Maurilio Lovatti ACLI: i primi anni della presidenza di Domenico Rosati (1976-1978)
Nel 1976 il vicolo cieco che si prospetta nel ristabilimento dell'auspicato rapporto sereno con le autorità ecclesiastiche dopo il periodo conflittuale seguito alla deplorazione di Paolo VI è il motivo determinante che porta Marino Carboni a lasciare con qualche rimpianto la presidenza delle ACLI e ad accettare la candidatura in un collegio sicuro al Senato, nel frattempo propostagli da Benigno Zaccagnini nell'ambito del progetto di rinnovamento della DC e di apertura alla società civile. I dettagli dell'intricata vicenda che porta alle dimissioni di Carboni sono esattamente ricostruibili sulla base degli appunti dell'epoca di Domenico Rosati, successore di Carboni. Il 3 maggio 1976 si riunisce la commissione politica, organo privo di poteri deliberativi, ma di fatto importantissimo per la presenza dei massimi esponenti di tutte le componenti interne alle ACLI. Nei giorni precedenti Carboni aveva incontrato mons. Benelli tramite i buoni uffici del sen. Giuseppe Petrilli. Il problema centrale è costituito dal rischio che dirigenti riconosciuti delle ACLI accettino le candidature a loro proposte nelle liste del PCI, provocando una nuova deplorazione dei vescovi. Vittorio Pozzar afferma che se Gabaglio e Bianchi non si candidano "la situazione si governa", nel senso di evitare nuove pubbliche deplorazione della gerarchia. Brenna afferma che o c'è il pluralismo "in tutte le direzioni" oppure si pone "il problema dell'esistenza del movimento." Emilio Gabaglio, pur comprendendo il significato politico dell'operazione del PCI che intende candidare personalità riconoscibili della società civile e del mondo cattolico, ritiene che "come ACLI occorre prudenza." Tre giorni dopo, in una riunione informale del gruppo dirigente, Carboni afferma che non sono accettabili candidature di aclisti nelle liste del PCI: "su questo ci aspettano al varco. Non basterebbero le dimissioni dei candidati dal consiglio nazionale. Se no la vicenda [dei rapporti con la gerarchia] si chiude definitivamente. In altri momenti ci sarebbe stata comprensione, ma oggi no." Nello stesso gruppo guidato da Carboni, la maggior parte dei dirigenti, a partire dallo stesso Rosati e da Luigi Borroni, è contraria sia ad una limitazione del pluralismo eventualmente decisa dal consiglio nazionale, oppure da un congresso straordinario che escluda dalle ACLI chi aderisce al marxismo o al PCI, sia a maggior ragione ad una eventuale espulsione di chi accettasse di candidarsi col PCI alle imminenti elezioni politiche. Carboni prende atto che un eventuale "forzatura" da parte del consiglio nazionale non è condivisa dalla sua stessa componente, e allora dichiara: "Ho tentato da Firenze in poi di prendere tempo. Ora non sono più in grado di trovare altri marchingegni. […Non sono] disposto ad un braccio di ferro con la gerarchia". Comunque non può proseguire la sua gestione "nata per il recupero con la gerarchia." Rosati sottolinea come eventuali dimissioni del presidente "sarebbero inopportune e sbagliate" se motivate con ragioni politiche o, ancor di più, di rapporti con la gerarchia: "Se proprio dovesse dimettersi, il presidente dovrebbe farlo all'atto di accettazione della candidatura elettorale: non uscirebbe sconfitto e lascerebbe intatte le chances del successore". Carboni concorda e Rosati scrive in calce ai suoi appunti presi durante la riunione: "Sento che questo è un gesto d'amicizia. Perché adesso tocca proprio a me...". Così avviene: il 30 maggio 1976 Carboni e l'intera presidenza si presentano dimissionari al Consiglio nazionale, che respinge le dimissioni ed elegge all'unanimità Domenico Rosati. Precedentemente, nel Comitato esecutivo del 15 maggio, Carboni aveva specificato sulle dimissioni che "chiaramente […] è solo accidentale la motivazione relativa alla sua candidatura al Senato nelle liste della DC"; aveva accennato "alle difficoltà oggettive […] esistenti rispetto alla possibilità di continuare l'impegno di ripristinare dei corretti rapporti con la gerarchia", ma aveva affermato anche con decisione che "le dimissioni della presidenza non vogliono né debbono significare pregiudiziali rispetto alla continuazione della gestione unitaria" delle ACLI. (Verbale del 15 maggio 1976, punto 1). L'elezione di Rosati avviene sulla base di un documento approvato all'unanimità dal Consiglio nazionale, che definisce alcuni punti fermi per quanto attiene all'ispirazione cristiana del movimento e al rapporto coi vescovi, nel quale si afferma l'impegno delle ACLI a "vivere nella comunità ecclesiale, dando un contributo alla ricerca che in essa è in atto, con la propria autenticità, con la propria scelta […] di classe ed anticapitalistica […] In questo spirito le ACLI, mentre riaffermano il pluralismo, ritengono legittimo, anche in questo campo, l'esercizio della funzione dei Vescovi, ribadendo il dovere dell'ascolto, dell'attenzione e della necessaria riflessione […]. (Documento approvato all'unanimità dal Consiglio nazionale del 29 e 30 maggio 1976). Domenico Rosati, nato nel 1929, originario di Vetralla in provincia di Viterbo, laureato in legge, aveva iniziato a collaborare a tempo pieno con le ACLI dal novembre 1951, quale addetto stampa e coordinatore del settimanale Azione Sociale allora in fase di preparazione, quando presidente era ancora Ferdinando Storchi. Direttore del settimanale fino al 1960, aveva lavorato poi come capo ufficio stampa del ministro del lavoro Fiorentino Sullo, e successivamente alla Cassa Mutua dei commercianti fino al 1968. Consigliere nazionale delle ACLI dal 1959, entra nella presidenza nazionale nel 1968. Dopo il congresso di Cagliari (1972) è eletto vicepresidente. Quando diviene presidente nazionale delle ACLI ha 46 anni.
