi dalla linea assunta in assemblea. Risponde mons. Luigi Morstabilini, vescovo di Brescia, affermando che nella sua diocesi le ACLI presentano diverse sfumature e che molti aclisti sono e intendono rimanere buoni cristiani, e quindi pensa che debba esser "detta una parola di fiducia in quei luoghi o per quelle persone che possono meritarla." e ritiene che "prima di ricercare i lontani, convenga mantenere i rapporti con quelli che sono vicini." (ivi, p. 176). Dissente dall'orientamento della maggioranza dei vescovi anche mons. Pagani, che si chiede se "le conclusioni del congresso delle ACLI non siano state liquidate con un giudizio troppo deciso e duro." (ivi, p. 175).

La stessa freddezza di Nicodemo e analogo giudizio critico emergono dalle riflessioni del gruppo sacerdotale per la pastorale del mondo del lavoro della CEI, di cui facevano parte ex assistenti del movimento: "Le ACLI non hanno nulla cambiato sostanzialmente della linea culturale operativa sviluppatasi dal congresso di Torino attraverso Vallombrosa '70. […] Le ACLI di oggi sono comunque un movimento che opera per il cambiamento della società civile in senso anticapitalista e con prospettiva tendenzialmente socialista, anche se non precisata. […] Le ACLI non possono essere considerate, dunque, una associazione di tipo ecclesiale, giacche anche l'azione sociale da esse condotta non è finalizzata per sé ad una precisa animazione cristiana delle realtà temporali, quanto alla trasformazione strutturale della società." Di conseguenza, concludono i sacerdoti, "le ACLI, pur cessando di essere «mezzo indispensabile dell'apostolato moderno» (Pio XII), sembrano ancora offrire uno spazio notevole all'attività pastorale della Chiesa (oggetto di pastorale e non più soggetto)." (Riflessioni del gruppo sacerdotale sulle ACLI dopo il congresso di Cagliari, allegato al verbale del CE del 27 e 28 maggio 1972).

Se già i documenti ufficiali testimoniano chiaramente l'insoddisfazione della gerarchia per l'esito del congresso di Cagliari, le indiscrezioni di stampa lasciano l'impressione di una scelta ormai ben definita, indipendentemente dai toni più concilianti di autorevoli intellettuali cattolici. Scrive ad esempio Giancarlo Zizola: "Non sono bastate le assicurazioni date dalle ACLI a Cagliari sulla loro fedeltà all'ispirazione cristiana. Per la prima volta la Civiltà Cattolica è uscita, in maggio, senza la Cronache italiane dove due gesuiti, padre Bartolomeo Sorge e padre Giuseppe De Rosa, avevano firmato una cronaca-commento sul congresso aclista, auspicando una «composizione positiva» delle tensioni con la gerarchia. L'articolo era stato cestinato dopo la supervisione vaticana delle bozze. Al congresso di Cagliari, il cardinale Baggio - arcivescovo della città, vicentino d'origine, molto amico del Papa - fece sapere di non poter celebrare la messa per gli aclisti né di poter mandare un messaggio di saluto, secondo quanto aveva promesso." (G. Zizola, ACLI: concluso il processo di sconfessione?, in «Il Giorno», 13 giugno 1972). Emilio Gabaglio afferma che in precedenza il card. Baggio aveva manifestato la disponibilità ad intervenire al congresso con un saluto; come è confermato anche dalla lettera di Baggio a Gabaglio del 12 aprile 1972, nella quale il presule scrive "non mi è dato di aderire all'invito" di partecipare al congresso.

L'insoddisfazione dei vescovi può essere meglio compresa se confrontata con le valutazioni di mons. Santo Quadri, vescovo di Terni e attivo protagonista nel gruppo sacerdotale della Pastorale del lavoro della CEI. In una lettera a Gabaglio, riassumendo quanto detto dallo stesso Quadri a Gabaglio, Rosati e Franco Sala, presidente delle ACLI milanesi, in un incontro a Chianciano il 22 luglio 1972, il vescovo insiste con durezza nel considerare la linea emersa dal congresso non corrispondente al sentire della maggior parte degli aclisti: "Ripeto che non è onesto stare al vertice di una base associativa che vuole cose diverse da voi, e cioè le ACLI classiche, pur con gli opportuni aggiornamenti che non ne cambino la natura. Anche questo vostro modo di agire serve ad alimentare il discredito." (lettera del 1 agosto 1972). Quadri inoltre esprime la sua disapprovazione per il fatto che le ACLI non abbiano delimitato la loro attività all'aspetto educativo e formativo: "nel Consiglio nazionale del 1 e 2 luglio non si è avuto nessun chiarimento, anzi dall'insieme risulta ancora una volta chiara la prevalenza data all'impegno politico." Inoltre mons. Quadri ricorda ai dirigenti aclisti che "occorre dire un no più chiaro e più preciso allo schema culturale e alla prassi marxista […] L'esasperazione massimalista e radicale delle posizioni di classe conduce fatalmente a posizioni non cristiane."

