Caro
direttore,
ho letto su Voce la lettera del sig. Mauro Zenoni che definisce “scellerata”
la proposta di legge sulla “morte volontaria medicalmente assistita”.
Sarò forse ingenuo, ma non mi sembra così scellerata.
Zenoni ricorda la frase di papa Francesco “esiste il diritto
alla vita, non alla morte”. Frase in tutto e per tutto condivisibile.
Ma non mi sembra che la citata legge istituisca un diritto assoluto alla
morte assistita. Leggendo l'art. 3, apprendo che possono fare richiesta di
morte assistita solo le persone che si trovano in entrambe queste
situazioni: a) essere affette da patologia irreversibile (senza cioè
nessuna speranza di guarigione) con “prognosi infausta” o sofferenze “assolutamente
intollerabili” e b) essere tenute in vita da trattamenti sanitari di
sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente.
Mi sembra evidente che non si stia istituendo un diritto generale e
illimitato alla morte volontaria assistita.
Leggo poi la lettera Samaritanus bonus della Congregazione della
Dottrina della Fede (22 settembre 2020) che giustamente condanna
l'accanimento terapeutico: “nell’imminenza di una morte inevitabile,
dunque, è lecito in scienza e coscienza prendere la decisione di rinunciare
a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso
della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato
in simili casi. Le cosiddette cure palliative sono l’espressione più
autentica dell’azione umana e cristiana del prendersi cura, il simbolo
tangibile del compassionevole “stare” accanto a chi soffre. Esse hanno
come obiettivo di alleviare le sofferenze nella fase finale della malattia e
di assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano”.
Fin qui, penso, siamo d'accordo.
Ma poi la Congregazione afferma: “L’uso degli analgesici è parte
della cura del paziente, ma qualsiasi somministrazione che causi
direttamente e intenzionalmente la morte è una pratica eutanasica ed è
inaccettabile. La sedazione deve dunque escludere, come suo scopo diretto, l’intenzione
di uccidere, anche se risulta con essa possibile un condizionamento sulla
morte comunque inevitabile.” Fino a concludere: “l’eutanasia,
pertanto, è un atto intrinsecamente malvagio, in qualsiasi occasione o
circostanza.”
Penso che in generale le indicazioni del Magistero vadano sempre accolte
partendo dal presupposto che ci aiutino a meglio comprendere la realtà alla
luce del Vangelo. Però in questo specifico caso mi sento alquanto
dubbioso. Se nella fase finale di malattie incurabili lo scopo condiviso è
quello di evitare sofferenze insopportabili, che lo si faccia rinunciando a
trattamenti che tengono in vita il paziente o intervenendo direttamente con
la cosiddetta morte assistita, è così importante? Il comandamento “non
uccidere” è un imperativo che non ammette eccezioni? Non direi,
nell'insegnamento tradizionale della Chiesa non è mai stato così (ad
esempio nei secoli scorsi era considerato lecito, in guerra, uccidere i
soldati di un Paese nemico che avesse invaso ingiustamente la Patria).
Irrigidirsi su aspetti formali delle norme morali a scapito del contenuto
(che in questo caso è quello di evitare sofferenze insopportabili al malato
terminale) non rischia di dare l'immagine di una Chiesa molto attenta al
rigore normativo, ma poco misericordiosa? Anche il paragone con l'aborto
non è pertinente. L'aborto volontario sopprime una vita potenzialmente sana
e certamente desiderosa di vivere, mentre la morte assistita sopprime, con
il consapevole consenso dell'interessato, una persona incurabile al fine di
evitare sofferenze intollerabili.
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