Il congresso nazionale di Gioventù aclista Il primo momento delicato per il nuovo presidente è il XIV congresso nazionale di Gioventù Aclista che si svolge ad Ariccia dal 26 al 29 giugno 1976. A partire dal referendum sul divorzio i rapporti tra il movimento giovanile e le ACLI erano divenuti tesissimi, come mai era capitato nei decenni precedenti. GA rivendicava un'autonomia rispetto al movimento, in particolare per quanto riguarda le valutazioni politiche. Il gruppo dirigente di GA era molto vicino alle posizioni della sinistra interna alle ACLI e quindi la ricomposizione unitaria scaturita a Firenze favorisce il miglioramento dei rapporti. Rosati interviene ad Ariccia con un lungo discorso, interrotto da applausi scroscianti di centinaia di giovani delegati, e riesce a ristabilire un proficuo rapporto con GA, segnando una prima svolta rispetto alla presidenza Carboni, al punto che la delegata nazionale, Dolores Deidda, nella replica afferma che Rosati: "ha dimostrato di essere un presidente che sa parlare ai giovani, che sa confrontarsi con essi, che sa accettare le differenze che esistono e possono esistere nell'analisi dei problemi e nel giudizio politico; e riconoscere che non sono queste oggi a costituire elemento di divisione, ma la scelta di comporle o comprimerle." Oltre alla ricomposizione con GA, dopo le elezioni politiche del 1976, la nuova presidenza cerca di consolidare le buone relazioni con la DC, ma in un quadro di dialogo e interazione con i grandi partiti popolari. Confermando a più riprese la valutazione positiva sulla strategia delle larghe intese e della solidarietà nazionale, la presidenza Rosati tende a stabilire un sistema multipolare di relazioni, in primo luogo nei confronti della sinistra DC e della linea Moro-Zaccagnini, ma anche verso il PCI di Berlinguer, impegnato in quei mesi al rilancio del compromesso storico, e verso il PSI di De Martino e poi, dal 16 luglio 1976, di Craxi, che apprezza la preoccupazione aclista, resa pubblica dopo le elezioni politiche di giugno, per la minaccia che grava sulle forze intermedie dopo la polarizzazione emersa dalla consultazione elettorale, e infine coi sindacati confederali (alla tavola rotonda sull'unità sindacale promossa dalle ACLI il 3 marzo 1977 partecipano Macario, Lama e Benvenuto). Nell'ambito di questa strategia, il 19 marzo 1977 Domenico Rosati interviene a Torino alla conferenza operaia nazionale della DC, su richiesta di Paolo Cabras, dirigente dell'ufficio per i problemi del lavoro del partito. Per la prima volta dopo oltre un decennio un presidente nazionale delle ACLI partecipa come tale ad una iniziativa ufficiale della DC.
Il convegno nazionale su evangelizzazione e promozione umana Ma il momento più importante del primo anno della presidenza Rosati è senza dubbio la partecipazione al convegno nazionale della CEI su evangelizzazione e promozione umana, che di fatto rappresenta la più grande consultazione di vescovi, chierici e laici mai avvenuta in Italia. Il punto di partenza era stato il documento scritto da mons. Enrico Bartoletti e approvato dalla CEI il 17 aprile 1975. Dopo la morte di mons. Bartoletti (marzo 1976) erano emersi alcuni dubbi sull'opportunità di continuare la preparazione del convegno, superati dalla determinazione del card. Antonio Poma e di p. Bartolomeo Sorge. (F. De Giorgi, Paolo VI, Morcelliana, Brescia 2015, p. 661-62). Il convegno si apre a Roma il 30 ottobre 1976 e si conclude il 4 novembre, presieduto dal card. Poma. Vicepresidenti sono mons. Luigi Maverna, p. Sorge e il prof. Giuseppe Lazzati; Rosati è nel comitato di presidenza. Paolo VI celebra personalmente a S. Pietro la messa per i partecipanti al convegno e nell'omelia sottolinea il carattere di svolta e di ripensamento dell'evento: "Si tratta di questo, voi lo sapete: di evangelizzazione e promozione umana. La Chiesa vi invita e vi impegna ad un ripensamento della sua missione nel mondo contemporaneo, ad una coscienza religiosa autentica e nuova, ad un confronto col vertiginoso mondo moderno, anzi ad un dialogo di salvezza per chi assume la non facile missione di aprirlo, e per chi abbia felice sorte di accoglierlo." (Paolo VI, Omelia del 31 ottobre 1976, in Evangelizzazione e promozione umana Atti del convegno ecclesiale , 30 ottobre - 4 novembre 1976, AVE, Roma 1977, p. 27). La promozione umana è definitivamente acquisita tra le finalità a cui deve tendere la Chiesa italiana, nella consapevolezza che essa non possa essere separata dall'evangelizzazione: "La comunità cristiana, perché tutta evangelizzante, in quanto tale è, tutta intera, soggetto attivo di promozione umana, nella diversità delle funzioni dei Vescovi e dei sacerdoti, dei religiosi e delle religiose, e dei laici." (Presentazione degli atti del Convegno a cura del comitato permanente della CEI, in Evangelizzazione e promozione umana, cit., p. 14). Nella terza relazione generale al convegno, mons. Filippo Franceschi, neo arcivescovo di Ferrara, si propone di indicare, sulla base di tutto ciò che è emerso nella fase preparatoria, "con quale proposta […] la Chiesa presente nel nostro Paese può concorrere efficacemente all'opera di promozione dell'uomo." (F. Franceschi, Esigenze e prospettive dell'evangelizzazione nella società di oggi, in Evangelizzazione e promozione umana, cit., p. 133 e ss.). In primo luogo mons. Franceschi sottolinea come l'azione della Chiesa debba cercare di evitare due tentazioni, quella dell'integrismo, che si diffonde tra i fedeli conservatori, e quella della secolarizzazione, che sembra incontrare consensi tra i progressisti. In particolare l'integrismo si presenta "come tendenza a vedere e a far funzionare le realtà terrene come sostegno di quelle spirituali, […] come […] rifiuto di quella giusta autonomia del temporale, […] come tendenza a far discendere dalla fede una cultura autosufficiente." Ricorda l'arcivescovo di Ferrara, molto critico verso gli atteggiamenti tradizionalisti e conservatori: "La Chiesa è per il mondo. La tentazione d'invertire questo movimento, chiudendo i cristiani nelle loro comunità, anziché inviarli agli uomini è una tentazione sempre pericolosa nei momenti difficili, quando più duro è il confronto col mondo. Dietro il pretesto di mantenere la Chiesa nella sua purezza, un tale atteggiamento la spingerebbe a collocarsi in uno spazio artificiale, fuori dal mondo." Le riflessioni di mons. Franceschi sono molto equilibrate, ed apprezzate dall'assemblea e dalle commissioni, anche sul tema del pluralismo sociale e politico dei cattolici: "In merito […] al problema della presenza dei cattolici nella società civile, se cioè essi debbano raccogliersi in gruppi e formazioni