Dopo il congresso, il Consiglio nazionale del 25 aprile 1972 conferma Gabaglio presidente; Rosati è vicepresidente nazionale. La maggioranza propone di costituire un Esecutivo unitario, in cui tutte le componenti siano rappresentate, ma mentre la sinistra, con interventi di Brenna e Anni, manifesta la sua disponibilità, Mario Mazzucchi, a nome della corrente Pozzar-Castellani, si dichiara contrario. Vista la situazione, la maggioranza è costretta a ritirare la proposta poiché, come argomenta Franco Sala, un CE in cui siano rappresentate solo due componenti "verrebbe ad assumere un significato politico diverso" rispetto alla proposta iniziale della maggioranza.

Fallimento del MPL

Le elezioni politiche anticipate del 7 maggio 1972 che vedono il netto fallimento dell'MPL di Labor (solo circa 120 mila voti, pari allo 0,4%, e nessun deputato eletto per il mancato raggiungimento del quorum) contribuiscono ad indebolire ulteriormente la posizione di Gabaglio, già precaria per l'ostilità della DC e la freddezza della CEI. Le ragioni dell'insuccesso del nuovo partito guidato da Livio Labor sono molteplici: in primo luogo le due principali componenti dell'ACPol, la corrente democristiana di Forze Nuove guidata da Donat-Cattin e Bodrato e la sinistra lombardiana del PSI avevano rinunciato alla prospettiva di uscire dai rispettivi partiti per dar vita al MPL già nel corso del 1970, come si è visto. Inoltre anche l'appoggio dei sindacalisti della sinistra della CISL si era ridotto almeno rispetto alle aspettative iniziali, anche se a livello locale molti quadri di fabbrica e attivisti sindacali si impegnano con generosità ed entusiasmo nella campagna elettorale. Le elezioni anticipate ad un anno prima della scadenza naturale della legislatura, poi, colgono il nascente partito con una struttura organizzativa sul territorio incompleta ed impreparata ad organizzare efficacemente la campagna elettorale; infine l'esclusione dello stesso da Tribuna elettorale, insieme peraltro al Manifesto, l'altra forza politica che si presentava per la prima volta alle elezioni, impedisce al MPL di far conoscere la sua proposta politica al grande pubblico attraverso la televisione di Stato.

Nonostante le ACLI, sia a livello nazionale, sia a livello provinciale mantengano durante tutta la campagna elettorale una perfetta equidistanza dai partiti, evitando ogni collateralismo ed ogni strumentalizzazione, non mettendo nessuna risorsa e nessuna struttura a sostegno del MPL, l'insuccesso del nuovo partito coinvolge Gabaglio, sia perché, anche se a livello personale, egli aveva svolto un ruolo significativo nella fase di passaggio dall'ACPol al MPL, sia perché l'opinione pubblica era in gran parte convinta che Gabaglio fosse un esecutore di un disegno più ampio voluto da Labor.

Verso l'epilogo

La particolare debolezza della posizione del presidente nazionale, l'ostilità manifesta della DC e la difficoltà a ristabilire rapporti proficui col mondo cattolico e con la gerarchia, anche perché i vescovi tendevano a considerare le associazioni laicali come entità monocratiche e quindi a concentrare meriti e colpe sulla figura del presidente, portano gran parte della maggioranza emersa a Cagliari e in particolare gli esponenti più accorti di essa, come Carboni e Rosati, a cercare d'attuare un cambiamento più significativo della linea politica delle ACLI, con il dichiarato intento di valorizzare la dimensione educativa e formativa del movimento, ridimensionandone invece l'impegno più direttamente politico, e in particolare le critiche esplicite e polemiche verso la DC.

Inizia una graduale ma fruttuosa trattativa tra la maggioranza espressa dal congresso di Cagliari e la componente guidata da Pozzar e Castellani, che però per entrare in maggioranza e in presidenza pone la condizione pregiudiziale della sostituzione di Gabaglio, considerato ormai "compromesso" nei confronti della gerarchia ed inviso ai dirigenti della DC, con cui Pozzar intendeva riaprire il dialogo. Mentre Gabaglio manifesta fin dal principio una sua disponibilità a dimettersi par favorire l'accordo, non tutta la maggioranza accetta l'ipotesi di cambiare il presidente.

