Negli anni scorsi vi
abbiamo parlato, in occasione della Santa Quaresima, della Fede e della
Speranza, virtù caratteristiche della vita cristiana. La prima è il
principio e il fondamento della nostra vita soprannaturale, che scopre alla
nostra mente il fine altissimo che Dio ci ha destinato, ed i mezzi che Egli
ha messo a nostra disposizione per raggiungerlo. La seconda ci indirizza
verso il raggiungimento di quel fine, dandone la possibilità, ed
ispirandocene, per i meriti di Gesù Cristo la fiducia.
V'è una terza virtù, eminentemente cristiana, che di quelle è il
coronamento, e dà al cristiano una singolare perfezione, che avvicina a
Dio. E' la carità, la terza delle virtù teologali.
Di questa vi parleremo brevemente quest'anno, per indicarvene tutta la
bellezza, ed importanza. Volesse il Signore che riuscissimo ad eccitare nel
vostro cuore il proposito di fare di essa la norma costante della vostra
vita! Non v'è dubbio che, se ci fosse un po' più di carità nel mondo, di
carità vera come l'intende Nostro Signore nel Vangelo, sarebbero tanto
migliori le condizioni dell'umanità, con vantaggio comune.
LA
CARITA'
Abbiamo detto che la
carità è la più alta, il coronamento di tutte le virtù cristiane. Se
essa manca, non si può più parlare di Vita cristiana.
Sentite proclamare questa verità dalla bocca del grande maestro di vita
cristiana, l'Apostolo Paolo: " Quand'io parlassi le lingue degli uomini
e degli angeli, se non ho la carità, sono come un bronzo che suona o un
cembalo che squilla. E quando avessi la profezia e intendessi tutti i
misteri e ogni scienza, e quando avessi tutta la fede, sicché trasportassi
le montagne, se non ho la carità, sono niente " (I Cor., XIII, 1-2).
Purtroppo c'è poco spirito di carità nel mondo; e anche quando si fa della
beneficenza, che sembra riprodurre la carità come è raccomandata nel
Vangelo, troppo spesso si scorona la carità della sua vera aureola
soprannaturale, la si mutua e restringe, sicché ne viene qualche cosa che
non corrisponde più, o non corrisponde totalmente, alla funzione che Dio ha
assegnato alla carità cristiana.
Lasciate dunque che vi richiami a questa magnifica virtù evangelica,
destinata ancora, per volontà divina, a portare tanto bene nel mondo, ed a
rappresentare qui, in mezzo alle nostre miserie, un po' della perfezione e
della bontà di Dio.
Che cos'è la carità? Prendiamo anche qui la nozione da quel magnifico
codice della dottrina di Nostro Signore Gesù Cristo, che è il Catechismo.
"La carità è la virtù soprannaturale per cui amiamo Dio sopra ogni
cosa, e il prossimo come noi medesimi per amore di Dio" (Catech. di Pio
X, n. 240).
Carità è dunque amore: un amore, che se ha dell'amore naturale la bellezza
e l'ardore, è tanto più alto per il motivo che è soprannaturale e divino,
ed ha un doppio oggetto Dio e il prossimo.
Oh! Se sapessimo comprendere tutta la bellezza, la santità di questo amore,
che nei disegni di Dio dovrebbe improntare tutta la vita cristiana, si
rinnoverebbero sotto i nostri occhi quegli spettacoli meravigliosi, che
hanno provocato l'ammirazione del mondo, da quando Gesù Cristo ha portato
sulla terra questa virtù, e l'ha coltivata in tante anime buone e generose.
I
LA
CARITA' VERSO DIO
Il primo oggetto della
virtù della carità è Dio. Non dimentichiamolo mai. Per quanto sia un
dovere, e un dovere magnifico, amare il prossimo, una carità che limitasse
i suoi sentimenti e le sue sollecitudini ai nostri simili e dimenticasse
Dio, non sarebbe certo la virtù cristiana della carità.
Dobbiamo dunque amare Dio? I pagani non l'avevano furie mai pensato. Per
essi Dio era l'essere potente, da cui aspettavano benefici; più ne temevano
la collera, il castigo. D'altra parte, le personificazioni della divinità
che si presentavano nelle mitologie pagane erano così poco degne, spesso
perverse. Temevano quindi Dio, cercavano di propiziarselo, lo supplicavano
nelle loro necessità. Amarlo, no. Come avrebbero amato un essere così
imperfetto, cosi lontano da loro?
Nell'Antico Testamento, il popolo eletto aveva ricevuto il comando di amare.
Ma, salvo in alcune espressioni elette, specialmente dei Salmi, prevale nei
sentimenti del popolo Ebreo il timore. Dio era il Legislatore che aveva dato
la legge fra i tuoni e i lampi sul monte Sinai, che aveva stabilito pene
severe per i trasgressori. Tutti ricordavano i castighi terribili fulminati
sugli uomini, dal diluvio all'incendio di Sodoma e Gomorra, alle stragi,
alla schiavitù mandata in punizione dell'apostasia. E cercavano di placarlo
con sacrifici.