unitarie o non piuttosto obbedire alla logica della diaspora (sempre per concorrere con propri apporti alla promozione dell'uomo) non sembra si possa dare una risposta di tipo teologico o dogmatico: il giudizio e la valutazione è di ordine storico e contingente." Tuttavia un sano pluralismo si ispira anche al criterio comune secondo cui l'impegno del cristiano deve mirare al "superamento dello statu quo […] Nessuna condizione storica esaurisce per il cristiano la speranza, né può essere considerata ideale." Nella replica finale, accompagnata da prolungati e ripetuti applausi, p. Sorge, sintetizza: "Il convegno chiede oggi alla comunità ecclesiale italiana l'impegno prioritario d'una ricerca di mediazione culturale nuova, che porti a riesprimere la fede e il messaggio cristiano in modo rispondente alla nuova domanda culturale nata in Italia in questi anni." (B. Sorge, Una Chiesa in ricerca, in servizio, in crescita, in Evangelizzazione e promozione umana, cit., p. 324). Sul tema controverso del pluralismo propone una soluzione rispettosa delle diverse tendenze emerse: "Come è normale che si costituiscano differenti movimenti organizzati sebbene ispirati ai medesimi valori evangelici, in linea teorica è altrettanto legittimo che altri cristiani - a titolo personale o in gruppo - preferiscano agire all'interno di movimenti politici diversi, non ispirati ai valori evangelici, ma non in contrasto con questi […] col proposito di animarli e di orientarli con la loro testimonianza cristiana. Si possono però verificare situazioni storiche contingenti, nelle quali l'unità dei cattolici può divenire grave dovere morale." L'orientamento prevalente emerso dal convegno e condiviso dallo stesso Paolo VI è basato sulla convinzione che la Chiesa, di fronte alla grande eterogeneità delle situazioni storiche e sociali in cui deve operare, non vuole proporre soluzioni univoche e predefinite, ma intende affidare alle comunità cristiane locali la responsabilità di valutazioni e scelte concrete, nel presupposto di una loro capacità di profetico discernimento. Le ACLI, che avevano collaborato attivamente alla preparazione del convegno con decine di convegni provinciali e regionali, sono presenti numerosi al convegno nazionale. Commentando lo svolgimento del convegno in un editoriale del settimanale aclista, Domenico Rosati scrive: "Il convegno […] è apparso, alla sua conclusione, come uno di quegli avvenimenti che lasciano il segno. E' significativo che questo giudizio sia comune, tanto per coloro che al convegno avevano creduto contribuendo alla sua preparazione - e noi ci collochiamo tra questi - quanto per coloro che al Convegno avevano guardato con scetticismo o con sospetto, quasi come ad una occasione preordinata per un rilancio su basi integriste del mondo cattolico italiano." (D. Rosati, A Vangelo aperto, in Azione Sociale, 14 novembre 1976, pp. 1-2). Rosati osserva come questo risultato sia ancor più significativo, poiché i delegati delle diocesi al convegno nazionale sono stati scelti dagli stessi vescovi, e quindi rappresentano le chiese locali nella loro complessità e non solo i militanti e gli attivisti delle organizzazioni e dei movimenti cattolici. Rileva anche che sono state escluse dal convegno le voci dei cattolici che erano entrati nelle liste del PCI come indipendenti di sinistra, al contrario di quanto avrebbe desiderato Giuseppe Lazzati o lo stesso Rosati: il comitato preparatorio non li aveva ammessi, ritenendo che si erano "autoesclusi" dalla comunità cristiana, non avendo seguito le indicazioni della CEI. Rosati condivide pienamente anche l'idea che il convegno sia un punto di partenza e non di arrivo per la Chiesa italiana: "Non è casuale, quindi, che l'intera assemblea abbia sottolineato con enfasi la necessità di non considerare chiusa l'esperienza, ma di prolungarla alla periferia e al centro con l'individuazione di forme e strumenti di consultazione che permettano ai vescovi di modulare le scelte pastorali che loro competono sulla realtà viva e sulle tensioni reali della comunità cristiana in una Italia profondamente cambiata. Sembra, questa, un'indicazione autenticamente conciliare che ripropone vigorosamente la metodologia della Octogesima adveniens quando affida alle comunità cristiane il compito di assumere gli orientamenti più opportuni dal punto di vista pastorale, previa consultazione di tutte le componenti della Chiesa." Per quanto riguarda i contenuti delle conclusioni del convegno, Rosati sottolinea come siano state perentoriamente escluse due tentazioni opposte: quella dell'integrismo, vero "tarlo del Vangelo" nell'espressione usata da p. Sorge, e quella di una "chiesa parallela" che contesti la gerarchia. Sulla presenza degli aclisti Rosati aggiunge: "Ci siamo ritrovati in molti; abbiamo evitato di costituirci in «corrente», abbiamo cercato di dare nelle commissioni in cui abbiamo preso la parola un contributo libero e personale che non poteva tuttavia non risentire della nostra peculiare esperienza. Un contributo accettato e ascoltato, come tutti gli altri; un contributo costruttivo per la crescita di una comunità ecclesiale aperta alla comprensione dei problemi e delle esperienze dei credenti che vivono la condizione e l'impegno del movimento operaio." L'importanza storica del convegno, allora sottolineata da Rosati e dagli aclisti presenti, è confermata anche decenni dopo dagli storici: "Nessuno potrà negare il coraggio che lo animò e l'entusiasmo che generò nei partecipanti e in una larga parte dell'allora piuttosto rattrappito e anchilosato corpo ecclesiale. Una ventata di novità, un richiamo perentorio all'impegno sia dell'evangelizzazione che della promozione umana, un momento di riaggregazione e coscientizzazione che sembrò contagiare tutti i partecipanti." (G. Frosini, I convegni ecclesiali nella Chiesa italiana, in A. Acerbi, G. Frosini, Cinquant'anni di Chiesa in Italia, EDB, Bologna 2006, p. 121). Fulvio De Giorgi così colloca il convegno su evangelizzazione promozione umana nella storia della Chiesa Italiana: "Dieci anni prima, la Chiesa italiana aveva un altro volto, molto poco montiniano e ancora largamente integrista. Il ritardo del montinismo ecclesiale italiano non fu responsabilità di Montini ma, principalmente, dell'episcopato italiano che Paolo VI si trovò di fronte. In ogni caso l'onda d'urto del convegno continuò, nonostante non ci fosse più Bartoletti (ed era un vuoto grave) anche dopo la morte di Montini, per la prima parte del pontificato di Giovanni Paolo II e si chiuse con il convegno ecclesiale di Loreto e, soprattutto, con l'avvento di Ruini alla guida della CEI." (F. De Giorgi, Paolo VI, cit., pp. 663-64).