Gabaglio incoraggia la trattativa, pur ponendo una condizione irrinunciabile, come aveva a suo tempo comunicato alla presidenza: "L'accordo va ricercato, ma può diventare possibile solo se non viene intaccata la linea politica che le ACLI si sono date all'XI Congresso e che il XII Congresso ha confermato accordando la maggioranza dei consensi alla nostra mozione." (lettera di Emilio Gabaglio ai componenti la presidenza nazionale del 14 settembre 1972).

Nella riunione di maggioranza del 7 e 8 ottobre 1972, 43 consiglieri nazionali (su 58) della maggioranza avevano manifestano la loro disponibilità all'accordo con la minoranza di destra, accettando anche la sostituzione di Gabaglio. Così Rosati spiega le ragioni che inducono la maggioranza a cercare un accordo di gestione con la destra di Pozzar:

"Ci trovammo allora con una duplice questione di fronte: era indispensabile, da una parte, far uscire Gabaglio dalla Presidenza (perché egli, che l'avesse voluto o no, aveva una posizione non più sostenibile) e, nello stesso momento, per evitare ulteriori frantumazioni e scissioni, ricomporre il dissidio con la destra che si era manifestata al congresso di Cagliari del 1972. Occorreva dunque fare alleanza con questa destra, rappresentata da Pozzar e Castellani, evitando che questo fosse, ed apparisse, una ritirata totale delle ACLI ed un abbandono delle posizioni, dell'elaborazione culturale avanzata, della partecipazione e dell'autonomia." (Intervista a Domenico Rosati, in F. Volpi (ed.), Marino Carboni, Aesse, Roma 2001, pp. 44-45).

Oltre a queste ragioni, bisogna aggiungere che le ACLI erano complessivamente in difficoltà anche per motivi economici, in quanto dopo il ritiro del consenso da parte dei vescovi, era stato cancellato il contributo economico annuale da parte del Vaticano e inoltre, essendo la sede storica della ACLI di Via Monte della Farina, a Roma, un edificio di proprietà pontificia, le ACLI erano state invitate a lasciarlo libero nel giro di pochi anni.

Il successore naturale di Gabaglio potrebbe essere il vicepresidente Domenico Rosati, ma il ruolo attivo e propositivo da lui svolto nel convegno di Vallombrosa, e l'aver difeso in più occasioni l'ipotesi socialista su Azione Sociale, di cui era direttore, non lo rendono la figura adatta per cercare di ricostruire il dialogo con i vescovi. Ben consapevole di questo aspetto, è lo stesso Rosati a proporre, nell'ambito degli accordi con la corrente di Pozzar, la designazione a presidente di Marino Carboni.

Si arriva così al Consiglio nazionale del 4 e 5 novembre 1972 che prende atto delle dimissioni della presidenza nazionale e del Comitato esecutivo. L'accordo programmatico raggiunto nel corso delle trattative tra maggioranza e minoranza è poi sottoposto alla discussione e alla votazione. Gabaglio non nasconde le sue perplessità sull'accordo, affermando che esso non è "una risposta valida per superare la presente situazione delle ACLI di cui, per altro, non ci sfuggono né vogliamo sottacere la complessità e gravità" anche perché "non possiamo passare sotto silenzio il fatto che alla conclusione dell'accordo si è pervenuti […con] logiche non rispettose dell'autonomia delle ACLI." (verbale del CN del 4-5 novembre 1972).

Anche Gabriele Gherardi, che fa parte del gruppetto di consiglieri di maggioranza che non ha condiviso l'accordo con la destra di Pozzar, ritiene che la linea di Cagliari sia "compromessa" dall'accordo e che la maggioranza emersa dal congresso sia di fatto "esautorata e sopraffatta". Durissime sono invece le valutazioni della sinistra interna. Maria Fortunato dichiara: "Il documento che ci è stato presentato ieri sera rappresenta l'atto di resa delle ACLI e di quello che le ACLI hanno rappresentato: la speranza, il punto di riferimento, la coraggiosa presenza nel movimento operaio, da dieci anni a questa parte. Credo che nessuno di noi possa, con animo leggero, accettarlo." Considerazioni analoghe sono svolte da Piergiuseppe Sozzi, delegato nazionale di Gioventù Aclista.

Pozzar invece invita il Consiglio nazionale e tutto il movimento ad una sorta di bagno di realismo: "Il calo degli iscritti, la disaffezione dei militanti, lo svilupparsi di fenomeni scissionistici dipendono in gran parte dai traumi provocati dalle improvvise e confuse ritirate […] dal velleitario agitarsi, con lo zelo dei neofiti dell'ultima ora, nel ginepraio della contestazione al sistema […] Per riprendere quota nel contesto delle forze sociali che contano nello sviluppo democratico popolare occorre che riassumiamo in pieno la nostra funzione di espressione organizzata del movimento cattolico italiano […] Se restiamo di fatto tagliati fuori dai collegamenti con questo mondo non rappresentiamo nulla, se non esperienze e tradizioni che sono di altri e che di certo non hanno bisogno di imitazioni maldestre o tardive."