E' con Nostro Signore Gesù Cristo, e colla rivelazione cristiana, che Dio
ha voluto manifestare la sua perfezione e la sua bontà. Egli è l'ideale di
ogni perfezione, il Santo per eccellenza, lontano da tutte le nostre
miserie, i nostri difetti, la nostra cattiveria. Egli ha creato tutte le
cose, non per un bisogno suo, ma per sovvenire alle nostre necessità, con
una sollecitudine veramente amorosa. Egli è il nostro Padre che è nei
cieli, ci insegna Gesù, e vuole che lo invochiamo con questo dolcissimo
nome. "Osservate, dice, gli uccelli dell'aria, non seminano, non
mietono, non raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre.
Ora non siete voi molto più di essi? Considerate come crescono i gigli nel
campo; essi non lavorano e non filano; tuttavia vi dico che neppure
Salomone, con tutto il suo splendore, fu mai vestito come uno di essi
". E conclude: " Se dunque Dio riveste così l'erba del campo, che
oggi è e domani vien buttata nel forno, quanto a maggior ragione vestirà
noi, o uomini di poca fede " (Matt. VI, 26-28-29-30).
Anzi, Egli estende la sua bontà a sollecitudine anche ai cattivi. E Gesù
ne prende motivo per comandare a noi di amare anche i nemici: " Amate i
vostri nemici, fate del bene a chi vi odia... affinché siate figli del
Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il sole sui buoni e sui
cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti " (Matt. V, 44-45).
A queste manifestazioni naturali di bontà, Dio ne ha aggiunte altre di un
valore ben più grande. Quel Gesù che ci parla in modo cosi commovente
della bontà e della provvidenza del Padre, è egli stesso la prova più
grande della bontà di Dio e dell'amore che ci ha portato. " Sic Deus
dilexit mundum, diss'Egli a Nicodemo, ut Filium suum unigenitum daret. Dio
ha talmente amato il mondo, da dare il suo Figliuolo unigenito " (Giov.
III, 16). Questo Figlio di Dio si è fatto uomo come noi, divenuto così la
più bella convincente manifestazione fra noi delle perfezioni divine. E lo
ha fatto per riparare alla caduta che aveva travolto tutto il genere umano.
Questa riparazione, destinata a ricondurci alla dignità di figli adottivi
di Dio, è costata all'uomo-Dio una vita di umiliazioni, una morte fra i
tormenti. Ma con quella morte è stata ridonata a tutti la possibilità di
salvarsi. E a chi vuole approfittare del frutto della Redenzione, Dio
promette un premio, che è Lui stesso, veduto, amato, posseduto in tutta la
sua bellezza e perfezione, che diventano il nostro godimento per i secoli
eterni.
Tutte queste cose, che ogni cristiano conosce, e gli infiniti mezzi di
bontà e di misericordia, nei quali si attua il disegno misericordioso di
Dio a nostro riguardo, ci danno di Dio un tale concetto, che amarLo di un
amore vivo, devoto, riconoscente, diventa insieme un dovere e un bisogno del
nostro cuore, che è potenza di amore verso ogni cosa buona.
IL
PRECETTO DELLA CARITA'
Di questo amore verso di
Lui, Dio ci ha fatto un espresso comando. A un dottore della Legge, che
l'aveva interrogato quale fosse il più grande comandamento della legge
divina, Gesù rispose ricordando le parole già scritte nella legge antica:
" Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua
anima, con tutta la tua mente " (Matt. XXII; 37; Deut. VI; 5).
Vedete la potenza di queste parole. Qui Gesù non solo ci presenta il
comando di amare Dio, ma ce ne indica il modo. Quando si tratta di un essere
infinitamente perfetto e buono come è Dio, l'amore nostro per Lui non può
essere un sentimento vago e superficiale. E' tutta l'anima nostra che deve
tendere a Lui: lo deve avere in cima ai propri pensieri, in fondo al suo
cuore; sicché non vi sia altro oggetto che possa sostituirsi a Lui; pronta,
la nostra anima, a rinunciare a qualunque cosa per non perdere l'oggetto
primo e più alto del suo amore, che deve essere Dio.
Questo comando di amare Dio, formulato in termini cosi gravi ed assoluti,
basta ad orientare tutta un'esistenza. " Si diligitis me, mandata
mea servate " dice il Signore: " Se mi amate osservate i miei
comandamenti " (Giov. XVI; 15).
Ed allora, il cristiano che sa di dover amare Dio sopra ogni cosa, osserva
con diligenza la sua legge e tutta la sua vita si dirige su una linea di
onestà e di virtù, perfetta in se stessa e sicura, perché fondata sulla
legge di Dio, ed amata nell'amore che si porta a Dio stesso. Che si può
pensare di più alto, di più atto a nobilitare la vita umana, in mezzo alle
sue debolezze ed alle sue miserie? Mai nessun surrogato umano, in nome della
filosofia, della solidarietà, del progresso, potrà avere una simile
sicurezza cd efficacia.