L'incontro con il Sostituto mons. Benelli Il 7 dicembre 1976, alle ore 12, il presidente nazionale delle ACLI Domenico Rosati è ricevuto in udienza dal Sostituto alla Segreteria di Stato, mons. Giovanni Benelli. Secondo Rosati stesso, mons. Benelli aveva determinato "l'atteggiamento vaticano" sulla vicenda delle ACLI dal congresso di Torino (1969) in poi e le sue valutazioni sull'indirizzo assunto dalle ACLI con la presidenza Carboni erano caute ed interlocutorie: "«Vi giudicheremo dai fatti» era la parola d'ordine che rimbalzava gerarchicamente fino ai terminali della CEI. Benelli usava poi parlare e scrivere «per venerato incarico»; e tutti capivano - dall'ambasciatore americano all'ultimo parroco - che il suo pensiero corrispondeva a quello del papa Paolo VI." (D. Rosati, Il laico esperimento, Edup, Roma 2006, p. 71-72). Ricorda Rosati: "Fui subito colpito dall'affabilità del mio interlocutore" e alla domanda su quanto tempo gli era concesso, Benelli rispose: "Tutto quello che è necessario". Il colloquio dura ben due ore. Ascoltata con pazienza e attenzione una lunga relazione del presidente sulla situazione e sull'evoluzione delle ACLI nell'ultimo decennio, verso la fine del colloquio, secondo la versione dello stesso Rosati, mons. Benelli avanza una richiesta ben precisa: "Dalle ACLI ci si aspettava un'estromissione dal governo dell'organizzazione e poi dall'organizzazione stessa di coloro (nomi e cognomi) che, aderenti o simpatizzanti di forze di ispirazione marxista - compresi anche i socialisti, rei di aver seguito Livio Labor sulle perigliose sponde del PSI - non avevano titolo per militare in un'associazione cristiana: «Che intende fare, presidente?». Tutta la sequenza del difficile rapporto tra le ACLI e la gerarchia (non degli ultimi anni, ma dalle origini) precipitava in quell'interrogativo." La risposta di Rosati riassume una linea condivisa da tutto il gruppo dirigente nazionale dal congresso di Firenze. Le ACLI intendono rafforzare e rendere più esplicita l'ispirazione cristiana del movimento e l'attenzione all'insegnamento della Chiesa, impegnandosi a non far nulla per trattenere chi non avesse condiviso tale impostazione, ma sempre in conformità al principio che in un movimento democratico il rimanere o l'andarsene è rimesso alla opzione di coscienza dei singoli, rifiutando l'idea di epurazioni. Piuttosto si sarebbe dimesso lui. Secondo Rosati non spetta al presidente, né ad altri organi delle ACLI, costringere dei soci a dimettersi se non violano lo statuto. Rosati, in quella che appare una sorta di difesa ad oltranza delle ACLI, richiama anche la decisione della CEI del 1971, che ritirava il consenso ecclesiastico al movimento, ritenendolo una buona base di partenza per ricostruire il rapporto con la gerarchia, in quanto evita alla radice il pericolo di compromettere i vescovi in scelte politiche o sociali opinabili: "Attestandomi sulla deliberazione della CEI del 1971, che prendeva atto della nuova posizione delle ACLI, sapevo di toccare un nervo scoperto: c'era, infatti, difformità di valutazione tra l'episcopato italiano e Segreteria di Stato; ed era stato probabilmente questo il motivo per cui alla presa di distanza della CEI verso le ACLI era seguita la ben più dura ed esplicita deplorazione del Papa. Benelli era dell'avviso che occorresse ristabilire un rapporto formalizzato al termine del cammino di recupero; al contrario io mi appoggiavo alla tesi dei vescovi […] per dimostrare che un ritorno al passato non avrebbe reso praticabile la strada che i vescovi stessi avevano indicato. Il commiato fu cordiale." La settimana successiva, il 13 dicembre, Rosati è ricevuto a Milano dall'arcivescovo Giovanni Colombo, affiancato da mons. Giovanni Battista Guzzetti e da don Pietro Galli, per un più dettagliato esame sulla questione del pluralismo politico dei cattolici e dei casi in cui dirigenti aclisti, come Giovanni Bianchi, avevano rilasciato dichiarazioni d'appoggio agli indipendenti di sinistra, in contrasto con le indicazioni dei vescovi. Per Rosati l'esito positivo del colloquio contribuisce decisamente al miglioramento dei rapporti con la gerarchia: "Da quel momento, per tutta la lunga durata della mia presidenza [1976-87] non ho più ricevuto richieste ultimative di carattere globale." (ivi, pp. 74-75). La linea esposta al cardinal Benelli sarà seguita scrupolosamente negli anni successivi. L'idea centrale è di ricondurre tutte le realtà provinciali delle ACLI ad un pieno rispetto dei valori derivanti dall'ispirazione cristiana del movimento, correggendo con il dialogo e la persuasione le possibili deviazioni, e solo in caso di fallimento procedere eventualmente con strumenti disciplinari. Un esempio significativo in questo senso è il caso delle ACLI torinesi, il cui consiglio provinciale approva l'11 maggio 1977 un documento che valuta positivamente alcuni aspetti della legge sull'aborto allora in discussione in Parlamento, in contrasto con il giudizio negativo sulla proposta di legge più volte formulato dagli organismi nazionali, a partire dal Comitato esecutivo del 6-7 marzo 1976, che come si è visto era stato apprezzato anche dall'Osservatore Romano. Solo pochi mesi prima, un editoriale di Azione Sociale aveva affermato che l'orientamento prevalente nel Parlamento era "disposto a favorire, piuttosto che a scoraggiare l'aborto. Il progetto di legge che va in discussione rivela questo dato perché, in definitiva, qualunque donna lo voglia potrà legalmente abortire." (Azione Sociale, 19 dicembre 1976, p. 1). L'azione immediata e risoluta della presidenza nazionale riesce a persuadere le ACLI torinesi a rivedere la propria posizione, con soddisfazione dell'arcivescovo della città, il card. Pellegrino, che in più occasioni si era mostrato vicino alle ACLI. Nella stessa strategia si inquadra una ulteriore presa di distanza delle ACLI dalle posizioni dei cristiani per il socialismo e dalle frange estreme del dissenso cattolico: "Sostenere […] che dalla fede derivi per coerenza la scelta di classe, e per estensione la scelta per il socialismo è sbagliato. Dalla fede può derivare, deve derivare, la scelta dei poveri, quella del Vangelo […] Mentre la scelta di classe e per il socialismo […] scaturiscono […] da un'analisi che è storica, economica, sociale e politica..." (A. Gennari, Il futuro dei cristiani per il socialismo, in Azione Sociale, 23 gennaio 1977, pp. 6-7). Il miglioramento dei rapporti con la Chiesa è anche favorito dalla pazienza di Rosati, che incontra nei primi anni di presidenza decine di vescovi, per spiegare la situazione e le intenzioni del movimento, e dalla presenza e dall'impegno di p. Pio Parisi, che nel gennaio del 1977 scrive su Azione Sociale: "E' ormai qualche anno che seguo le ACLI […] ora, però, la mia presenza qui, tra voi, ha anche un significato nuovo, sia sostanziale che formale. Mi è stato chiesto, infatti, dall'ufficio nazionale della Pastorale del mondo del lavoro di collaborare […] seguendo in particolare la formazione religiosa dei lavoratori delle ACLI." Padre Parisi scrive spesso su Azione Sociale, interviene ad una tavola rotonda sul decennale della Populorum progressio, con Ruggero Orfei e Angelo Gennari, riportata con grande evidenza dal settimanale aclista, e propizia l'attenzione sui temi religiosi. Anche Gioventù Aclista organizza un convegno Il Futuro della fede nelle attese dei giovani ad Assisi (23-25 settembre 1977).
