2.1. S. FREUD: VERSO L'ISTINTO DI
MORTE
All'interno del pensiero psicoanalitico esistono
divergenze sostanziali riguardo alla genesi ed alla funzione
dell'aggressività che rimandano a diversità teoretiche, e quindi parlare
di una concezione psicoanalitica dell'aggressività significa in realtà
far riferimento a molteplici definizioni e teorie circa la sua origine e
il suo ruolo nello sviluppo psicologico del soggetto.
Nel corso dei suoi studi S. Freud non si occupa esplicitamente
dell'aggressività. Tuttavia, nei suoi primi scritti (1905), egli
riconduce l'aggressività alla pulsione sessuale, inserendola così
all'interno dello schema pulsionale dualistico più volte ribadito.
Nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) egli scrive:
"La sessualità della maggior parte degli uomini si rivela mescolata
ad una certa aggressività, all'inclinazione alla sopraffazione, il cui
significato biologico potrebbe risiedere nella necessità di superare la
resistenza dell'oggetto sessuale anche diversamente che con gli atti di
corteggiamento. Il sadismo corrisponderebbe allora ad una componente
aggressiva della pulsione sessuale, resasi indipendente ed esagerata, che
usurpa per spostamento la posizione principale." (1)
E ancora: "Che la crudeltà e la pulsione sessuale siano intimamente
connesse ce lo insegna senza alcun dubbio la storia della civiltà umana,
ma nell'illustrazione di questo nesso non si è mai andati oltre
l'accentuazione dell'elemento aggressivo nella libido". (2)
Nel 1908 il Caso clinico del piccolo Hans gli dà l'occasione di
esplicitare la sua concezione dell'aggressività sottolineando il
contrasto con quella di Adler. Fin dal 1908 A. Adler aveva avanzato
l'ipotesi che l'aggressività fosse una pulsione innata primaria. A
seguito di questa ed altre divergenze, nel 1911 Adler abbandona la
psicanalisi ortodossa. La concezione adleriana dell'aggressività è ben
diversa da quella freudiana: non si tratta di una pulsione di distruzione,
come lo sarà per Freud, bensì di una tendenza volta a dominare la
realtà. Attraverso l'energia aggressiva il bambino e poi l'adulto tentano
di farsi strada, tentano il loro intervento sulla realtà.
A questo proposito Freud scrisse: "A. Adler [...] ha recentemente
esposto l'ipotesi che l'angoscia derivi dalla repressione di ciò che egli
chiama "pulsione aggressiva", alla quale assegna, con amplissima
sintesi la responsabilità principale di quanto avviene nella vita e nella
nevrosi". La conclusione cui siamo giunti in questo caso di fobia,
nel quale l'angoscia sarebbe da spiegare con la rimozione delle tendenze
aggressive (ostili verso il padre e sadiche verso la madre), parrebbe
costituire una lampante conferma della tesi di Adler. Eppure io non posso
condividerla, la ritengo una generalizzazione atta a trarre in inganno.
Non posso risolvermi ad ammettere una speciale pulsione aggressiva accanto
alle pulsioni di autoconservazione e sessuali che ci sono familiari, e
sullo stesso piano di queste." (3)
Nonostante Freud ammetta "tutta l'incertezza e la mancanza di
chiarezza" (4) della sua teoria pulsionale, e anzi non escluda la
possibilità in studi successivi più approfonditi, di un diverso
raggruppamento delle pulsioni, per il momento preferisce attenersi
"alla vecchia concezione che lascia ad ogni pulsione la propria
facoltà di divenire aggressiva". (5)
Negli anni che vanno dal 1910 al 1917 Freud enuncia una vera e propria
teoria degli istinti. Nuovi concetti vengono introdotti: accanto al
principio di piacere, il principio di realtà. A questo nuovo principio si
adeguano gli istinti dell'Io e così avviene una più netta distinzione
tra istinti dall'io ed istinti sessuali, questi ultimi più strettamente
legati al principio di piacere.
In questa prospettiva viene rivista la concezione delle pulsioni in
generale e in particolare quelle distruttive.
Scrive Freud: "L'Io odia, aborrisce, perseguita con l'intenzione di
mandarli in rovina tutti gli oggetti che diventano per lui fonte di
sensazioni spiacevoli indipendentemente dal fatto che essi abbiano per lui
il significato di una frustrazione del soddisfacimento sessuale o del
soddisfacimento dei suoi bisogni di autoconservazione. Si può addirittura
asserire che gli autentici archetipi della relazione di odio non traggono
origine dalla vita sessuale ma dalla lotta dell'Io per la propria
conservazione e affermazione". (6)
Dunque sembra chiaro che l'aggressività è, in questa fase, interpretata
come una funzione dell'Io, come una modalità dì crescita e di
autorealizzazione dell'Io e non ancora una pulsione indipendente.
Intorno agli anni '20, Freud modifica radicalmente la sua concezione
dell'aggressività. Sono essenzialmente due i fatti che influenzano questo
passaggio: la scoperta della "coazione a ripetere" che mina il
principio di piacere e soprattutto lo sconvolgimento della prima guerra
mondiale.
La nuova ipotesi scaturita a seguito di queste riflessioni viene enunciata
nell'opera del 1920 Al di là del principio di piacere, opera che inaugura
una nuova fase nella sistemazione teorica freudiana e che inserisce la
nozione di pulsione aggressiva o distruttiva all'interno dell'originale
concetto di pulsione di morte. Basandosi su materiale clinico
Freud afferma che negli individui si realizza un'innata tendenza
psicologica a ripetere situazioni spiacevoli, cioè ad andare "al di
là del principio di piacere" per ritornare al mondo della quiete
inorganica, dove non ci sono più né stimoli né pulsioni. Scrive Freud:
"Se poniamo considerare come un fatto sperimentale assolutamente
certo e senza eccezioni che ogni essere vivente muore (ritorna allo stato
inorganico) per motivi interni, ebbene, allora possiamo dire che la meta
di tutto ciò che è vivo è la morte, considerando le cose a ritroso, che
gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi". (7)
E ancora: "L'ipotesi di pulsioni di autoconservazione del tipo di
quelle che noi attribuiamo ad ogni essere vivente è in singolare
contrasto col presupposto che tutta la vita pulsionale serva a determinare
la morte. Vista alla luce di questo presupposto, l'importanza teoretica
delle pulsioni di autoconservazione, di potenza e di auto-affermazione
diventa molto minore. Sono pulsioni parziali che hanno la funzione di
garantire che l'organismo possa dirigersi verso la morte [...]". (8)
Le radici dell'aggressività sono dunque rintracciate in questo moto
pulsionale, comune ad ogni essere vivente, che ha come scopo la
distruzione ed appare così antitetico alla sopravvivenza.
Aggredire diventa allora necessario per salvaguardare il soggetto
dall'autodistruzione.
A partire da L'Io e l'Es, saggio pubblicato nel 1923, Freud assegna alla
pulsione di morte un posto autonomo nella teoria degli istinti. Egli
scrive: "Bisogna distinguere due specie di pulsioni, una delle quali,
quella costituita dalle pulsioni sessuali o Eros, é la più appariscente
e la più facile da individuare [...] Abbiamo incontrato qualche
difficoltà quando si è trattato di illustrare la seconda specie di
pulsioni; alla fine siamo giunti a ravvisare nel sadismo il suo
rappresentante. [...] Ad ognuna di specie di pulsioni corrisponderebbe uno
specifico processo fisiologico (costruttivo e distruttivo [anabolico e
catabolico]); (...) ". (9)
In un articolo del 1924 dedicato al "problema economico del
masochismo" Freud opera una sistemazione teorica del nesso tra
sadismo e masochismo presentando quest'ultimo come la tendenza primaria
dell'organismo a cercare la propria morte e il sadismo come un rifluire
all'esterno di essa, difendendo così l'organismo stesso dalla propria
autodistruzione. Dunque l'aggressività appare in questo gioco di
estroversione e introversione della pulsione di morte [Fornaro, 1983].
Può anche succedere che questa pulsione di morte venga diretta contro
l'organismo stesso, cioè che la pulsione sia autodistruttiva e che,
rimasta nell'organismo, si leghi alla libido e diventi così il
"masochismo originario, erogeno".