Sottoposto a votazione, l'accordo è approvato con 57 voti favorevoli, 15 contrari (tutti i consiglieri della sinistra di Brenna, Anni e Fortunato) e 15 astenuti (Gabaglio e altri 14 consiglieri di maggioranza). Gabaglio motiva l'astensione (e non il voto contrario) perché ritiene doveroso farsi carico con responsabilità delle difficoltà del movimento e anche come "manifestazione di fiducia" nei confronti di Marino Carboni, designato alla presidenza in base all'accordo intercorso tra le due componenti.

Si passa poi all'elezione della nuova presidenza. Marino Carboni ottiene 74 voti su 92 votanti, risultato che mostra inequivocabilmente che anche i consiglieri che si erano astenuti sul testo dell'accordo votano a favore del nuovo presidente. Vicepresidente è Ferdinando Castellani, poiché Pozzar, senatore della Repubblica, è incompatibile.

Il nuovo presidente intervenendo dopo l'elezione non nasconde il significato di svolta che oggettivamente assumono l'accordo raggiunto e la sua presidenza:

"Quanti considerano l'accordo come una resa di fronte alle pressioni del cosiddetto potere cattolico hanno dimenticato evidentemente la lunga serie di errori compiuti dalla vecchia gestione caratterizzata da avanzate spericolate e da confuse ritirate, dal verificarsi di dolorose scissioni, dal ritiro del consenso da parte della Chiesa, dalla scommessa sbagliata sull'ipotesi politica del MPL. Sono stati questi errori la causa diretta dell'attuale crisi delle ACLI. Si apre con l'elezione della nuova presidenza un capitolo nuovo nella storia delle ACLI che è banale chiamare svolta moderata, a meno che per moderatismo non si intenda realismo, concretezza, fedeltà ai valori ideali che sono all'origine della ragion d'essere dell'esperienza aclista; e per progressismo le avventure verbali, il velleitarismo, il confondersi anonimo nelle vicende e nello sviluppo del movimento operaio italiano, senza essere portatori di una distinta e precisa qualificazione ideologica."

Sulla questione dei rapporti con la comunità ecclesiale e i vescovi in particolare, Marino Carboni, dopo aver ricordato che il congresso di Cagliari ha fornito "molte risposte chiarificatrici che tutte le ACLI condividono", afferma che la nuova presidenza non intende "lasciare nulla d'intentato, muovendo […] dal documento congressuale di Cagliari sui rapporti ecclesiali, per ristabilire […] un clima nuovo di confidenza e comprensione che dia un senso, anche nella comunità ecclesiale, al nostro essere e professarci cristiani nell'impegno di liberazione dell'uomo per la costruzione di una società diversa da quella in cui oggi viviamo. Per questo siamo e ci dichiariamo pronti e disponibili al dialogo con l'Episcopato italiano e per esso con la CEI, avendo ben presente il significato della dichiarazione della CEI stessa del maggio 1971."

Per comprendere lo stato d'animo della minoranza di sinistra, che non vota per Carboni, è illuminante il commento di Maria Fortunato:

"Ricordo la tristezza di quella sera in cui Gabaglio si dimise da Presidente e fu eletto Marino Carboni. Ricordo di essere arrivata a casa e di aver ascoltato il telegiornale della sera, in cui dissero che il cambiamento di Presidenza significava che le ACLI non avrebbero mai più parlato di socialismo e che rientravano in pieno nel mondo cattolico. Quel comunicato fu una frustata. Fu una cosa veramente terribile, che mi mise davanti ad una realtà che non avevo mai capito nella sua durezza e nella sua difficoltà." (M. Fortunato, Un socialismo ideale, cit., pp. 39-40).

Emilio Gabaglio dopo l'esperienza nelle ACLI diventerà dirigente della CISL dal 1973 e dal 1991 al 2003 sarà segretario generale della Confederazione europea dei sindacati.

 

 

Intervista a Emilio Gabaglio: Paolo VI e le ACLI, 50 anni dopo 

Per ricordare Emilio Gabaglio

Maurilio Lovatti - indice generale degli scritti

 

Emilio Gabaglio e Maurilio Lovatti il 12 aprile 2019 alla presentazione del libro Giovanni XXIII, Paolo VI e le ACLI