Il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro
Alle 9.02 di giovedì 16 marzo 1978, in via Fani (tra via Trionfale e via della Camilluccia) a un paio chilometri dallo stadio Olimpico, le Brigate Rosse sequestrano Aldo Moro e uccidono cinque uomini della scorta. L'operazione è attuata da almeno 10 giovani brigatisti (il più giovane ha 23 anni, il più anziano 31) determinati e spietati: in pochi secondi sparano oltre 90 colpi. In quei giorni il Papa è malato. Ha dovuto annullare l'udienza generale del giorno prima ed è costretto a cancellare la maggior parte degli impegni. Paolo VI, alla notizia del sequestro di Moro, benché profondamente addolorato e ancora indisposto, scrive immediatamente alla moglie dello statista democristiano, che conosceva personalmente per manifestare la sua viva partecipazione "al suo tormento" per il rapimento del marito. Tre giorni dopo, ancora febbricitante, dalla finestra del suo studio all'Angelus si rivolge alle migliaia di giovani presenti in piazza: "preghiamo insieme per quanti, in questi giorni, soffrono, portando più viva in se stessi l'impronta della passione di Gesù: per le famiglie che piangono i loro cari, stroncati nel compimento del loro dovere da un insensato odio omicida che ancora una volta ha voluto minare la pacifica convivenza sociale; preghiamo per l'onorevole Aldo Moro, a noi caro, sequestrato in vile agguato, con l'accorato appello affinché sia restituito ai suoi cari." (Paolo VI, Angelus domini, 19 marzo 1978, in Insegnamenti, Città del Vaticano 1965-79, vol. XVI, pp. 216-17). Fin dai primi giorni dopo il sequestro, Paolo VI si interroga sui possibili interventi per favorire la liberazione di Moro. Scrive mons. Pasquale Macchi, segretario del Pontefice: "Tra le ipotesi per liberare l'on. Moro sembrò che potesse essere fatto il tentativo di ottenere la liberazione tramite un forte riscatto. Il Papa diede le disposizioni per reperire la somma necessaria. Fu informato mons. Cesare Curioni, cappellano delle carceri di S. Vittore a Milano perché ricercasse il modo di favorire questa ipotesi." (P. Macchi, Paolo VI e la tragedia di Moro, Rusconi, Milano 1998, p. 21). Nonostante il massimo impegno dispiegato da p. Curioni, i contatti sia diretti sia indiretti tramite mons. Fabio Fabbri, anche lui cappellano delle carceri, e l'avv. Giannino Guiso, difensore di Renato Curcio, non sono in grado di raggiungere i brigatisti che detengono Moro. Gli stessi brigatisti negano di essere stati a conoscenza di una trattativa con il Vaticano. Mario Moretti scrive lapidario: "Se hanno parlato con qualcuno, certamente non è con le BR. I giornali scrivono che si mossero in molti per cercarci, ma noi non abbiamo un ufficio di rappresentanza. Nessuno è venuto da noi in quei giorni." (M. Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana, Anabasi, Milano 1994, p. 165). Valerio Morucci dichiara alla Commissione parlamentare Stragi: "Non so nulla di questa trattativa, non posso sapere dove fosse arrivata e dubito che potesse arrivare in qualsiasi posto." (Audizione di Valerio Morucci, 18 giugno 1997, cit. in R. Ferrigato, Non doveva morire, San Paolo, Cinisello B. 2018, p. 202). Il rapimento di Moro provoca una immediata, sentita e massiccia reazione popolare. I sindacati confederali indicono uno sciopero nazionale a cui partecipano circa 15 milioni di lavoratori. Manifestazioni si svolgono nelle principali città italiane. La principale è a Roma, in piazza S. Giovanni, a cui partecipano oltre 200 mila persone. Il 18 marzo si celebra il funerale degli uomini della scorta. Una folla enorme riempe il piazzale di S. Lorenzo vicino al cimitero del Verano e applaude al passaggio delle salme dei caduti. Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio, scrive sul suo diario: "Le famiglie, di poverissima gente, straziavano. Alcune corone erano poggiate sulla tomba di De Gasperi nell'atrio. […] La folla è immensa e impressionante: silenziosa, consapevole." (G. Andreotti, Diari 1976-79. Gli anni della solidarietà, Rizzoli, Milano 1981, 18 marzo 1978, p. 193). Fin dal giorno del rapimento le ACLI si mobilitano a tutti i livelli partecipando attivamente alle manifestazioni e alle iniziative dei sindacati e dei partiti dell'arco costituzionale. Un manifesto delle ACLI nazionali, preparato immediatamente il 16 marzo, affisso in tutta Italia, afferma con decisione che con il sequestro di Moro e il massacro della sua scorta i terroristi si prefiggono di cancellare in Italia "la speranza di un ordinato sviluppo della democrazia." (D. Rosati, Il laico esperimento, cit., p. 93). Qualche giorno dopo, Rosati interviene con un editoriale, che dopo aver ricordato il valore della visione politica di Moro, incita gli aclisti ad agire attivamente contro il terrorismo e per la difesa delle istituzioni democratiche: "La difesa della democrazia si realizza, oggi, impedendo che vaste masse di cittadini si dislochino nell'area della paura, della disaffezione, del disimpegno […] Questo non è il momento del ritiro dal campo ma della maggior partecipazione, a tutti i livelli. […] Faremo la nostra parte attuando - insieme con le forze politiche, sindacali e sociali - quella grande iniziativa di pedagogia democratica che è indispensabile per isolare moralmente e fisicamente gli assassini ma anche, e soprattutto, per garantire un respiro più vasto alla ripresa delle nostre istituzioni di libertà. Lo faremo […] tra i giovani, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, coerenti con i valori della nostra ispirazione." (D. Rosati, Perché il terrorismo non vincerà, in Azione Sociale, 26 marzo 1978, pp. 1 e 16). Il gruppo dirigente delle ACLI, ignorando completamente, come tutti le altre organizzazioni cattoliche, le iniziative della Santa Sede per liberare Moro (che erano condotte nel massimo riservo) e comprendendo le ragioni che rendevano impossibile per le istituzioni statali aprire una trattativa riconoscendo le BR, incarica il presidente Rosati di manifestare verbalmente a Zaccagnini la completa disponibilità delle ACLI a contribuire nelle forme concretamente possibili ed eventuali iniziative umanitarie per liberare lo statista democristiano. La stessa disponibilità viene comunicata a Franco Salvi, stretto collaboratore di Moro, e confermata con una lettera a Zaccagnini, dopo che era stato diffuso il comunicato n. 6 delle Brigate Rosse, che annunciava la condanna a morte del presidente della DC: "Se pensi, se pensate, che le ACLI, proprio per la loro natura particolare di organismo privato ed autonomo, che non svolge funzioni aventi rilievo costituzionale, possano essere utilizzate per una qualsiasi iniziativa atta a tentare di conseguire l'obiettivo che tutti ci prefiggiamo, sappi e sappiate che potete contare su tutte le nostre energie." (Lettera di Domenico Rosati a Benigno Zaccagnini del 17 aprile 1978, cit. in D. Rosati, Il laico esperimento, cit., p. 96.). Nel frattempo le ACLI cercano di sviluppare il loro ruolo educativo organizzando in tutti i circoli assemblee e incontri, cercando di favorire la più ampia partecipazione di tutti i cattolici, indipendentemente dalla loro collocazione sociale e politica. Per i circoli di tutta Italia è predisposto un sussidio, (Da cristiani, nell'unità di tutto il popolo, per la lotta contro la violenza, per un nuovo sviluppo della democrazia, ACLI, Roma 1978) che viene capillarmente diffuso. Secondo il presidente nazionale, in tal modo, le ACLI intendevano realizzare un'azione "di pedagogia democratica, indispensabile per vincere sbandamenti, disaffezioni, fermenti qualunquistici; in definitiva per evitare che si realizzino gli obiettivi ai quali tende l'azione del terrorismo." Rosati però ammette che anche le ACLI, come gran parte dell'opinione pubblica, avevano inizialmente sottovalutato la minaccia terroristica che da alcuni anni gravava sul Paese: "Per la verità, le ACLI non arrivarono particolarmente preparate all'appuntamento col terrorismo. Una lettura postuma dei loro atteggiamenti dimostra che, in sostanza, esse seguirono gli