Maurilio Lovatti Giacinto Tredici e la nascita della filosofia neoscolastica in Italia in I. Pozzoni, Voci dall'Ottocento, Limina Mentis, Milano 2010, pag. 547 - 610
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Giacinto Gaetano Luigi Tredici nasce il 23 maggio 1880, a Milano
in via dei Disciplini, da Luigi e Rachele Raimondi, ed è battezzato
nella parrocchia di S. Eufemia, situata nel centro cittadino. Giacinto
è il quarto di otto figli. La famiglia appartiene alla media borghesia;
il padre, ragioniere, dirige un’impresa commerciale d’illuminazione
ed è un cattolico impegnato in varie forme di volontariato: è
fabbriciere della parrocchia di Sant’Eufemia, delegato per il
“circondario interno” della città di Milano nel settore delle
istituzioni e società di beneficenza e “ispettore per i derelitti”,
cioè per i poveri. Completate le scuole elementari, all’età di dieci
anni, Tredici entra nel Seminario minore di S. Pietro Martire a Seveso
e, completati gli studi ginnasiali, passa al Seminario liceale di Monza.
Gli studi filosofici e teologici lo portano a aderire con convinzione al
tomismo. Nelle sue carte non è rimasto alcun documento sulla sua
giovinezza e sui suoi studi. Mons. Antonio Fappani scrive che “…le
vicende che accompagnano l’affermarsi del movimento cattolico nella
realtà sociale dell’ultimo scorcio del secolo XIX lo vedono schierato
tra i seguaci dell’intransigente Davide Albertario”.[1]
Completati gli studi liceali, Tredici si trasferisce nel 1899 al
Seminario maggiore di Milano per gli studi teologici.[2]
Ancora prima di divenire sacerdote, insegna nel seminario di S. Pietro.
I suoi studi sono particolarmente brillanti: consegue la massima
votazione, cioè 10, in quasi tutte le materie e anche in condotta, con
qualche raro 9. Nel primo anno di teologia ottiene due 9 (in greco ed in
eloquenza), nel secondo e nel terzo l’unico 9 è in eloquenza (segno
forse di una sua particolare timidezza), mentre nel quarto anno
l’unico 9 è in teologia tomistica.[3]
Il 23 novembre 1902 è ordinato sacerdote dal Card. Andrea Ferrari.[4]
Negli anni scolastici 1902-03 e 1903-04, è maestro dei prefetti nel
collegio Rotondi di Gorla Minore e nello stesso collegio insegna anche
religione.[5]
I prefetti erano generalmente dei seminaristi provenienti da famiglie
povere, che non erano in grado di provvedere alla retta del seminario;
in cambio del mantenimento agli studi, assistevano agli studi gli alunni
del collegio. Poiché non potevano recarsi a seguire le lezioni di
teologia in seminario, vi erano appunto i maestri dei prefetti, che
impartivano loro le lezioni. Questa è per Tredici un’esperienza molto
formativa, poiché il maestro doveva insegnare ai prefetti tutte le
materie del curricolo di teologia, non solo quelle in cui l’insegnante
è specializzato, come avviene di norma per gli insegnanti del
Seminario. Dal novembre del 1904 al novembre del 1910 insegna filosofia
al Seminario di Monza. Dal 1910 al 1924 insegna teologia nel Seminario
maggiore diocesano di Milano.[6]
Nell’estate del 1908 padre Agostino Gemelli s’impegna decisamente
nel ricercare un gruppo fidato e competente di collaboratori per fondare
la Rivista di filosofia neoscolastica.[7]
L’idea di creare una rivista analoga a quella del cardinal Mercier a
Lovanio proveniva originariamente da Giulio Canella, professore di
pedagogia e morale alla scuola normale “A. Manzoni” di Verona,
appassionato cultore di filosofia scolastica.[8]
Padre Gemelli fa propria l’idea della fondazione della Rivista e
inizia ad impegnarsi instancabilmente per realizzarla e ne diviene a
tutti gli effetti il coordinatore. Assieme a Francesco Olgiati, Amato
Masnovo ed Emilio Chiocchetti, don Giacinto Tredici è tra i sacerdoti
contattati da Gemelli e che faranno parte del gruppo dei fondatori della
rivista. Quando viene interpellato da padre Gemelli, sempre
nell’estate del 1908, don Giacinto insegnava filosofia al liceo nel
Seminario di Monza già da quattro anni, e frutto di queste sue lezioni
era stato un opuscolo Appunti di storia della filosofia
utilizzato come manuale dagli studenti del Seminario.[9]
Gemelli aveva in progetto di affiancare alla rivista una collana di
libri di filosofia, come poi effettivamente avvenne, e uno dei primi
volumi della collana sarà proprio il Breve corso di storia della
filosofia [10]
del prof. Giacinto Tredici, che avrà 14 edizioni tra il 1909 e il 1940
e anche una traduzione in spagnolo, e che consiste, salvo qualche
piccola integrazione, in una nuova edizione degli Appunti. Fu
probabilmente proprio in uno degli incontri dell’estate del 1908 che
don Tredici regala a padre Gemelli una copia degli Appunti, come
risulta dalla dedica breve e ancora molto formale: “Omaggio a padre
Gemelli. Giacinto Tredici”.[11]
Padre Agostino Gemelli racconta così l’inizio della loro
collaborazione: “Un anno dopo la mia consacrazione sacerdotale io
promossi la fondazione della Rivista di filosofia neoscolastica, che
doveva avere un’importanza notevole anche per preparare la futura
Università cattolica, sogno in quel tempo dei migliori fra i nostri
studiosi. E fu allora, mentre il periodico si trovava ai primi suoi più
difficili passi, che mi rivolsi al giovane docente di filosofia del
Seminario liceale di Monza, il prof. Don Giacinto Tredici, per avere da
lui aiuto e collaborazione. L’invito venne accolto con quella
gentilezza che sempre ha distinto l’attuale Vescovo di Brescia, il
quale mi accompagnò in alcuni Congressi di filosofia, quando per le
prime volte la tonaca del prete ed il saio d’un frate facevano la loro
apparizione, salutati magari – come a Roma – da qualche fischio, che
voleva esprimere lo stupore di alcuni intervenuti, devoti più a Palazzo
Giustiniani che ai dialoghi di Platone o ai trattati di Aristotele.”[12] 1.
Il confronto sulla criteriologia
Il primo scritto di Tredici sulla Rivista
di filosofia neoscolastica compare proprio sul primo numero: si
tratta di una breve recensione alla traduzione italiana dell’ampio Corso
di filosofia ad uso dei licei di Mercier, Nys, Forget e De Wulf.[13]
Nonostante la brevità, questa recensione è significativa per
comprendere l’opposto atteggiamento sulla gnoseologia del card. Desiré
Mercier fra Tredici e Masnovo, che si manifesterà a partire già dalla
preparazione del secondo numero delle rivista (marzo- aprile 1909).
Tredici afferma che la criteriologia, vale a dire la teoria filosofica
della conoscenza, o più precisamente la ricerca del criterio della
certezza, sia “la parte più originale” dell’opera e considera
“procedimento solidissimo” il metodo di Mercier dell’“evidenza
oggettiva”, cioè il procedimento col quale è stabilita
l’oggettività dei giudizi d’ordine ideale (o verità necessarie).
Per Mercier l’oggettività di tali giudizi non è determinata da una
sintesi a priori, ma dall’evidenza. I giudizi d’ordine ideale sono
analitici in senso kantiano, o verità di ragione dal punto di vista di
Leibniz. Per il vescovo di Malines, utilizzando uno di questi giudizi,
il principio di causalità, sarà poi possibile dimostrare anche il
valore reale dei nostri concetti. La Criteriologia generale era
stata pubblicata dal Mercier nel 1899. Il metodo seguito dal cardinale
belga sarà poi criticato dal Masnovo, che lo accusa di un’indebita
commistione tra il piano ontologico e quello gnoseologico. Nel secondo
numero della rivista, infatti, è pubblicata la prima parte dello
scritto di Masnovo Una questione di ontologia nella scuola di Lovanio,[14]
molto critico verso l’ontologia di Mercier,
preceduto da una nota di Gemelli che afferma: “Il primo numero
di questa rivista ha dichiarato con lucidezza quale sia il nostro programma.
Noi teniamo l’occhio rivolto a Lovanio. La stessa pubblicazione
dell’articolo qua sotto, dove il Dott. Masnovo, reverente ammiratore
del nostro Venerato Maestro Card. Mercier, fa alcuni appunti
all’Ontologia dell’illustre Porporato, ne è una prova; mentre
attesta l’interesse grande e crescente che suscita fra gli scolastici
italiani la scuola di Lovanio. La scuola di Lovanio nata e cresciuta
nella libera discussione, dalla libera discussione ha tutto da
guadagnare. I suoi fondamenti e i suoi muri maestri sono costruiti con
provata solidità: chi potrà non rallegrarsi, se alcuno tenti delle
migliorie all’ornato? […] Del resto la Rivista, pubblicando il
presente lavoro, non intende far proprie le conclusioni alle quali
giunge il ch.mo autore nel suo pregevole studio; ma ha inteso solo di
aprire la discussione su di un punto assai controverso e intorno al
quale parecchi studiosi, anche di recente, si sono espressi in direzione
contraria. Personalmente anche nella Redazione della Rivista vi ha chi,
ad onta delle obbiezioni qui presentate dal Masnovo, ritiene ancora
sufficientemente fondata l’opinione del nostro Venerato Maestro il
Card. Mercier, e chi invece abbraccia l’opinione difesa dal Masnovo.
Noi saremo lieti se con la pubblicazione del presente lavoro avremo
provocata una feconda discussione dell’importante tema.”[15]
Nell’articolo pubblicato in due parti nel 1909, Masnovo sviluppa la
sua critica all’ontologia del Mercier
a partire dall’analisi del concetto di “possibilità intrinseca”.
La possibilità intrinseca consiste nell’assenza di contraddizioni tra
le note costitutive di una essenza data. Per esempio un cerchio quadrato
non è intrinsecamente possibile perché circolarità e quadrangolarità
sono tra loro incompatibili. Masnovo sostiene, come altri scolastici del
tempo, che il fondamento remoto dei possibili intrinseci è l’essenza
divina [16],
mentre per il cardinal Mercier il fondamento immediato è dato dalla
constatazione dell’esistenza degli enti contingenti (in quanto
l’esistenza in atto implica logicamente la possibilità) e il
fondamento remoto è da ricercarsi nell’analisi che il pensiero compie
sui concetti astratti dall’esperienza. I redattori a cui allude
Gemelli, che ritengono fondata l’opinione di Mercier nonostante le
critiche di Masnovo, sono certamente Canella e Tredici e molto
probabilmente Emilio Chiocchetti. Gemelli, dopo aver ascoltato
attentamente le ragioni delle due opinioni contrapposte, per il momento
non si pronuncia. Tredici, pur prendendo atto che le tesi del Masnovo
sono in linea con la gnoseologia di S. Tommaso, in un breve e
chiarissimo articolo del 1911,[17]
ribadisce esplicitamente la sua adesione alla criteriologia del cardinal
Mercier, così come aveva fatto, qualche mese prima, su La scuola
cattolica.[18]
Da qui in avanti, don Giacinto assume, anche pubblicamente e non solo
nei dibattiti interni alla redazione, il ruolo di autorevole difensore
delle tesi gnoseologiche della scuola di Lovanio. Nel 1911 Tredici
affronta direttamente ed esplicitamente la questione centrale, ovvero la
validità della dimostrazione di Mercier dell’oggettività delle
nostre conoscenze “d’ordine reale”, cioè fattuali, dimostrazione
fondata sull’applicazione del principio di causalità, la cui validità
il vescovo di Malines aveva mostrato col metodo della “evidenza
oggettiva”, cioè il procedimento col quale è stabilita
l’oggettività dei giudizi di ordine ideale. Egli dichiara
insoddisfacente la giustificazione dell’oggettività della conoscenza
sensibile elaborata da Albert Farges[19],
attraverso la teoria della passività dei sensi, che presuppone
l’azione causativa dei corpi fisici nel determinare le nostre
sensazioni. Per don Giacinto spiegazioni siffatte sono insoddisfacenti,
se poste all’inizio dell’analisi delle facoltà conoscitive
dell’uomo, ma non lo sono più “una volta invertito l’ordine”,
cioè posposta la dimostrazione dell’oggettività dei sensi alla
giustificazione del principio di causalità nell’ordine dei giudizi
ideali, come appunto fa il Mercier. Per Tredici questa “inversione”
è “la parte più geniale della teoria del Mercier”[20]
e ritiene che rappresenti la strada maestra per battere lo scetticismo e
il fenomenismo della filosofia moderna. Tredici era entusiasta delle
concezioni mercieriane e ne apprezzava soprattutto la difesa del metodo
sperimentale scientifico e la convinzione che esso sia radicato nei
principi di ordine ideale. Sempre nel medesimo articolo troviamo un
breve accenno alla natura soggettiva delle qualità secondarie, che
merita di essere riportato, anche per l’accenno ai fisici moderni:
“Nel contenuto delle nostre rappresentazioni sensibili noi possiamo
probabilmente eliminare, in ordine alla oggettività, le formalità dei
colori, dei suoni, del calore (in genere delle qualità secondarie) come
tali, considerandole come frutto di una reazione caratteristica dei
nostri sensi all’eccitamento esterno. Così la pensano i fisici
moderni, e così hanno creduto di poter ammettere alcuni Scolastici
recenti tutt’altro che soggettivisti, come il Mattiussi, il
Reinstadler, il De Sinéty. Ciò posto, che cosa ci resta come dato immediato
dell’esperienza esterna? Azioni di oggetti esterni sui nostri
organi. Ad esse i nostri sensi direttamente si riferiscono. Il resto è
oggetto secondario e mediato; si ricordi in proposito che perfino
l’estensione è classificata da S. Tommaso fra gli oggetti comuni, che
sono percepiti per se sed non
primo, mediante cioè l’oggetto proprio. Ora, fino ad ammettere
un’azione di un agente sopra i nostri organi, il principio di
causalità ci può condurre, partendo dalla passività della sensazione.
Non sarebbe così dimostrata, per quel tanto che è necessario
mantenerla, anche la conformità della
percezione sensibile coll’oggetto esterno? Non insisto, e non pretendo
di aver tolto ogni difficoltà; ma forse la cosa merita di essere presa
in considerazione.”[21]
Queste affermazioni mostrano che uno dei motivi che indussero Tredici a
sostenere la criteriologia del Mercier era la convinzione che le tesi
della scuola di Lovanio consentissero alla filosofia scolastica di fare
propri senza riserve i risultati delle scienze naturali. Quasi mezzo
secolo dopo, già da molti anni vescovo di Brescia, Tredici manifesta la
sua fiducia e ammirazione per le scienze naturali e, commemorando mons.
Angelo Zammarchi, scrive: “Quello studio e quell’insegnamento [della
fisica, n. d. A.] era per lui un omaggio che rendeva a Dio,
autore delle meraviglie del creato. E lo vedevano i suoi uditori, che
notavano l’entusiasmo e quasi il senso religioso con cui esponeva i
dati della scienza. Ed era insieme un mezzo per incrementare e rendere
utile e aggiornata alle esigenze dei tempi, la difesa della fede, mai in
contrasto coi dati della scienza.”[22]
La convinta difesa delle tesi di Mercier non si trasforma comunque mai
in un’acritica adesione, tanto che nello stesso scritto espone anche
un’osservazione critica alle tesi del cardinale: “Il Mercier prende
dalla testimonianza della coscienza, non solo il fatto dell’esistenza
di sensazioni, di concetti, di giudizi, di evidenze, ma poi, quando si
tratta di dimostrare l’esistenza del mondo esterno, anche lo stato
nostro di passività nella sensazione. Ora qui, trattandosi non più
solamente di un fatto psichico considerato nel suo contenuto e nei
rapporti ideali che questo contenuto ha con altri, ma anche di una
modalità, di una condizione del fatto psichico stesso, che deve esser
considerata come reale se si vuole argomentarne una causa reale, - io
credo che forse possa sorgere il dubbio sulla sua realtà oggettiva:
è proprio la sensazione in se stessa che è passiva, o la passività
sua non è invece che una forma soggettiva attribuitale dalla coscienza
che la percepisce? Sarà un sofisticare; ma ad ogni modo è un dubbio
che bisogna rimuovere per procedere oltre, e non lo possiamo rimuovere
che rifacendoci alla veracità della coscienza, ammessa senz’altro
come un vero postulato.”[23]
Nel 1913 Amato Masnovo amplia e intensifica le proprie critiche alla
dottrina del Mercier,[24]
condannando in blocco il metodo stesso usato dal Cardinale, accusato,
tra l’altro, di aggiungere “assurdo ad assurdo, facendo strumento
di dimostrazione l’oggetto della medesima” (dove per oggetto
intende la realtà dei termini che costituiscono i giudizi formulati
dalla mente umana). Per Masnovo il piano complessivo della criteriologia
del Mercier è “irrimediabilmente guasto per l’illegittimo passaggio
dall’ordine ideale all’ordine reale.”[25]
Per Masnovo è totalmente errata la convinzione del Mercier che per
giustificare la validità dei giudizi fattuali sia necessario aver prima
stabilito la validità dei “giudizi d’ordine ideale” (cioè della
verità di ragione). Masnovo definisce questa posizione del Mercier “subordinatismo
idealista” e la considera alla stregua di una conseguenza
dell’errore cartesiano (ma potremmo dire dell’intera filosofia
moderna da Cartesio a Kant) di subordinare il piano ontologico a quello
gnoseologico (conoscitivo).[26]
Il 2 aprile 1914, il prof. Tredici è relatore alla Società italiana
per gli studi filosofici e psicologici sul tema: “la criteriologia
generale del cardinal Mercier” e in quest’occasione “riassunse e
difese con ampiezza e con limpidezza serena la Critériologie générale
del Card. Mercier, insieme ai contributi e ai tentativi di sviluppo che
egli stesso ed altri neoscolastici italiani hanno portato a difesa della
dottrina mercieriana”.[27]
Da questa relazione, e dalle risposte ad Olgiati, Necchi e Filippo
Marzorati a conclusione dell’animato dibattito, emergono con chiarezza
ed organicità le sue convinzioni che possiamo così riassumere: 1)
il problema criteriologico esiste ed è quindi necessario dimostrare il
valore oggettivo della conoscenza, nonostante la persuasione spontanea e
“istintiva” che ci induce a considerare reali gli oggetti della
nostra conoscenza; 2)
il punto di partenza per la soluzione del problema non può che essere,
cartesianamente, “uno stato di dubbio metodico universale”; 3)
le rappresentazioni e i giudizi presenti nel nostro spirito sono
riscontrati esistenti come puri dati di fatto; 4)
non è possibile iniziare cercando di dimostrare il valore delle
cognizioni d’ordine reale: il metodo seguito da Farges, come già
visto, è insoddisfacente; 5)
“per questo felicemente il Mercier ha cominciato dai giudizi
d’ordine ideale”;[28] 6)
tali giudizi non sono da noi formulati in forza di una sintesi a priori,
ma l’oggettività di tali giudizi è riconosciuta come evidente; tra
questi giudizi vi è il principio di causalità; 7)
la passività dei sensi “ci si presenta come un dato di fatto, non
consistente in altro che nell’assenza di un rapporto di una data
sensazione col complesso del nostro contenuto psichico antecedente”;[29] 8)
è quindi dimostrata l’esistenza di oggetti esterni all’io e causa
delle sensazioni.