Per Freud gli istinti libidici ed aggressivi non s'incontrano mai
nell'individuo allo stato puro, ossia non mescolati l'uno all'altro,
bensì sempre in fusione, anche se a volte risulta preponderante l'energia
libidica, a volte l'energia distruttiva. Solo nei casi patologici gravi si
può avere una defusione totale dei due istinti fondamentali.
Più volte Freud ribadisce che è necessario e salutare all'organismo
rivolgere verso l'esterno la pulsione di morte: "Trattenersi
nell'aggressione è comunque malsano, porta alla malattia (mortifica)
". (10)
Tale affermazione può apparire una legittimazione della violenza non solo
individuale, ma soprattutto sociale. E' a questo punto che Freud ne Il
disagio della civiltà (1929) sostiene come l'evoluzione culturale, cioè
il progredire della civiltà, abbia reso necessaria la rinuncia pulsionale
ed abbia presupposto la frustrazione di potenti pulsioni libidiche ed
aggressive. Il prezzo che ognuno di noi deve pagare alla civiltà è in
termini di rimozione o di sublimazione, pena la distruzione della
civiltà. Egli scrive: "La civiltà deve far tutto per porre limiti
alle pulsioni aggressive dell'uomo, per rintuzzarne la vivacità mediante
formazioni psichiche reattive". (11)
Interessante è vedere come, a questo punto del discorso, Freud analizza i
mezzi che la civiltà usa per frenare la spinta aggressiva e renderla
innocua. Egli scrive: "L'aggressività viene introiettata,
interiorizzata, propriamente viene rimandata là donde è venuta, ossia è
volta contro il proprio Io. Qui viene assunta da una parte dell'Io, che si
contrappone come Super-Io al rimanente, e ora come "coscienza" è pronta a dimostrare
contro l'Io la stessa inesorabile aggressività che l'Io avrebbe
volentieri soddisfatto contro altri individui estranei. Chiamiamo
coscienza della propria colpa la tensione tra il rigido Super-Io e l'Io ad
esso soggetto; essa si manifesta come bisogno di punizione. La civiltà domina dunque il pericoloso desiderio di aggressione
dell'individuo infiacchendolo, disarmandolo e facendolo sorvegliare da
un'istanza nel suo interno, come da una guarnigione nella città
conquistata". (12) L'origine di tale auto-aggressività,
riscontrabile nel "normale" senso di colpa, ma anche nelle
nevrosi ossessive, nella paranoia, nella malinconia, viene fatta risalire
da Freud ad una sorta di ritorsione dell'aggressività sull'Io, operata
dal Super-Io.
Nel carteggio con Einstein in merito alla propensione dell'uomo alla
guerra, Freud ribadisce la connaturalità all'uomo della tendenza ad
aggredire: ". . . non c'è speranza di poter sopprimere le
inclinazioni aggressive degli uomini. (…) Si può cercare di deviarla
[l'aggressività umana] al punto che non debba trovare espressione nella
guerra. (...) Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione
distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all'antagonista di questa
pulsione: l'Eros." (13)
Da queste parole emerge comunque un messaggio di speranza circa la
possibilità dell'uomo di vivere in pace anche se Freud, in seguito,
mostrando grande consapevolezza, afferma che la strada suggerita è molto
difficile da percorrere e vi si procede con lentezza. Mostrando grande
sensibilità, Freud si rammarica per il fatto che "è triste pensare
a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di
ricevere la farina". (14)
Questa è sostanzialmente la posizione freudiana a riguardo
dell'aggressività, posizione che non verrà più modificata in seguito.
2.2. SVILUPPI DELL IPOTESI FREUDIANA
DELL'ISTINTO DI MORTE: M. KLEIN, J. RIVIERE E F. FORNARI
Come è facile pensare, l'ipotesi dell'esistenza di
una pulsione di morte che mira all'annullamento della vita organica e che
sta alla base dell'ultima formulazione freudiana dell'aggressività ha
destato non poche perplessità. Ampio ed articolato è il dibattito in
merito soprattutto per quanto concerne l'origine e la natura delle
pulsioni, la loro interdipendenza e la relazione che si instaura tra esse
e le altre dimensioni di analisi (biologica, reale).
Nel successivo sviluppo del pensiero psicoanalitico, non essendoci
concordanza a livello della teoria istintuale, il ruolo assegnato
all'aggressività è diverso secondo i vari orientamenti.
Alcuni psicanalisti hanno aderito fedelmente alla teoria dell'istinto di
morte, mentre altri hanno completamente rifiutato tale ipotesi, accettando
comunque l'esistenza di manifestazioni aggressive, evidenti, per altro,
anche nella pratica clinica, senza però pronunciarsi sulle loro origini e
sulle loro implicazioni biologiche e filosofiche. Altri ancora hanno preso
spunto dalla teoria freudiana per poi modificarla e formulare così nuove
ipotesi di fondamentale importanza per la storia e lo sviluppo del
pensiero psicoanalitico.
a) - M. Klein
Melania Klein è scuramente tra coloro che,
accogliendo l'ipotesi della pulsione di morte, ha dato il contributo più
originale e più discusso. "Forse non è azzardato affermare che la
teoria degli istinti di vita e di morte è l'anello che congiunge
saldamente la psicoanalisi freudiana con quella kleiniana" (15).
Questo è ciò che sostiene P. Lussana nel suo contributo al Congresso
Internazionale di Psicoanalisi tenutosi a Vienna nel luglio del 1971,
anche se poi la Klein si distanzierà da Freud su diversi punti. Al
medesimo congresso anche W.H. Gillespie, uno fra i maggiori analisti della
generazione di Anna Freud, ha affermato: "M. Klein si è dimostrata
in questa materia più realista del re [Freud], in quanto ha preso
l'istinto di morte come un fatto di importanza capitale nella psicologia
dell'individuo, piuttosto che vederlo come un concetto cosmologica."
(16)
L'aggressività infantile viene intravista già dalla Klein nel rapporto
col seno materno, che il bambino fantastica di divorare. Dunque viene
accettato il carattere innato dell'aggressività e la sua radicazione
nella pulsione dì morte. Scrive M. Klein: "Penetrando negli strati
più profondi della psiche infantile scopriamo quantità enormi di
angoscia dovuta alla paura di oggetti immaginari ed al terrore di essere
aggrediti in mille modi, e al tempo stesso quantità corrispondenti di
pulsioni aggressive rimosse; ci troviamo così a poter osservare il
rapporto causale esistente tra le paure del bambino e le sue tendenze
aggressive." (17) E' chiaro che per la Klein sono le tendenze
aggressive innate a generare come conseguenza la paura di essere a propria
volta aggrediti.
Riprendendo il discorso che Freud sviluppa in Al di là del principio di
piacere, la Klein aggiunge che "parallelamente alla deviazione della
pulsione di morte verso oggetti esterni si produce una reazione di difesa
intrapsichica contro quella parte della pulsione che non ha potuto essere
esteriorizzata. Il pericolo di essere distrutto dalla pulsione aggressiva
provoca
infatti nell'Io, (.. .) una tensione eccessiva, che l'Io avverte come
angoscia, per cui è posto fin dal principio del proprio sviluppo di
fronte al compito di mobilitare energia libidica contro la pulsione di
morte". (18)
Va sottolineato che per la Klein la pulsione aggressiva è pressoché
coincidente con la pulsione di morte, mentre per Freud essa ne è solo una
derivazione ed una manifestazione [Fornaro, 1983]. Per cui, esprimendoci
in termini di dualismo pulsionale, per Freud abbiamo pulsione di morte ed
Eros, mentre per la Klein abbiamo aggressività ed Eros, o ancora odio ed
amore.
Questa visione dell'aggressività comporta delle conseguenze rilevanti
anche per quanto riguarda l'origine e lo sviluppo del Super-Io, che è per
la Klein riconducibile alle primissime esperienze del bambino ancora nella
fase pre-genitale: è proprio la severità del Super-Io a generare nel
bambino le angosce che sono proporzionali ai suoi desideri aggressivi.
Infatti, "la straordinaria violenza del Super-Io nel suo primo stadio
troverebbe quindi una spiegazione nel fatto che esso è un derivato da
pulsioni distruttive fortissime e che contiene in sé, accanto ad una
certa quantità di pulsioni libidiche, quantità molto considerevoli di
aggressività." (19)
Nella sua opera Invidia e gratitudine [1957] la Klein considera l'invidia
primitiva come un derivato diretto dell'istinto di morte.