DIO NON
E' AMATO
Ecco, figli dilettissimi,
il gran precetto dell'amor di Dio, parte precipua della carità: il maximum
mandatum, il più grande e primo comandamento (Matt. XX; 38) come lo
chiamò Gesù. Senza di esso, la vita cristiana non ha senso, la vita umana
è monca e disorientata.
Come si osserva il comandamento della carità verso Dio?
Pur troppo, invece di amare il Signore, molti lo odiano. Cosa mostruosa a
pensare! Come si può odiare la perfezione, la bontà? Eppure noi udiamo le
bestemmie dei senza Dio, le mene da essi continuamente tese, con una
propaganda internazionale, per sradicare l'idea stessa di Dio dalla mente
delle masse popolari, presentando come strumento di tirannia l'idea di Dio e
la religione, che invece sono fonte e garanzia di ordine e di bontà.
Ma se questa è una cosa mostruosa, e non si concepisce se non come una
aberrazione della intelligenza, che dire di coloro che, pur credendo in Dio,
vivono come se Egli non ci fosse, non avendo per Lui nè un pensiero, nè un
palpito, trasgredendo con la massima indifferenza la sua santa legge,
offendendoLo col peccato?
San Paolo si indignava al solo pensiero che non si amasse il Signore, e
riferendosi a Cristo, Dio fatto uomo, che è la manifestazione più evidente
e più bella della bontà di Dio, esclamava:
" Si quis non amat Dominum Nostrum Iesum Christum, sit anathema;
Se alcuno non ama il Signor nostro Gesù Cristo, sia maledetto " (I
Cor. XVI; 22). E riaffermava con vigore tutta la incrollabile adesione della
sua mente, della sua volontà, di tutto il suo essere all'amore per il suo
Dio: " Chi ci dividerà dunque dalla carità di Cristo? Forse la
tribolazione, o l'angustia, o la fame, o la nudità, o il pericolo, o la
persecuzione, o la spada?... Poiché io sono sicuro che nè la morte nè la
vita.., nè le cose presenti, né le future, nè fortezza o altezza o
profondità, nè alcun'altra cosa creata, potrà separarmi dalla carità di
Dio, in Gesù Cristo Nostro Signore " (Rom. VIII; 35-38-39).
COME SI
AMA DIO
Le parole ora ricordate di
S. Paolo ci indicano il vero modo di amare il Signore. Adesione a Lui, alla
sua volontà, alla sua legge. E' la parola che abbiamo già sentito sulle
labbra di nostro Signore Gesù: " chi osserva i miei comandamenti,
questi è che mi ama " (Giov. XIV; 21).
L'osservanza amorosa, filiale, della legge divina, porta sempre ordine e
serenità nelle coscienze. Ma talvolta l'osservanza è difficile, impone
sacrifici, prepara sofferenze. Si presenta, così, alta alla nostra mente la
figura magnifica del martire, che per essere fedele a Dio, soffre ogni sorta
di tormenti, dà anche la vita. Questa è la massima prova dell'amore:
" Nessuno, ha detto Gesù, ha carità più grande di colui, che dà la
vita per i suoi amici (Giov. XV; 13). Così ha fatto Gesù per noi; beati i
martiri che hanno potuto rendergli il contraccambio.
Ma anche senza arrivare a questo punto, se le circostanze non lo esigono,
Dio tien conto anche di una vita oscura, modesta, passata nell'esercizio
delle virtù comuni, nell'osservanza dei propri doveri, nello stato che Dio
ha fissato a ciascuno. E Dio promette la ricompensa, la quale in cielo
consisterà in un amore che si perpetuerà perfezionandosi nel godimento di
Dio.
Si ama il Signore, intrattenendosi con Lui con sentimenti di lode, di amore,
facendolo con sollecitudine l'oggetto dei nostri pensieri. La sacra
liturgia, modello autorizzato di una vera pietà, è piena di questi
sentimenti. Che cosa di più ragionevole, di più bello, che intrattenerci
in questo modo con Dio, che ci è sempre presente? Ma come perdono ogni
valore queste pratiche sante di pietà, quando diventano un'espressione
meccanica, esteriore, senza che vi partecipi la mente, il cuore!
Chi ama veramente Dio, come sente la gioia di vederlo amato ed onorato,
così sente come un male proprio, ogni offesa che a Lui si faccia. E come,
potendolo, vorrebbe impedire l'offesa di Dio, così cerca offrirgli una
riparazione, opponendo all'odio, alla dimenticanza, alla trasgressione della
legge, una maggior cura di tutto quello che gli può essere grato.