Ciò posto, Tredici nota che questo
non basta a giustificare l’oggettività della coscienza come era
intesa dalla tradizione scolastica: anche Kant ammetteva un agente
esterno quale causa delle nostre sensazioni, pur asserendo l’assoluta
inconoscibilità della cosa in sé. Tredici ammette che Mercier non ha
sviluppato a sufficienza questo punto. Tuttavia nota che, a differenza
di Kant, nel ragionamento di Mercier, il procedimento è legittimo, in
quanto il principio di causalità è stato giustificato anteriormente,
mentre per Kant era un principio puro dell’intelletto, che si fondava
solo sulla categoria di causa e sul relativo schema trascendentale, cioè
sulla componente a priori della conoscenza. Nota inoltre che per la tesi
oggettivistica non è necessario salvare l’esistenza degli oggetti
propri dei sensi (come colori o sapori) nel medesimo modo in cui sono
percepiti. L’oggettività della conoscenza non va concepita come
rispecchiamento puro e semplice del reale. Con le ripetute osservazioni
e con il processo induttivo l’uomo può formarsi una cognizione più
completa dell’oggetto esterno. Olgiati nel corso del dibattito critica
apertamente e a tutto campo il procedimento del Mercier, procedimento
che a suo giudizio è “da abbandonarsi”. In particolare seguendo il
metodo del vescovo di Malines nel dimostrare l’oggettività dei
giudizi ideali, senza aver prima giustificato il carattere conoscitivo
dei concetti astratti, si giungerà al massimo al valore pratico dei
giudizi, ma mai teoretico. Le critiche di Necchi, invece, insistono in
particolare sulla concezione di passività dei sensi di Mercier. Nella
replica, Tredici ricorda ad Olgiati che il criterio dell’evidenza
utilizzato dal Mercier per provare l’oggettività dei giudizi ideali
è lo stesso che gli scolastici hanno sempre seguito per confermare il
valore dei primi principi, come ad esempio il principio di non
contraddizione. Non vede quindi come sia necessario presupporre il
valore reale dei termini inclusi nei giudizi ideali: il valore per la
realtà esterna, questi giudizi lo acquisiranno una volta dimostrato che
i loro termini, prima considerati indipendentemente dalla realtà
fattuale, sono espressione di una realtà esterna al soggetto. A Necchi,
pur ammettendo che l’analisi merceriana della passività dei sensi
presenta qualche difficoltà, osserva che “quella passività è un
dato immediato della coscienza, che più facilmente si può postulare;
molti infatti facilmente concedono, (e la cosa torna molto ragionevole)
che si costruisca tutta la teoria della conoscenza sui dati della
coscienza: mentre si rifiutano d’ammettere senz’altro il valore
rappresentativo della realtà dei nostri atti conoscitivi. Nega poi che
sia necessario ammettere questa passività già come rappresentativa,
cioè intesa a rivelare l’oggetto. La passività, come tale, non
rappresenta niente. Il carattere rappresentativo è della sensazione; la
passività è una modalità di questa, che ci serve di punto di
partenza, per concludere che la sensazione, colla rappresentazione che
essa importa, è prodotta da un oggetto. Ammesso questo, resta la
possibilità di giungere al reale partendo dall’ideale.”[30]
Sempre nella replica troviamo due importanti osservazioni. Tredici
sostiene la legittimità razionale del metodo di Mercier, notando come
la criteriologia “non sia il solo caso in cui, per necessità di
metodo, l’ordine logico non coincide coll’ontologico.”[31]
Inoltre cerca di dare un’interpretazione complessiva delle critiche di
molti neoscolastici italiani alla scuola di Lovanio, e afferma
concludendo che “è presto fatto distruggere, ma bisogna poi pensare a
sostituire. Rifiutando il procedimento criteriologico di Lovanio, gli
oppositori intendono ritornare senz’altro alla criteriologia più
antica? Dovrebbero allora preoccuparsi delle difficoltà, non certo
minori, che essa presenta, e che egli ha ricordato. L’aggiungere alla
persuasione istintiva, che è di tutti, un processo inteso a metterne
in luce il valore, fu l’opera geniale del filosofo di Lovanio.”[32]
Non accenna nemmeno di sfuggita al metodo proposto da Masnovo, definito
“subordinatismo realista concreto e genetico”,[33]
e non ho potuto trovare un riferimento a Masnovo nemmeno nei suoi
quaderni manoscritti di filosofia, portati a Brescia nel 1934 e
custoditi nell’archivio storico diocesano[34].
Possiamo solo ipotizzare che valga per Masnovo ciò che vale per coloro
che intendono tornare “alla criteriologia più antica”, che
presenta, per Tredici, difficoltà “non certo minori”. L’ipotesi
è peraltro avvalorata da quanto aveva scritto, qualche mese prima, in
una recensione alla Criteriologia del Jeannière: “Mentre
molti, più rigidamente attaccati alla tradizione, hanno creduto di
doversi mantenere in una semplice attitudine di difesa, illustrando in
se stessa la posizione dell’oggettivismo antico, altri hanno creduto
di poter seguire gli avversari sul loro stesso terreno, per cimentarsi
con essi colle medesime loro armi. È quello che ha fatto il Cardinal
Mercier colla giovane scuola di Lovanio.”[35]
Possiamo comunque essere certi che il prof. Tredici non abbia cambiato
la sua valutazione sulla criteriologia del Mercier, perché nel 1926, già
parroco a S. Maria del Suffragio in Milano, invitato dal Gemelli a
scrivere una commemorazione del Cardinale appena scomparso,[36]
conferma pienamente la sua valutazione positiva sul metodo seguito nella
Criteriologia generale e lo difende dalle critiche. Qualche anno
prima, nel 1919, Tredici era intervenuto in modo molto deciso a difesa
della dottrina della conoscenza della scuola di Lovanio, in risposta ad
un intervento molto critico di Olgiati, scritto nel marzo dello stesso
anno e pubblicato nel numero d’aprile della Rivista di filosofia
neoscolastica.[37]
Francesco Olgiati afferma che “nata in un’epoca di positivismo
imperante, la neoscolastica lovaniense affrontò e discusse i problemi
che in quel momento storico venivano agitati ed assillavano gli animi.
Essa rappresentò l’alleanza della filosofia con la scienza.”[38]
In Italia, invece, secondo Olgiati, la filosofia neoscolastica si trova
dinnanzi il compito di criticare e confutare l’idealismo, che è la
corrente di pensiero dominante. A questa premessa di carattere storico,
l’Olgiati fa seguire una distinzione tra metodo astrattivo e metodo
sintetico nella comprensione della realtà, che introduce con un famoso
esempio: se la realtà da comprendere è un soldato ferito nella grande
guerra, col metodo astrattivo cogliamo solo l’ente, la persona, il
dolore e altri simili concetti astratti, mentre col metodo sintetico
allarghiamo il discorso alle motivazioni per cui il soldato combatteva,
alla storia della guerra e del mondo, cioè prendiamo in considerazione
anche fatti contingenti. Dopo aver esaminato i limiti della conoscenza
astrattiva, Olgiati sosteneva che “la filosofia, per noi, non è un
gioco di idee; non è l’Olimpo delle astrazioni, dalla sommità del
quale si possono lanciare i fulmini del disprezzo sugli avvenimenti
contingenti che si succedono in questo misero mondo; ma è la cognizione
della realtà viva e concreta, è la comprensione della vita, della
nostra vita, di tutta la vita.”[39]
Se la filosofia si limitasse a trattare concetti astratti (a
“baloccarsi con le astrazioni”), si andrebbe incontro al
“fallimento della filosofia”. Olgiati conclude affermando che la
neoscolastica italiana deve avere “vivo e profondo il senso della
storicità.”[40]
In tal modo Olgiati rivaluta la dimensione storica della filosofia,
cercando di inglobare nella neoscolastica italiana quegli aspetti di
concretezza e di attenzione alle realtà contingenti che erano esaltati
nel pensiero di Benedetto Croce, allora considerato anche da molti
cattolici il più influente filosofo italiano, dal quale si potevano
trarre utili insegnamenti. D’altro lato, lo stesso Croce, in più
occasioni aveva criticato la neoscolastica, osservando come i suoi
esponenti rappresentassero in qualche modo il “filosofo puro”, che
non si occupa di arte, di letteratura, di economia e di diritto.[41]
Don Giacinto replica sul numero successivo della rivista, nell’ambito
di un dibattito a più voci sulle valutazioni di Olgiati, a cui
partecipano anche Luigi Di Rosa, Guido Mattiussi, Francesco Chiesa e
Mario Collalto.[42]
La replica è molto netta, per nulla diplomatica: ricorda, innanzi
tutto, che sia nella tradizione scolastica classica, sia nella
neoscolastica, è tranquillamente condivisa la tesi secondo la quale le
cognizioni astratte sono insufficienti a comprendere il reale in tutta
la sua ricchezza e che pertanto, da questo punto di vista lo scritto
dell’Olgiati non dice nulla di nuovo. Per Tredici è evidente che la
filosofia, in quanto cognizione dell’universale, non ci può fornire
la conoscenza del concreto e dell’individuale; le affermazioni della
filosofia possono tuttavia illuminare la ricerca storica, e consentirci
di valutare gli eventi contingenti alla luce di criteri universali e
necessari. Ammettere questo non significa però accettare una filosofia
“che rifugga dall’universale e dall’astratto per limitarsi al
concreto e all’individuale.”[43]
Una tale concezione della filosofia sarebbe comprensibile solo in una
visione panteistica della realtà o nell’ambito di “un ritorno
all’antico nominalismo che negava l’universale”, prospettive che
naturalmente i neoscolastici rifiutano. La conclusione è pertanto molto
netta, stroncante nei confronti della posizione dell’Olgiati: “Nel
nuovo orientamento che l’Olgiati va preconizzando per la
Neo-Scolastica, io trovo degli elementi solidi, ma per null’affatto
nuovi o speciali alla così detta […] Neo-Scolastica italiana;
elementi che se mai, potranno essere messi in rilievo, di fronte alle
tendenze della filosofia contemporanea. Trovo anche, quantunque
affermate in modo un po’ vago e incerto, vere novità, ma esse sono,
a, mio parere, false; e, se trovano la loro ragione d’essere
nell’idealismo più o meno assoluto che si afferma, o col Croce, o col
Varisco o col Bergson, non si confanno, perché eterogenei, colla
sostanza della filosofia scolastica. Il nuovo orientamento minaccerebbe
di disorientarci.”[44] 2.
Il problema dell’esistenza di Dio nella filosofia contemporanea
Nel primo numero della Rivista di filosofia neoscolastica
del 1910, il prof. Tredici pubblica la prima parte di un ampio scritto
sistematico, in cui analizza come viene affrontata la questione
dell’esistenza di Dio nella filosofia del suo tempo [45].
Egli inquadra il problema ricordando come la filosofia del positivismo,
largamente dominante nella seconda metà dell’Ottocento, avesse
eliminato ogni riflessione sulla trascendenza, sulla base della tesi per
la quale lo stadio scientifico o positivo del pensiero ha sancito il
definitivo tramonto del pensiero teologico e metafisico, e ritenesse, di
conseguenza, che la filosofia moderna si fosse liberata dal problema di
Dio. Don Giacinto osserva che, “da qualche tempo” non è più così.
Il venir meno dell’assoluta fiducia nella scienza positiva e il
bisogno istintivo dell’uomo di non accontentarsi dei risultati delle
scienze hanno nuovamente portato i filosofi “a porsi con insistenza la
questione della natura e dell’origine delle cose”[46]
e a ritenere le tematiche religiose ancora interessanti e attuali. A
conferma di quest’osservazione egli cita gli allora recenti volumi di
William James, Emile Boutroux e Haralg Höffding,[47]
che in modo diverso riaprono il discorso sull’esperienza religiosa e
sulle sue relazioni col pensiero. La questione dell’esistenza di Dio e
del suo rapporto col mondo e con l’esperienza umana non viene posta
direttamente, ma si intravede nelle analisi del “fatto religioso”.
Il prof. Tredici cerca di rintracciare le cause filosofiche di queste
tendenze di pensiero, che “laicizzano” l’esperienza religiosa e le
individua in particolare nel pensiero di Kant, che considera
l’esperienza come puramente fenomenica e riduce il principio di
causalità a legge esclusiva del nostro spirito, frutto di una sintesi a
priori, e del positivismo, che espelle metodicamente dal pensiero tutto
ciò che oltrepassa l’esperienza sensibile. Ne derivano alcuni
caratteri comuni nella trattazione contemporanea dell’esperienza
religiosa: uno spiccato agnosticismo e un punto di vista principalmente
psicologico nell’analisi di tale esperienza. Nell’ambito di questo
quadro di riferimento, prima di sviluppare le sue critiche
all’agnosticismo del suo tempo, don Tredici esamina nell’ordine la
teoria sociologica della religione (soprattutto Durkheim) la psicologia
della religione, il pragmatismo, le filosofie dell’immanenza (in
particolare Bergson e Le Roy) mostrando una vasta e profonda conoscenza
della filosofia contemporanea, ma anche della sociologia e della
psicologia. La critica ai fondamenti del pensiero agnostico si rivolge
principalmente ai principi basilari del positivismo e del pensiero di
Kant, che per Tredici ne costituiscono una sorta di antecedente logico.
Per quanto concerne il positivismo, egli afferma non essere giustificata
la pretesa di non trascendere la scienza sperimentale: quest’ultima
risponde solo ad una delle naturali esigenze conoscitive dell’uomo,
cioè al desiderio di conoscere come si producono i fenomeni e quali
leggi universali ci rendono possibile la scoperta delle relazioni tra i
fenomeni stessi. Ma non risponde al desiderio di conoscere le origini e
i fini di ciò che accade. L’esigenza metafisica non è facilmente
sopprimibile, infatti, argomenta Tredici, gli stessi positivisti
contraddicono al divieto di trascendere il sensibile e s’avventurano
in costruzioni metafisiche, come ad esempio Spencer, con la dottrina
dell’Inconoscibile. La ragione invocata dai positivisti a sostegno del
divieto di trascendere l’ambito fenomenico, e cioè l’impossibilità
di verificare le affermazioni metafisiche, risulta comprensibile solo se
si ritengono accettabili solo le verifiche sperimentali (“col
microscopio o la bilancia”), e non le dimostrazioni razionali.
Anticipando alcune tesi dell’epistemologia del Novecento, Tredici
scrive: “Del resto, mostrano di non accorgersi i positivisti che, se
volessero proprio applicare strettamente il loro principio di
limitarsi ai soli fatti constatati coll’esperienza, renderebbero
impossibile non solo la metafisica, ma anche la scienza. Questa infatti,
anche come la intendono i positivisti, non è una semplice collezione di
fatti singoli staccati, quali soli vengono dati immediatamente
dall’esperienza. La scienza collega i fatti, ne cerca gli antecedenti,
le cagioni; spesso da fatti nuovi arguisce nuove forze prima non
sospettate. Or questo non lo fa se non in base al principio di causalità,
che non è, esso, un fatto di esperienza. E, se anche si volesse dire
che, quando le scienze fisiche parlano di cause e di causalità, non
intendono le corrispondenti nozioni metafisiche, ma solo vogliono
parlare di antecedenti e di connessione, non per questo sarebbe
liberata la scienza da ogni elemento razionale. Le leggi
infatti, che sono il frutto dell’indagine scientifica, appunto
perché generali, trascendono le singole esperienze, ed anche
l’insieme delle esperienze compiute; sommando queste si avrà una
collezione di fatti uniformi; ma ben altra è la portata della legge generale,
che si estende anche a tutti gli altri futuri.”[48]
Dopo aver richiamato le difficoltà degli empiristi a giustificare
l’induzione, sostiene che l’utilizzazione di principi razionali
quali il principio di causalità non possa pregiudizialmente essere
limitata ai dati sensibili: “La pregiudiziale positivistica, che
pretende dichiarare senz’altro impossibile ogni indagine al di là
del mondo sensibile, oltre che essere contraria alle più radicate
esigenze dello spirito umano, è infondata e gratuita; perché il
Positivismo, se non vuol rinunciare ad ogni scienza non riesce a
contestare il valore dei principi razionali e segnatamente del principio
di causalità; né ha ragione alcuna per limitarne l’applicazione
alla connessione dei fenomeni. E si noti, non ho inteso qui di affermare
che l’indagine dell’oltresensibile dia senz’altro un risultato
affermativo; non ho parlato che della possibilità e della legittimità
di essa.”[49]
Ancora più aspra è la critica alla gnoseologia kantiana, in quanto
Tredici ritiene che essa abbia innalzato “un barriera ben più
terribile contro ogni dimostrazione dell’aldilà”[50].
La critica a Kant non si discosta, nelle sue linee fondamentali, da
quella del cardinal Mercier:[51]
“Quando Kant formulava la sua filosofia critica, come l’unica
soluzione possibile del problema proposto, tra l’empirismo di Hume che
rendeva impossibile la scienza, ed il razionalismo aprioristico di
Leibniz che trascurava troppo l’esperienza, egli non aveva presente
un’altra teoria, che aveva essa pur data già una soluzione: il
Peripatetismo scolastico. A spiegare quegli elementi universali della
conoscenza si richiede certo una operazione dell’intelligenza; ma non
già un’operazione che aggiunga al dato della realtà una forma
soggettiva; sibbene un’operazione che nella realtà complessa non
consideri che una parte, l’elemento che si trova realmente uguale in
più esseri, resi diversi fra loro per altre determinazioni che dal
nostro spirito non sono considerate, ma neppur negate. Questa operazione
si chiama astrazione; e basta
riflettere attentamente per sorprenderla in esercizio:
le nozioni di spazio e di tempo non hanno altra origine, come altra
non ne hanno tutte le nostre idee universali. Analizzando poi queste,
noi scopriamo tra di esse determinati rapporti, ed abbiamo, senza alcuna
sintesi a priori, i giudizi
universali. Lo stesso principio di causalità, lo si è visto sopra, non
ha altra origine. Ora si ponga mente alla portata somma di questa
soluzione. Ne deriva infatti che l’intelligenza ci rivela caratteri e
leggi oggettive, proprie cioè delle cose attestateci dall’esperienza
sensibile. Né abbiamo motivo di sospettare una contraffazione da parte
della stessa percezione dei sensi. Poiché in essa non troviamo nulla
che presenti quei caratteri di universalità che hanno messo in allarme
il filosofo tedesco. Spazio e tempo infatti non hanno niente di universale
in quanto si trovano nel dato di ogni singola sensazione; l’universalità
la prendono solo quando l’intelletto ne fa due nozioni astratte.