Infatti l'invidia è definita come una forza ostile che distrugge il
rapporto del bambino con la madre, perché è particolarmente diretta
contro la madre buona, nutrice, poiché questa è percepita dal bambino
come necessaria, in quanto contiene il latte che lo può soddisfare, ma è
anche profondamente invidiata dal bambino che vorrebbe egli stesso
possedere tutto il latte.
W.H. Gillespie suggerisce che l'istinto di morte, che si traduce per la
Klein in oggetto cattivo introiettato, è parte integrante del bambino
stesso e diventa una sorta di peccato originale [1971].
Dunque, fin dalla nascita l'Io, fragile ed incompleto, è alle prese con
enormi quantità di cariche aggressive, derivanti dall'istinto di morte,
che devono essere gestite. Quest'aggressività si traduce nel bambino a
livello fantasmatico e ciò genera sentimenti di angoscia persecutoria,
come se il fantasma evocato dovesse ritorcersi sul bambino.
Allora l'Io, per salvarsi da tali ansie persecutorie, deflette la pulsione
di morte, in parte proiettandola ed in parte convertendola in
aggressività.
L'oggetto esterno su cui l'Io proietta la parte di sé "cattiva"
e minacciante, che è prima il seno materno, poi la madre intera e poi gli
altri oggetti, diventa a sua volta "cattivo" e fonte di
minaccia, cioè diventa un persecutore. Questa è la posizione dell'Io che
la Klein definisce schizoparanoide.
D'altra parte di pulsione di morte che è convertita in aggressività si
scarica contro quegli oggetti esterni avvertiti come persecutori.
A questo punto l'Io teme che la sua carica aggressiva possa distruggere
anche gli oggetti buoni ed è questo nuovo timore che la Klein definisce
angoscia depressiva, dalla quale scaturisce il sentimento di colpa per
aver danneggiato l'oggetto buono (seno buono, madre buona), poiché nella
posizione depressiva il bambino ha invece unificato le due figure scisse
della madre (buona e cattiva) e concepisce il sé e il suo oggetto, buoni
e cattivi al contempo.
Di grande importanza per una sana risoluzione di queste forti angosce
primitive è l'attività riparatoria nei confronti dell'oggetto buono, che
si origina come reazione alle angosce depressive ed ai sentimenti di
colpa.
Scrive M. Klein: "Accanto agli impulsi distruttivi nell'inconscio dei
bambini e dell'adulto esiste un profondo stimolo a fare sacrifici, al fine
di aiutare e di rimettere a posto la persona amata che nella fantasia è
stata danneggiata o distrutta." (20) L'impossibilità di riparare
l'oggetto d'amore fantasmaticamente leso può suscitare, secondo la Klein,
per difesa e reazione, il passaggio all'atto aggressivo. Il bambino, per
difendersi dalle ripercussioni del suo oggetto che crede di aver leso, è
costretto ad attaccare. Scrive la Klein: "... il bambino è
sopraffatto dalla paura di subire aggressioni incredibilmente crudeli, sia
da parte degli oggetti reali, sia da parte del Super-io. L'angoscia che lo
spinge a distruggere gli oggetti ostili per sfuggire ai loro attacchi
determina però un incremento delle sue pulsioni sadiche. Si instaura un
circolo vizioso per cui l'angoscia che spinge il bambino a distruggere i
suoi oggetti." (21)
Secondo la Klein questo è il meccanismo psicologico che sta alla base
delle tendenze asociali e criminali dei singoli individui. Infatti
aggiunge: "Dobbiamo perciò ritenere che la condotta degli individui
asociali e criminali non dipende, come generalmente si presume, da
debolezza o carenza del Super-Io, ma, al contrario, dal suo esorbitante
rigore e dalla sua enorme crudeltà. " (22)
Non bisogna credere, però, che la Klein voglia sostituire la tesi
dell'origine ambientale della criminalità con quella endoscopica,ma il
suo è solo un tentativo di integrazione [Fornaro, 1983].
Più volte ella ha ribadito l'influenza delle condizioni esterne nello
sviluppo psicologico del bambino. Infatti scrive: ".... la capacità
di avere impulsi distruttivi ed amorosi è, fino ad un certo punto, un
tratto costituzionale, anche se variabile di intensità nei singoli
individui e fin dalla nascita soggetto all'influenza delle condizioni
esterne." (23)
M. Klein si avvale delle numerose osservazioni ed interpretazioni cliniche
del gioco dei bambini e descrive gli impulsi primari in chiave biologica:
è l'impulso libidico che fa succhiare, mangiare e vivere il bambino,
mentre è l'istinto di morte che lo fa mordere, danneggiare, non mangiare
e stare male. Si può ritenere che M. Klein ha saputo spiegare l'angoscia
trovando il collegamento tra l'aspetto biologico e quello psicologico,
cosa che invece Freud non è riuscito a fare [Servadio, 1951, cit. in P.
Lussana, 1972].
b) J. Rivière
Sempre in sintonia con M. Klein si situa il
contributo di Joan Rivière in Amore, odio e riparazione [1968], nel quale
l'autrice sostiene il carattere innato dell'aggressività, insieme a
quello dell'odio e dell'avidità, sentimenti primari che l'individuo deve
imparare ad accettare e riconoscere come costitutivi della natura umana e
quindi imparare a gestirli in modo costruttivo per se stesso e per gli
altri. Soddisfare gli istinti aggressivi crudeli ed egoistici può
significare anche soddisfare un desiderio di piacere, infatti essi sono
"strettamente legati al piacere ed alla gratificazione e [...] ci
può essere un fascino o una eccitazione che accompagna la gratificazione
[...]" (24).
Quindi questo ci può dire come è a volte difficile controllare le nostre
emozioni aggressive. Ma l'aggressività è elemento fondamentale e
necessario nel funzionamento effettivo degli istinti fondamentali di amore
e di conservazione.
Dunque la Rivière sottolinea come l'aggressività "non è totalmente
distruttiva o dolorosa, né nei suoi scopi, né nel suo funzionamento
[...]" (25); infatti è compito dell'individuo "affrontare le
forze distruttive e [...] sistemarle dentro di sé sfogandole, deviandole
e fondendole in modo da ottenere la massima sicurezza possibile nella
vita1 e magari anche nei piaceri [...]".(26) I diversi risultati
individuabili nelle persone "sono in complesso il prodotto della
costante interazione dalla nascita alla morte, di due fattori variabili:
la forza delle tendenze amore e odio (le forze emotive in noi) e
l'influenza dell'ambiente". (27)
c) E. Fornari
Franco Fornari è, tra gli psicanalisti italiani,
un sostenitore della freudiana pulsione di morte.
Prendendo spunto dalla teoria kleiniana della posizione schizo-paranoide e
della successiva posizione depressiva nell'arco dello sviluppo del
bambino, Fornari compie uno studio sulla guerra e sulla distruttività,
applicando le tesi psicoanalitiche ai problemi etnologici e politici.
Dunque il paradigma interpretativo basato sull'esistenza dell'istinto di
morte viene applicato sia allo studio di contesti interpersonali che
internazionali.
In Psicoanalisi della guerra atomica [1964] egli definisce la guerra come
un "delitto individuale, fantasticato individualmente e consumato
collettivamente". (28)
Fornari, attingendo esplicitamente alle teorie kleiniane, sostiene che la
guerra è una reazione collettiva ai fantasmi persecutori che si ritrovano
in ciascuno di noi. E' per difenderci da questi fantasmi persecutori
interni, che minacciano il nostro Io e che sono l'espressione più
evidente e terrificante della pulsione di morte, che proiettiamo
all'esterno le nostre parti cattive, in modo da sentirci liberi di
aggredire l'oggetto che ci minaccia senza timore di danneggiare anche la
parte buona di noi! cioè l'oggetto d'amore interiorizzato.
La guerra diventa allora un meccanismo difensivo, consumato
collettivamente. Fornari scrive: "L'uccisione del nemico, o qualsiasi
atrocità commessa contro di esso, acquista un significato di virtù in
quanto è lotta e punizione verso le parti cattive del sé proiettato.
Poiché i maltrattamenti fatti dai padri ai figli nei riti iniziatici -
maltrattamenti che arrivano talvolta all'uccisione vera e propria -
suscitano, assieme alla rimozione, anche il rafforzamento del desiderio
dei figli di uccidere i genitori, il fatto che i riti iniziatici siano
riti di iniziazione alla
guerra ci conduce a ritenere che la guerra stessa sia intimamente legata
alla lotta contro gli impulsi parricidi messi dentro la tribù nemica.