ondeggiamenti dell'opinione media, quella che in un primo momento aveva interpretato il fenomeno come tutto derivato da una matrice nera e che solo in un secondo momento aveva compreso che il nodo era più intricato anche sul versante della sinistra. Ora ci si rendeva conto che l'esplosione delle BR e il loro «ragionare» politico stabilivano una connessione tra le ultime gesta sanguinose e le premesse ideologiche insite in discorsi sull'uso rivoluzionario della violenza che anche nelle ACLI e nell'area cattolica si erano registrati nei momenti più caldi della ribellione seguita al '68. Posizioni, beninteso, del tutto minoritarie e residuali..." (D. Rosati, Il laico esperimento, cit., p. 95-96). La diffusione del comunicato n. 6 delle BR (15 aprile) con l'annuncio della condanna a morte di Moro imprime un ritmo frenetico e convulso ai tentativi di aprire un canale di comunicazione coi carcerieri dello statista democristiano. Il 18 aprile Amnesty International rivolge un appello pubblico alle BR, col preventivo consenso della DC e della famiglia di Moro, appoggiato anche dal Papa, che interpella riservatamente l'arcivescovo di Canterbury per facilitare il tentativo. (A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Il Mulino, Bologna 2005, pp. 173-74). Il giorno successivo, Lotta Continua pubblica un appello, promosso da "ambienti vicini alla famiglia Moro", firmato da 6 vescovi (tra cui spiccano mons. Clemente Riva, vescovo ausiliare di Roma, mons. Filippo Franceschi, vescovo di Ferrara, mons. Mariano Magrassi, arcivescovo di Bari, e mons. Luigi Bettazzi, presidente di Pax Christi), da diversi sacerdoti, da autorevoli teologi italiani e stranieri, da numerosi intellettuali, da alcuni esponenti socialisti (come Riccardo Lombardi, Norberto Bobbio e Giuliano Vassalli) e comunisti (Umberto Terracini e Lucio Lombardo Radice) e soprattutto, per l'aspetto che qui ci interessa, dai massimi leader dell'associazionismo cattolico: Mario Agnes, presidente dell'Azione Cattolica, Giuseppino Monni, presidente della FUCI e Domenico Rosati, presidente delle ACLI. L'appello invita i carcerieri di Moro a "valutare che al di fuori della vita umana non c'è possibilità di liberazione dell'uomo" e chiede "al governo italiano, al parlamento, ai partiti, a coloro che detengono Aldo Moro e a tutte le forze, le istituzioni, le persone che hanno autorità, di fare i passi necessari e formali per la liberazione di un uomo che sta pagando e ha pagato un prezzo altissimo." (Un Appello, in «Lotta Continua», 19 aprile 1978). Come racconta Rosati, l'adesione all'appello gli era stata chiesta dai radicali, e il giorno successivo, leggendo l'appello aveva notato che la frase che invitava il governo a compiere "passi necessari e formali" non corrispondeva esattamente al testo che gli era stato letto al telefono; tuttavia, nonostante la scorrettezza, decide di non revocare l'adesione all'appello per non rompere il fronte del mondo cattolico, che il 20 aprile ottiene anche l'autorevole avallo della presidenza della CEI, che in un comunicato afferma la necessità di "una decisa e comune buona volontà, ispirata ai valori primari della convivenza civile: il rispetto della vita umana, la considerazione degli inalienabili affetti familiari" e chiede a "chi intendesse assumere responsabilità nel decidere di una vita umana" di insistere a "cercare le vie giuste". Scrive Rosati: "Alcuni dei firmatari si erano dissociati pubblicamente. Io non lo avevo fatto per non accrescere gli equivoci ed anche per un riguardo alla famiglia." (D. Rosati, Il laico esperimento, cit., p. 97) Nella sostanza la posizione del presidente nazionale rimane ferma nell'aderire alla linea della soluzione umanitaria, sostenuta da gran parte del gruppo dirigente della DC, che comunque escludeva azioni che potessero portare ad un riconoscimento delle BR da parte delle istituzioni. Le ragioni che escludevano il riconoscimento politico delle BR sono ribadite in un articolo sul periodico aclista, firmato A. G. [Angelo Gennari]: "Questa è la sfida del terrorismo: costringerci a buttar via la libertà, a limitarcela da noi, a suicidarci come democrazia, ad adottare i mezzi di difesa suoi, quelli che ci propone Almirante. E' la ragione più vera e profonda per cui la Repubblica non può in nessun modo «riconoscere» i terroristi, cedendo loro." Rosati si rifiuta invece di firmare il documento, sottoscritto tra gli altri da Pietro Scoppola, da Vittorino Veronese e dal card. Michele Pellegrino, che disconosceva l'autenticità delle lettere di Moro dal carcere e affermava "L'Aldo Moro che conosciamo […] non è presente nelle lettere dirette a Zaccagnini e pubblicate come sue." (Vogliono distruggere la figura di Moro, in «Il Popolo», 26 aprile 1978, cit. in A. Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 225.). Il comunicato n. 7 delle BR, reso diffuso il 20 aprile, due giorni dopo il falso comunicato n. 7 (quello che comunicava che il cadavere di Moro era stato gettato nel lago appenninico della Duchessa) rende pubblico un terribile ultimatum: il rilascio del prigioniero "può essere preso in considerazione solo in relazione della liberazione di prigionieri comunisti" entro il termine perentorio di 48 ore. Questo drammatico sviluppo della vicenda, e in particolare la lettera di Moro a lui indirizzata, ("Solo la Santità Vostra può porre di fronte alle esigenze dello Stato, comprensibili nel loro ordine, le ragioni morali e il diritto alla vita" scrive Moro nella lettera a Paolo VI, senza data, pervenuta il 20 aprile 1978, in P. Macchi, Paolo VI e la tragedia di Moro, cit. pp. 26-28; A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Einaudi, Torino 2008, pp. 68-69) inducono il Pontefice a rivolgere il famoso appello alle BR: "Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua Famiglia, alla vita civile l'on. Aldo Moro. Io non vi conosco, e non ho modo d'avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente, profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciata contro di lui, Uomo buono ed onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato, o accusare di scarso senso sociale e di mancato servizio alla giustizia e alla pacifica convivenza civile. Io non ho alcun mandato nei suoi confronti, né sono legato da alcun interesse privato verso di lui. Ma lo amo come membro della grande famiglia umana, come amico di studi, e a titolo del tutto particolare, come fratello di fede e come figlio della Chiesa di Cristo. Ed è in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi, che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l'onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione, ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità, e per causa, che io voglio sperare avere forza nella vostra coscienza, d'un vero progresso sociale, che non deve essere macchiato di sangue innocente, né tormentato da superfluo dolore." (Lettera di Paolo VI alle Brigate Rosse, 21 aprile 1978, in P. Macchi, Paolo VI e la tragedia di Moro, cit., pp. 31-32). Sempre attorno
al 20 aprile, in concomitanza con l'ultimatum contenuto nel comunicato n. 7
delle BR, si verifica una svolta sostanziale nell'atteggiamento del PSI e di
Craxi. I socialisti, fin dai giorni immediatamente successivi al rapimento di
Moro, avevano sostenuto la linea della fermezza. Ancora l'11 aprile avevano
elogiato la DC per aver saputo "resistere ad ogni cedimento" e pochi
giorni dopo avevano confermato "l'imperativo" di difendere senza
esitazioni "la stabilità delle istituzioni democratiche e
parlamentari." In un editoriale del 21 aprile invece il PSI sostiene che
"vi è innanzitutto l'imperativo che si impone a qualunque società civile
e perciò anche allo Stato italiano […cioè] la difesa della vita umana."
(Un dramma politico ed umano, in «L'Avanti», 21 aprile 1978, p. 1).
Come rileva Giovagnoli in concreto il PSI si adopera per "far emergere,
attraverso i partiti di maggioranza o gli organi di governo, la disponibilità -
peraltro mai del tutto definita - ad un gesto «autonomo» dello Stato."