D’altra parte il senso di passività che accompagna sempre le nostre
sensazioni esterne, ci costringe ad ammettere l’esistenza di un eccitante
esterno, a cui le sensazioni si riferiscono e di cui avvertiamo
1’influenza. Che resta allora della relatività della conoscenza?
Resta che, essendo essa un’operazione del soggetto conoscente, è
proporzionata alla capacità sua; quindi spesso, sempre forse, limitata
ed incompleta. Ma ciò non toglie che, per quel tanto che conosciamo
delle cose, quando procediamo con cautela e rigore, la cognizione sia
oggettiva; che i principi generali che ci vien fatto di formulare, siano
leggi della realtà non meno che del pensiero; che le conclusioni che da
essa per avventura ricaviamo siano conclusioni oggettive e reali.”[52]
Questi rilievi critici sul positivismo e sulla filosofia kantiana
consentono a Tredici di inquadrare i limiti e le contraddizioni interne
dell’approccio alla questione religiosa dal punto di vista delle
teorie sociologiche, psicologiche e del pragmatismo, attraverso puntuali
riferimenti ai testi di Durkheim, James, De Broglie e altri autori
minori. Ancora più ampie e dettagliate sono le critiche
all’intuizionismo, a cui dedica quasi tutta la terza parte dello
scritto, prendendo in esame soprattutto la filosofia di Bergson. Il
primato che il filosofo francese attribuisce all’intuizione rispetto
alla conoscenza intellettiva, è per Tredici conseguenza del pregiudizio
per il quale i concetti della mente umana opererebbero una
trasformazione della realtà, una sorta di deformazione, di mancanza di
fedeltà rispetto agli oggetti percepiti, opera dell’intelligenza. Il
prof. Tredici riconosce ovviamente che il concetto astratto appare
riduttivo rispetto alla ricchezza e complessità del reale dato
nell’intuizione, e che rimane immutato rispetto ai cambiamenti
continui degli enti e che quindi la conoscenza intellettiva, frutto
dell’astrazione, sia parziale e incompleta, ma nega recisamente che
tale incompletezza comporti una deformazione della realtà. Ciò che è
incompleto non è per questo falso. Il concetto non esclude
dall’oggetto conosciuto le proprietà e le caratteristiche che esso
non esprime, ma semplicemente le mette tra parentesi, le separa
mentalmente. Tredici sottolinea anche la contraddizione più evidente
nella filosofia bergsoniana, che da un lato sminuisce la validità
conoscitiva dei concetti, ma dall’altro si fonda proprio su alcuni
concetti come quello di movimento o divenire: “Dovessimo accontentarci
dell’intuizione, escludendo tutto quello che è razionale, ne verrebbe
l’inconveniente già notato dal positivismo: sarebbe impossibile ogni
scienza; noi ci dovremmo accontentare di tante piccole constatazioni
particolari staccate, solo avvicinate l’una all’altra dalla memoria,
perché il farne sintesi sarebbe già una costruzione razionale.”[53]
Di conseguenza la parte costruttiva della filosofia di Bergson, di Le
Roy e di altri intuizionisti non è il risultato dell’intuizione sola
o opportunamente integrata dalla ragione, ma semplicemente il parto di
“una fervida fantasia”. In particolare, non solo fantasiosa, ma del
tutto falsa, è la tesi di Bergson dell’esistenza di un unico flusso
vitale e quindi la concezione monistica della realtà. 3.
Il congresso internazionale di filosofia di Bologna del 1911 e il
confronto col pensiero scientifico
Nel triennio 1910-1912, il prof.
Tredici scrive anche per la rivista La scuola Cattolica, edita
dalla Facoltà teologica di Milano, di cui diventerà direttore nel
1916, compilando varie recensioni e occupandosi di questioni attinenti
al rapporto tra scienza e filosofia. Nel gennaio del 1910 interviene
nella discussione sui miracoli di Lourdes [54].
Nell’anno precedente, il periodico anticlericale “L’Asino” aveva
condotto una polemica contro i miracoli di Lourdes, accusando esponenti
cattolici di falsificare i fatti per scopi propagandistici. La sera del
10 gennaio 1910, Gemelli tiene una conferenza nella sede
dell’Associazione sanitaria milanese, in via S. Paolo, 10, avente per
tema due documentate guarigioni avvenute nella cittadina francese,
rispettivamente nel 1875 e nel 1897, sostenendo che la scienza medica
non era in grado di spiegarle e che pertanto l’ipotesi del miracolo
non si poteva escludere a priori. Di fronte ad un vasto pubblico formato
in gran parte da medici, ma con la presenza di vari giornalisti, la sera
successiva ci fu un acceso dibattito che vide molti medici accusare di
scorrettezza il Gemelli, imputato di strumentalizzare la scienza medica
per scopi apologetici. Tredici ricostruisce le argomentazioni di Gemelli
e lo difende con chiarezza da molte accuse strumentali e infondate. Due
mesi dopo interviene nuovamente su un tema scientifico, esaminando varie
interpretazioni del fenomeno dell’ipnotismo.[55]
Nel corso del 1911 interviene ripetutamente sui temi dell’evoluzione
biologica e del darwinismo. Già qualche anno prima aveva studiato con
una certa continuità questo argomento. Nelle sue carte è conservato un
intero quaderno di appunti e riassunti sul tema, datato agosto 1905, e
ciò mostra come egli si sia interessato di evoluzione ancor prima degli
articoli pubblicati da Gemelli e Necchi.[56]
La prima pubblicazione di Tredici sull’argomento è una recensione [57]
di un numero speciale della Revue de philosophie, dell’editore
parigino Rivière, uscito nell’ottobre del 1910 e interamente dedicato
ad un esame della teoria dell’evoluzione, con interventi di vari
scienziati e filosofi; tra i quali, il primo articolo, scritto dal
Gemelli, si intitolava Darwinismo e vitalismo. Successivamente la
riflessione viene approfondita nel numero dell’aprile del 1912 [58],
prendendo spunto dall’uscita, nell’ottobre del 1911, di un volume
che affronta le relazioni tra evoluzionismo e morale.[59]
Tredici mostra una conoscenza notevole delle varie formulazioni della
teoria dell’evoluzione e riassume in maniera chiara e sintetica le
diverse opinioni. Dal punto di vista scientifico, don Giacinto coglie
con precisione il punto di debolezza della teoria di Darwin, che allora,
mancando l’apporto della genetica, non riusciva a spiegare le cause
delle piccole mutazioni che portano alla differenziazione delle specie,
relativamente alle quali “regna ancora la più grande oscurità.”[60]
Tuttavia si coglie sempre un’attenzione ed un grande rispetto per le
scoperte scientifiche. Dal punto di vista filosofico, Tredici rileva le
difficoltà che incontrano le “spiegazioni meccaniche”, vale a dire
le interpretazioni che intendono ridurre la biologia alla fisica,
trascurando la particolarità degli esseri viventi. Egli inoltre dedica
ampio spazio alla argomentazioni critiche di Emile Peillaube, professore
di psicologia e direttore della Revue de Philosophie, nei
confronti di quelle teorie che affermavano esserci solo una differenza
di grado tra intelligenza animale e intelligenza umana, e non una
differenza qualitativa. Egli difende le tesi del Peillaube con una
dettagliata analisi della capacità di astrazione dell’uomo, che è
alla base della possibilità di pensare e ragionare, e che è
irriducibile alla conoscenza sensibile. Dal 5 all’11 aprile 1911,
insieme a padre Agostino Gemelli, Giacinto Tredici partecipa a Bologna
al IV congresso internazionale di filosofia organizzato dalla Società
filosofica italiana, e sempre con lo stesso Gemelli, ne pubblica un
ampio e ragionato resoconto.[61]
In precedenza aveva già partecipato, sempre col Gemelli, ad un
congresso di filosofia, molto più ristretto, a Roma nell’ottobre del
1909. Il congresso di Bologna è invece un evento molto importante, che
vede la partecipazione d’insigni filosofi italiani (Croce, Varisco) e
stranieri (come Bergson e Boutroux da Parigi, De Wulf da Lovanio) e
d’illustri scienziati (come Durkheim, Driesch ed Enriques, ma aveva
annunciato la sua partecipazione anche il Poincaré, che manda comunque
una relazione scritta) e che è veramente rappresentativo, con relatori
provenienti da Oxford, da Mosca e da New York e con oltre un centinaio
di comunicazioni. Il tema principale del Congresso è il rapporto tra
scienza e filosofia e, non a caso, a presiedere i lavori è chiamato
Federigo Enriques, che insegnava geometria all’università di Bologna.
Il congresso, oltre alle conferenze plenarie, è articolato in otto
sessioni parallele (metafisica, storia della filosofia, logica e teoria
della scienza, morale, filosofia della religione, filosofia giuridico
sociale, estetica, psicologia) [62].
Gemelli, che non è filosofo di professione, chiede a Tredici, tra tutti
i collaboratori della rivista, di essere presente per l’intera durata
del convegno per la sua riconosciuta competenza specifica. Tra i due vi
è una notevole sintonia ed un’evidente complementarietà, poiché al
Gemelli non difettano attivismo, entusiasmo e passionalità, mentre
Tredici, molto più mite di carattere, è decisamente più accademico.
L’ampio resoconto del convegno da loro pubblicato è un documento
interessante per comprendere lo stato delle discussioni filosofiche nel
periodo della cosiddetta belle époque, e contiene un riassunto
abbastanza dettagliato di tutte le principali relazioni. Gemelli e
Tredici giudicano Bergson, che solo quattro anni prima aveva pubblicato
la sua opera più conosciuta, L’Evolution créatrice, e che
svolge al congresso una lunga relazione dal titolo Le probléme philosophique,
“il trionfatore, nel senso pieno della parola, del congresso”,[63]
anche se ritengono che gran parte del successo ottenuto dal filosofo
parigino fosse dovuta all’arte con cui esponeva le sue idee. Gemelli
interviene nella prima sessione e, dopo aver apertamente criticato sia
il neoidealismo crociano, sia il positivismo, afferma che i rapporti tra
scienza e filosofia possono essere correttamente compresi a partire dal
concetto aristotelico di scienza come sapere incontrovertibile, concetto
che permette di considerare la filosofia come scienza prima,
affermazioni allora del tutto inusuali e controcorrente. Questa
posizione riscosse un certo interesse, anche perché ricevette
l’esplicito consenso di Hans Driesch, illustre ed allora famosissimo
biologo di Heidelberg, uno dei precursori dell’embriologia
sperimentale. Per capire le opinioni filosofiche di Tredici sono molto
interessanti le conclusioni di carattere generale contenute nel
resoconto del convegno, che possiamo così sintetizzare: 1)
il pragmatismo, che nel recente passato aveva avuto molte adesioni, è
una dottrina “al tramonto”, in evidente stato di “decadimento”;[64] 2)
il positivismo, che nega recisamente la metafisica, e l’idealismo
hegeliano, “che disdegna la scienza”[65]
sono concezioni filosofiche insoddisfacenti; 3)
la religione è stata tanto frequentemente oggetto di interpretazioni e
discussioni nel corso del congresso e ciò rappresenta per gli Autori un
aspetto positivo, che non deve tuttavia occultare o far trascurare il
fatto che la maggior parte dei filosofi tratta la religione in modo
inadeguato, come un sentimento vago, o come un fatto sociologico o
psicologico, con un atteggiamento ancora lontano dall’affermazione
dell’esistenza di un Dio trascendente e personale; 4)
è apparsa abbastanza diffusa la tendenza a sminuire l’importanza
della conoscenza intellettiva, con l’affermarsi, anche in filosofi
come Boutroux e Bergson, di concezioni mistiche e irrazionali; 5)
è comunque positivo lo sforzo diffuso a cercare di “costruire una
filosofia che abbia, in qualche modo un valore reale ed oggettivo,
sottraendosi, fin dove è possibile, all’impero del soggettivismo.”[66] Nella
sua comunicazione, Giovanni Amendola aveva polemizzato apertamente coi
neoscolastici (al congresso, oltre a De Wulf di Lovanio, Gemelli e
Tredici, era presente anche il già citato Emile Peillaube) affermando
che essi “provano a sollevarsi da una tomba con la baldanza di un
giovane guerriero che balza dal letto alla squilla mattutina” e
prevedendo che “un giorno si accorgeranno di aver sognato di rivivere
mentre erano ben morti”.[67]
Ad Amendola, Tredici e Gemelli replicano che la concezione neoscolastica
della “filosofia perenne”, che essi amano e difendono, è vitale e
feconda e che le numerose critiche degli avversari e il loro disprezzo
sono spesso dovuti alla non conoscenza delle sue dottrine fondamentali.
Il notevole interesse suscitato dall’intervento di Durkheim a Bologna,
centrato sull’analisi delle differenze tra giudizi di valore e giudizi
di realtà, e la quasi contemporanea pubblicazione di un libro di mons.
Simon Deploige, [68]
presidente dell’Istituto superiore di filosofia dell’università
cattolica di Lovanio, sui rapporti tra sociologia e morale, inducono il
prof. Tredici ad approfondire lo studio delle concezioni filosofiche del
gruppo di sociologi che pubblicava la prestigiosa rivista Année
sociologique, i cui massimi esponenti erano Durkheim e Lévy-Bruhl.
Don Giacinto è convinto che la questione sia di grande attualità,
perché la nuova concezione sociologica entra in conflitto con la morale
tradizionale, e propone di sostituirla con la nuova scienza dei costumi.
Tredici rileva [69]
come la nozione di sociologia proposta da Durkheim, il suo stesso
oggetto (i fatti sociali caratterizzati da leggi proprie e da esaminare
con lo stesso metodo usato dalle scienze per i fenomeni naturali)
presuppongano la concezione della società come un’entità distinta
dagli individui che la compongono e dei fenomeni sociali come prodotti
necessariamente da forze sociali e che, una volta prodotti, hanno una
funzione determinata dalla loro natura. Questo presupposto è per
Durkheim e gli altri sociologi positivisti, rileva don Giacinto, una
sorta di postulato su cui si fonda il metodo scientifico della
sociologia, postulato non ricavato sperimentalmente o
dall’osservazione empirica, ma accettato come una verità indiscussa.
L’errore di fondo della sociologia positivista dipende, per il prof.
Tredici, dall’assunzione di presupposti metafisici errati, che
determinano una concezione di società così lontana dalla realtà. Ciò
che però è maggiormente interessante per Tredici é la proposta,
elaborata più dettagliatamente da Levy-Bruhl [70]
nel 1903 (anche se l’idea proviene da Durkheim) di sostituire le
morali filosofiche tradizionali (come l’utilitarismo, la morale
kantiana, ecc.) con una scienza dei costumi. Lucien Levy-Bruhl, da un
punto di vista positivista, sostenendo che è valida solo la conoscenza
ottenuta col metodo scientifico, affermava che una morale prescrittiva,
o normativa, non può essere valida, perché la scienza è puramente
descrittiva, si limita a spiegare i fenomeni, che sono qualcosa di dato
per la conoscenza umana. Ecco allora la necessità di fondare, come
un’articolazione della sociologia, una scienza dei costumi che
sostituisca le prescientifiche e superate dottrine morali teoriche e
prescrittive. Per Durkheim e Levy-Bruhl, la morale è un sistema di
fatti determinato in ogni epoca dalle condizioni storiche della società:
una morale può essere valutata valida o meno solo in funzione delle
date condizioni sociali. Per i positivisti francesi, solo sulla base
della scienza dei costumi è possibile fondare i criteri dell’agire,
cioè, per usare il loro lessico, è possibile costituire un’arte
morale razionale. Qui però emergono le difficoltà e le aporie
maggiori. Si domanda Tredici: non sembra strano che, dopo aver affermato
che la realtà morale dipende interamente dalle condizioni
storico-sociali, si pensi poi che l’individuo possa in qualche modo
intervenire per modificarla? “E la difficoltà è ancora più grave,
se si pone il problema: e che cosa dovrebbe volere l’uomo? La scienza
può indicarci in che senso noi dobbiamo migliorare la realtà morale?
Una volta posto il principio che la scienza, compresa la scienza dei
costumi, non ci può far conoscere quello che deve essere, ma quello che
è, sembra esclusa la possibilità di invocare dalla scienza un ideale
(non esistente) verso il quale orientare la morale”.[71]
Durkheim, proprio per aggirare questa difficoltà, aveva attribuito alla
scienza dei costumi anche il compito di stabilire il bene e il male per
la società, identificandoli come stato rispettivamente sano e
patologico della società stessa; ma perfino i suoi discepoli non lo
seguivano su questa via, ritenendola non coerente col carattere
avalutativo della scienza. Sulla base di un ampio confronto tra i
presupposti della morale positivista e quelli della dottrina etica di S.
Tommaso, contenuto nella già citata opera di Simon Deploige e che viene
sintetizzato con precisione nella seconda parte dell’articolo, Tredici
sostiene che vi sono anche delle analogie tra le due concezioni, sia nel
rifiutare una deduzione aprioristica dei principi morali che non tenga
conto delle condizioni reali, sia nel ritenere che le norme morali
derivino dalla valutazione dei mezzi necessari per conseguire il fine
(che per S. Tommaso è la felicità e per Durkheim il benessere sociale,
cioè l’assenza di stati patologici), anche se nelle argomentazioni
tomistiche vi è “maggiore coerenza”. 4.
Il lungo dialogo a distanza con Bernardino Varisco
Tra il 1910 e il 1915 si sviluppa
sulle pagine della Rivista di filosofia neoscolastica un confronto a
distanza fra Tredici e Bernardino Varisco sulla filosofia del filosofo
bresciano. Varisco, nato a Chiari (Bs) nel 1850, si era laureato in
matematica a Pavia, e dopo aver insegnato questa disciplina per molti
anni, nel giugno del 1909 aveva ottenuto una cattedra di filosofia
all’università di Roma. Nel gennaio del 1910 pubblica il libro I
massimi problemi, [72]
nel quale esplicitamente dichiara di abbandonare la precedente
concezione deterministico-meccanicista per aderire ad una visione
finalistica della realtà. Va ricordato, tra l’altro, che negli anni
precedenti Varisco era stato pesantemente attaccato da Gentile.[73]
Tredici scrive nel febbraio dello stesso anno una recensione di questo
libro, pubblicata nel numero di aprile della Rivista, [74]
e proprio questa recensione segnerà l’inizio di un lungo dialogo a
distanza, che tra repliche e controrepliche dà luogo alla pubblicazione
sulla rivista di ben 13 scritti dei due contendenti. Tredici e Varisco
s’incontrano di persona al congresso di Bologna nell’aprile del
1911, ma non sappiamo cosa si dicano. Lo sviluppo del confronto
filosofico con Varisco è particolarmente significativo, sia perché ci
consente di comprendere meglio l’orientamento filosofico di Tredici,
sia perché evidenzia la sua notevole capacità di sintesi, la sua
capacità di tradurre questioni astratte e complesse in poche chiare
affermazioni. Varisco, che negli anni precedenti era stato vicino al
positivismo, col libro I massimi problemi, se ne allontana
decisamente, affermando che l’autentica filosofia non può prescindere
dalla riflessione metafisica e riconoscendo che il problema più
importante della metafisica è quello dell’esistenza di un Dio
personale. Varisco afferma di non aver la pretesa di risolvere il
problema, dimostrando l’esistenza di Dio, ma intende esclusivamente
chiarire i termini della questione, distinguendola adeguatamente da
altri problemi secondari che potrebbero intralciarne la soluzione. Egli
sostiene che il concetto tradizionale di creazione, che postula un Dio
trascendente e una differenza ontologica radicale tra l’Essere eterno
e l’essere contingente, cioè le creature, non sia più accettabile,
poiché egli ritiene fuori discussione l’unità dell’essere e quindi
l’esistenza del divino che penetra le cose. Resta per lui la questione
aperta della possibile esistenza di determinazioni proprie della divinità,
oltre a quelle immanenti negli enti creati. Varisco ritiene che non si
possa rispondere con certezza a questa domanda se si rimane
all’interno di una prospettiva teoretica. La soluzione può venire da
considerazioni che si fondino sulla dimensione pratica, valoriale o,
come si direbbe oggi, assiologica. Nell’uomo, argomenta il filosofo
bresciano, è naturalmente presente l’esigenza, il desiderio della
permanenza, anche dopo la morte, del valore della persona umana, che per
noi è il più alto valore presente nell’universo, ma se questa
esigenza fosse destinata a rimanere inappagata, l’universo apparirebbe
irrazionale e non potremmo credere nella permanenza dei valori.
