Il 19
giugno 1971, esattamente mezzo secolo fa, Paolo VI si rivolgeva ai vescovi
italiani per deplorare l'orientamento assunto dalle ACLI: “Noi abbiamo
visto con rammarico il recente dramma delle ACLI: e cioè abbiamo deplorato,
pur lasciando piena libertà, che la direzione delle ACLI abbia voluto
mutare l'impegno statutario del movimento e qualificarlo politicamente,
scegliendo per di più una linea socialista...”. Voce ha
intervistato in esclusiva Emilio Gabaglio, presidente nazionale delle ACLI
dal 1969 al 1972, uno dei protagonisti di quella vicenda.
Nell'agosto del 1970, il convegno nazionale di studi delle ACLI di
Vallombrosa aveva avanzato l'ipotesi socialista. Nella sua relazione
affermava che l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione
era condizione necessaria, ma non sufficiente per costruire una società
più umana, non basata sul profitto. Nello stesso tempo criticava anche la
proprietà statale delle imprese (come nell'URSS). Che tipo di nuova
società avevate in mente? Come pensavate di poterci arrivare? Eravate
consapevoli che gran parte del mondo cattolico percepì la proposta come
confusa e utopistica?
Il convegno di Vallombrosa del 1970 costituisce il punto d’approdo della
critica al capitalismo che le ACLI, guidate da Livio Labor, erano venute
sviluppando nell’arco degli anni Sessanta in corrispondenza con la domanda
di cambiamento espressa da una fase di grandi lotte sociali culminata poi
nell’autunno caldo del 1969. Per noi allora l’alternativa al sistema
capitalista doveva necessariamente misurarsi con soluzioni ispirate al
socialismo, ovviamente nel pieno rispetto delle libertà democratiche. Nulla
a che vedere, anzi l’opposto del “socialismo reale” di marca
sovietica. Non eravamo d’altra parte i soli in questa ricerca: penso per
esempio alla Cfdt, l’erede del sindacalismo cristiano francese, che
proprio in quegli anni reclamava la socializzazione dei mezzi di produzione
e l’autogestione operaia. C’era dell’utopia nei nostri propositi?
Difficile negarlo, ma cinquant’anni dopo continuiamo a fare i conti con
“l’economia dello scarto”, la crescita delle diseguaglianze, l’urgente
necessità di garantire la “dignità” del lavoro e i diritti dei
lavoratori.
Le ACLI avevano ormai stabilito, fin dal congresso di Torino (giugno
1969) il principio del pluralismo politico dei cattolici. Nonostante la
Octogesima adveniens del 1971 avesse riconosciuto per i cattolici “una
legittima varietà di opzioni politiche” e che “una medesima fede
cristiana può condurre ad impegni diversi”, Paolo VI riteneva per
l'Italia ancora indispensabile l'unità politica dei cattolici nella DC.
L’Octogesima adveniens sostiene anche altro. Parla del
discernimento necessario per valutare il grado del possibile impegno dei
cristiani in direzione del socialismo una volta assicurati i valori che
consentano lo sviluppo integrale dell’uomo. Impegno condizionato ma non
precluso a priori. Quando però feci notare al card. Benelli che la nostra
“ipotesi socialista” poteva leggersi in questo quadro, la sua risposta
fu: “L’Italia non è il Senegal”. Difficile pensare che le
preoccupazioni maggiori in Vaticano non fossero di natura politica è cioè
volte a preservare in ogni caso il sostegno del mondo cattolico alla DC, in
funzione di contenimento del partito comunista più forte ed influente del
mondo occidentale.
Aggiungo tuttavia che già in precedenza, in una fase ancora di pieno “collateralismo”
con la DC, Paolo VI aveva espresso riserve sulla “politicizzazione”
delle ACLI. Ne ho un ricordo personale. Nell’udienza concessa alla nuova
presidenza nazionale dopo il congresso del 1966, egli rese esplicite le sue
riserve rimarcando il fatto che le ACLI apparivano andare troppo “ad extra”
rispetto alla loro natura e vocazione originaria.
Nonostante questo momento contingente di contrasto col Pontefice, tra
Paolo VI e le ACLI vi è stata una ben più profonda sintonia di valori, di
ideali, di visione pastorale e antropologica.
Non c’è dubbio che le ACLI debbano molto a Paolo VI a cominciare per
così dire dal loro battesimo. E’ infatti mons. Montini sostituto della
Segreteria di Stato che organizza l’incontro tra il nostro fondatore
Achille Grandi e Pio XII che porta al “consenso” della Chiesa alla
costituzione delle ACLI. Ma questo sarà solo il primo di una lunga serie di
gesti di attenzione e di aiuto.
Il contrasto del 1971 - un momento doloroso per tutti - nulla toglie quindi
alla figura di un Pontefice che non solo in ragione del suo insegnamento
sociale, ma anche e non meno con con gesti concreti ha sempre dimostrato la
sua comprensione e vicinanza al mondo del lavoro, anche a costo di suscitare
lo “scandalo” dei benpensanti e degli ambienti padronali. Come accadde a
Milano quando l’allora arcivescovo Montini rivolse la sua benedizione ai
lavoratori elettromeccanici e alle loro famiglie, che per sostenere la lotta
sindacale per il rinnovo del contratto di lavoro si riunirono in gran numero
proprio il giorno di Natale nella piazza del Duomo del capoluogo lombardo.
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