Perciò, visti dall'esterno, i comportamenti dei primitivi, come pure
l'etica militare in genere, rivelano una singolare coincidenza dell'Es con
il Super-Io. Vista però dal di dentro, l'etica militare, allo stesso modo
della religione di guerra, ci appare contenere un tipo particolare di
eticità comprensibile come elaborazione paranoidea del lutto. Vista in
termini razionali, tale forma di eticità appare una vera e propria
alienazione morale, fondata sull'alienazione dei propri sentimenti di
colpa, messi nel nemico". (29)
Poiché, come è noto, per l'inconscio il desiderio coincide con la
realtà, ciò significa che la morte reale di ima persona cara scatena
forti sensi di colpa dovuti all'ambivalenza dei sentimenti nutriti nei
suoi confronti e cioè al fatto che l'inconscio ha pure fantasticato di
ucciderla.
Se questo sentimento dì colpa non viene accettato, allora si manifesta la
tendenza a proiettare su un altro la responsabilità di quella morte ed è
così che sorge il desiderio inconscio di punirlo e di prevenirlo. Scrive
ancora Fornari: "Il popolo primitivo, in guerra contro un altro
popolo primitivo, costituisce l'altro come ricettacolo delle proprie
necessità di colpa, per cui l'uccisione dell'altro, percepito come
colpevole della morte dei propri morti, è sentito come vendetta del
sangue e serve per evitare la sofferenza depressiva del lutto." (30)
Fornari sottolinea inoltre come in alcune tribù la privazione di guerra
ha provocato l'insorgenza di profonde angosce di distruzione, questa volta
però in relazione ai propri stregoni e non collegate a nemici esterni.
Infatti: "in questo caso la privazione di guerra ha determinato la
reinternalizzazione nel proprio gruppo dell'oggetto persecutore. La paura
di essere distrutti dai propri stregoni avrebbe cioè tutti i caratteri di
un Super-Io sadico come oggetto cattivo internalizzato in una situazione
melanconica". (31)
Così la guerra diventa una difesa contro l'elaborazione del lutto nella
sua modalità melanconica, altrettanto patologica quanto quella paranoica
poiché non distingue tra fantasia e realtà [Fornaro, 1983].
Fornari utilizza le osservazioni compiute sui popoli primitivi per
avvalorare la teoria freudiana dell'istinto di morte. Infatti afferma:
"Oltre a gettare luce sui moventi psicotici della guerra, ciò che si
osserva nei popoli primitivi, privati di guerre, sembra costituire una
prova decisiva a favore dell'ipotesi freudiana dell'istinto di morte, in
quanto ci pone dì fronte al mondo della distruzione non come situazione
esogena, ma come pura emergenza endogena." (32)
Inoltre Fornari, in pieno accordo con quanto aveva affermato Freud,
sostiene che più l'individuo e la società riescono a deflettere
l'istinto di morte all'esterno, attraverso modalità distruttive, più
questo istinto diminuisce, e viceversa.
La guerra rappresenta dunque la principale modalità per deflettere
l'istinto distruttiva all'esterno, anche se con l'avvento dell'era atomica
questa funzione difensiva della guerra si è, secondo Fornari [1964],
rivelata illusoria poiché con la bomba atomica la distruzione del nemico
coinciderebbe con la propria distruzione, vista la portata devastante
dell'arma. Diventa così necessario trovare nuove organizzazioni difensive
nei confronti della pulsione di morte. E Fornari, con un taglio a volte
politico, sostiene che bisogna togliere allo Stato il monopolio della
violenza bellicosa [1964] e incita ciascuno ad accettare la propria
aggressività, i propri desideri distruttivi e la propria colpa.
2.3 GLI "PSICOLOGI DELL'IO"
La corrente psicoanalitica, che configura il
funzionamento dell'Io in modo autonomo rispetto a quello dell'Id,
sviluppatosi in seguito all'opera di Hartmann [Hartmann H., Kris E.,
Loewnstein R., 1949, tr. it.1978], tratta l'aggressività considerandola
indipendentemente dall'istinto di morte. L'Io autonomo è libero da
conflitti istintuali e il suo funzionamento è regolato da propri apparati
primari. L'aggressività è considerata un'attività istintuale, simile
alla libido, che può sottostare al principio di piacere quando viene
scaricata, oppure al principio del dispiacere quando viene accumulata.
Inoltre, come la libido, può essere neutralizzata e sublimata in modo da
venire interiorizzata senza conseguenze negative per il soggetto, cioè
senza diventare autodistruttiva.
Ed è proprio grazie all'interiorizzazione dell'aggressività che l'Io
trae l'energia necessaria per le sue funzioni vitali.
Solo quando l'aggressività non viene neutralizzata diventa pericolosa per
l'Io in quanto si tratta di una vera e propria aggressione e l'Io autonomo
non è in grado di utilizzarla in modo costruttivo.
Per Hartmann e i suoi sostenitori è necessario allora riuscire a
neutralizzare l'aggressività e questa possibilità dipende in ultima
analisi dall'interazione del soggetto con l'ambiente esteriore.
a) A. Freud
Anche Anna Freud pone la sua attenzione
sull'istanza dell'Io, considerata relativamente autonoma rispetto all'Id.
All'interno di questo contesto teorico l'ultimogenita di Sigmund studia
l'aggressività come "espressione pulsionale genuina" e come
"meccanismo di difesa".
Nell'articolo Osservazioni sull'aggressività, presentato come
relazione conclusiva al 27° Congresso Internazionale di Psicoanalisi,
tenutosi a Vienna nel 1971, Anna Freud studia la pulsione aggressiva
seguendo le tre componenti indicate da Freud nella nozione di pulsione
libidica: meta, fonte, oggetto.
In campo analitico, la disputa sull'origine dell'aggressività si riassume
con le posizioni contrastanti che la attribuiscono all'Io oppure all'Es.
Come conseguenza, si ha da una parte la concezione di aggressività come
"capacità", come "modo di fare le cose", e dall'altra
come "pulsione innata, primaria e indipendente".
A proposito dello scopo dell'aggressività, A. Freud sostiene che
"l'aggressività può associarsi con scopi e propositi di tipo
estraneo, prestando ad essi la sua forza".(33) A sostegno di questa
affermazione A. Freud riferisce l'esempio della sessualità infantile
nella quale "l'aggressività si fonde con la libido ed aiuta a
perseguire e raggiungere gli scopi di quest'ultima". (34) E aggiunge:
"L'aggressività viene anche in aiuto, costruttivamente o
distruttivamente, di propositi come, per esempio, la vendetta, la guerra,
l'orrore, la misericordia, il dominio, [...], vale a dire al servizio di
scopi che sono dettati o dall'Io o dal Super Io". (35)
Anche per quanto riguarda l'oggetto dell'aggressività A. Freud tenta un
parallelo con la pulsione libidica, anche se osserva che "dopo la
prima infanzia, le linee di sviluppo della sessualità e
dell'aggressività diventano significativamente diverse". (36)
A differenza dello sviluppo della libido, che procede verso un
indipendenza sempre maggiore dei bisogni e delle tensioni per giungere
verso la "costanza dell'oggetto", getto",
"l'aggressività, e con essa gli effetti coordinati dell'odio, della
rabbia, del risentimento, ecc., rimangono molto più a lungo e più
interamente "analitici", vale a dire più strettamente legati
alle esperienze del piacere-dolore, della
soddisfazione-frustrazione". (37)
Ciò è per Anna Freud dovuto al fatto che per l'aggressività non c'è
alcuna "costanza dell'oggetto", come vi è invece per la libido.
Nonostante queste divergenze tra aggressività e libido, A. Freud parla di
un "ruolo gemello della sessualità e dell'aggressività"
all'interno del conflitto psichico. "Sesso e aggressività hanno in
comune che, nella loro forma e forza originale, non possono essere
accomodate alla vita dell'individuo in una comunità e che, a causa di
ciò, debbano essere ridotti in quantità e cambiati in qualità. Le
pressioni che le loro richieste esercitano sull'Io nei risultanti
conflitti intersistemici sono uguali in entrambi i casi. Così è
l'angoscia suscitata nell'Io e il bisogno di mettere in azione contro di
essi meccanismi di difesa dell'Io, vale a dire di limitarli, modificarli,
controllarli e legarli.