Viceversa la credenza nella permanenza dei valori porta a credere anche
nell’esistenza di un Dio personale. Egli si dice persuaso da queste
argomentazioni, si dichiara credente in un Dio personale, ma pensa,
analogamente a Kant, che l’esistenza di Dio non possa essere
dimostrata teoreticamente. Tredici, nella sua recensione, si rallegra
per la svolta filosofica compiuta da Varisco e
condivide pienamente le sue critiche al positivismo, tuttavia
afferma di non accettare il metodo seguito dal filosofo bresciano per
affrontare la questione dell’esistenza di Dio. Dichiara di non vedere
a sufficienza l’asserita connessione tra la permanenza dei valori e
l’esistenza di un Dio personale, non condivide per nulla le critiche
al concetto tradizionale di creazione e ritiene sbagliato abbandonare il
piano puramente teoretico per affrontare la questione dell’esistenza
di Dio. Tredici è convinto che la concezione della realtà elaborata da
Varisco, e in particolare l’affermazione dell’unità dell’essere,
dipenda strettamente dalla teoria della conoscenza di Roberto Ardirgò,
filosofo positivista, che aveva influenzato profondamente il pensiero
giovanile del filosofo bresciano. Ardigò aveva basato la sua analisi
della conoscenza sui fondamenti del sensismo. Egli, soprattutto in Il
fatto psicologico della percezione (1882) e in Unità della
coscienza (1898), aveva affermato che l’essere si riduce tutto
quanto al dato psichico della sensazione; infatti, riteneva che la
percezione del fenomeno esterno è per sé un atto in tutto e per tutto
soggettivo o psichico e non contiene nulla che sia altro da ciò. La
sensazione era considerata un momento primitivo e «indistinto» della
vita psichica; in essa cioè non c’è distinzione tra soggetto
senziente e oggetto sentito, tra «io» e «non io». Questo punto di
vista sarà poi fatto proprio da Mach nel 1886. La distinzione tra il
mondo interiore, o spirito, e mondo esterno, o materia, è una
distinzione non anteriore e trovata primitivamente in sé dalla
coscienza, ma posteriore ed artificiale (cioè posta dall’uomo, anche
se naturale), e costruita a poco a poco nella stessa coscienza,
all’interno del processo conoscitivo. Dunque, la separazione mentale
tra io e non io avviene con la conoscenza, la cui materia è
l’indistinto costituito dalla sensazione. La conoscenza pertanto - dal
livello di conoscenza comune a quello di conoscenza scientifica - è un
progressivo passaggio dall’indistinto al distinto; laddove anche il
frutto di una distinzione precedente costituisce un indistinto rispetto
all’ulteriore operazione di distinzione. Pertanto per Ardigò è
assurdo parlare di spirito e materia come di «realtà». Essi sono
nient’altro che «astrazioni mentali». A questa analisi della
conoscenza, Tredici contrappone quella aristotelico-tomista, nella
versione del cardinal Mercier, che brevemente riassume nella stessa
recensione. Di conseguenza, afferma che la fondamentale unità
dell’essere sostenuta da Varisco risulta non provata, e quindi cadono
anche le sue critiche al concetto di creazione. Nel numero successivo
della rivista viene pubblicata una prima replica di Varisco[75],
preceduta da una nota redazionale di Gemelli, nella quale si precisa: “Il
Ch.mo professor Bernardino Varisco, che insegna filosofia teoretica
nella Università di Roma, ci ha mandato queste brevi osservazioni
alle critiche mosse dal professore G. Tredici al suo importante
volume: I massimi problemi.
Onorati da tale risposta la pubblichiamo molto volentieri, lieti di aver
provocata una discussione fruttuosa, e ringraziamo il professore Varisco
della sua cortesia. Alla risposta del professor B. Varisco facciamo
seguire alcune osservazioni del professor G. Tredici che rispecchiano il
pensiero della Redazione.” Oltre
a qualche precisazione terminologica e di dettaglio, la replica di
Varisco si incentra su due tesi. Da un lato, afferma che la concezione
“comune” della conoscenza, e quindi anche il realismo degli
scolastici, rende inevitabile “il determinismo dei fatti fisici” e
di conseguenza il determinismo universale, l’“a-finalismo” e
l’amoralismo. Dall’altro, sottolinea una sostanziale unità di
vedute con Tredici, al di là di divergenze di dettaglio, nella volontà
di rifiutare l’agnosticismo e il soggettivismo: “Posso io
conoscere, senz’applicare le categorie, senza dire, che qualcosa
esiste, o accade, in qualche relazione? Certamente, no. Dunque io sono
così fatto: che ogni materia, ogni dato della sensibilità, esterna o
interna, viene da me, per una necessità che mi è intrinseca, ordinato
secondo le categorie; le quali dunque sono costitutive della (mia)
intelligenza. Sorge una questione: le categorie, sono essenziali soltanto
alla mia intelligenza (e quindi alle sue costruzioni), o valgono anche
per la materia in sé stessa, indipendentemente dal suo esser
sentita e conosciuta da me? Chi ammette la prima ipotesi, è (voglia o
no, se n’accorga o no) agnostico e soggettivista. Chi ammette la
seconda, viene a confessare che l’intelligenza implicita nel soggetto
è immanente nell’universo. È d’accordo con me, quanto
all’essenziale.”[76]
Tredici, sulla prima questione, ammette di accettare il determinismo dei
fatti fisici, del quale la capacità di previsione delle leggi
scientifiche è una controprova, ma sostiene che nell’ambito morale è
necessario ammettere una finalità cosciente e libera. Non vede
difficoltà ad ammettere contemporaneamente il determinismo fisico, la
finalità in senso aristotelico (ogni sostanza tende ad un modo di
essere e di operare) e la libertà morale: “il nesso tra fatti fisici
e psichici, quando non se ne ammetta una radicale identità, spiega
l’influsso degli uni sugli altri, non esige il determinismo della
volontà.”[77]
Sulla seconda questione, pur riconoscendo ovviamente che anch’egli
intende evitare l’agnosticismo e il soggettivismo, precisa che il
riconoscere che le categorie, vale a dire i concetti universali, valgano
anche per la realtà in se stessa, non implica l’accettare che
l’intelligenza implicita nel soggetto conoscente sia immanente
nell’universo: ciò perché la conoscenza umana è concepita come
rappresentazione della realtà e non come presupponente un’identità
originaria tra soggetto e oggetto come in Ardigò. Intende cioè porre
in rilievo che, pur nella comune tendenza anti-soggettivistica, le
rispettive posizioni sono inconciliabili. Nel gennaio 1911, Varisco
pubblica un articolo, [78]
nel quale sostiene che non solo la concezione cristiana è soggetta a
difficoltà sul piano teoretico, ma che vi sono anche obiezioni e aporie
insite nella morale cristiana, che egli illustra esaminando i concetti
di Grazia, libertà umana e prescienza divina. Tredici replica
immediatamente, [79]
soffermandosi più ampiamente sulla questione, posta da Varisco, se la
morale cristiana sia una morale interessata, posto che ammette la
felicità ultraterrena come premio per la condotta moralmente buona . La
sua risposta alle accuse di egoismo rivolte alla morale cristiana si
conclude con queste argomentazioni: “Che cos’è infatti, nella
morale cristiana, che costituisce il valore della persona e delle
azioni umane? È, per la persona, il suo grado di entità, la sua
posizione nel tutto, posizione che la costituisce al disopra degli
esseri privi di intelligenza. E per le azioni, il loro valore dipende
dalla conformità coll’ordine oggettivo delle cose, in quanto che le
azioni devono, per essere moralmente buone (ed è ben questo il concetto
di valore a cui il Varisco allude), uniformarsi alle relazioni
dell’operante cogli altri esseri, e quasi esprimerle in sé. E questa
considerazione basta al cristiano per fargli comprendere la nobiltà
del bene, ed il dovere anche del sacrificio: sacrificio però che non ha
bisogno di essere concepito come l’annientamento di tutto sé per il
vantaggio altrui o del tutto (che cosa potrebbe giovare ad altri o al
tutto l’annientamento di una personalità?) ma come la rinuncia ad un
vantaggio proprio per un bene maggiore. È vero che a questo sacrificio
la morale cristiana pone un limite: non è lecito sacrificare al
vantaggio altrui anche il proprio bene morale, la virtù; ma certo in
questo il Varisco non intende di dissentire. Ecco ciò che forma,
nella morale cristiana, la norma oggettiva della moralità, e quindi il
fondamento del valore. Non v’é nulla di egoistico e di interessato; e
possiam dire anche che non v’é nulla di sostanzialmente diverso dal
fondamento di cui parte il Varisco. Ma il Cristianesimo propone poi la
vita futura e la felicità. È vero, ma ho detto poi;
perché vita futura e felicità non c’entrano nel costituire il
fondamento oggettivo dal valore; esse son date invece come conseguenti
al valore stesso, premio al valore mantenuto, o, nel linguaggio della
filosofia cristiana, della morale osservata. Nel che, nulla di più
razionale, di più conveniente all’ordine supremo che il Varisco
ammette nell’universo, quando lo fa intimamente razionale. Tanto che
anche Kant, dopo d’avere escluso ogni elemento di utilità e di
felicità dal concetto del dovere, ha poi asserito, come un postulato
della ragion pratica, il premio futuro, come finale concordanza delle
due nostre tendenze naturali, il dovere e il desiderio della felicità.
Ed aggiungeremo noi che, appunto perché conseguenza del valore voluta
dall’ordine supremo, il premio futuro diventa anche per l’uomo un
aiuto ed uno stimolo alla pratica del bene (non costitutivo di esso),
che, per essere in sé cosa nobilissima, non lascia però di essere
spesso cosa gravosa e difficile. E non v’ è nulla dì ignobile in
questo che la pratica del bene sia anche in questa vita giocondata dalla
speranza e dalla certezza della felicità futura. Quantunque ammettiamo
noi pure che, a parità di condizioni, la considerazione del premio
possa rendere meno alto il valore di un atto; ed è per questo che il
Cristianesimo presenta come più elevato l’atto di carità perfetta,
che nell’amor di Dio prescinde da ogni considerazione di beatitudine
propria, per fondarsi solamente sulla bontà di Dio.”[80]
Le riflessioni di Tredici su Cristianesimo e morale sono inviate
in bozza a Varisco, quasi a sollecitare una replica, che consentisse ai
lettori di comprendere meglio le tesi del filosofo bresciano. Replica
che non si fa attendere: da Roma, nel febbraio del 1911, Varisco scrive
a Gemelli e la lettera viene prontamente pubblicata sulla rivista, nella
rubrica “tribuna libera”.[81]
La prima preoccupazione di Varisco è di rigettare l’accusa di
panteismo, affermando di non essere panteista “più di S. Paolo” e
sostenendo che la sua dottrina “va interpretata in senso panteistico
soltanto nell’ipotesi (da me non accettata, quantunque non confutata)
che i valori non siano permanenti.”[82]
Nel resto della lettera egli precisa meglio le difficoltà insite nel
tentativo di conciliare prescienza divina e libertà umana. Nella
replica[83]
Tredici conferma che la dottrina di Varisco non può sfuggire l’accusa
di panteismo, se per panteismo si intende, come avviene usualmente,
“ogni dottrina che non faccia Dio realmente e totalmente distinto dal
mondo, di tal distinzione cioè che escluda qualunque cosa numericamente
comune a Dio e al mondo”,[84]
pur riconoscendo che nel libro il filosofo bresciano definiva
diversamente il panteismo. Su questo aspetto don Giacinto rimarrà molto
fermo, e ancora 10 anni dopo ribadirà che la filosofia di Varisco non
può sfuggire al panteismo.[85]
Nel 1912 Varisco pubblica il libro Conosci te stesso, [86]
interamente dedicato alla dottrina della conoscenza. Nonostante
l’ampiezza del volume, oltre 350 pagine, la sua concezione della
conoscenza non subisce rilevanti modificazioni rispetto alle tesi
esposte più sinteticamente in I massimi problemi del
1910. Anzi il volume sembra confermare la valutazione a suo tempo
formulata dal Tredici, secondo la quale l’affermazione dell’unità
dell’essere e le conseguenze che ne derivano in merito alla concezione
di Dio dipendano strettamente dalla teoria della conoscenza. E tali
osservazioni don Giacinto ribadisce nella recensione di questo nuovo
libro[87].
Nelle pagine finali del libro, Varisco precisa il senso in cui usa il
termine panteismo per rifiutare l’accusa appunto di panteismo che
Tredici gli aveva rivolto. In questo contesto[88]
egli riconosce che le critiche mosse da Tredici sono state costruttive e
non pretestuosamente polemiche. Tredici risponde nella recensione
affermando: “Il Varisco ha voluto rivolgermi anche una parola cortese
di ringraziamento per aver polemizzato con lui con urbanità. Era mio
dovere, come è pure mio dovere rendere al mio cortese contraddittore la
medesima lode.”[89]
Parole che esprimono la stima e il reciproco rispetto tra i due
interlocutori, pur nel permanere di profonde divergenze filosofiche. Il
Varisco comunque non rimane soddisfatto della recensione di Tredici e
invia una breve nota alla Rivista di filosofia neoscolastica, che la
pubblica col titolo Conosci te stesso.[90]
Tra le numerose precisazioni terminologiche, Varisco ribadisce la
sua concezione della conoscenza, afferma che per lui l’ordine
ontologico si riduce all’ordine conoscitivo, cioè l’essere si
riduce al pensiero, “benché non a sole rappresentazioni, queste non
essendo separabili dalle azioni”.[91]
Nella parte finale della nota, Varisco attacca con più decisione il
realismo di Tredici: “Il Tredici concepisce la filosofia «come uno
studio.... di tutta la realtà, sia il soggetto, come anche l’oggetto
in sé, non nei suoi rapporti col soggetto». Uno studio senza lo
studiare, senza un soggetto che studia, che cosa mai sarà? Il Tredici
può studiare l’oggetto facendo
astrazione dal soggetto che studia, e per il quale soltanto
l’oggetto è oggetto; questo si. E, allora, egli segue il processo
delle scienze matematiche o naturali; costruisce una dottrina
dell’oggetto astratto, non della realtà; una scienza non la
filosofia.” E ancora: “Il Tredici parla più volte della mia «ipotesi
fondamentale». Siccome ogni dottrina è una costruzione dell’attività
pensante, con materiali che nella loro immediatezza sono elementi di
pensiero, è ben evidente, che il coscienzialismo come tale non implica
niente d’ipotetico. Ipotetico è invece il realismo, sotto qualunque
forma. L’ipotesi realistica sarà vera; ma che sia un’ipotesi,
bisognosa (essa, non la dottrina contraria) d’essere dimostrata, non
è possibile mettere in dubbio.”[92]
Nella replica, don Giacinto ribadisce che accettare la concezione
realista non significa affatto ridurre la conoscenza alle sole scienze:
“Il Varisco mi oppone che studiare l’oggetto in sé stesso, cioè
facendo astrazione dal soggetto che studia, è seguire il processo delle
scienze, non fare della filosofia. Io non l’ammetto. Le scienze si fermano
alla constatazione dei fatti e delle loro leggi, ricercandone le cause
prossime, cioè gli antecedenti fenomenici; la filosofia va più in là,
ricercando la natura intima delle cose e le loro cause ultime
ultrafenomeniche. E che questo non sia impossibile non istarò io a
dimostrano qui cogli Scolastici.”[93]
Tredici conclude così le sue critiche a Varisco: “Finalmente, mi
permetta il Varisco di non convenire neppure nell’ultima sua
osservazione. Che l’ipotesi realistica sia bisognosa di essere
dimostrata, io glielo posso concedere (senza impegnare nessun altro);
l’ho manifestato altra volta. Ma che di fronte ad essa, quella che io
ho detto l’ipotesi del Varisco sia un dato immediato della coscienza,
quindi non bisognevole di dimostrazione, io non l’ammetto. La scienza
ci dà una serie di fatti di coscienza, che ci appaiono come
essenzialmente rappresentativi; ma che essi costituiscano tutta la realtà,
invece di rappresentarci una realtà esterna, questo non ci è dato
dalla coscienza. Il Varisco potrà sostenerlo; ma allora egli costruisce
un’ipotesi, che ha proprio bisogno di essere dimostrata.”[94]
Nel numero di aprile del 1913, sono pubblicate due brevi note di Varisco
e Tredici,[95]
con le quali si dichiara chiusa la polemica, preso atto delle reciproche
concezioni della conoscenza, tra loro incompatibili, ed espressa la
convinzione che tutte le altre divergenze ne siano la logica
conseguenza. Il 20 novembre del 1913, il prof. Tredici tenne una
conferenza alla Società italiana per gli studi filosofici e psicologici
sul tema “La filosofia di Bernardino Varisco”,[96]
alla quale seguì un’ampia discussione, che vide l’intervento di
alcuni tra i maggiori esponenti della filosofia neoscolastica milanese,
come Olgiati, Gemelli e Necchi. Nonostante l’ampia e articolata
esposizione del pensiero di Varisco, non troviamo qui significative
novità rispetto alle critiche degli anni precedenti. Particolarmente
interessante è, però, la critica alla tesi di Mach - Ardigò, cioè la
negazione della distinzione originaria tra soggetto e oggetto. Tredici
riconosce corretto il punto di partenza di Varisco: l’analisi della
conoscenza umana mostra come il processo stesso del conoscere implichi
che l’oggetto conosciuto sia, in qualche modo, nel soggetto
conoscente. Tuttavia argomenta: “Quando si tratta di interpretare,
precisandolo, questo dato immediato della coscienza, la cosa non è più
cosi evidente. In che senso si deve intendere questa immanenza del
conosciuto nel conoscente? Come un’immanenza reale dell’oggetto nel
soggetto, o solo come un’immanenza nel soggetto di un qualche cosa
dell’oggetto, che potrà essere anche solamente una sua
rappresentazione? Ecco le due soluzioni antitetiche che ci dividono. Io
non negherà la difficoltà del problema. Una soluzione fondata su una
prova diretta è impossibile, perché è impossibile al soggetto uscir
fuori di sè stesso per esaminare se l’oggetto conosciuto sia qualche
cosa di distinto da lui. Dovremo limitarci dunque a riflettere
attentamente ai dati della coscienza. Ora mi pare che il Varisco si
fermi, per dedurne la sua conclusione, ad una prima constatazione,
evidente, ma non completa. Il fatto della conoscenza ci dà
l’oggetto come incluso nella nostra coscienza, cioè in un rapporto
tutto speciale con altri elementi contenuti nel soggetto, che è il
rapporto di coscienza. E ne inferisce senz’altro un’inclusione
reale, tanto da fare dell’oggetto stesso un elemento costitutivo del
soggetto. Ma, riflettendo bene sempre sul medesimo fatto, noi dobbiamo
fare un’altra constatazione. Non tutto quello che è presente alla
coscienza vi è presente nel medesimo modo. Vi è in proposito una
notevole differenza tra quello che il Varisco chiama i sentiti, e un
gruppo di altri fatti di coscienza, eminentemente soggettivi, quali le
rappresentazioni (immagini), i ricordi, i sentimenti. Anche il Varisco
nota la differenza; ma non crede che essa possa influire sulla
conclusione, perché, quando si tratta di darne la ragione, si
accontenta di rilevare che, mentre i sentiti possono essere nella
coscienza di più soggetti, invece quegli elementi, che appunto per
questo si dicono soggettivi, sono esclusivi della coscienza di un solo
determinato soggetto. Ora questa spiegazione non è sufficiente. Che un
sentito (oggetto), mentre è incluso nella mia coscienza, faccia parte,
o possa far parte anche della coscienza di altri soggetti, è una cosa
che non può influire sul mio stato attuale di coscienza, ed io lo posso
anche ignorare: eppure, ciononostante, io noto la differenza tra gli
elementi oggettivi ed i soggettivi della mia coscienza. E poi, è presto
detto: i sentiti possono essere inclusi anche in un’altra coscienza, i
ricordi e i sentimenti, no. Ma perché questa differenza? Se voglio riferirmi
a quanto mi è attestato dalla coscienza, ma dalla coscienza presa in
tutto il suo responso, io trovo la ragione della differenza in questo,
che i ricordi e i sentimenti mi appaiono come cose essenzialmente mie,
mentre gli oggetti sentiti mi appaiono come qualche cosa d’altro,
che non appartiene essenzialmente a me, e per cui capisco che può
essere anche con altri nella medesima relazione che con me. E cosi è
mossa in luce quella nota di esteriorità,
a cui ho accennato altra volta; ed insieme è scissa quell’unità
quasi materiale del soggetto e dell’oggetto, che tanto piace al
Varisco. Si dirà, - ed il Varisco lo dice - se l’oggetto è fuori del
soggetto, gli è completamente estraneo, ed il soggetto non lo può
conoscere. No: essere l’oggetto, nella sua realtà ontologica, fuori
del soggetto, non vuol dire che non possa avere con questo alcun
rapporto. Un rapporto esiste: rapporto determinato da un’azione
dell’oggetto sul soggetto: cosa che ci viene attestata dalla passività
che riscontriamo in noi stessi nel sentire. Ed all’azione
dell’oggetto sul soggetto corrisponde in questo una reazione sui
generis (sgorgante dalla natura propria del soggetto), che
costituisce il fatto del conoscere, e s’intende, conoscere l’agente
che esercita l’impressione. Né il Varisco ha diritto di meravigliarsi
che, per spiegare il fatto del conoscere, si faccia appello ad un
rapporto e ad una reazione sui
generis, quasi sfuggendo così al bisogno di una ulteriore
determinazione. Che infatti la cognizione sia un fatto irriducibile ad
ogni altro, è cosa innegabile, e l’ammette anche il Varisco,
chiamando sui generis la sua
unità di coscienza.”[97]
Da queste considerazioni, Tredici giunge alla conclusione che il
difetto principale della teoria di Varisco sia l’aver soppresso il
soggetto conoscente come un’entità dotata di realtà propria, per
sostituirvi l’insieme dei fatti di coscienza che gli appartengono. La
conclusione della conferenza è drastica: la tradizione scolastica e la
filosofia di Varisco sono “perfettamente antitetiche”. La coerenza
logica del suo sistema è certamente un pregio, ma ne rende anche più
facile la confutazione, una volta criticata la sua dottrina della
conoscenza. 5.