L'amore di Dio porta a desiderare che Dio sia amato anche dagli altri. E' la
magnifica petizione che Gesù ci ha messo sulle labbra nella sua preghiera: adveniat
regnuni tuum. Venga il tuo regno, in tutto il mondo, in tutte le menti,
in tutti i cuori. E se è già un atto di amore il desiderare il trionfo di
Dio nelle sue creature, l'amore non se ne accontenta, e secondo le proprie
possibilità, cerca di promuovere realmente questo regno di Dio nelle anime.
E' l'apostolo, che impronta tutta la vita di San Paolo, il quale sacrifica
per questo tutte le cose sue e la vita stessa: " Impendam et
superimpendar ipse " (Il Cor., XII, 15).
L'apostolato propriamente detto, nell'uso dei mezzi stabiliti da Cristo per
la nostra santificazione, è stato affidato alla gerarchia della sua Chiesa.
Ma tutti sono chiamati a coadiuvare, coi mezzi che ciascuno ha a sua
disposizione, a quest'opera santa. Oh !se tutti i cristiani sentissero come
un atto di amore, come un dovere di riconoscenza verso Dio, il partecipare
all'apostolato cristiano, a cui la Chiesa chiama tutti i suoi fedeli! Questo
è il senso e lo scopo. dell'Azione Cattolica, che la Chiesa ha definito:
una partecipazione del laicato all'apostolato gerarchico.
Dio ci ha comandato di amarLo con tutto il cuore, con tutta la mente, con
tutta l'anima, con tutte le forze, (Matt. XXII, 37; Deut. VI, 5).
Vergogniamoci di amarlo così poco, così fiaccamente.
II
LA
CARITA' VERSO IL PROSSIMO
Dopo d'aver risposto al
dottore della legge, che il primo comandamento era di amare Dio sopra ogni
cosa, Gesù continuò:
" Il secondo comandamento è simile al primo: amerai il tuo prossimo
come te stesso " (Matt. XXII, 39).
Può quindi tranquillarsi chi temesse che, spingendo il nostro amore su,
fino a Dio, la carità cristiana venisse per ciò stesso ad attutire la
nostra sollecitudine verso i nostri simili. Anzi, avviene proprio il
contrario. E' precisamente perché ha amato Dio sopra ogni cosa, che il
cristiano sente di dover amare il suo prossimo, d'un amore tenero insieme e
generoso, sapendo che amando questo, egli osserva un primo comando che gli
viene da Dio.
Studiamola questa carità verso il prossimo, come ci vien comandata da Dio,
per vederne tutta la bellezza e la portata individuale e sociale.
MOTIVO
DELL' AMORE DEL PROSSIMO
Possiamo dire di essere
portati ad amare il prossimo dalla naturale somiglianza che lo avvicina a
noi. Talvolta anche da vincoli speciali di parentela, di solidarietà, di
riconoscenza. Ma questi motivi sono imperfetti, spesso limitano il nostro
amore, e gli danno un carattere in certo modo egoistico.
La virtù cristiana della carità ha invece un altro motivo, ben più alto,
essa ama il prossimo per amor di Dio.
Lo ama perché Dio ci comanda di amarlo. Troviamo il comando di amare il
prossimo anche nell'antico Testamento.
Ma la dura mentalità di quel popolo, e le cattive interpretazioni
farisaiche della legge, avevano ristretto la portata di quel comando divino.
Nostro Signore Gesù Cristo nel suo Vangelo ha riconfermato il precetto
dell'amore, fino a farne una cosa particolarmente sua, una caratteristica
dei suoi discepoli, la misura della partecipazione al suo spirito. "Mandatum
novum do vobis ut diligatis invicem, sicut dilexi vos. Dò a voi un
nuovo comandamento, che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato
". E ancora: " in hoc cognoscent omnes quia discipuli meis
estis, si dilectionem habueritis ad invicem. Da questo conosceranno
tutti che siete miei discepoli, se avrete amore l'uno per l'altro "
(Giov. XIII; 34-35).
La carità ci fa amare il prossimo, perché al lume della fede, ci mostra
nel nostro simile una creatura di Dio, oggetto di uno speciale amore da
parte di Lui: una creatura a cui Dio ha voluto comunicare in certa misura
qualche cosa della sua perfezione, stampandovi l'impronta di una somiglianza
con Lui (Gen. I; 26). Nulla vi è di più bello nell'amore al nostro simile
di questo altissimo pensiero. Così si può dire con verità che si ama Dio
stesso nella sua creatura: e si verifica pienamente la classica definizione
della carità cristiana: amare il prossimo per amor di Dio.
Nostro Signore Gesù Cristo ha voluto ribadire questo concetto altissimo, di
amare Dio nella sua creatura, dichiarando che considererà come fatto a se
stesso tutto il bene che faremo al prossimo. Rileggete una drammatica pagina
del Vangelo nella quale questa affermazione è fatta con chiarezza ed
insistenza.