(A. Giovagnoli, Il caso Moro,cit., p. 183). Sulla genesi di questa
iniziativa Pietro Craveri ricorda che inizialmente "la patrocinava De
Martino […] Se ne fece attore Giuliano Vassalli, che aveva raccolto le
sollecitazioni di Carlo Alfredo Moro, il fratello magistrato del leader
democristiano. Prese a formarsi una spinta corale a prendere un'iniziativa, che
Craxi raccolse". (P. Craveri, Una battaglia della guerra fredda, in
«Mondoperaio», 2018, n. 3, pp. 55-60, alla p. 60). Vassalli viene incaricato
d'individuare un terrorista non macchiato di delitti di sangue, in condizioni
particolari (malato gravemente o donna con figlio piccolo) che possa essere
oggetto di un provvedimento di clemenza formalmente legittimo da parte dello
Stato, nel tentativo di provare a salvare la vita di Moro. Tutti i tentativi falliscono: Aldo Moro è assassinato il 9 maggio e il suo cadavere è fatto ritrovare in via Caetani a Roma. Racconta Rosati: "Il 9 maggio 1978, all'ora di pranzo, l'intero gruppo dirigente delle ACLI era riunito nella casa della vedova Pagliarini, in via Marco Polo, per uno dei consueti incontri di riflessione spirituale promossi da padre Pio Parisi. La notizia della scoperta del cadavere di Moro in via Caetani fu data dall'espressione del capo ufficio stampa, Giorgio Bonelli, prima ancora che dalle parole che disse. Ci precipitammo a Piazza del Gesù. Era già piena di gente. Mentre ci facevamo largo a fatica verso l'ingresso, mi sentii abbracciare. Era Giovanni Berlinguer, il fratello di Enrico. Piangemmo tutti e due." (D. Rosati, Il laico esperimento, cit., pp. 99). Per il Pontefice l'uccisione di Moro è "un colpo micidiale, che segna la sua persona già indebolita dalla malattia e dall'età avanzata." (P. Macchi, Paolo VI e la tragedia di Moro, cit., p. 44). Ai funerali dell'on. Moro, presieduti dal card. Vicario Ugo Poletti nella basilica di S. Giovanni in Laterano, in assenza della moglie e dei figli dello statista, Paolo VI pronuncia la celebre preghiera: "Ed ora le nostre labbra, […] vogliono aprirsi per esprimere […] il grido, il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. Signore, ascoltaci! E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui. Signore, ascoltaci!" Il giorno dopo il ritrovamento del cadavere di Moro, Rosati scrive una lettera riservata e personale a Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, confermando il sostegno delle ACLI al quadro politico della solidarietà nazionale: "In questo momento le emozioni sembrano travolgere la razionalità. Sento il dovere di reagire a questa spinta scrivendole che, per quel che ci riguarda, non ci saranno cedimenti rispetto all'orientamento, che più volte abbiamo manifestato, di salvaguardare la stabilità del quadro politico imperniato sul governo da lei presieduto. Personalmente sono convinto che, se anche questo argine crolla, esiste solo il via libera alla destabilizzazione all'involuzione." (Lettera riservata di Rosati ad Andreotti, del 10 maggio 1978). Il periodico aclista pubblica in prima pagina una grande foto di Moro, con scritto a fianco: "Hanno assassinato Aldo Moro: orrore, cordoglio, preghiera, solidarietà alla famiglia e alla DC sono i sentimenti spontanei dei lavoratori cristiani in quest'ora di morte. Ma non potranno uccidere la democrazia: il messaggio di libertà su cui si fonda la lezione morale e politica di Aldo Moro, resta intatto nella coscienza del popolo." (14 maggio 1978). Qualche settimana dopo, il presidente delle ACLI incontra l'ambasciatore bulgaro a Roma, Venelin Kozev, e alla domanda relativa a chi possa aver giovato la scomparsa dello statista, il diplomatico afferma che ha giovato sia all'Ovest (USA) sia all'Est (URSS). Racconta Rosati d'aver chiesto a Kozev perché l'URSS ha interesse ad ostacolare l'avvicinamento dei comunisti al governo, e di aver ricevuto questa risposta: "Non sottovaluti la preoccupazione suscitata da un ingresso dei comunisti per via democratica e in un quadro di riferimento atlantico: un vero cambio di campo." Commenta il presidente: "Da allora non sono mai riuscito ad archiviare questa teoria bulgara, una tra le tante, ma assai suggestiva: una «convergenza parallela» di esigenze diverse, anzi opposte, unificate sul terreno dell'equilibrio e della stabilità." (D. Rosati, Il laico esperimento, cit., p. 100; la pubblicazione di documenti inglesi e americani desecretati sembra confermare pienamente la tesi del diplomatico bulgaro; si veda: G. Fasanella, Il puzzle Moro, Chiarelettere, Milano 2018, pp. 206-207 e 211).
Il congresso nazionale di Bologna (giugno 1978) è preceduto dal XXIII incontro nazionale di studio sul tema Dallo sviluppo in crisi ad una nuova cultura dello sviluppo: la ricerca delle ACLI, che si svolge a Riccione nel gennaio dello stesso anno, introdotto da un'ampia relazione di Ruggero Orfei, capo ufficio studi della presidenza nazionale. Il convegno segna una tappa significativa nella storia delle ACLI, poiché in quella sede scaturiscono alcune linee guida che caratterizzeranno l'azione delle ACLI per tutto il periodo della lunga presidenza Rosati (1976-87) e anche successivamente. In particolare emerge con forza una rivalutazione della società civile e dei corpi cosiddetti intermedi della società, e di conseguenza si definisce l'impegno delle ACLI per la crescita politica e culturale della stessa società civile, in una prospettiva in cui lo Stato è concepito come espressione istituzionale delle realtà sociali, in una tentativo culturale di rivisitazione del tradizionale principio di sussidiarietà. Inoltre nell'incontro di studi si insiste sulla necessità di ripensare lo sviluppo, superando una visione puramente quantitativa, tema ancor oggi attuale. Orfei rileva come vi sia una sorta di dogma implicito nella mentalità ingenerata dal capitalismo, ovvero "l'assunzione di un criterio quantitativo per orientare ogni variazione qualitativa", (R. Orfei, Relazione generale al XXIII incontro nazionale di studio, in Quaderni di Azione Sociale, 1978, n. 3, pp. 25-84, alla p. 36) che determina l'abitudine di considerare astratto tutto ciò che non è misurabile. Si cerca, in sostanza, di approfondire e applicare al contesto sociale italiano il fondamentale principio già enunciato da Paolo VI, secondo il quale lo sviluppo delle società umane non si riduce alla semplice crescita economica, ma deve tendere all'autentica promozione umana. (Paolo VI, Populorum progressio, n. 14). Il presidente Rosati, nel valutare i risultati del convegno, sottolinea come a Riccione sia emersa: "L'esaltazione di quella che abbiamo chiamato la quarta dimensione - intendendo quello spessore di una società civile capace di organizzarsi per proporre e sperimentare autonomamente - che è un fattore indispensabile per la creazione di un tessuto morale prima ancora che sociale e politico, capace di reggere alle spinte autoritarie che scuotono il Paese. […] L'operazione culturale da compiere è […] un superamento del capitalismo e della sua logica, prima ancora che nelle strutture economiche e sociali, nella coscienza di milioni di soggetti e