Vi è identità anche riguardo ai compromessi che si formano tra le
pulsioni e le forze difensive, vale a dire riguardo alla formazione del
sintomo nevrotico che ne risulta. Sotto questo rispetto l'illustrazione
clinica più convincente dei ruoli identici che hanno le due pulsioni è
la nevrosi ossessiva, con la sua sintomatologia derivata ugualmente dal
tenere a bada gli elementi, sia libidici che aggressivi, dello stadio
anale-sadistico". (38)
Anna Freud individua poi delle modalità difensive utilizzate dall'Io
efficaci nel trattare con entrambe le pulsioni e "tali sono il
diniego, la rimozione, la formazione reattiva, la proiezione,
l'identificazione, il rivolgere dall'oggetto al sé, il cambiare il
passivo in attivo." (39) E ne individua altre che l'Io utilizza
specificatamente, o in maniera più rilevante, per difendersi
dall'aggressività: il meccanismo di identificazione con l'aggressore; il
meccanismo di spostamento dell'oggetto dall'animato all'inanimato, o dagli
umani agli animali; l'annullamento, così come si presenta nelle nevrosi
ossessive è diretto solamente
contro l'aggressività; il delegare che porta l'individuo ad attribuire a
terzi il desiderio o l'azione aggressiva (tipico della prima infanzia o
nelle reazioni paranoidi) oppure l'individuo, negando a se stesso la
possibilità di soddisfare i suoi desideri aggressivi, li delega ad altre
agenzie, come lo Stato, la polizia, le autorità militari. Un po' quello
che accade nell'altruismo sul versante della libido. Basandosi sulle
osservazioni sui bambini Anna Freud afferma che "si può dedurre che
nella linea evolutiva dell'aggressività, la capacità di aggredire gli
altri precede la capacità di difendersi o, in altri termini, che
l'attacco è un derivato diretto della pulsione aggressiva, mentre
l'aggressività al servizio della difesa è una risposta appresa con la
mediazione dell'Io". (40)
Durante le sedute analitiche con piccoli pazienti, A. Freud osserva come i
bambini possono essere aggressivi e distruttivi per diverse ragioni
"una soltanto delle quali costituisce la scarica diretta di fantasie
o impulsi genuinamente aggressivi". (41)
Le altre ragioni sono da attribuire secondo la Freud ai tentativi dell'Io
per difendersi contro l'angoscia, contro il ridursi delle difese, contro
il riconoscimento conscio di materiale sessuale e aggressivo derivato
dall'Es, ecc. Si tratta, cioè, di motivazioni a servizio dell'Io.
b) R. Spitz
Sempre nell'ambito della scuola americana della
Egopsychology si situa anche il contributo di René Spitz, che vede
l'aggressività come una pulsione impegnata insieme con quella libidica
nella formazione dei rapporti oggettuali.
Per il lattante è dì fondamentale importanza "riuscire a fondere e
scaricare sul partner, rappresentato dalla madre, le pulsioni aggressive e
libidiche". (42) Inoltre Spitz sottolinea come "la carenza di
rapporti oggettuali rende impossibile la scarica delle pulsioni
aggressive" (43) e il lattante si vede costretto a rivolgere su di
sé l'aggressione. Di conseguenza "il rivolgersi su di sé
dell'aggressione non fusa porta ad un deterioramento distruttivo nel
bambino, in forma di marasma". (44)
Infatti è noto come bambini totalmente mancanti della figura materna
possono presentare disturbi gravissimi (anche letali) dello sviluppo
psico-neurologico. Interessante è anche la sua teoria sul ruolo che
l'aggressività svolge nell'acquisizione del gesto di diniego.
L'aggressività del bambino, che in questo caso è evocata dalla
frustrazione, cioè dal "no" della madre, non viene espressa
immediatamente come reazione contro la madre, ma viene incorporata
nell'Io, rielaborata e in un secondo momento espressa attraverso il gesto
di diniego, rifatto dal bambino.
Scrive infatti Spitz: "... l'oggetto libidico infligge una
frustrazione al bambino, provocando il suo dispiacere. Il gesto di diniego
ed il <no> pronunciato dall'oggetto libidico sono incorporati
nell'Io del bambino sotto forma di tracce mnestiche. La carica affettiva
spiacevole, separata da questa rappresentazione, provoca nell'Es una
carica aggressiva che verrà associata alla traccia mestica nell'io.
Quando il bambino si identifica con l'oggetto libidico, questa
identificazione con l'aggressore, secondo la terminologia di Anna Freud,
sarà seguita da un attacco diretto contro il mondo esterno. Nel bambino
di 15 mesi questo attacco prende la forma del <no> (gesto e poi
parola), di cui il bambino stesso si è appropriato. La carica aggressiva,
di cui il <no> è investito nel corso di numerose esperienze
spiacevoli, lo rende idoneo ad esprimere l'aggressione. Questa è la
ragione per la quale il bambino mette il <no> al servizio dei
meccanismi di identificazione con l'aggressore. Egli rivolge il <no>
proprio contro l'oggetto libidico, dal quale ha acquisito il gesto di
diniego." (45)
E' evidente come gli psicologici dell'Io rivolgano la loro attenzione
principalmente ai processi di integrazione e di maturazione dell'io,
piuttosto che alla formulazione di una teoria degli istinti.
L'aggressività e il comportamento aggressivo sono Interpretati come
manifestazioni dell'adattamento dell'io, che può essere più o meno
riuscito, ricollegabile direttamente alla quantità delle frustrazioni,
specie quelle affettive e quelle più precoci, nei confronti delle quali
l'Io attua una condotta aggressiva, cioè una reazione impulsiva con fini
difensivi.
Sembra così che il riferimento più esplicito sia non tanto all'ultima
formulazione dell'ipotesi freudiana, cioè istinto di vita e dì morte, ma
piuttosto a quella più remota degli istinti dell'io.
Come nota Caprara: "L'interpretazione che emerge dal fenomeno
aggressivo tende sempre più ad integrare sotto la stessa denominazione
una componente reattiva con la componente istintiva". (46)
2.4. CRITICHE ALL'IPOTESI FREUDIANA DELL'ISTINTO
DI MORTE: E. FROMM, J. LACAN E ALTRI
a) E. Fromm
Nell'ambito del pensiero psicoanalitico, la critica
alla dimensione istintuale dell'aggressività diventa ancora più marcata,
rispetto alle argomentazioni rivolte dai citati psicologi dell'io,
nell'opera Anatomia della distruttività umana (1973) di E.
Fromm (della quale si tratterà più ampiamente nel capitolo 5°), in
considerazione della rilevante importanza di questo studio in campo
psico-sociale e sociologico.
E' però opportuno sottolineare e commentare le aspre critiche che Erich
Fromm espone, nell'appendice alla citata opera1 riguardo alla teoria
freudiana dell'istinto di morte ed Eros.
Parlando dell'istinto di morte Fromm scrive: "[Freud] lo dilatò al
punto che ogni tensione non classificata sotto Eros rientrava nell'istinto
di morte e viceversa; a questo modo aggressività, distruttività,
sadismo, la pulsione a controllare e dominare, divennero, nonostante le
differenze qualitative, manifestazioni della stessa forza: l'istinto di
morte". (47)
In sostanza, per Fromm sarebbe stata un'esigenza teoretica, una necessità
di "far tornare i conti" la motivazione che avrebbe spinto Freud
a formulare la sua nuova teoria degli istinti.
Infatti, in tono assai polemico, scrive: ". . . il concetto di
istinto di morte fu determinato da due requisiti principali: primo
l'esigenza di riconciliare la nuova convinzione di Freud della potenza
dell'aggressione umana; secondo, dall'esigenza di attenersi a un concetto
dualistico di istinto. Una volta che anche gli istinti dell'Io furono
considerati libidici, Freud dovette trovare una nuova dicotomia, e quella
fra Eros e istinto di morte appare la più opportuna. [...] L'istinto di
morte diviene un concetto passe-partout, con il quale si cercò
inutilmente di risolvere contraddizioni insanabili." (48)
Anche fattori storici e personali, quali la prima guerra mondiale e la grave
malattia, sono indicati da Fromm come fattori che hanno influenzato lo
sviluppo del pensiero freudiano.