Il Maestro descrive la scena del giudizio finale. Tutti gli uomini saranno
adunati davanti al Figliuolo dell'uomo, che è Lui stesso, Gesù, per udire
la sentenza. " Allora Egli dirà a quelli che saranno alla sua destra:
venite benedetti dal Padre mio, prendete possesso del regno preparato a voi
fin dalla fondazione del mondo ". E ne fa seguire i motivi:
"Perché ebbi fame, e mi deste da mangiare; ebbi scie e mi deste da
bere; fui pellegrino e mi ricettaste; ignudo, e mi vestiste; ammalato, e mi
visitaste; carcerato e veniste da me. Allora gli risponderanno i giusti:
Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da
mangiare, assetato e ti demmo da bere? quando ti abbiamo veduto pellegrino e
ti abbiamo veduto ammalato o carcerato, e venimmo a visitarti? e il re
risponderà a loro: in verità vi dico: ogni volta che avete fatto qualche
cosa per uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l'avete fatta a me
" (Matt. XXV; 34-40).
I Santi hanno compreso questo motivo soprannaturale, divino, che la carità
cristiana dà all'amore del prossimo. Di qui si spiega l'ardore con cui si
davano alle opere di beneficenza, la sollecitudine, il rispetto che
dimostravano verso i bisognosi, fino ad inchinarsi davanti a loro, a
chiamarli i propri padroni, qualche volta a baciare i loro stracci e le loro
piaghe. Di qui si spiega pure il persistere di questo amore anche di fronte
alla ingratitudine. Quando si ama per amore di Dio, la persona del nostro
simile quasi scompare, i suoi torti non contano, perché Dio, che si ama nel
prossimo, non ha mai nessun torto verso di noi, anzi ha sempre infiniti
titoli per essere amato.
Potrebbe sembrare che questo motivo della somiglianza divina non potesse
trovare applicazione in certi poveri esseri, che la degradazione morale ha
privato di ogni attrattiva, quasi togliendovi ogni immagine della bontà di
Dio. Ma la fede suggerisce che anche nell'uomo più abbietto e perverso la
somiglianza di Dio non è radicalmente tolta, ma solo offuscata, deturpata
dalle colpe. Ed allora la carità cristiana, lungi dal rifuggire inorridita,
troverà anzi nella creatura che così le si presenta un nuovo motivo per
farla oggetto del suo amore e delle sue sollecitudini, onde ridonare a quel
povero essere l'antico splendore e rimettere in onore l'immagine di Dio, che
sta sotto a quelle brutture, come un restauratore di opere d'arte si adopera
volentieri intorno ad un quadro antico, quando ha potuto riconoscere, sotto
le rovine del tempo e dell'imperizia umana, il capolavoro di un grande
artista, che egli vuole rimettere in luce.
CHI SI DEVE AMARE
Altissima nel motivo che
l'ispira, la carità cristiana è senza limiti nell'oggetto a cui si
estende. Nessuna creatura umana ne è esclusa: tutte essa ama, perché tutte
sono creature di Dio, fatte a sua immagine e somiglianza.
Il popolo ebreo, di fronte al comando contenuto nella legge, aveva trovato
modo di restringere il proprio amore agli amici, escludendone i nemici. Noi
troviamo l'eco di questa restrizione nel Vangelo, dove, nel discorso della
Montagna, Gesù riferisce, per correggerle, le massime correnti : "
Udiste che fu detto: amerai il prossimo tuo, e odierai il tuo nemico ".
E il maestro corregge: " Ma io vi dico amate i vostri nemici; fate del
bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che vi perseguitano e vi
calunniano " (Matt. V; 4344). E di questo amore per i nemici, nella
preghiera fatta per essi, Gesù ha poi dato magnifico esempio sulla croce,
mentre stava per morire.
Neppure la carità cristiana si ferma, nel suo amore, alle differenze di
razza e di nazionalità. Nella magnifica parabola del Samaritano, Gesù
risponde alla domanda rivoltagli da un dottore della legge: " Chi è
mio prossimo? ". E mostra appunto le sue preferenze e la sua
approvazione per il buon samaritano, che, non ostante la differenza di razza
e i cattivi rapporti esistenti fra i Samaritani e i Giudei, si prende cura
dell'uomo che era stato ferito e lasciato semivivo dai ladroni (Luc., X;
29-37).
Gesù non esclude dal suo amore i peccatori; anzi, sfidando lo scandalo dei
Farisei, mostra per essi le sue preferenze, e dichiara di essere venuto
specialmente per loro, per ricondurli al Signore: " Non veni vocare
iustos, sed peccatores " (Matt. IX; 13).
Questa estensione senza limiti assegnata all'oggetto della carità, non
esclude però che ci sia una gradazione, una gerarchia, nell'amore, in
corrispondenza ai legami più o meno stretti che ci uniscono al nostro
prossimo.
E dapprima, noi amiamo di un amore speciale noi stessi.
