LA
STORIA. Angelo Rizzini «Copèto», umile artigiano, ospitò dal ’43 al
’45 due «sfollati». La figlia Maria oggi ricorda
Quei due ebrei braccati
salvati dai «giusti» di Magno
di
Massimo Tedeschi
Erano
Emma Viterbi e il secondogenito Paolo Il marito Guido e il primogenito
morirono nei lager Alberto è l’eroe positivo di «Se questo è un uomo»
A
Gerusalemme, al museo di Yad Vashem che ricorda la Shoah e le sue vittime,
c'è il viale dei giusti. Ogni albero ha una targa. Ogni targa ricorda un
uomo che nei giorni dell'orrore salvò un ebreo e, con esso, un poco della
sua e della nostra umanità.
A Yad Vashem il nome di Angelo Rizzini "Copèto" non c'è. Eppure
l'umile artigiano di Magno di Inzino non sfigurerebbe accanto a nomi più
celebrati (Perlasca, Wallemberg, Schindler). Certo lui non compì atti
estremi, non salvò centinaia di vite, la sua impresa non fu romanzesca.
Eppure, in perfetta semplicità, "Copèto" nascose per un anno e
mezzo a casa propria una donna e il figlio adolescente braccati sapendo, in
cuor suo, che metteva a rischio tutta la propria famiglia: la moglie
Caterina, le giovani figlie Maria, Lina e Lucia (il figlio Giovanni era in
guerra). E lo sapeva tutta Magno, probabilmente: ai trecento abitanti della
frazione di Gardone non era sfuggita la presenza di quella signora distinta,
ufficialmente "sfollata" da Bolzano, che però correva a vestirsi
da contadina quando girava voce che i tedeschi fossero vicini. Nessuno
fiatò. Emma Viterbi (questo il suo nome) e il figlio Paolo ebbero salva la
vita e vennero sottratti alla catena di lutti che già aveva ghermito il
marito, Guido Dalla Volta, e il loro primogenito Alberto.
La figura di quest'ultimo giganteggia nel libro di Primo Levi "Se
questo è un uomo". È lui l'unico eroe positivo del romanzo, uomo
"forte e mite" contro cui "si spuntano le armi della
notte". La tragedia di Guido e Alberto Dalla Volta è stata
ricostruita da Marino Ruzzenenti nel suo libro "La capitale della Rsi e
la Shoah". Nuovi particolari toccanti sono emersi dalle carte
dell'archivio diocesano grazie al lavoro di Maurilio Lovatti "Giacinto
Tredici vescovo di Brescia negli anni difficili". Ma la cosa più
illuminante - per semplicità e umanità - è il racconto che di quelle
vicende fa una dei pochi protagonisti superstiti: Maria Rizzini figlia di
Angelo "Copèto", 88 anni il prossimo marzo, mente lucida e
spirito schietto.
"MIO PAPÀ - racconta - faceva gli acciarini per i fucili, aveva
l'officina in casa a Magno. Lui conosceva uno di Gardone, un certo Seneci.
Un giorno questo, per conto del farmacista di Gardone Malfassi, gli chiese
di ospitare due sfollati". La fonte della richiesta non è casuale.
Guido Dalla Volta commerciava in prodotti farmaceutici. Dopo il suo arresto,
avvenuto l'1 dicembre del '43, il figlio Alberto si recò in Questura
offrendosi in cambio del padre per la deportazione in Germania. La polizia
arrestò anche lui e consegnò entrambi ai nazisti. Nel frattempo il
fratello minore Paolo, ammalato di tifo, venne ricoverato sotto falso nome
nella clinica San Camillo. Guarito, lui e la madre vennero avviati da una
rete di amici in Valtrompia. A Magno, appunto.
"Non so - dice oggi Maria Rizzini - se mio padre sapeva esattamente chi
ospitava. Io penso di sì. A noi non disse mai nulla, forse per paura che ci
scappasse una parola. Eravamo giovani. Noi la chiamavamo "siùra
Maria": si vedeva che era una signora. A Magno c'erano pochi sfollati
di Gardone, venivano su di sera per paura dei bombardamenti. La "siùra
Maria" si notava, era distinta".
MADRE E FIGLIO vivono in due stanze di casa Rizzini. "Facevano famiglia
a sè. Però lei si fece amica di tante donne del paese. Le piaceva
camminare. Aveva la macchina per fare la pasta: la prestava alle donne e le
aiutava a usarla. Sapevamo che il marito era stato deportato in Germania, ma
capitava a tanti altri. Lei ne parlava spesso. Era preoccupata anche per
l'altro figlio, Alberto". Dopo la guerra Emma Viterbi non si rassegnò
mai alla perdita del marito e del figlio. Finchè visse apparecchiò ogni
giorno un posto vuoto a tavola, muto segno di un'attesa destinata a rimanere
incompiuta.
Intanto, dal dicembre del '43 alla primavera del '45, la vita a casa Rizzini
scorreva in una calma carica di tensione. Soprattutto per "Copèto"
che sapeva. E taceva. "Paolo che aveva sedici anni - ricorda oggi Maria
Rizzini - stava quasi sempre in casa a studiare, poi divenne amico di Franco
Zoli. Noi abbiamo capito poco per volta chi erano, e il rischio che abbiamo
corso, soprattutto quando abbiamo saputo che il suo vero nome non era Maria
ma Emma". Con la fine della guerra le strade delle famiglie Rizzini e
Dalla Volta si sono separate: "Ci siamo sentiti ancora qualche volta,
le ho portato i confetti del mio matrimonio, mi ha mandato un regalo, poi è
arrivato il distacco". Emma Viterbi ha proseguito nella sua attesa, i
Rizzini hanno cresciuto famiglie larghe e generose. Due anni fa il sindaco
di Gardone Michele Gussago ha voluto ricordare quella vicenda, riunendo gli
eredi Dalla Volta e Rizzini. "Mi ha anche dato una targa - ricorda
Maria Rizzini - C'è scritto "Chi salva una vita salva
l'umanità"".
Forse anche per questo, nel giorno della memoria, viene voglia di dire
grazie a "Copèto" e alle sue figlie. I "giusti" di
Magno.
Massimo Tedeschi
Bresciaoggi,
Mercoledì 27 gennaio 2010, pag. 8
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