Queste "attenuanti" non risparmiano però a Freud le successive
critiche in merito all'inopportunità di inserire l'istinto di morte nel
concetto generale freudiano di istinto; infatti, a differenza
dell'originaria concezione degli istinti, l'istinto di morte non ha
origine da una zona specifica del corpo, ma è una forza biologica
intrinseca a tutta la sostanza vivente. Questa osservazione viene mossa a
Freud anche da altri critici [Fenichel, 1953; Gillespie, 1971].
Ma Fromm non si ferma qui e individua un ulteriore incongruenza nell'opera
freudiana che deriva, secondo lui, dal conflitto tra il Freud teorico ed
il Freud umanista. Il primo "arriva alla conclusione che l'uomo ha
soltanto l'alternativa di distruggere se stesso (lentamente con la
malattia) o distruggere gli altri; [... il secondo] si ribella all'idea di
un'alternativa così tragica che farebbe della guerra una soluzione
razionale a questo aspetto della esistenza umana". (49) I vari
tentativi compiuti da Freud per risolvere questo dilemma di teorico e
umanista non sono convincenti a giudizio di Fromm, a partire dal tentativo
compiuto ne Il disagio della civiltà [1930] di trasformare la
distruttività in coscienza auto-punitiva. Infatti Fromm si chiede come
possa una città che è stata governata da un tiranno crudele trarre
vantaggio dall'arrivo di un dittatore che instaura un regime altrettanto
crudele?
Anche l'ipotesi freudiana della meta inibita e spostata verso altri
obiettivi socialmente validi, come il "dominio della natura" è
qui valutata con grande scetticismo, in quanto per Fromm ogni atto
creativo e costruttivo (compreso il "dominio della natura") è
da attribuirsi in ultima analisi all'Eros piuttosto che all'istinto di
morte.
Sempre in tono polemico e quasi ironico appare il giudizio di Fromm
all'articolo Perché la guerra? che Freud scrive in risposta ad A.
Einstein: "E' veramente notevole e commovente questo tentativo
compiuto da Freud l'umanista e, come egli si autodefinisce ex-pacifista,
per eludere quasi freneticamente le conseguenze logiche delle sue stesse
premesse.
Ma se l'istinto di morte è veramente potente e fondamentale come egli
afferma in continuazione, è possibile che basti la comparsa sulla scena
dell'Eros per ridurlo fortemente, considerando che sono entrambi contenuti
in ogni cellula, e costituiscono una qualità irriducibile della materia
vivente?" (50)
Infine Fromm formula un'ultima critica all'assioma che egli considera
essere un filo conduttore nel pensiero freudiano dai primissimi lavori
fino all'ultima discussione sull'istinto di morte e cioè il principio
della riduzione della tensione.
Fromm afferma che nelle opere freudiane iniziali il "principio di
costanza" implicava la riduzione di ogni attività nervosa a un livello
minimo, mentre in Al di là del principio di piacere, il "principio di
costanza" mantiene l'eccitamento a livello costante. Allora, il
principio di costanza, che è alla base del principio di piacere, è
quindi anche fondamento dell'istinto di morte. E questo è per Fromm un
paradosso.
b) E. Weiss
Profondamente slegato dal principio di
piacere-dispiacere, desunto da quello di costanza, cioè dalla tendenza
alla stabilità delle quantità di eccitazione, e, secondo E. Weiss,
l'istinto di morte, che si differenzia da tutte le pulsioni libidiche per
il fatto che la sua meta non è il piacere, ma la sofferenza. Nel suo
intervento presentato al più volte citato convegno del 1971, ma scritto
molti anni prima [1935], Weiss riprende la tesi di Federn per sostenere
che la meta istintuale dell'istinto di morte è proprio la sofferenza
priva di piacere, una sofferenza che Federn ha potuto riscontrare
clinicamente nello studio della melanconia. Riprendendo Federn, Weiss si
mostra critico anche nei confronti del fondamento teorico dell'istinto di
morte proposto da Freud, sostenendo che "l'istinto di morte è stato
desunto per via di estrapolazioni" (51), anche se si mostra disposto
ad ammetterne provvisoriamente l'esistenza in quanto "un enunciazione
può corrispondere alla realtà anche qualora il suo fondamento teorico
sia insufficiente o errato" (52).
Ma egli risolve poi in maniera un po' diversa chiamando destrudo questa
energia distruttiva, non libidica, che viene impiegata in larga misura
anche a servizio dell'istinto di autoconservazione. "Spesso mi capita
di paragonare la destrudo alla benzina, che, in sé pericolosa, se viene
fatta passare per gli appositi tubi e se si produce la necessaria
esplosione del gas nei cilindri, spinge avanti il motore, mentre, se
fuoriesce dalle sue condutture e si incendia, può danneggiare o
distruggere la macchina stessa." (53)
E' proprio la possibilità di ricavare vita dalla destrudo che rende
incerto Weiss se ritenerla una manifestazione energetica dell'istinto di
morte. D'altra parte l'intervento di Weiss appartiene a un epoca in cui la
grande divisione degli analisti rispetto all'istinto di morte non era
ancora avvenuta e forse è anche per questo che egli non si schiera
totalmente a favore o contro Freud. In conclusione al suo articolo scrive
infatti che l'esistenza dell'istinto di morte pare probabile, ma non è
ancora scientificamente dimostrabile; mentre l'esistenza della destrudo è
certa. Sempre in quella sede, Gaddini [1971] ha proposto una "teoria
duale dell'energia", parlando di una energia aggressiva diversa
qualitativamente da quella libidica e diretta in modo particolare verso il
mondo esterno.
Tale energia è presente fin dalla nascita e durante il corso dello
sviluppo si indirizza in varie modalità di scarica.
e) N. Perrotti
Anche un altro Congresso del 1950 venne dedicato
all'aggressività e, proprio in quell'occasione, N. Perrotti, a proposito
dell'ipotesi freudiana di un istinto di morte, scrisse: "Questa
ipotesi appare più come un frutto di considerazioni metafisiche che il
risultato di osservazioni di fatti. (...) La concezione, pertanto, piana,
geometrica, suggestiva, di Freud, di due istinti fondamentali simmetrici,
in perpetuo contrasto, dovrà essere modificata, ed al suo posto si dovrà
mettere quanto l'osservazione obiettiva dei fatti ci induce a ritenere e
cioè l'esistenza di un istinto aggressivo primario ed irriducibile, al
servizio della vita e non della morte." (54) (Questo contributo di
Perrotti venne riproposto nel convegno di Vienna del 1971, quando l'autore
era ormai morto).
E, per ovviare al problema dell'autoaggressività, Perrotti dimostra che
"tutta l'autoaggressione può essere ricondotta ad
eteroaggressione" (55) attraverso processi di identificazione prima
ed espulsione poi, in modo che sia salvo il principio di un istinto
aggressivo originario, rivolto verso l'esterno ed a protezione
dell'organismo vivente.
Perotti si spinge ancora più in là sostenendo che, in ultima analisi,
gli istinti primari, che per lui sono quello erotico e quello aggressivo,
non sono altro che due momenti, o due aspetti, di un unico istinto: quello
di vita.
Il primo di questi due aspetti è percettivo, più collegato con la
sensibilità interna, il secondo è motorio, più collegato con la
motilità; il primo è in rapporto con l'immaginazione, mentre l'altro con
la realtà.
Scrive: "L'Eros è un faro, una luce, che cerca possibilità vecchie
e nuove; l'aggressività è il macigno che tutto stritola pur di salvare
il salvabile". (56) Nelle conclusioni supplementari al suo intervento
Perrotti svolge una osservazione interessante quando scrive:
"L'istinto aggressivo, come tutte le forze della natura, è al di
fuori del bene e del male, perché si tratta di una forza cieca e
spietata, come la caduta dei gravi." (57) Questo per dire che non va
dato alcun giudizio morale all'istinto aggressivo, anche se questo non ci
esime dalla possibilità di formulare un giudizio morale sull'azione
aggressiva.
d) E. Gaddini
In un intervento del maggio 1972 E. Gaddini fa un
po' il punto della situazione per quanto riguarda gli studi
sull'aggressività. Riprendendo il giudizio che Anna Freud aveva espresso
al Congresso Internazionale di Psicoanalisi (Vienna, 1971), Gaddini
afferma che non si è ancora riusciti a dare all'aggressività la giusta
collocazione nella teoria degli istinti. L'aver considerato
l'aggressività un istinto ha generato un pregiudizio di fondo: il fatto
che essa debba necessariamente andare incontro a vicissitudini al pari
dell'istinto sessuale.