delle organizzazioni che ne trasmettono la memoria storica." (D. Rosati, Dopo Riccione: il dovere di pensare in grande, in AS, 29 gennaio 1978, p. 15). Una notevole e autorevole testimonianza del fecondo percorso attuato per valorizzare la caratterizzazione cristiana delle ACLI è data dall'intervento di padre Pio Parisi, sempre al convegno di studi di Riccione: "Nelle ACLI c'è genuina ispirazione cristiana,vera tensione alla fede in Cristo, senza facili illusioni di piena fedeltà, di perfezione raggiunta." (Intervento di padre Pio Parisi, in Quaderni di Azione Sociale, n.3, pp. 131-142, alla p. 140). Il XIV congresso nazionale delle ACLI si svolge alla Fiera di Bologna dal 15 al 18 giugno 1978. La presidenza nazionale aveva valutato l'ipotesi di rinviare la scadenza congressuale a causa della convulsa situazione politica: Moro era stato assassinato il mese precedente, la legge sull'aborto era stata definitivamente approvata dal Senato, la legge Reale che introduceva il fermo di polizia era stata confermata nel referendum dell'11 e 12 giugno, divampa lo scandalo Lockheed, che porta il presidente Leone alle dimissioni. Nella relazione introduttiva al congresso, Rosati spiega perché alla fine è stata scartata l'ipotesi del rinvio: "Se avessimo dilazionato i nostri tempi […] avremmo dimostrato di aver paura, di sottometterci al ricatto brutale di chi lavora sul panico per scompaginare la vita del Paese e delle sue istituzioni, per affermare sulla paura un disegno tirannico in cui vincano le ragioni della forza e non la forza della ragione." Rosati nella relazione ricorda l'impegno del Papa per cercar di salvare Moro: "Paolo VI, proprio di fronte alla tragedia di Moro, ha trovato nella fede la forza di un eccezionale gesto di umiltà, per umiliarsi in una inascoltata implorazione di umana pietà che ha raggiunto gli accenti della profezia biblica." Il presidente traccia un quadro disincantato e realistico delle ACLI: "I rischi di perdita d'identità e di ruolo sono sempre incombenti in una organizzazione come la nostra, dagli incerti confini, segnata da una forte mobilità di iscrizioni e da una massiccia trasmigrazione di militanza." Nonostante ciò, nei tre anni passati dal congresso di Firenze, le ACLI hanno cercato di tradurre e rendere trasparente nell'azione e nella riflessione la loro ispirazione cristiana "nell'impegno che ci vede partecipi delle lotte di emancipazione del movimento operaio" operando "da cristiani nel movimento operaio." Le ACLI hanno recuperato una dimensione "che spesso ci era sfuggita nel passato" ovvero il "valore dirompente della fede cristiana" nella critica alle ideologie, dimensione che per i più giovani ha avuto il significato di una scoperta, di una "svolta epistemologica". Rosati richiama il clima nuovo che si è formato nella Chiesa italiana dopo il convegno su evangelizzazione e promozione umana, a cui le ACLI hanno partecipato con convinzione a tutti i livelli e che ha mostrato come sia possibile "costruire una Chiesa che sia in continua ricerca di fronte alle novità della storia." Per Rosati nel convegno è emerso con chiarezza come persista una radicata incomprensione tra la Chiesa e il movimento operaio, incomprensione non di principio ("non può esserci frattura tra messaggio evangelico e impegno per la liberazione dell'uomo da ogni condizionamento materiale e spirituale") ma dovuta alle reciproche deformazioni nel percepire la realtà dell'altro; ciò, da un lato, manifesta un insuccesso storico delle ACLI che erano sorte proprio per colmare questa frattura e per superare queste incomprensioni, ma dall'altro rende ancor più indispensabile la presenza attiva di un'organizzazione come le ACLI, che ha "pari credibilità nella Chiesa e nel movimento operaio, per svolgere questa funzione che è insieme di frontiera, di raccordo, di collegamento, di sintesi." Sempre relativamente alla qualificazione cristiana delle ACLI, Rosati ricorda con soddisfazione che nelle numerose e molteplici attività formative del movimento, a livello nazionale e locale, è stata sempre garantita la presenza del sacerdote e che sono sempre stati individuati momenti specifici di riflessione "su argomenti che l'impegno dei laici in campo sociale e nel movimento operaio particolarmente esigevano per una costante animazione cristiana della propria azione personale e di gruppo." A conferma che l'atteggiamento unitario si è ormai radicato nelle ACLI, il dibattito congressuale conferma pienamente le tesi di Rosati sull'ispirazione cristiana, al punto che il presidente nazionale nella replica può affermare che sull'acquisizione e esplicitazione "della qualificazione cristiana delle ACLI non sono emersi dissensi o dubbi di fondo rispetto alle indicazioni che avevo dato." Dal punto di vista politico le ACLI confermano la propria disponibilità a proseguire il confronto col PCI, tanto che nella Rosati, fin dalla relazione congressuale, criticando le tendenze pregiudizialmente anticomuniste emerse con forza nella DC dopo la morte di Moro, afferma: "Di fronte alle sollecitazioni involutive che si presentano all'orizzonte […] noi dichiariamo che ci batteremo per impedire che torni in auge […] la linea dello scontro. […] Non vogliamo che il Paese si divida. Vogliamo che si rimescoli ancor di più; vogliamo cioè che si unifichi, nel consenso di fondo ai valori della democrazia e della Costituzione e quindi attui le premesse di giustizia su cui essa si fonda." Il congresso approva unanimemente l'invio di un telegramma a Paolo VI in cui si afferma la volontà di tutti gli aclisti di operare da cristiani nel movimento operaio per affermare una cultura dello sviluppo basata sui valori della promozione umana. La risposta del Papa, che esprime gratitudine per il messaggio ed auspica che le ACLI "diano originale contributo per autentica et integrale promozione cristiana et umana specialmente ambiente lavoro animati da messaggio evangelico alla luce del costante insegnamento sociale della Chiesa" (Azione Sociale, 17 settembre 1978, p. 4) è accolta con un prolungato applauso e interpretata come un primo importante passo per una auspicata piena riconciliazione. A conclusione del Congresso di Bologna, al quale non partecipa l'ex presidente Emilio Gabaglio, che si era dimesso nel giugno del 1977 dal Consiglio nazionale per incompatibilità con gli incarichi nella CISL, i 70 membri del Consiglio nazionale delle ACLI sono eletti con il metodo tradizionale del panachage, che viene reintrodotto nell'occasione per rafforzare lo spirito unitario. La lista guidata da Rosati ottiene 41 consiglieri (pari al 58,6%); le componenti di sinistra il 17 (pari al 24,3%) e la destra di Pozzar 12 (pari al 17,1%). La gestione unitaria delle ACLI è unanimemente confermata, e Rosati è rieletto presidente. Domenico Rosati è stato Senatore della Repubblica dal 1987 al 1992.
Principali scritti di Domenico Rosati (1929-2024): -
La questione politica delle ACLI, Edizioni Dehoniane, Napoli 1975.
In ricordo di Domenico Rosati (su Battaglie Sociali, marzo 2025)
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