C'è un amore di sè che si chiama egoismo, ed è cosa eminentemente
anticristiana, riprovevole. E' l'uomo che si chiude in se stesso, fa di sè
come un idolo, a cui sacrifica ogni altro affetto, le persone stesse che gli
stanno dintorno, e che per lui non sono che mezzi per riuscire nei suoi
intenti. Non v'è nessuna persona ragionevole che approvi una tale
degenerazione dell'amore di sè, eminentemente antisociale e inumana; anche
se, purtroppo, l'egoismo è il programma di troppi nella pratica della vita;
anzi, siamo tutti in qualche momento egoisti, quando, preoccupati dei nostri
interessi materiali, ci scordiamo del precetto cristiano della carità.
Ma c'è un amore di sè che è buono, doveroso anzi. Mancherebbe infatti al
fine stesso della creazione, chi, messo al mondo con un tesoro prezioso di
facoltà, e indirizzato al fine della vita eterna, non si prendesse cura di
raggiungere questo fine, acquistando le virtù cristiane, ed assicurando la
salvezza dell'anima propria, della quale dovrà rendere stretto conto a Dio
Creatore.
Fra tutte le persone che ci circondano, e che noi abbracciamo con spirito di
immensa carità, dobbiamo prima amare quelle che formano la nostra famiglia:
genitori, figli, fratelli, parenti. Ciò è nella natura delle cose,
conseguenza di quella altissima funzione che Dio ha assegnato alla famiglia,
destinata ad essere la prima cellula costitutiva della società, e che non
può compiere la sua funzione, se non vi alita un'onda preziosa di purissimo
affetto, di solidarietà nelle aspirazioni, nei bisogni.
L'AMORE
DI PATRIA
E come fra tutte le persone
con cui noi possiamo essere in rapporto, noi dobbiamo amare la nostra
famiglia, così, allargando il nostro sguardo sul mondo, fra tutti i popoli
e le nazioni noi dobbiamo amare di un amore speciale la nostra patria, che
è come la nostra famiglia più grande, in mezzo alle famiglie delle altre
nazioni.
La patria è il paese dove siamo nati e siamo stati educati; dove hanno
vissuto i nostri maggiori, dove abitano altri cittadini, altre famiglie
strette a noi per vincoli di interessi, d'indole, di tradizioni, di lingua,
di civiltà; dove siamo chiamati ad esercitare la nostra attività, portando
agli altri il contributo dell'opera nostra, e ricevendone aiuti, per
condizioni comuni di esistenza, per esempio, per una comune organizzazione
di difesa, Come siamo stretti al nostro paese e ai nostri concittadini da
interessi comuni, è naturale che tutti ci sentiamo di dover subordinare i
nostri interessi, la nostra stessa libertà.
Ecco quindi che qui si verificano le condizioni per cui il precetto
dell'amore del prossimo ci obbliga verso la nostra patria e i nostri
concittadini, prima che verso gli altri popoli e le altre nazioni.
La dottrina cristiana, però, ci insegna che, come ogni nazione ha ricevuto
da Dio speciali caratteristiche per compiere una speciale funzione nel
mondo, così tutte devono considerarsi chiamate a collaborare ad un
risultato comune, che è la civiltà universale del consorzio umano. Non
devono quindi considerarsi come in necessario antagonismo, coll'intendimento
di soverchiarsi a vicenda, in una continua lotta di armi e di interessi.
Come la concordia è la condizione normale di ogni famiglia e di ogni
singola nazione, così la pace dev'essere l'aspirazione di tutti i popoli,
in una comune collaborazione, che porti ad integrare l'uno con l'altro il
compito assegnato a ciascun popolo dalla Provvidenza. La guerra non può
essere che una condizione di cose anormale, frutto di uno squilibrio
momentaneo, che tutti devono cercare di ricomporre in un superiore desiderio
di collaborazione fra i popoli.
Così il cristiano ama intensamente la sua patria, ne vive le glorie, ma al
di là delle frontiere, delle differenze di lingua, aspira a considerarsi
fratello degli altri uomini, tutti figli del medesimo Padre.
BENEFICENZA
CRISTIANA
Il vero amore - e la
carità ispirata da Dio lo è più di qualunque altro amore - non può
consistere in un semplice sterile sentimento di compiacenza. Come, amando
Dio, noi siamo portati a desiderare e procurare, per quanto ci è possibile,
che Egli sia amato, onorato, ubbidito da tutti, così, amando veramente il
prossimo, dobbiamo cercare di procurargli il suo bene, anzi quello stesso
bene che desideriamo per noi.
Il Vangelo è pieno di questo insegnamento. Ricordate la scena del giudizio
finale che vi ho citato sopra. E' il giudice che premierà per le opere di
misericordia che avremo fatto in vita. E l'apostolo della carità, 8.