L'errore di credere alle "vicissitudini" delle pulsioni
aggressive e di considerarle simili a quelle sessuali è considerato da
Gaddini un fatto molto grave perché ha impedito un approfondimento della
natura e delle caratteristiche dell'istinto aggressivo.
L'errore si era originato dal fatto che inizialmente Freud aveva
considerato l'aggressività esclusivamente come una componente
dell'istinto sessuale ed anche quando la concezione freudiana si è
evoluta fino all'ipotesi dell'istinto di morte, la maggior parte degli
analisti l'ha scartata tornando a parlare di un istinto aggressivo,
separato sì da quello sessuale, ma con vicissitudini simili,
ricostituendo così la confusione tra aggressività e libido.
Il problema per E. Gaddini sta nel fatto che, in termini metapsicologici,
si conosce molto dell'aggressività dal punto di vista dinamico, molto
meno dal punto di vista strutturale, mentre da quello economico si conosce
molto poco. Lo scarso conto in cui sono stati tenuti gli aspetti economici
nello studio dell'aggressività rimanda ad una tendenza più generale e
diffusa fra gli analisti e cioè quella di scambiare una corretta
descrizione dinamica dei fenomeni per una loro spiegazione; dunque si
tratta di un problema di metodologia della ricerca. "Se la ricerca in
genere [...] costa sforzo all'analista, la ricerca a livello economico
sembra costare uno sforzo ancora maggiore: quasi che, dì fronte ad essa,
le resistenze aumentino a dismisura". (58)
e) B. Bartoleschi
Anche per B. Bartoleschi [1969] esiste un rapporto
tra libido e istinto aggressivo, nel senso che entrambi, insieme,
permettono di realizzare il principio del piacere e del nirvana. Anzi,
questi due istinti devono necessariamente essere associati affinché
possano raggiungere l'oggetto desiderato dal soggetto. Le pulsioni
aggressive sono legate per Bartoleschi a processi biologici e in questa
prospettiva la loro funzione è quella di eliminare gli stimoli che
superano una certa soglia (quella di pericolosità). Sono i processi
psichici,cioè le fantasie inconsce, connesse ai meccanismi di
identificazione proiettiva e di introiezione, che comportano invece
impulsi distruttivi, da non confondere con quelli aggressivi.
E' quindi evidente che per Bartoleschi l'aggressività non è
riconducibile all'istinto dì morte. Tra gli psicanalisti che hanno
rifiutato la nozione freudiana di pulsione di morte (E. Jones, B.B.W Olman,
E. Bibring, R. Brun, S. Nacht) va ricordato Otto Fenichel, il quale
ritiene scientificamente erronea e clinicamente infeconda la concezione
che vede come originaria la pulsione autodistruttiva e come derivata per
estroflessione la pulsione eterodistruttiva.
Per Fenichel è inaccettabile l'idea che la pulsione aggressiva derivi da
una pulsione di morte perché la dissoluzione dell'organismo non può
essere fonte di stimoli, in quanto ci sarebbe una contraddizione tra la
definizione freudiana di pulsione e il fatto che essa sia "di
morte".
f) J. Lacan
Alquanto diversa rispetto alle altre
interpretazioni psicoanalitiche è l'analisi di Lacan sull'aggressività
che privilegia la dimensione dell'immaginario (il mondo degli oggetti e
delle immagini correlative ai propri desideri, l'ambito delle produzioni
narcisistiche) e del simbolico (il mondo propriamente umano del linguaggio
e della socialità) rispetto a quella del "reale" (ciò a cui ci apriamo intenzionalmente al di là dell'immagine e delle
parole).
Scrive Lacan: "L'aggressività, nell'esperienza, si manifesta come
intenzione di aggressione e come immagine di dislocazione corporale: tali
sono i modi in cui si dimostra efficiente. L'esperienza analitica ci
permette di far prova della pressione intenzionale. La leggiamo nel senso
simbolico dei sintomi, non appena il soggetto mette a nudo le difese con
cui li sconnette dalle loro relazioni con la sua vita quotidiana e con la
sua storia, - nella finalità implicita delle sue condotte e dei suoi
rifiuti, - nelle occasioni mancate della sua azione, - nella confessione
dei suoi fantasmi privilegiati, - nel rebus della sua vita onirica.."
(59) Questa sottolineatura del ruolo dell'immaginazione è una conseguenza
dell'impostazione lacaniana che, in polemica con la psicologia dell'Io,
sottovaluta deliberatamente la funzione di percezione e di coscienza che
lo stesso Freud aveva attribuito all'Io.
Da questo punto di vista un'importanza centrale svolgono le
"immagini" viste come vettori elettivi delle intenzioni
aggressive: sono le immagini di castrazione, mutilazione, smembramento,
dislocazione, sventramento, esplosione del corpo, cioè tutte le
"imago" che Lacan ha riunito sotto il concetto di "imago
del corpo in frammenti". Per Lacan basta ascoltare la confabulazione
e i giochi dei bambini dai due ai cinque anni, per rendersi conto che
questi sono i temi spontanei della loro immaginazione ai quali
l'esperienza della bambola fatta a pezzi non fa che dar loro compimento.
Lacan nota che un eventuale tentativo di riduzione behavioristica del
processo analitico mutilerebbe l'interpretazione dei più importanti tra i
suoi dati soggettivi e cioè i "fantasmi privilegiati" che ci
permettono di concepire l'imago formatrice di identificazione. Dal punto
di vista lacaniano: "l'aggressività è la tendenza correlativa a un
modo di identificazione che chiamiamo narcisistico e che determina la
struttura formale dell'Io dell'uomo e del registro di entità
caratteristico del suo mondo". (60)
La tendenza aggressiva si rivela fondamentale in una serie di stati
significativi della personalità, quali sono le psicosi paranaoidi e
paranoiche e in particolare nel caso della paranoia di autopunizione,
nella quale l'atto aggressivo risolve la costruzione delirante.
In polemica col comportamentismo Lacan sostiene che l'esperienza
soggettiva va abilitata con pieno diritto a riconoscere il nodo centrale
dell'aggressività, in particolare l'esperienza del bambino piccolo. Egli
scrive: "Solo Melania Klein, lavorando sul bambino a questo stesso
limite dell'apparizione del linguaggio, ha osato proiettare l'esperienza
soggettiva in questo periodo anteriore in cui nondimeno l'osservazione ci
permette di affermarne la dimensione, nel semplice fatto, ad esempio, che
un bambino che non parla reagisce diversamente a una punizione e a una
brutalità"(61). Lacan precisa inoltre che nelle sue analisi,
prescinde dal "masochismo primordiale" al fine di isolare una
nozione di aggressività strettamente legata alla relazione narcisistica e
alle strutture di misconoscimento e di oggettivazione sistematica che
caratterizzano la formazione dell'Io. Infatti, alla precostruzione di
questa formazione dell'Io, "benché alienante per la sua funzione
estraniante, corrisponde una soddisfazione propria, legata
all'integrazione di un disordine organico originale, soddisfazione che
bisogna concepire nella dimensione di una deiscenza vitale, costitutiva
dell'uomo e che rende impensabile l'idea di un ambito che le sia
preformato. libido "negativa" che porta nuovamente in luce la
nozione eraclitea della discordia, dall'Efesino ritenuta anteriore
all'armonia". (62) Infine, Lacan polemizza apertamente con la
posizione freudiana dell'istinto di morte, interpretato quale fonte di
aggressività, non solo negandone l'esistenza, ma anche cercando di
analizzare le difficoltà teoriche incontrate da Freud e che lo avrebbero
spinto ad avanzare questa ipotesi.
Secondo Lacan la fonte di quell'energia a cui Freud attribuiva il ruolo
dì repressione degli istinti libidici, proviene dalla "passione
narcisistica". Infatti egli scrive: "le difficoltà teoriche
incontrate da Freud ci sembrano infatti derivare da quel miraggio di
oggettivazione, ereditate dalla psicologia classica, è costituito
dall'idea del sistema percezione- coscienza, e in cui sembra
improvvisamente misconosciuto il fatto di tutto ciò che l'Io trascura,
scotomizza, misconosce nelle sensazioni che lo fanno reagire alla realtà,
così come di tutto ciò che ignora, inaridisce e annoda nelle
significazioni che riceve dal linguaggio: misconoscimento che sorprende
quando trascina persino l'uomo che ha saputo forzare i limiti
dell'inconscio con la potenza della sua dialettica".