La filosofia e la religione
Nel 1913, il prof. Tredici pubblica un’interessante riflessione
[98]
sull’atteggiamento della filosofia contemporanea verso la religione,
cercando di valutare, dal punto di vista apologetico, se l’evoluzione
del pensiero filosofico negli ultimi decenni abbia comportato una
crescita delle insidie per il cristianesimo. L’analisi comincia con
una ricostruzione storica: “Vi fu un tempo, in cui sembrò a molti che
il problema religioso fosse eliminato per sempre dal numero delle questioni
degne di studio: come un incubo pauroso ed incomodo, che aveva
tormentato l’umanità per tanti secoli, ma dal quale ora l’umanità,
ridestatasi, si liberava definitivamente. Questo tempo corrisponde,
press’a poco, agli ultimi tre decenni del secolo scorso. Erano i tempi
del trionfo della scienza positiva. Già Augusto Comte, pubblicando il
suo Corso di filosofia positiva (1830-1842),
aveva, colla famosa legge dei tre stati, annunciato questo trionfo.”[99]
La scienza positiva riteneva definitivamente superata la metafisica e si
proponeva solo di cercare leggi che spiegassero i fatti. Il vecchio
creatore, secondo una celebre frase di Comte, veniva messo alle
frontiere. Sulle compiacenti basi del positivismo, nota don Giacinto,
sorgeva e grandeggiava il materialismo “più pretenzioso e
grossolano”, sempre in nome della scienza. Le filosofie spiritualiste
si trovavano a mal partito. L’idealismo, afferma Tredici, dopo un beve
momento di esaltazione “intorno all’astro di Hegel”, aveva finito
per “disgustare gli animi, lasciando in essi un senso penoso di
sforzo”.[100]
Dalla comune radice del positivismo nacquero tendenze scettiche (cita
Ernest Renan e Gaetano Negri) e filosofie materialistiche (richiama
alcune idee di Ludwig Buchner, Ernst Haeckel, Herbert Spencer,
Jean-Marie Guyau e Roberto Ardigò) i cui libri, diffusi in gran copia,
divennero le nuove bibbie della ragione, spesso acriticamente accettate.
Di fronte a questo ripudio totale della metafisica e della religione ci
furono dei tentativi di costruire delle morali laiche (e Tredici accenna
brevemente a John Stuart Mill, Léon Bourgeois, Alfred Foullée ed Emile
Durkheim) ma, nella vita pubblica, le idee di origine positivista si
traducevano nella graduale esclusione di ogni idea religiosa
dall’insegnamento superiore e universitario. Nota don Tredici:
“...Ma ora non è più così. L’attitudine degli spiriti colti, anche
all’infuori della immediata influenza cristiana, si è radicalmente
cambiata. Il problema religioso, che si era voluto ad ogni costo
eliminare, che si era proclamato definitivamente sorpassato dalla
mentalità moderna, da un po’ di anni risorge con insistenza che
sarebbe stato follia il prevedere. Mai forse, come in questi anni che ci
separano dal principio del secolo, si parlò tanto di religione. E non
se ne parlò già, tra i filosofi e le persone colte, per constatarne
la morte, ma come di un fenomeno sempre vivo, di cui si vuol studiare
l’intima natura, per utilizzarne l’efficacia, magari adattandolo
alle nuove esigenze dei tempi nuovi, come si fa di una cosa imprescindibile,
di cui non si può far senza. Sicché, se risorgesse ora il vecchio
Comte, non potrebbe più riconoscere in questa età di civiltà più
progredita il suo fatale terzo periodo, il periodo positivo.”[101]
Tredici constata che, esclusa dalle università, la questione religiosa
è discussa nei congressi di filosofia e di psicologia e sulle riviste
di filosofia. Lo stesso interesse suscitato dal Modernismo è sintomo di
un cambio d’atteggiamento verso le problematiche religiose. Anche per
questi aspetti, don Giacinto mostra una profonda conoscenza della
filosofia contemporanea, richiamando alcune tesi di Lord Arthur Balfour,
[102]
Rudulf Eucken, William James ed Emile Boutroux. Da questa evoluzione
della filosofia, Tredici ricava alcune conclusioni di carattere
generale. Quella su cui si diffonde maggiormente riguarda le connessioni
tra l’idea di immanenza, la filosofia di Kant e il modernismo. La
questione del modernismo, in seguito alla pubblicazione dell’enciclica
Pascendi di Pio X (1907), diviene centrale nel pensiero di
Tredici, come articolazione specifica del tema del tema del rapporto tra
fede e filosofia. Va premesso che dal testo di questa enciclica si
evince che il Pontefice considera il modernismo “un corpo unico e ben
compatto” di dottrine, tale che “ove chi ammette una cosa
accettare tutto il resto” e quindi cerca di individuarne i
principi generali che lo fondano (come l’atteggiamento
irrazionalistico che svincola totalmente la fede dalla ragione e la
rende solo un’esigenza interiore del sentimento religioso) e le
motivazioni che avevano spinto alcuni studiosi a sostenerlo, come
“superbia, ignoranza e vana curiosità”. In realtà, dal punto di
vista storico, le idee analizzate da Pio X nell’enciclica
corrispondono alle tesi più radicali dei modernisti, come sono quelle
sostenute dal Loisy, dal Le Roy e dal Tyrrell, o in Italia da Ernesto
Buonaiuti, che sono certamente incompatibili con l’insegnamento della
Chiesa. Ma in questa condanna generale degli errori dei modernisti
furono coinvolti anche intellettuali come Fogazzaro, come Tommaso
Gallarati Scotti o, per certi versi, come Romolo Murri, che non
condividevano le tesi radicali del modernismo, ma che auspicavano un
rinnovamento ecclesiale, un ruolo più autonomo per i fedeli laici e un
superamento delle incomprensioni tra scienza e fede (basti pensare alla
difesa della dottrina dell’evoluzione da parte di Fogazzaro) o un
maggior impegno sociale dell’associazionismo cattolico (Murri). Per
comprendere il quadro culturale del periodo, va tenuto presente che il
modernismo non era condannato solo dal Papa e dalle gerarchie
ecclesiastiche, ma anche dalle due correnti filosofiche allora più
diffuse, il positivismo e il neoidealismo. Entrambe consideravano la
religione come un residuo culturale del passato, destinato ad
estinguersi col progressivo affermarsi della razionalità umana. Per i
positivisti la conoscenza scientifica avrebbe soppiantato ogni forma di
superstizione e di religiosità; per gli idealisti, in particolare per
Gentile (ma idee analoghe sono anche in Croce), sulla base del dogma
hegeliano per cui la filosofia è la forma più alta e più vera dello
Spirito Assoluto, mentre la religione è una fase propedeutica verso la
razionalità, il tentativo
modernista di conciliare religione e razionalità è destinato al
fallimento: le convinzioni dei modernisti sono caratterizzate da
“ingenuità” e la loro mente è avvolta da “caos filosofico”.[103]
Per Gentile la religione è necessariamente una forma di equilibrio tra
due “spiriti” (tendenze) opposte: lo “spirito di pietà”
(locuzione usata dal Loisy) o spirito agostiniano, che rappresenta la
dimensione soggettiva, l’esperienza personale del divino e lo
“spirito di governo” (che informa la Chiesa docente e nomoteta). Il
prevalere del primo porta all’individualismo religioso e al rifiuto
della Chiesa, il prevalere del secondo all’assolutismo. Non è quindi
possibile eliminare uno dei due momenti. Di conseguenza: “Il
cattolicismo è quale dev’essere: è appunto quell’equilibrio che
non si mantiene se non a spese della pietà, da una parte, come della organizzazione
sociale dall’altra, dell’intimità così come dell’esteriorità,
della libertà come dell’autorità. Non c’è che fare: e bisogna
piegare il capo. Ribellarsi è dà bambini che non intendono ancora la
ferrea necessità della vita.”[104]
La conclusione è drastica: “Una delle due: o questa società, questa
chiesa, è la chiesa che la ragione crea, o ricrea a se stessa, con la
sua filosofia; e allora dalla chiesa vera e propria della religione in
realtà siamo usciti, e restiamo nel razionalismo puro: o la chiesa è
la chiesa di fatto, quella tale chiesa bene o male rappresentata da Pio
X, e allora bisogna umilmente tacere quando Pio parla, e ricordarsi
che Dio, la verità, non è dell’individuo, ma della chiesa.”[105]
Appare evidente come gli idealisti delineino una concezione di religione
strettamente funzionale alla loro visione filosofica, tuttavia questa
condanna senza appello del modernismo contribuisce a far comprendere
come i modernisti si sentissero “accerchiati” e perseguitati dagli
esponenti delle maggiori correnti culturali del tempo. La Pascendi,
inoltre, non si limita ad individuare e condannare le dottrine
moderniste, ma contiene anche, nella seconda parte, diverse disposizioni
finalizzate a prevenire e reprimere ogni infiltrazione dei modernisti
nella Chiesa: sono previste, ad esempio, vigilanza e controllo degli
insegnanti dei seminari, limitazione alla frequenza di università
statali per i seminaristi, proibizione di congressi di sacerdoti,
indicazione restrittive ai vescovi per la facoltà di autorizzare la
stampa (imprimatur) e soprattutto l’istituzione in ogni diocesi
di una commissione speciale per indagare ogni indizio di modernismo. Nel
novembre del 1907 è annunciata la scomunica a chiunque si opponesse
all’enciclica; seguono meticolose ispezioni a diocesi e seminari
vescovili. In questa delicatissima situazione si colloca il primo
intervento pubblico di don Tredici sul modernismo, nel 1911: egli tiene
un’ampia e densa prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico
nel Seminario teologico di Milano, il giorno 9 novembre, che poi è
integralmente pubblicata in La scuola cattolica.[106]
Egli inizia a ricordare come la promulgazione dell’enciclica Pascendi
abbia dato occasione a molti intellettuali di lamentarsi e di affermare
che la Chiesa ha scandalizzato molte persone profondamente religiose.
Coloro che contestano la Pascendi, riassume don Giacinto,
sostengono che la Chiesa, condannando il modernismo, “ha riprovato
ogni tentativo di conciliazione tra la fede cattolica ed il pensiero
filosofico moderno, per ribadire il connubio di essa col pensiero
scolastico, ormai tramontato da secoli; essa ha così definitivamente
scavato un abisso tra la sua dottrina e le menti colte contemporanee,
ponendosi fuori dalla possibilità di essere compresa.”[107]
Egli cita direttamente il celebre Programma dei modernisti,
apparso anonimo alla fine di ottobre del 1907, ma redatto da Buonaiuti,
ricordando in particolare come venisse messa sotto accusa la
rivalutazione della filosofia scolastica e come si ritenesse
anacronistico il ricercare nella filosofia scolastica la base razionale
della fede religiosa. Il prof. Tredici quindi analizza compiutamente il
rapporto tra teologia cattolica e filosofia scolastica e in questo suo
discorso la critica ai modernisti si limita a questa unica, ma centrale
questione del rapporto tra fede e ragione. I modernisti affermano che la
fede “deve mantenersi in una sfera tutta sua propria, senza mendicare
un fondamento in un campo così eterogeneo com’è quello della
scienza e della filosofia, le quali, già incerte e vaghe in se stesse,
non ci potrebbero dir nulla di cosa che tanto le supera”. Le “pretese
basi della fede” (cioè le basi razionali della Scolastica) apparivano
insanabilmente caduche ai Modernisti. “Ed il loro grido - aggiunge
Tredici - è l’eco della parola di Kant, che ha proclamato vana per
sempre la pretesa di conoscere razionalmente l’ultrafenomenico,
soggiungendo per altro che le supreme dottrine della morale e della
religione non è necessario dimostrarle, basta crederle.” Si domanda
quindi don Giacinto: è possibile una fede in Dio, come è
essenzialmente il Cristianesimo, ed una fede consapevole, senza una base
razionale, senza cioè un complesso di dimostrazioni filosofiche
preventive, nel senso proposto da S. Tommaso? E risponde: “Sì, è
possibile, ma solo ad una condizione: che la fede stessa non sia più
l’adesione ad un gruppo di verità ben precise e determinate, di cui
alcune impervie alla capacità naturale della nostra ragione, e proposte
a noi da credere; ma invece una intuizione, un’esperienza nostra
diretta, che la nostra intelligenza, al più, rivesta e traduca in
formule intellettuali. E noi conosciamo una tale concezione della
fede. Ce la denuncia l’enciclica Pascendi come propria dei
Modernisti, e la riconoscono come propria gli autori del Programma
citato. La conoscenza religiosa, dicono, è l’esperienza attuale del
divino operante in noi e nel tutto. La religione si dimostra come un
risultato spontaneo di inestinguibili esigenze dello spirito umano, il
cui soddisfacimento si raggiunge nella esperienza interna ed emozionale
del divino presente in noi.”[108]
Di conseguenza ne viene inficiato il concetto stesso di rivelazione, non
più considerata come un insieme di verità insegnate da Cristo, ma
ridotta a forme concrete di pensiero che si sono sviluppate per le
esigenze della comunicazione collettiva o del rito, per lo sforzo dei
pensatori cristiani o per conseguenza della lotta contro le eresie. In
realtà, afferma don Giacinto, la fede è un’adesione
dell’intelligenza a verità non evidenti, proposte da un magistero
divino. Questa adesione è possibile solo in virtù della credibilità
della testimonianza: non può esservi fede senza fiducia piena nella
fonte della rivelazione. Ne segue che la fede cristiana “presuppone
alcune evidenze razionali; e tra queste, naturalmente, trattandosi di
credere a Dio, l’esistenza sua ed il fatto della rivelazione: verità
che, non essendo oggetto di una constatazione immediata, dovranno essere
frutto di una dimostrazione.”[109]
Certo, ammette Tredici, non sta scritto da nessuna parte che i preamboli
della fede siano quelli stabiliti nell’ambito della filosofia
scolastica; tuttavia solo questa ci permette di giungere con certezza a
dimostrare l’esistenza di Dio, mentre gli altri sistemi filosofici,
tutti influenzati dal soggettivismo, conducono spesso
all’agnosticismo. Resta però da chiedersi, continua don Giacinto,
fino a che punto sia lecito introdurre nelle spiegazioni dei dogmi e
delle verità rivelate concetti e dottrine filosofiche, che sono
prodotti della mente umana. Dopo aver esaminato la concezione del dogma
di Le Roy e la dottrina di S. Tommaso sul tema, egli conclude affermando
che il contenuto della fede, che la teologia cerca di illustrare, deriva
interamente dalla rivelazione e non è il prodotto di speculazioni
filosofiche: “La filosofia non fa altro che esaminare, illustrandoli,
quei concetti umani che sono contenuti nel dogma. E fortunata quella
filosofia che in questo esame trova una preziosa conformità tra i
concetti suoi e quelli contenuti nelle verità divine! E questo è tanto
vero, che gli antichi Padri, in possesso d’una filosofia, la
platonica, che pure illustrava alcuni dei concetti contenuti nei dogmi
cristiani, ne usarono, ma solo a condizione che concordasse
coll’insegnamento dogmatico, modificando quello che non vi era
perfettamente conforme. Si ricordi in proposito la cristianizzazione
della filosofia platonica per opera di Clemente Alessandrino e di S.