Giovanni, ce lo ripete: " Figliuoli miei, non amiamo a parole e colla
lingua, ma coll'opera e con verità "(I Giov. III, 18). E ci richiama
all'esempio del Divin Salvatore: " Da questo abbiamo conosciuto la
carità di Dio, perché Egli ha dato la sua vita per noi; e anche noi
dobbiamo dare la vita per i fratelli ". E ancora: " chi avrà dei
beni di questo mondo, e vedrà il suo fratello in necessità, e gli
chiuderà il suo cuore, come la carità di Dio dimora in lui? " (Ivi,
16-17).
La storia della carità cristiana è la storia della beneficenza, in tutte
le sue infinite forme, dalle più grandiose alle più minute. Chi non ha
visto tanti ospedali, ospizi, ricoveri d'ogni sorta, in-cominciati all'ombra
di una Chiesa, per iniziativa di anime sante, piene della carità di Nostro
Signore? Anche la nostra città ne è abbondantemente fornita. Chi risale
alle origini, trova le anime generose di S. Carlo Borromeo e del venerabile
Alessandro Luzzago associate nella fondazione della Casa di Dio (nome così
bene scelto e così profondamente cristiano!); di S. Girolamo Emiliani, il
padre degli orfani, fondatore del nostro Orfanatrofio maschile, e un gruppo
di pii confratelli adunati in opere di pietà e di carità, iniziare, coi
loro contributi personali, quell'opera insigne che fu ed è la Congrega
della Carità Apostolica, onorata poi dalla fiducia di tanti benefattori,
che continua ancora fra noi, con animo aperto ad ogni necessità, una
assistenza ispirata alla carità cristiana. E, in tempi più recenti, senza
bisogno di ricordare i nomi, noti a tutto il mondo, di quegli eroi della
carità, che furono
S. Giovanni Bosco e S. Giuseppe Cottolengo, noi abbiamo avuto qui una
fioritura di veri organizzatori della carità ispirata al Vangelo: le beate
Capitanio e Gerosa e la venerabile Di Rosa per l'assistenza ai malati e per
l'educazione della gioventù femminile; il venerabile Pavoni e il P.
Piamarta per l'educazione morale e professionale della gioventù maschile;
oltre tutti quei numerosi istituti religiosi maschili e femminili, che
distribuiscono, quasi in ognuno dei nostri paesi, anime votate alle
molteplici opere della carità, e quegli altri benemeriti portatori della
carità di Cristo, che sono i confratelli e le consorelle delle Conferenze
di S. Vincenzo.
Vogliamo aggiungere che anche tutte le altre opere di assistenza che sono
diventate una funzione di Stato, e che con abbondanza di mezzi sopperiscono
a tanti bisogni, lo fanno perché la civiltà cristiana, che in molti suoi
elementi forma ancora tanta parte della civiltà nostra, ha fatto penetrare
nella coscienza pubblica la bellezza e il dovere di venire in soccorso dei
bisognosi. E constatiamo con compiacenza, come naturale espressione dello
spirito di carità, da cui la pubblica assistenza deriva, che quando si
tratta di trovare chi con diligenza e con bontà attui quella funzione
sociale, spesso si fa appello a religiosi e religiose, che allo spirito
della carità di Nostro Signore più facilmente sanno ispirarsi.
Non crediamo però che la pubblica assistenza, diventata f unzione di Stato,
possa esaurire tutto il dovere di aiuto, che per volontà di Dio, si deve ai
bisognosi. Restano e resteranno, inevitabilmente, delle lacune: il bisogno
ha forme molteplici, che non sempre possono entrare nei quadri dei
regolamenti; spesso si nasconde, perché vergognoso, per pregiudizio od
anche per un ragionevole riserbo. E così resta sempre un campo notevole per
la carità privata.
E l'elemosina, fatta bene, con umiltà, con gentilezza e riserbo cristiani e
accompagnata dalla parola dell'amore, non deve essere considerata, come
falsamente si è detto, una cosa umiliante, una funzione ormai sorpassata.
No, essa è un fiore genti le che spunta dall'amore che si porta al proprio
simile, attraverso all'amore di Dio distributore di ogni bene; è una goccia
di balsamo, che viene a posarsi su ferite ignorate, resa dolce da un affetto
di fratello che soccorre il fratello: " frater qui adiuvatur a
fratre! " (Prov. XVIII; 19).
CARITA' E GIUSTIZIA SOCIALE
Non è carità soltanto
provvedere il necessario ai bisognosi che non sono nella possibilità di
procurarselo. Perché 1'amore ai nostri simili non ci porterà anche a
volere che tutti possano avere, senza che sia loro impedito, quello a cui
hanno diritto?
Ecco che rientra così nel motivo generale della carità anche lo sforzo di
promuovere e difendere una più completa giustizia sociale.