Come l'oppressione insensata del Super-Io resta alla radice degli
imperativi motivati dalla coscienza morale, così la furiosa passione, che
specifica l'uomo, di imprimere nella realtà la propria immagine, è
l'oscuro fondamento delle mediazioni razionali della volontà". (63)
2.5. AGGRESSIVITA' E DEPRESSIONE
Completata la panoramica delle diverse concezioni
dell'aggressività emerse nel pensiero psicoanalitico, si ritiene
significativo accennare, sia pur brevemente, al nesso fra aggressività e
depressione, la cui analisi rientra nell'ambito della psicologia del
profondo. Vari studi [A. Modica - M. Vitetta, 1968; A. Storr, 1968, F. Di
Forti, 1969] hanno preso in esame il rapporto tra pulsioni aggressive,
ansia e stati depressivi, ottenendo risultati per molti aspetti
concordanti. Secondo Filippo Di Forti [1969] è impossibile separare
l'aggressività dalla depressione: è la colpevolezza, il senso di colpa
che il soggetto avverte in modo pressante, che spinge al sacrificio di sé
per una piena espiazione e al bisogno di autodistruggersi e morire per
cancellare una volta per tutte la colpa.
La genesi del senso di colpa è poi, a sua volta, rintracciabile nel
Super-Io: "Il sentimento di colpevolezza è una condanna imposta dal
Super-Io per i tentativi di separazione, il sentimento di invidia e le
pulsioni distruttjve, che caratterizzano i primi stadi dello sviluppo
psichico". (64) E' evidente il riferimento alle teorie della Klein,
anche se il concetto di "riparazione" è usato da Di Forti in
modo diverso; infatti è proprio la necessità di riparare che spinge il
soggetto all'autodistruzione, alla depressione, a una sorta di masochismo
morale che rivela da una parte una mortificazione narcisistica del sé e
dall'altra una sottomissione al Super-Io. Mentre per Melania Klein la "riparazione" è un meccanismo
psicologico teso alla ricostruzione dell'oggetto buono e quindi alla
risoluzione delle angosce depressive.
Anche per Storr "la depressione si accompagna, tanto nell'uomo quanto
negli animali, a una rigorosa inibizione dell'impulso aggressivo".
(65) La persona depressa è bloccata nel suo tentativo di esprimere
aggressività e odio nei confronti di coloro che ama, perché ha paura di
perdere il poco affetto che pensa di aver ottenuto.
Chi soffre di questa malattia non riesce ad accettare l'ambivalenza che a
volte c'è tra odio e amore e dunque per lui ogni manifestazione di
aggressività comporta necessariamente la scomparsa dei sentimenti
d'amore. Storr riconduce questi meccanismi psichici della persona depressa
all'incapacità delle loro madri nel garantire sufficiente affetto e amore
durante i primi anni di vita.
Un'altra volta viene riconfermata l'importanza dell'ambiente esterno per
lo sviluppo psicologico del soggetto.
NOTE AL 2° CAPITOLO
(1) S. FREUD, Tre saggi sulla teoria sessuale,
(1905), in "Opere", Boringhieri, Torino,
1966-79, vol. IV, pag. 470.
(2) Ibidem,. pag. 471.
(3) S. FREUD, Analisi della fobia di un bambino di
cinque anni, (1909), in "Opere", cit., vol. V, pag. 583.
(4) Ibidem, pag. 584.
(5) Ibidem.
(6) S. FREUD, Metapsicologia. Pulsioni e loro
destini, (1915), in "Opere", cit., vol. VIII,
pag. 33.
(7) S. FREUD, Al di là del principio di piacere,
(1920), in "Opere", cit., vol. IX, pag. 224.
(8) Ibidem, pag. 225.
(9) S. FREUD, L'Io e 1'Es, (1922), in
"Opere", cit., vol. IX, pagg. 502-503.
(10) S. FREUD, Compendio di psicoanalisi, (1938),
in "Opere", cit. vol. XI, pag. 577.
(11) S. FREUD, Il disagio della civiltà, (1929),
in "Opere", vol. X, pag. 600.
(12) Ibidem, pagg. 610-611.
(13) S. FREUD, Perché la guerra? (1932), in
"Opere", cit., vol. XI, pag. 300.
(14) Ibidem, pag. 301.
(15) P. LUSSANA, Aggressività e istinto di morte
da Freud a Melania Klein: teoria e note cliniche, (1972), in "Rivista
di Psicoanalisi", n, 18, 1972, pag. 166.
(16) W.H. GILLESPIE, Aggressività e teoria degli
istinti, (1971), in "Rivista di Psicoanalisi", n. 18, 1972, pag.
39.
(17) M. KLEIN, Il primo sviluppo della coscienza
morale nel bambino, (1933), in "Scritti" (1921-1958), Boringhieri, Torino,
1978, pag. 284.
(18) Ibidem.
(19) Ibidem.
(20) M. KLEIN, Amore, colpa e riparazione, in M.
Klein - J. Rivière, "Amore, odio e riparazione", trad, it., di F. Molfino,
Astrolabio, Roma, 1968, pag. 64.
(21) M. KLEIN, Il primo sviluppo della coscienza
morale nel bambino, cit., pag. 285.
(22) Ibidem.
(23) M. KLEIN, Invidia e gratitudine, trad. it. di
L. Zeller Tolentino, Martinelli, Firenze, 1957, pagg. 15-16.
(24) J. RIVIERE, Odio, avidità e aggressività, in
M. Klein, J.Rivière, "Amore, odio e riparazione", cit. pag. 11.
(25) Ibidem, pag. 10.
(26) Ibidem, pag. 26.
(27) Ibidem, pag. 10.
(28) F. FORNARI, Psicoanalisi della guerra atomica,
Comunità, Milano, 1964, pag. 218.
(29) F. FORNARI, Psicoanalisi della guerra,
Feltrinelli, Milano, 1966, pagg. 63-64.
(30) Ibidem, pag. 64.
(31) Ibidem, pag. 65.
(32) Ibidem.
(33) A. FREUD, Osservazioni sull'aggressività,
(1971), in "Rivista di Psicoanalisi", n. 18, 1972, pag. 16.
(34) Ibidem.
(35) Ibidem.
(36) Ibidem, pag. 17.
(37) Ibidem.
(38) Ibidem, pag. 18.
(39) Ibidem, pag. 19.
(40) Ibidem, pag. 28.
(41) Ibidem, pag. 25.
(42) R. SPITZ, Il primo anno di vita del bambino.
Genesi delle prime relazioni oggettuali, trad. it. di A. Galli e G. Galli,
Giunti Barbera, Firenze, 1965, pag. 66.
(43) Ibidem, pag. 126.
(44) Ibidem.
(45) Ibidem, pag. 79.
(46) G.V. CAPRARA, Aggressività e comportamento
aggressivo, Celuc, Milano, 1972, pag. 84.
(47) E. FROMM, Anatomia della distruttività umana,
(1973), trad. it. di S. Stefani, A. Mondadori, Milano, 1975, pag. 563.
(48) Ibidem, pagg. 566-567.
(49) Ibidem, pagg. 575-576.
(50) Ibidem, pag. 579.
(51) E. WEISS, Istinto di morte e masochismo,
(1935), in "Rivista di Psicoanalisi', n. 18, 1972, pag.'73.
(52) Ibidem.
(53) Ibidem, pag. 76.
(54) N. PERROTTI, L'aggressività umana, (1950), in
"Rivista di Psicoanalisi", n. 18, 1972, pagg. 108-109.
(55) Ibidem, pag. 108.
(56) Ibidem, pag. 113.
(57) Ibidem, pag. 115.
(58) A. GADDINI, Oltre l'istinto di morte. Problemi
della ricerca psicoanalitica sull'aggressività, (1972), in "Rivista
di Psicoanalisi", n. 18, 1972, pag. 188.
(59) J. LACAN, L'aggressività in psicoanalisi, in
Scritti, Einaudi, 1974, pag. 97.
(60) Ibidem, pag. 104.
(61) Ibidem, pag. 109.
(62) Ibidem, pag. 110.
(63) Ibidem.
(64) F. DI FORTI, Aggressività e colpevolezza,
Silva, Roma, 1969, pag. 55.
(65) A. STORR, L'aggressività nell'uomo, trad. it.
di R. Petrillo, De Donato, Bari, 1968, pag. 99.
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