Agostino. Ed in seguito i Dottori Scolastici, di fronte ad un’altra
filosofia, l’aristotelica, ne usarono pure, ma colle stesse cautele,
non riducendo la fede ad Aristotele, ma Aristotele alla fede. Sicché
quella filosofia che diede poi definitivamente il suo contributo ad
illustrare i dogmi cristiani, non fu propriamente nessuno speciale
sistema filosofico puramente umano: né di Platone né di Aristotele, né
di Plotino né di Averroè, ma quella filosofia che si formò con sano
eclettismo un po’ da tutti questi elementi, sotto l’influenza ed al
controllo del dogma cristiano. E questa fu la filosofia Scolastica, che,
con un nome meno occasionale e più rispondente alla sua reale
formazione, ben si può dire la filosofia
cristiana, non nel senso che abbia voluto costituirsi rinunciando
alla ragione per accontentarsi di ripetere la fede, il che sarebbe un
non-senso; ma in quanto che ha costruito razionalmente la sua sintesi,
pur avendo cura di lasciarsi illuminare dalla luce -
perché è luce - che emana dalla verità rivelata. Alla domanda
quindi del Le Roy, dalla quale siamo partiti: per essere cristiano,
bisognerebbe dunque cominciare a convertirsi ad una filosofia, la
Scolastica? - possiamo rispondere che
- per quel tanto che è connessa colla fede cristiana - questa
filosofia non è più solamente la filosofia scolastica, è anche
dottrina cristiana. Ed il tentativo stesso del Le Roy di
pensare il Cristianesimo in funzione di un’altra filosofia, ne è
stato una prova; perché nessuno potrà ammettere che possa dirsi una
concezione cristiana di Dio la sua, che riesce ad un Dio identificato
col fondo della realtà spirituale che si sviluppa ed ascende.”[110]
Da questa analisi dei rapporti tra fede e ragione, il prof. Tredici
ritiene che emergano con chiarezza le ragioni dell’attualità perenne
delle verità di fondo della filosofia scolastica, anche se i modernisti
sostengono che essa renda inaccettabile la teologia stessa e di riflesso
la fede cristiana alle menti moderne. Da questo punto di vista, il suo
giudizio sul modernismo è stroncante: “Si è voluto adattare il
cristianesimo alla mentalità moderna, ma del cristianesimo non è
rimasto nulla, od al più qualche rudero; ne è venuto fuori un
naturalismo in veste cristiana.”[111]
In questo primo intervento troviamo quindi solo una difesa a tutto campo
della enciclica Pascendi, ricca di contenuti culturali, ma attenta a non
sfiorare le accuse di filomodernismo mosse al Seminario e alla rivista
nella quale scriveva. Tredici torna ad occuparsi del modernismo
nell’ottobre del 1913, in occasione del sesto anniversario
dell’enciclica Pascendi.[112]
Contrapponendosi ad una convinzione abbastanza diffusa, afferma di
non credere che a causare il fenomeno del modernismo abbiano contribuito
in misura significativa quegli abusi di disciplina, di culto e di vita
cristiana, che “alcuni si sono compiaciuti di denunciare” mescolando
spesso inconvenienti veri con fantasmi inventati od esagerazioni:
“Mali di questo genere ve ne furono sempre, pur troppo, nella Chiesa,
e ne costituiscono l’inevitabile lato umano, senza che ne sia altre
volte derivato un fenomeno come il modernismo. Osservati da spiriti
unilaterali ed impreparati, gli abusi della vita cristiana hanno potuto
spesso allontanare dalla fede, favorire, o anche solo dar pretesto ad
una ribellione; non spingere a tentare una riforma dottrinale, che fosse
un compromesso tra la fede nel soprannaturale ed una concezione
naturalistica della religione.”[113]
La causa principale che ha reso possibile un fenomeno come il modernismo
va dunque cercata nella storia del pensiero filosofico e, in
particolare, “nell’onda di soggettivismo che con Kant ha invaso la
filosofia moderna, accentuando l’importanza del soggetto nella
elaborazione del fatto della conoscenza, ha conseguentemente accresciuta
l’avversione ad ogni elemento che non venga dal nostro io.”[114]
In questo passo di Tredici, il termine soggettivismo, riferito a Kant,
non va inteso nel senso di “relativismo” (sarebbe evidentemente un
fraintendimento del filosofo tedesco), ma, lo precisa egli stesso, come
affermazione del “predominio” dei postulati della vita morale,
conseguenza della sfiducia nella ragione speculativa. Citando Blondel,
la cui importanza per le radici culturali del modernismo era già stata
da lui sottolineata nel 1910,[115]
Tredici constata come il principio di immanenza sia divenuto il
postulato fondamentale della filosofia moderna. Negli ultimi decenni,
nota poi don Giacinto, il soggettivismo ha assunto un carattere, una
“veste” anti-intellettualistica, di avversione alla razionalità,
che si traduce nel primato dell’intuizione, come in Bergson, o nella
centralità della sfera affettiva o sentimentale della persona.
Un’altra radice del modernismo è da ricercarsi nel successo della
teoria dell’evoluzione in tutti i campi del sapere. Don Tredici spiega
così questo successo: “È impossibile infatti negare che, in un certo
senso, l’evoluzione è davvero la legge di tutti i diversi ordini di
realtà. L’immutabilità assoluta spetta alle idee astratte; nella
realtà concreta, all’infuori dell’essere immutabile, Dio, tutte le
cose nascono e crescono, associandosi elementi esterni, e sviluppando le
proprie attività. Di qui era possibile il passo ad estendere la portata
dell’idea stessa, fino a farne una legge universale ed unica di tutto
il reale, senza distinzione tra sviluppi accidentali o profondi.”[116]
Egli ricorda le origini dell’idea di evoluzione nel pensiero di Hegel,
che aveva creduto di unificare nell’unica legge del divenire tutto lo
scibile umano, (“dando le grandi linee di un’intera enciclopedia
evoluzionistica, di cui da molti forse si trascura troppo l’influenza
esercitata sul pensiero contemporaneo”[117])
e gli sviluppi della teoria dell’evoluzione in Darwin e Haeckel e la
sintesi “apparentemente” più filosofica di Spencer. Con questi
precedenti, nota Tredici, era quasi inevitabile che l’idea
evoluzionistica fosse applicata anche ai fenomeni religiosi. Un terzo
fattore rilevante è costituito dalla critica storica applicata con i
criteri razionalisti. Per critica storica si intende quell’approccio
al testo biblico che lo analizza come qualunque altro testo,
contestualizzandolo storicamente, evidenziandone le caratteristiche
linguistiche e stilistiche, inserendolo in generi letterari affini e, in
base alla cogenza di tale analisi scientifica, proponendo attribuzioni
d’autore diverse dalla tradizione (ad esempio oggi si accetta
comunemente che il libro di Isaia sia dovuto ad autori di diverse
epoche). Anche qui don Giacinto distingue: “La critica storica ha
gettato un largo fascio di luce su molte questioni, e nessuno è che ne
dubiti; ma di qual cosa, anche ottima, non può abusare l’uomo? Molti
storici, anche di grande dottrina, applicarono alla storia il metodo
critico, lasciandosi dirigere e dominare da un preconcetto, che non
esiste nel mondo il soprannaturale, e che sempre il fatto miracoloso è
storicamente un falso, che la critica deve rigettare, o spiegare
riducendolo a proporzioni naturali. Studiata con questo preconcetto, la
storia di Cristo e della Chiesa resta affatto svisata e umanizzata; e
l’autorità e la dottrina di alcuni storici razionalisti, come Harnack
e altri, non servì che a trarre in inganno alcuni spiriti di cattolici,
ai quali mancava una sufficiente preparazione teologica per resistere
al grave pericolo.”[118]
A conclusione di quest’analisi delle radici culturali dell’eresia
modernista, don Giacinto affronta un tentativo di spiegazione delle
motivazioni psicologiche che hanno indotto molti intellettuali credenti
a aderire al modernismo. Alcuni spiriti inquieti, afferma il prof.
Tredici, al contatto col “vento dissolvitore” della mentalità
moderna e naturalistica si sentirono violentemente scossi nelle loro
credenze. Ma il dubbio vissuto da queste persone non era relativo ad un
particolare dogma, come nelle eresie del passato, ma investiva il nucleo
stesso della loro fede e portava ad un rifiuto dell’assenso alla verità
della rivelazione, pur riconoscendo essi dei valori preziosi nel
cristianesimo. Quindi costoro, per mascherare la loro incredulità, o
per cercare di giustificare se stessi di fronte alla loro coscienza, o
per evitare gli inconvenienti pratici di un’aperta apostasia,
tentarono di riformulare il nucleo stesso della religione cristiana per
adattarla alla mentalità immanentistica della filosofia moderna, pur
mantenendo per prudenza tutte le forme esteriori del culto. Questo tipo
di motivazioni presuppongono una certa ipocrisia da parte dei modernisti
e questo è anche il sospetto che preoccupava Pio X e che emerge in vari
punti del testo dell’enciclica: fin qui, quindi, nulla di diverso
dalle tesi ufficiali della curia romana. Ma, subito dopo, sebbene in
modo prudente, vengono messe in luce opportune distinzioni:
“…Esagererebbe chi volesse interpretare così la condotta di tutti
quei cattolici che più o meno si fecero banditori o fautori di
modernismo. Tutto ci induce a
credere che, per molti,
la genesi dei loro errori sia stata un’altra, cioè un desiderio
sinceramente, anche se imprudentemente, apologetico. L’aspirazione
apologetica è insita alla natura stessa del Cattolicismo, religione
destinata per tutti. Ma lo zelo degli apologisti doveva crescere di
fronte al mutamento verificatosi negli animi degli increduli. Se al
disprezzo astioso ed alla non curanza era succeduto un interessamento
spesso rispettoso, poteva sembrare più facile - specialmente a chi si
accontentava delle prime apparenze superficiali e non approfondiva
l’intima natura del fenomeno - giungere al fine desiderato. E quel
desiderio e quella speranza si concretarono nello studio di mostrare
come il Cattolicismo non fosse per nulla contrario alle migliori
esigenze dello spirito umano, anzi ne fosse il più nobile
coronamento.”[119]
È qui sottolineato un aspetto importante: non tutti gli aderenti al
modernismo sono mossi da superbia o ipocrisia; molti hanno sbagliato in
buona fede e con nobili intenzioni. A loro sarebbe servita una “forte
preparazione”, soprattutto teologica, biblica e filosofica, che in
gran parte è mancata, e che sarebbe servita a trovare le vie idonee
della persuasione, senza accettare compromessi pericolosi. Per
condannare gli errori del modernismo è stata scritta l’enciclica Pascendi,
il cui contenuto è da Tredici sintetizzato così: “Era tutto un
sistema complesso di dottrina che veniva denunciato; un sistema
ispirato alle tre idee tanto diffuse nella filosofia moderna, e
imprudentemente accolte da molti: agnosticismo,
immanenza, evoluzionismo;
con un substrato filosofico molto ben determinato, e con
applicazioni molteplici alla teologia, alla critica biblica, alla
storia, alla disciplina. La rivelazione e la fede venivano trasformate
in un sentimento derivato da un vago ed istintivo bisogno del divino:
sentimento ripensato dall’intelligenza ed espresso in formole, variabili
secondo le direttive del pensiero filosofico, che costituiscono i
dogmi; tutto quello che non è direttamente l’esperienza o il
sentimento soprariferito, ma si riconnette a un fatto storico, è una
trasfigurazione del fatto stesso, in funzione dell’esperienza
religiosa. L’autorità della Chiesa non ha altro ufficio che di
dirigere l’esperienza ed il lavorio della sua trasformazione in
formole dogmatiche. L’enciclica esponeva a lungo un tal sistema, in
tutte le sue più lontane conseguenze, e ne mostrava l’inanità e
l’assoluta antitesi coll’essenza stessa del Cristianesimo.”[120]
Tredici interviene nuovamente sul modernismo l’anno successivo, per
replicare ad un articolo di Paul Teissonnière uscito sul Coenobium,
il 31 gennaio 1914, che era significativamente intitolato Les
principes d’une réconciliation de la pensée religieuse et de
l’esprit moderne. Il Coenobium era una rivista, allora
discretamente nota, pubblicata a Lugano, fondata nel 1906 e diretta dal
filosofo Giuseppe Rensi, che era fuggito in Svizzera dopo i moti del
1898; rientrato in Italia nel 1908, aveva mantenuto la direzione della
rivista svizzera. Si trattava di una rivista aconfessionale e laica,
anche se molto interessata alle tematiche religiose. L’articolo di
Teissonnière, secondo la sintesi di don Giacinto stesso, enumera i
presunti principi fondamentali di una riconciliazione tra il pensiero
religioso e lo spirito moderno: “1. una reazione contro il dogmatismo;
2.
una restaurazione della coscienza individuale; 3. l’applicazione
alla teologia dei metodi scientifici, i quali poi si ridurrebbero al
metodo di osservazione e di induzione; 4. una nozione pratica della pietà,
che consisterebbe nel renderla indipendente da ogni articolo di fede e
ridurla alla bontà, all’obbedienza al dovere, allo sforzo verso il
meglio; 5. una revisione della morale religiosa, principalmente
coll’abbandono dell’ascetismo e delle idee di rinunzia, di
rassegnazione, di obbedienza all’autorità ecclesiastica; 6. una
ricostruzione della credenza, colla riforma delle nozioni tradizionali
di Dio, di redenzione, di vita futura; 7. una chiesa a costituzione
laica.”[121]
Il prof. Tredici così commenta: “Come si vede, le condizioni per
questa pretesa riconciliazione non sono né piccole né di poca
importanza. Si tratta semplicemente dell’abbandono di tutto quello che
forma il contenuto specifico del Cristianesimo. Non resterebbe che una
vaga religiosità adogmatica, eminentemente soggettiva, priva di vincoli
e di autorità sociale, in cui tutti potrebbero convenire, anche senza
ammettere la stessa esistenza di Dio. Ma una tale religione nessuno la
potrebbe più dire Cristianesimo, anche qualora volesse, per istrazio,
conservarne il nome ed infiorarsi con qualche isolata parola evangelica.
Eppure, se ben si rifletta, noi crediamo che non si possa meglio che
colle parole su riferite descrivere, nei suoi caratteri fondamentali,
quel movimento di riforma del Cristianesimo, che si chiamò
modernismo. I metodi e le forme possono essere diversi: essi sono
accidentali, puri mezzi a raggiungere lo scopo creduto necessario; ed in
questo senso crediamo che abbiano potuto dire con verità molti dei
modernisti che il modernismo non aveva nessuna filosofia determinata. Ma
lo scopo ed il risultato furono gli stessi. Scopo fu la conciliazione
del Cristianesimo con quelle che erano
presentate come le esigenze dello spirito moderno; risultato fu di
sostituire al dogma, inteso come verità rivelata formalmente da Dio e
quindi immutabile, una formazione della coscienza individuale, che interpretasse
secondo le esigenze intellettuali del tempo l’esperienza religiosa.
Di conseguenza il Cristianesimo veniva a perdere della sua rigidezza
dogmatica, venivano innalzati i diritti della coscienza individuale, e
veniva tolto o diminuito alla pietà il suo contenuto trascendente, per
ridurla ad un sentimento di bontà e di amore. Ed è il pericolo che
resta sempre, e da cui i cattolici devono guardarsi con cura, anche se
non vi scorgono più tutto quell’apparato di critica biblica o tutta
quella terminologia immanentistica, che furono la veste sotto la quale
fu loro presentato sulle prime il nemico. Ed è per questo che crediamo
nostro dovere di segnalarne alcune manifestazioni, - anche senza cedere
al vezzo di dare il nome di modernismo a qualunque manifestazione non
del tutto corretta od anche apertamente riprovevole nella vita dei
cattolici, ma pur mantenendo quel nome ad indicare, nel suo nucleo
fondamentale, l’errore che propriamente se lo merita.”[122]
Certamente noi che viviamo dopo il Concilio Vaticano II, possiamo
agevolmente comprendere come, tra i setti punti del Teissonnière,
alcuni siano evidentemente incompatibili col nucleo centrale della
religione cristiana, mentre altri (pure nettamente riprovati nel
commento critico di Tredici sopra riportato) sono oggi comunemente non
solo accettati, ma anche difesi dalla Chiesa, come per esempio il valore
della coscienza individuale [123].
È molto difficile però valutare quanto in questa condanna in blocco
sia dovuto ad un atteggiamento individuale tradizionalista, talvolta con
qualche venatura conformista, e quanto invece sia attribuibile alla
mentalità e alla cultura religiosa del tempo. Circa dieci anni dopo,
nella primavera del 1924, Tredici pubblica in due puntate un ampio
scritto sui rapporti tra teologia positiva, che studia le verità di
fede a partire dai contenuti della Rivelazione, e la teologia
scolastica, che si basa solo su metodi razionali come quelli propri
della filosofia.[124]
Tra i tanti argomenti trattati, qui ci interessa
il rapporto tra ricerca storica e fede, che per Tredici è simile a
quello tra la scienza e la fede stessa. Nel campo della scienza
sperimentale, la fede non è “un ostacolo alla libertà
dell’indagine”, anche quando il ricercatore credente sa di non poter
ammettere una determinata conclusione. Scrive don Giacinto: “Lo
scienziato ha diritto di procedere con argomenti razionali attraverso i
vasti campi della scienza. Se la fede, ad un determinato punto, lo
avverte ch’egli non può ammettere quella che credeva una conclusione
scientifica, lo scienziato credente, sicuro che la sua fede non lo
inganna, ritorna indietro, ma non smette l’indagine; anzi la riprende
di buon animo, e troverà d’aver percorso una falsa via.”[125]
La scienza, cioè, salvo il
caso di errori sempre umanamente possibili, non può portare a
conclusioni in contrasto con la fede cristiana. Questa concezione del
rapporto tra scienza e fede era abbastanza coraggiosa per i tempi, ma
risulta perfettamente in linea con le sue convinzioni sull’argomento,
già manifestate anni prima sul caso Galileo, come si vedrà. La
tesi essenziale sostenuta dal Tredici nega che la teologia scolastica
snaturi o deformi le verità rivelate; essa si limita ad illustrare i
concetti già contenuti nelle verità rivelate, affinché si possa avere
una cognizione più chiara e completa, per quanto possibile alla ragione
umana. Egli accusa
ancora i modernisti di fraintendere il significato di fede vissuta,
quando accusano la teologia scolastica di estrinsecismo, vale a
dire di un pensiero astratto, che non sgorga dalla vita intima dello
spirito umano. Ma la vita umana, replica don Giacinto, non è solo
intuizione, sentimento e azione, ma anche pensiero razionale, che
governa e illumina l’azione e valorizza le altre facoltà umane.
Complessivamente il prof. Tredici ha dedicato al modernismo solo due
scritti specifici (gli articoli del 1913 e 1914) ma ha trattato
ampiamente il tema nei saggi sul rapporto tra teologia positiva e
teologia scolastica, oltre a vari accenni in diversi scritti di
filosofia; si può affermare che la sua interpretazione del modernismo
sia per molti versi interessante. Il filosofo Federico Sciacca scrive
che, nelle pagine di Tredici sul modernismo, “fermissime nella critica
e insieme comprensive”, sono ricostruite “con equilibrio le
circostanze esterne e interne che contribuirono al nascere e allo
svilupparsi del movimento.”[126]
In un convegno all’Ateneo di Brescia, tenuto nei giorni 1, 2 e 3
aprile 1982, specificatamente dedicato ai filosofi bresciani Bonatelli,
Varisco e Tredici, vi furono due relazioni nelle quali si cercò di
valutare compiutamente l’atteggiamento di Tredici verso il modernismo:
una più ampia di don Enzo Giammancheri, mai pubblicata, ed una più
sintetica del prof. Matteo Perrini.[127]
Perrini sottolinea come Tredici denunciò apertamente “le intemperanze
e malaccortezze di alcuni critici”, il cui atteggiamento intollerante
gli appariva indegno e controproducente e rileva che, nella crisi
modernista, accanto ad errori pericolosi e accertati condannati dalla Pascendi,
emersero esigenze reali di approfondimento e di rinnovamento. Ricorda il
prof. Perrini: “Nei quattordici anni in cui Mons. Tredici insegnò
alla facoltà Teologica di Milano (1910-1924) sperimentò in prima
persona che cosa significasse essere al centro delle opposte tendenze
della polemica modernista. Egli avvertiva che la tentazione modernista
è anche alimentata dall’arretratezza culturale di quanti non
ripensano la loro fede e la loro missione, rinunciando alla ricerca e
all’approfondimento, dimentichi del grande monito di Agostino,
secondo cui «la fede, se non
viene pensata, è nulla». Di più: i modernisti non avevano torto
nel denunciare il misconoscimento, nei programmi e nella prassi delle
scuole di teologia, della dimensione storica a vantaggio di un arido
schematismo scolastico, che nell’atto di innalzare Tommaso a punto
d’arrivo del sapere teologico (mentre egli è solo un faro) ne falsava
profondamente la dottrina. Nei suoi Diari
inediti Tredici ricorda i suoi «sdegni contro la sciagurata
campagna antimodernista di un tempo, contro il conservatorismo della Civiltà
Cattolica» (20 novembre
1923). L’esprit de finesse che
caratterizza la figura di Mons. Tredici lo induceva a non aver simpatia
alcuna per i censori e per gl’interventi restrittivi dell’autorità.”[128] 6.
Il Breve corso di storia della filosofia
Come si è visto, il Breve corso
di storia della filosofia è pubblicato nel 1909 dalla Libreria
Editrice fiorentina, nella Biblioteca della Rivista di filosofia
neoscolastica. Mentre gli Appunti avevano avuto una diffusione
limitata, il Breve corso ottiene un successo straordinario: 14
edizioni, più varie ristampe, tra il 1909 e il 1940, tenuto conto che
ogni edizione consisteva in almeno tre mila copie, sono un risultato
eccezionale per un manuale per i licei, se si considera che allora il
numero di studenti liceali non era nemmeno lontanamente paragonabile a
quello odierno. Il manuale, estremamente chiaro, era anche sintetico,
molto sintetico se paragonato a quelli attuali, ma in linea con quelli
del primo Novecento. A differenza di altri manuali del tempo, non
iniziava da Talete, ma dedicava le pagine iniziali alla filosofia
orientale, trattando sinteticamente il Bramanesimo e il Buddismo e
accennando anche al taoismo e a Confucio. La Civiltà cattolica,[129]
“la massima e più autorevole voce dell’intransigentismo cattolici
in Italia”, (secondo la definizione dello storico cattolico Pietro
Scoppola[130])
recensisce tempestivamente il libro, nello stesso anno della
pubblicazione. La breve recensione inizia con una lode: “Brevità,
chiarezza ed erudizione, pregi essenziali a un libro scolastico, vanno
congiunte nel presente manuale alla ponderatezza, e al buon senso nei
giudizi, cosa difficilissima quando si tratta specialmente di sistemi
filosofici; e di importanza somma per formare a giusti e sani criteri le
giovani menti.” Seguono immediatamente due critiche. In primo luogo:
“Non riteniamo vero che ordinariamente Aristotile sembra
accordare all’induzione incompleta soltanto un valore probabile.”
L’affermazione di Tredici, criticata nella recensione, in realtà si
inseriva nel contesto di una valutazione più generale del metodo
scientifico aristotelico. Egli sostiene: “Aristotele non esclude
l’induzione incompleta, ma ordinariamente sembra accordarle soltanto
un valore probabile. Egli però comprese la necessità
dell’induzione veramente scientifica, e ne intravide il fondamento
logico, cioè la constatazione di una proprietà spettante alla
natura, da ottenersi con ripetute osservazioni, e implicitamente ne usò
nelle sue opere di storia naturale. Non si può dire però che egli
abbia formulato esplicitamente la intera teoria dell’induzione
scientifica, e molto meno che abbia saputo indicare ed usare il grande
strumento dell’induzione, l’esperimento.”[131]
Valutazione pienamente condivisibile, che risulta del tutto conforme
allo spirito e alla lettera della dottrina dello Stagirita. La critica
appare quindi alquanto pretestuosa. Subito dopo segue una critica ben più
pesante sulle affermazioni di Tredici, relative al processo a Galileo.
Nel manuale don Giacinto aveva scritto: “Era naturale che, per le sue
innovazioni, Galileo incontrasse l’opposizione degli Aristotelici. Ma
sventuratamente costoro non furono i soli suoi oppositori. Fattosi
sostenitore della dottrina copernicana intorno al movimento della terra
(dottrina che quasi un secolo prima Copernico aveva dedicata al papa
Paolo III), incontrò viva opposizione anche da parte di teologi, che
la ritennero contraria alla S. Scrittura. Portata la questione a Roma,
nel 1616 le due Congregazioni romane dell’inquisizione (S. Ufficio) e
dell’Indice condannarono la teoria copernicana come eretica e
contraria alla S. Scrittura, vietando
di insegnarla come tesi. Ma avendola poi ancora Galileo difesa
abbastanza apertamente nel Dialogo
sopra i due massimi sistemi, nel 1633, citato al tribunale del S.
Ufficio di Roma, dopo un lungo processo fu condannato al carcere, che
subito gli fu commutato nella relegazione nella villa dell’Ambasciatore
di Toscana, poi nel palazzo dell’amico suo l’arcivescovo di Siena, e
finalmente nella stessa sua villa di Arcetri. L’applicazione della
tortura, e la frase «eppur si muove!» che Galileo avrebbe pronunciato
dopo l’abiura solenne, sono invenzioni della fantasia di libellisti.
Che dire di questo disgraziato incidente? Bisogna riconoscere
lealmente che ci fu errore da parte delle due Congregazioni romane; e se
la sentenza del 1633 fu un provvedimento disciplinare contro la persona
di Galileo per la sua insubordinazione, non si può negare che la
sentenza del 1616 condannò la dottrina stessa copernicana, falsamente
giudicandola come contraria alla fede. Ma non se ne può dedurre però
nessuna obbiezione contro l’infallibilità della Chiesa, perché
questa spetta unicamente al Papa quando parla ex
cathedra, e non alle Congregazioni Romane, anche se i loro decreti
vengono approvati in forma
communi dal Papa stesso.”[132]
La Civiltà cattolica replica nella recensione: “Andrebbe
specialmente messa meglio in rilievo la falsa posizione di Galileo, coi
suoi argomenti punto dimostrativi, di fronte a tutti gli scienziati
dell’epoca, sia cattolici come dissidenti; e la conseguente difficoltà
in cui venne a trovarsi l’autorità ecclesiastica per una questione
che nell’opinione pubblica d’allora pareva compromettere la verità
della Sacra Scrittura: il manuale del Tredici ne guadagnerà in
pregio.” Qui la critica verso Tredici è secca: il recensore della Civiltà
cattolica appare contrariato perché don Giacinto ha apertamente
ammesso l’errore della Chiesa nella condanna della teoria copernicana
(e agli inizi del ‘900 era un’ammissione coraggiosa) e vorrebbe che
venisse meglio messa in rilievo la “falsa
posizione” di Galileo! Nelle edizione successive il prof.
Tredici non modifica in nulla le affermazioni citate sul caso Galileo,
ma si limita ad aggiungere la seguente precisazione: “A spiegare, se
non a giustificare, l’avversione dei teologi, bisogna riflettere, non
solo alla loro adesione alla fisica aristotelica, ma all’apparente
contraddizione della dottrina copernicana colla S. Scrittura, in un
tempo in cui giustamente si paventavano le audacie dei Protestanti nella
libera interpretazione dei libri sacri.”[133]
Questa integrazione può apparire, almeno formalmente, un accoglimento
(molto parziale!) della richiesta della Civiltà cattolica, ma
non muta minimamente la sostanza delle valutazioni sul caso Galileo: don
Giacinto precisa infatti che queste considerazioni possono solo
spiegare, ma non giustificare, l’avversione dei teologi del tempo alla
teoria copernicana, e quindi, tanto meno, possono essere addotte per
negare l’errore delle Congregazioni romane. Gemelli dispone che il Breve
Corso venga pubblicizzato nei numeri successivi della Rivista di
filosofia neoscolastica, come altri libri della collana, ma molto
abilmente inserisce nell’avviso pubblicitario[134],
tra virgolette, solo la lode iniziale della recensione, indicandone
anche la fonte (e per il lettore cattolico medio del tempo, la Civiltà
cattolica era una fonte autorevole) mentre le critiche vengono
ignorate. In occasione della terza edizione del manuale, Gemelli
pubblica sulla Rivista di filosofia neoscolastica una
recensione da lui firmata, in cui scrive: “I nostri amici conoscono ed
apprezzano l’opera del nostro amico e collaboratore qui annunciata
nella nuova edizione. Questa terza edizione presenta notevoli
miglioramenti che rendono l’operetta più completa e più utile, il
capitolo della filosofia contemporanea, rifatto ex novo,
contiene informazioni più copiose e meglio ordinate, e, oltre dare
un’idea sufficiente, per quanto sommaria, dei principali filosofi
dei nostri giorni: Boutroux e Bergson, Croce e Gentile, Varisco e De
Sarlo, raccoglie sinteticamente quelle che si possono dire le idee
dominanti, anche attraverso i diversi sistemi (relatività della
conoscenza ed agnosticismo, immanenza ed evoluzione), e segnala le
tendenze generali della filosofia, che sono, per quanto in modo ancora
timido ed incompleto, verso una risurrezione della metafisica che Comte
credeva di aver abolito, ed anche verso la trascendenza. Più abbondanti
sono pure le notizie intorno ai risveglio della Neo-Scolastica; più
completi e precisi i giudizi intorno alle diverse filosofie.
Un’opportunissima appendice aggiunta in questa nuova edizione dà
alcuni cenni intorno alle grandi linee della filosofia religiosa, come
si è svolta nell’ultimo secolo. L’autore si è proposto di comporre
un breve manuale, che possa servire principalmente agli studenti per
informazione e guida nello studio della storia della filosofia. Crediamo
che egli abbia raggiunto lo scopo. Aggiungere a questi brevi cenni una
raccomandazione ci sembra inutile. L’operetta diffusa tra i nostri
giovani tornerà loro certo utilissima per il primo avviamento allo
studio della filosofia e servizi, anche a quelle persone di media
cultura che non hanno tempo e modo di approfondirsi nello studio della
filosofia.”[135]
Tredici ritorna sulla vicenda di Galileo nel marzo del 1914, in una
breve recensione ad un libro di p. Carrara,[136]
che adduce numerose giustificazioni alla decisione di condanna del S.
Ufficio. Nonostante il libro fosse stato giudicato molto positivamente
dal card. spagnolo Rafael Merry del Val
(potente Segretario di Stato di Pio X) con una lettera del 6
dicembre 1913, don Giacinto non esita a criticarlo esplicitamente, sia
pure con tono rispettoso e non polemico. Tredici scrive di “alcuni
apprezzamenti (al Santo Ufficio e al card. Bellarmino, nda) che
ci sembrano talvolta un poco esagerati,” che parrebbero mostrare un
“apologista ad oltranza, quantunque l’autore dichiari di non volerlo
essere.”[137]
In particolare egli critica l’interpretazione del Carrara, che tende
ad assimilare la posizione del Bellarmino a quella di uno scienziato che
critica polemicamente la tesi avversaria, facendo notare come la
condanna per eresia “tendeva a troncare la discussione”. Così
Tredici non condivide l’accusa a Galileo, mossa dal Carrara, di aver
sbagliato ad avventurarsi in questioni esegetiche, e anzi, citando
abilmente la Civiltà Cattolica, dichiara: “Non è temerario, anzi è
doveroso per un cristiano e più per un uomo di studio come era Galileo,
di bene istruirsi, come fece, su ciò che fosse da tenere nelle
questioni che interessavano i suoi studi, e saputo poteva ripeterlo a
sua difesa. Tanto più quando egli si protesta pronto a sottomettersi
pienamente alle decisioni della S. Chiesa.” Anche perché, aggiunge,
“i criteri esegetici da lui sulle prime enunciati contenevano molta
sapienza.”[138]
Qui Tredici si riferisce alla tesi di Galileo secondo la quale lo scopo
delle Scritture è di guidare l’uomo alla salvezza e non di insegnare
verità scientifiche relativamente all’astronomia. Come l’interesse
per la scienza lo muove ad indagare i rapporti tra filosofia, scienza e
religione,[139]
così
l’interesse per la storia della filosofia lo spinge a non trascurare
lo studio delle filosofie incompatibili con la neoscolastica: nel 1922,
commentando positivamente la prolusione di mons. Olgiati al corso di
metafisica che teneva alla neoistituita Università cattolica di Milano,
manifesta apertamente la sua critica a coloro che temevano la
prospettiva storica nello studio della filosofia, e si limitavano a
proporre il ritorno puro e semplice alle tesi della scolastica. Egli
afferma: “In discussioni filosofiche, spesso vivaci, svoltesi negli
anni scorsi fra nostri amici, si parlava spesso, da coloro che
sembravano assumersi il compito di rinnovatori della neo-scolastica, di
storicità contro l’astrattezza, di superamento del pensiero
filosofico moderno, contro una rigida opposizione sistematica. E la
nuova terminologia sollevava timori non ingiustificati. La storicità
opposta all’astrattezza, richiamava un’idea fondamentale
dell’idealismo hegeliano, che identificava il pensiero con la realtà,
veniva ad identificare la filosofia colla storia del pensiero umano. Il
superamento sembrava voler dire l’accettazione almeno parziale delle
dottrine avversarie, sia pure per svolgerle ad altri sviluppi e
conseguenze. Qui, nella parola scintillante ma pur posata del professore
dell’Università Cattolica, la storicità diventa solamente lo studio
dello svolgimento del pensiero nostro e altrui, da alcuni in realtà
trascurato, ma atto a far meglio conoscere il pensiero stesso anche nei
suoi rapporti logici coi principi e colle conseguenze, e nelle sue
relazioni polemiche coi sistemi avversi. […] Ben venga dunque la buona
battaglia, portata anche fuori del chiuso – troppo chiuso! – delle
nostre scuole strettamente ecclesiastiche, contro il nemico che ha
invaso troppo il campo del pensiero moderno, allontanandolo dalle
sorgenti immortali della verità e della vita.”[140]
Sempre nello stesso scritto, commentando un articolo di padre Mariano
Cordovani, docente di teologia dogmatica, sempre alla Cattolica, formula
una breve, ma severa critica all’idealismo: “L’idealismo è, non
meno del positivismo, anzi in modo più pericoloso perché nutrito di un
pensiero forte e organico, la negazione radicale del pensiero
cristiano.”[141]
Per Tredici l’idealismo, anche quello di Gentile, identificando tutta
la realtà con lo spirito, è una forma di naturalismo, come il
positivismo, ed è ateo, quantunque parli di Dio, perché lo riduce a
spirito immanente; inoltre l’idealismo nelle sue varie versioni nega
autentico valore alla religione, poiché la ritiene superata dalla
filosofia. Quale
giudizio complessivo può essere formulato sul pensiero filosofico di
Tredici? Sicuramente, insieme a Gemelli, Masnovo, Olgiati e Necchi, fu
uno dei padri della filosofia neoscolastica in Italia. Sicuramente fu il
più accreditato e convincente sostenitore delle tesi gnoseologiche del
Mercier in Italia. Ma i meriti di Tredici non si fermano qui: fu tra i
neoscolastici uno tra i più attenti alla riflessione filosofica del suo
tempo, sia verso gli autori vicini alle concezione cristiana, sia a
quelli molto lontani. Inoltre su alcuni temi, come ad esempio la critica
alla sociologia positivista o il rapporto tra scienza religione e
filosofia, anticipa alcune posizioni che poi verranno sviluppate ed
arricchite dalla successiva filosofia neoscolastica italiana. Infine, i
suoi scritti, come nota il filosofo Federico Sciacca (che non era
neoscolastico e quindi nel suo giudizio non era condizionato dalla
vicinanza di idee) sono caratterizzati da due aspetti: “…che non
sono facili a trovarsi: l’obbiettività e la serenità del giudizio e
la chiarezza dello stile. Se la filosofia è libertà di ricerca e la
libertà esclude ogni fanatismo e settarismo, nessuno può rimproverare
Monsignor Tredici di non avere rispettato la libertà della ricerca pur
nel convincimento fermo della verità della posizione speculativa che
egli ha fatto propria. Se, come scrive Vauvenargues, «la chiarezza è
l’onestà del filosofo», Monsignor Tredici è davvero uno studioso «onesto».
La sua critica non s’impenna mai e non è aggressiva: prima è
comprensiva
del pensiero altrui; la sua pagina è sempre limpida e non si
aggroviglia; anzi vuole sciogliere il groviglio delle idee e snodarsi
nell’esposizione piana e semplificata.”[142]
NOTE: [1] A. Fappani, F. Trovati, I Vescovi di Brescia, Moretto, Brescia 1982, pag. 235. Don Davide Albertario (1846-1902) sacerdote e scrittore, fu per un trentennio direttore dell’Osservatore Cattolico, quotidiano cattolico milanese. Nel 1870 il motto del suo giornale era “col Papa e per il Papa” a difesa del potere temporale dei Papi; negli anni successivi egli combatté contro le teorie rosminiane a favore del tomismo, e soprattutto contro il liberalismo politico e la massoneria. Albertario fu un deciso fautore dell’Opera dei congressi e dei comitati cattolici, ispirata agli stessi motivi di lotta aperta al liberalismo. Quando nel 1898 il ministro dell’Interno Di Rudinì sciolse oltre seimila associazioni cattoliche sotto l’accusa di sovversivismo, anche i giornali cattolici che le difendevano furono colpiti e i direttori processati. Albertario, in seguito ai moti del maggio 1898 a Milano, fu arrestato nella sua casa e condannato dalla Corte marziale a tre anni di reclusione. Quest’esperienza dolorosa accrebbe la sua popolarità, ma ne minò gravemente la salute. [2] Al tempo, l’organizzazione degli studi nella diocesi di Milano era la seguente: le scuole medie e il biennio liceale si frequentavano al Seminario minore di S. Pietro Martire a Seveso, il triennio liceale a Monza, gli studi teologici nel Seminario maggiore di Milano. [3] Archivio storico diocesano di Milano, B Y4851, fasc. “Giacinto Tredici”. [4] Card. Andrea Ferrari (1850-1921) sacerdote dal 1873, Vescovo di Guastalla (RE) dal 1890 al 1891, di Como dal 1891 al 1894, di Milano dal 1894 al 1921. Beatificato il 10 maggio 1987. [5] L. Tovagliari, I sacerdoti del Collegio, in AA. VV., Il Collegio Rotondi di Gorla Minore 1599-1999, a cura di G. Landini, Associazione ex alunni, Gorla Minore (VA) 1999, pag. 345-370, alla pag. 357. [6] Per informazioni più dettagliate sulla vita e l’opera di Giacinto Tredici si veda: M. Lovatti, Giacinto Tredici, vescovo di Brescia in anni difficili, Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia 2009. [7] M. Mangiagalli, La “Rivista di filosofia neoscolastica” (1909-1959), Vita e Pensiero, Milano 1991, vol. I, pag. 76-78. [8] G. Cosmacini, Gemelli, Rizzoli, Milano 1985, pag. 101-102; 114-116; 119-124. [9] G. Tredici, Appunti di storia della filosofia, ad uso privato del seminario di Monza; Tip. Artigianelli, Monza 1908. [10] G. Tredici, Breve corso di storia della filosofia, Libreria editrice fiorentina, Firenze 1909 (pag. VIII-216; L. 1,75). [11] La copia con la dedica manoscritta è nella biblioteca di Milano dell’Università Cattolica con la segnatura I-1-I-27. [12] AA. VV. I cinquant’anni di sacerdozio di mons. Giacinto Tredici, vescovo di Brescia, La Scuola, Brescia 1952, pag. 33-34. [13] Rivista di Filosofia Neoscolastica [RFNS], a. I, n.1, febbraio 1909, pag. 165-166. [14] A. Masnovo, Una questione di ontologia nella scuola di Lovanio, in RFNS, a. I, n.2, aprile 1909, pag. 231-240; la seconda parte è nel n. 4, dicembre 1909, pag. 547-555. [15] RFNS, a. I, n.2, aprile 1909, pag. 231. [16] Per un’analisi più puntuale della tesi di Masnovo, si veda M. Neva, Amato Masnovo (1880-1955). Un percorso filosofico, Vita e Pensiero, Milano 2002, pag. 117-121. [17] G. Tredici, Ancora il problema criteriologico fondamentale, in RFNS, a. III, n.5, ottobre 1911, pag. 546-551. [18] G. Tredici, Il problema criteriologico fondamentale, in La Scuola Cattolica [SC], a .XXXIX, s. IV, v. XIX, marzo 1911, pag. 378-385. [19]
A. Farges, Le cerveau, l’ame et les facultès, 18° ed.,
Berche et Tralin, Paris 1908, pag. 272-340. [20] G. Tredici, Ancora il problema criteriologico fondamentale, cit., pag. 547. [21] Ivi, pag. 547. [22] G. Tredici, In memoria di mons. Angelo Zammarchi, in “Scuola italiana moderna”, a. LXVII, n. 27, 20 settembre 1958, pag. 7-8. [23] G. Tredici, Ancora il problema criteriologico fondamentale, cit., pag. 549. [24] A. Masnovo, La verità ontologica e la verità logica secondo il Card. Mercier, in RFNS, a. V, n.2, aprile 1913, pag. 152-160. [25] Ivi, pag. 159. [26] A. Masnovo, Il problema criteriologico, in RFNS, a. VI, n.1, febbraio 1914, pag. 5-12. [27] Rendiconto della Società italiana per gli studi filosofici e psicologici, seduta del 2.4.1914. Una discussione intorno alla criteriologia di Lovanio, in RFNS, a. VI, n.4-5, settembre 1914, pag. 335. [28] Ivi, pag. 336. [29] Ivi, pag. 337. [30] Ivi, pag. 340-341. [31] Ivi, pag. 341. [32] Idem. [33] M. Neva, Amato Masnovo…, cit., pag. 118. [34] Nelle buste (faldoni) 1 e 2, le prime di 130 che costituiscono il Fondo Tredici. [35] G. Tredici, recensione a R. Jeannière S. J., Criteriologia, vel critica cognitionis certae, Beauchesne, Paris 1912, in SC, a. XLII, s. V, v. IV, gennaio 1914, pag. 119. [36] G. Tredici, Il Cardinale Desiderato Mercier e carattere della sua opera filosofica, in RFNS, a. XVIII, n.2-3, giugno 1926, pag. 163- 169, nel numero precedente della rivista (n.1 del 1926) Gemelli nel necrologio scrive: “Della sua opera come filosofo dirà nel prossimo fascicolo il rev. prof. Giacinto Tredici, che, se oggi ha lasciato gli studi per la vita dell’apostolato, ha sempre però tale affetto per i nostri studi, che ha voluto in questa occasione essere l’interprete efficace del nostro pensiero” (pag. 78). [37] F. Olgiati, Astrazione e concretezza, in RFNS, a. XI, n. 2, aprile 1919, pag. 101-109. [38] Ivi, pag. 102. [39] Ivi, pag. 107. [40] Ivi, pag. 109. Su questo aspetto della storicità si vedano le osservazioni di F. Manni, Croce discusso dai neoscolastici, in “Studium”, 1987, n.3, pag. 397-409. [41] Sui rapporti tra Croce e i neoscolastici italiani si veda: F. Manni, Croce discusso dai neoscolastici, cit. Quattro anni prima, padre Chiocchetti, che era stato tra i fondatori della Rivista, aveva pubblicato La filosofia di Benedetto Croce, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1915, nel quale affermava di condividere molte idee di Croce, come la tesi per cui la storia è “pietra di paragone della filosofia” e l’ateoreticità dell’errore. [42] Una discussione intorno ad astrazione e concretezza, in RFNS, a. XI, n. 3, giugno 1919, pag. 279-311. [43] Ivi, pag. 301. [44] Ivi, pag. 308. [45] G. Tredici, Il problema dell’esistenza di Dio nella filosofia contemporanea, in RFNS, a. II, n. 1, febbraio 1910, pag. 5-29; n. 3-4, luglio 1910, pag. 262-280; n.6, dicembre 1910, pag. 635-649. [46] Ivi, pag. 6. [47] W. James, The Varieties of Religious Experience: a Study in Human Nature (Gifford lectures on Natural Religion delivered at Edinburgh in 1901-1902), Longmans, London 1902; E. Boutroux, Science et religion dans la philosophie contemporaine, (1895) Flammarion, Paris 1911; H. Höffding, Religionsphilosophie, Reisland, Lipsia 1901 (don Giacinto cita queste opere sempre dalle traduzioni francesi, anche se legge anche il tedesco, come risulta dalla recensione a M. Rackl, Die Christologie des Heiligen Ignatius von Antiochien, Herder, Friburgo 1914, in SC, a. XLII, s. V, v. IV, aprile 1914, pag. 546-549, non tradotta in francese). [48] G. Tredici, Il problema dell’esistenza di Dio, cit., p. 266. [49] Ivi, pag. 267. [50] Ivi, pag. 268. [51]
D. Mercier, Criteriologie générale ou Théorie générale de la
certitude, Institut supérieur de Philosophie, Louvain 1906, pag.
253-283 e 377 e ss. [52] G. Tredici, Il problema dell’esistenza di Dio, cit., p. 269-270. [53] Ivi, pag. 639. [54] G. Tredici, La discussione sulle guarigioni di Lourdes, in SC, a. XXXVIII, s. IV, v. XVII, gennaio 1910, pag. 148-157. [55] G. Tredici, Un nuovo saggio di spiegazione dell’ipnotismo, in SC, a. XXXVIII, s. IV, v. XVII, marzo 1910, pag. 623-628. [56] A. Gemelli, Per l’evoluzione, in “Rivista di fisica, matematica e scienze naturali”, 7 (1906) n. 83, pag. 476-499; 8 (1907) n. 86, pag. 152-168; n. 91, pag. 18-29; n. 96, pag. 505-541; L. Necchi, A proposito di un nuovo libro sull’evoluzione, in SC, a. XXIV, giugno 1906, pag. 573-581. [57] G. Tredici, Ancora il Darwinismo, in SC, a. XXXIX, s. IV, v. XIX, marzo 1911, pag. 389-393. [58] G. Tredici, Una buona pubblicazione sopra L’Evoluzionismo, in SC, a XL, s. IV, v. XXII, aprile 1912, pag. 569-581. Sempre sul tema dell’evoluzione Tredici recensisce anche G. Chiarella, Problemi odierni: lettere di volgarizzazione agli studiosi. Vol. 1 – Il problema della vita, Tipografia Lega Eucaristica, Milano 1914, in SC, a. XLII, s. V, v. IV, gennaio 1914, pag. 114. [59]
AA. VV., L’évolutionnisme dans les sciences morales, Marcel
Rivièr, Paris 1911. [60] G. Tredici, Ancora il Darwinismo, cit., pag. 392. [61] A. Gemelli e G. Tredici, Le nostre impressioni sul IV congresso internazionale di filosofia, in RFNS, a. III, n. 3-4, giugno 1911, pag. 413- 436. [62] Altre informazioni sul congresso in M. Mangiagalli, La rivista di filosofia neoscolastica, cit., vol. I, pag. 160-165. [63] A. Gemelli e G. Tredici, Le nostre impressioni…, cit., pag. 423. [64] Ivi, pag. 427. [65] Ivi, pag. 432. [66] Ivi, pag. 435. [67] Ivi, pag. 436. [68]
S. Deploige, Le conflit de la morale et de la sociologie,
Istitute Supérieur de Philosophie, Louvain 1911. [69] G. Tredici, Sociologia e morale, in SC, a. XXXIX, s. IV, v. XXI, ottobre 1911, pag. 224-234. [70]
L. Lévy-Bruhl, La morale et la science des mœurs, Alcan,
Paris 1903. [71] G. Tredici, Sociologia e morale, cit., pag. 230. [72] B. Varisco, I massimi problemi, Libreria editrice milanese, Milano 1910. Varisco sarà nominato senatore dal Re nel dicembre 1928 e morirà il 21 ottobre 1933. [73] G. Gentile, Il Modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, Laterza, Bari 1909, nota a pag. 54-56 e nota a pag. 278-279. [74] G. Tredici, I massimi problemi, in RFNS, a. II, n. 2, aprile 1910, pag. 170-176. [75] B. Varisco, Ancora intorno ai massimi problemi, in RFNS, a. II, n. 3-4, luglio 1910, pag. 305-307. Segue la replica di Tredici, p.307-309. [76] Ivi, p. 307. [77] Ivi, pag. 308. [78] B. Varisco, Cristianesimo e morale, in “Cultura contemporanea”, n.1, gennaio 1911, pag. 3-16. [79] G. Tredici, Cristianesimo e morale, in RFNS, a. III, n. 1, febbraio 1911, pag. 92-96. [80] Ivi, pag. 93. [81] B. Varisco, Cristianesimo e morale, in RFNS, a. III, n. 2, aprile 1911, pag. 256-257. [82] Ivi, pag. 256. [83] G. Tredici, Cristianesimo e morale, in RFNS, a. III, n. 3-4, giugno 1911, pag. 441-444. [84] Ivi, pag. 441. [85] G. Tredici, Nuove tendenze della filosofia contemporanea, in SC, a. XLIX, s. V, v. XX, gennaio 1921, pag. 10. [86] B. Varisco, Conosci te stesso, Libreria editrice milanese, Milano 1912 [87] G. Tredici, recensione a Bernardino Varisco - Conosci te stesso, in “Analisi d’opere”, RFNS, a. IV, n. 6, dicembre 1912, pag. 779-783. [88] B. Varisco, Conosci te stesso, cit., pag. 349 e ss. [89] G. Tredici, recensione cit., pag. 782, nota 3. [90] B. Varisco, Conosci te stesso, in RFNS, a. V, n. 1, febbraio 1913, pag. 72-74; la controreplica di Tredici è alle pag. 75-77. [91] Ivi, pag. 73. [92] Ivi, pag. 74. [93] Ivi, pag. 76. [94] Ivi, pag. 77. [95] B. Varisco, G. Tredici, Per terminare una polemica, in RFNS, a. V, n. 2, aprile 1913, pag. 211-212. [96] G. Tredici, La filosofia di Bernardino Varisco, in RFNS, a. V, n. 6, dicembre 1913, pag. 586-605. [97] Ivi, pag. 595-597. [98] G. Tredici, Le condizioni attuali del pensiero filosofico di fronte alla questione religiosa, in SC, a XLI, s. V, v. I, marzo 1913, pag. 301-313. [99] Ivi, pag. 302. [100] Ivi, pag. 303. [101]
Ivi, pag. 305. [102] A. Balfour, The Foundations of Belief: Being Notes Introductory to the Study of Theology, Longmans Green and Co., London 1895. Il libro, oggi poco noto, ebbe allora vasta risonanza, cinque edizioni in un anno e fu tradotto in francese. [103] G. Gentile, Il Modernismo e l’Enciclica Pascendi, in Il Modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, cit., pag. 63. [104] Ivi, pag. 61. [105] Ivi, pag. 62. [106] G. Tredici, Teologia e filosofia scolastica, in SC, a. XL, s. IV, v. XXII, gennaio 1912, pag. 3-20. Ripubblicata come opuscolo, Tipografia Artigianelli, Monza 1912. [107] Ivi, pag. 3. [108] Ivi, pag. 5. [109] Ivi, pag. 8. [110] Ivi, pag. 15. [111] Ivi, pag. 17-18. [112] G. Tredici, Il Modernismo (nell’anniversario dell’enciclica Pascendi), in SC, a. XLI, s. V, v. III, ottobre 1913, pag. 153-169. [113] Ivi, pag. 153-154. [114] Ivi, pag. 155. [115] G. Tredici, Il problema dell’esistenza di Dio…, cit., pag. 26-27. [116] G. Tredici, Il Modernismo, cit., pag. 156. [117] Idem [118] Ivi, pag. 157. [119] Ivi, pag. 159. [120] Ivi, pag. 164. [121] G. Tredici, Variazioni modernistiche, in SC, a. XLII, s. V, v. V, maggio 1914, pag. 82. [122] Ivi, pag. 82-83 [123] Il valore della coscienza individuale era già stato difeso da S. Tommaso d’Aquino, secondo il quale l’uomo ha il dovere di seguire sempre la propria coscienza (intesa come applicazione delle norme morali ai casi concreti). [124] G. Tredici, Teologia positiva e teologia scolastica, in SC, a. LII, s. VI, v. III, aprile 1924, pag. 249-260; maggio 1924, pag. 329-343. [125] Ivi, pag. 259. [126] F. Sciacca, Introduzione a G. Tredici, Saggi filosofici e altri scritti, cit., pag. IX. [127] M. Perrini, Tredici e il modernismo, in R. Crippa (ed.), Aspetti e momenti della filosofia italiana contemporanea: Bonatelli, Varisco e Tredici (Atti del convegno sui filosofi bresciani, 1-3 aprile 1982), Ateneo di Brescia, Brescia 1982, pag. 139-142. [128] Ivi, pag. 141. [129] La Civiltà Cattolica, agosto 1909, pag. 355-356. [130] P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana, Studium, Roma 1979 (3° ed.), pag. 42. [131] G. Tredici, Breve corso, cit. (ed. 1909), pag. 28-29. [132] Ivi, pag. 119-120. [133] G. Tredici, Breve corso, cit. (ed. 1936), pag. 229-230. [134] Si veda, ad esempio, nel n. 2 dell’aprile 1911, a pag. 7 del supplemento pubblicitario (pagine a sfondo verde). [135] RFNS, a. XI, n. 2, aprile 1919, pag. 205. [136] B. Carrara S. J., Il sistema copernicano e la Santa Scrittura al tempo di Galileo, Bernardino, Siena 1913. [137] G. Tredici, recensione a B. Carrara, Il sistema copernicano… cit., in SC, a. XLII, s. V, v. IV, marzo 1914, pag. 411. [138] Idem. [139] Anche se non è possibile giustificarlo analiticamente in questa sede, ritengo che la concezione del rapporto tra sapere filosofico e sapere scientifico di Tredici sia coerente con la successiva e più articolata analisi di questo tema di Sofia Vanni Rovighi e della neoscolastica successiva. Sulla distinzione tra scienza e filosofia nella Vanni Rovighi, si veda: M. Paolinelli, Contro il monismo epistemologico. Filosofia e scienza nel pensiero di Sofia Vanni Rovighi, EDUCatt, Milano 2009. [140] G. Tredici, L’insegnamento della filosofia all’Università cattolica del S. Cuore, in SC, a L, s. V, v. XXII, giugno 1922, pag. 470-471. [141] Ivi, pag. 471. [142] F. Sciacca, Introduzione a G. Tredici, Saggi filosofici e altri scritti, Morcelliana, Brescia 1958, pag. VIII.
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tratto da: Maurilio Lovatti, Giacinto Tredici e la nascita della filosofia neoscolastica in Italia, in I. Pozzoni, Voci dall'Ottocento, Limina Mentis, Milano 2010, pag. 547 - 610
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Maurilio Lovatti, Giacinto Tredici vescovo di Brescia in anni difficili, Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia 2009, pag. 451, € 20
Giacinto Tredici, vescovo di Brescia in anni difficili
Maurilio Lovatti Indice generale degli scritti
Maurilio Lovatti Scritti di storia locale
Maurilio Lovatti, Giacinto Tredici vescovo di Brescia in anni difficili, Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia 2009, pag. 451, € 20 |