Non possiamo qui entrare nei dettagli del problema della giustizia sociale,
perché il discorso ci porterebbe troppo lontano. Ma a tutti sono noti i
generosi e illuminati appelli dei grandi Pontefici Leone XIII e Pio XI
perché, di fronte alla gravità della questione sociale, tutti sentissero
il dovere di avviare ad una soluzione che tenesse il giusto conto dei
diritti e dei bisogni di tutti, e specialmente delle classi lavoratrici,
più esposte, perché più deboli, a vedersi escluse da una conveniente
partecipazione dei frutti della produzione della ricchezza. Ed ammoniva
saggiamente il regnante Pontefice, che un trattamento equo delle classi
lavoratrici sarà uno dei mezzi più efficaci per scongiurare i cataclismi
spaventosi che sono minacciati dal comunismo ateo e rivoluzionario.
La questione, nelle sue applicazioni concrete, è poderosa e spesso non
facile. Ma è facile intuire che, solo quando nella trattazione dei propri
interessi e dei rapporti fra le classi sociali si porterà uno spirito
animato dalla carità di Cristo, sarà più facile avviare un pacifico e
conveniente assetto della questione sociale. Alla luce della carità
evangelica è più facile avere una visione esatta dei grandi doveri che
accompagnano la proprietà, sostituire alla lotta di classe una ragionevole
e proficua collaborazione, ad un esercito di lavoratori che mordono il freno
di una disciplina ferrea, preferire la nobile ambizione di una paternità
che, senza sopprimere la necessaria disciplina, ama vedere nei lavoratori
una grande famiglia di collaboratori fidenti, grati di vedersi compresi nei
loro bisogni.
Non sarà inutile ricordare che il tempo più difficile nei rapporti fra le
classi sociali fu il secolo scorso e l'inizio del presente, che corrisponde,
sì, all'invenzione ed allo sviluppo della macchina che portò problemi e
complicazioni nuove, ma anche ad un progressivo e funesto allontanarsi della
vita pubblica da ogni influenza cristiana. In antecedenza, i rapporti fra le
classi, organizzate nelle corporazioni, si ispiravano di più al concetto
cristiano di amore. E ora si vede, in un ritorno a un concetto più organico
della economia, la speranza di una sistemazione migliore. Faccia Iddio che
questo spirito di collaborazione trovi il suo alimento in una grande ondata
di amore cristiano, amore che non può trovare le sue radici che nella fede.
"NON
DI SOLO PANE…. "
Quando si parla di carità,
sembra quasi che non si intenda che elemosina o aiuti materiali. Questo è
un errore, specialmente fra cristiani. Se la carità è amore, ed amare vuoi
dire volere il bene del prossimo, non dobbiamo dimenticare che vi sono, per
noi e per i nostri simili, beni più grandi dei beni materiali: vi sono i
beni dello spirito. E' dunque opera di carità promuovere il bene spirituale
del prossimo.
E' carità dare un'educazione buona, cristiana, ai fanciulli, ai giovinetti,
a coloro che si preparano alla vita.
Lo comprendano i genitori, che hanno da Dio in deposito quei sacri pegni, di
cui Dio domanderà conto strettissimo; i Sacerdoti che ne hanno avuto il
mandato dalla Chiesa; tutti gli educatori. Dalle loro cure può dipendere
l'orientamento di una giovane vita, la sorte eterna di molte anime.
E' carità la correzione fraterna, fatta con dolcezza e discrezione. "
Se il tuo fratello, dice Gesù nel Vangelo, abbia commesso mancamento contro
di te, va' e correggilo tra te e lui solo. Se egli ti ascolta, avrai
guadagnato il tuo fratello " (Matt. XVIII; 15).
E' carità impedire gli scandali che travolgono tante anime. Si assiste con
raccapriccio a tanti spettacoli sconvenienti in certi teatri e
cinematografi, dove si presenta il male in forma seducente per tante anime,
specialmente giovanili, che ne ricevono una impressione funesta; a tanti
ritrovi dove si organizzano balli, dove la gioventù, anche di minore età,
è chiamata, forse per l'intera notte, e vi trova i primi contatti e le
prime esperienze che possono segnare l'ingresso nelle vie del male; a tante
pericolose promiscuità negli stabilimenti, aggravate dagli orari notturni.
Non sentiranno, tutte le persone oneste che vi hanno una qualunque
responsabilità, il dovere di adoperarsi per impedire la rovina di anime
redente dal sangue di Cristo? "Guai all'uomo, per colpa del quale viene
lo scandalo" (Matt. XVIII; 7) ha detto il Maestro.
E' carità pregare per tutti quelli che hanno bisogno dell'aiuto di Dio. E'
bello vedere con quanta insistenza 8. Paolo dichiara di pregare per i fedeli
a cui scrive, e si raccomanda alle loro orazioni. E così dobbiamo fare
tutti, per i bisogni della Santa Chiesa, delle anime sofferenti, o in
pericolo. Opera squisita di fede e di carità.
* * *
Figli dilettissimi, vi
abbiamo richiamato, per sommi capi, il gran precetto della carità, come
Gesù ce lo ha inculcato. La carità è veramente la regina delle virtù.
Essa dà alla vita cristiana l'impronta più caratteristica, e, mentre
innalza il tenore della nostra vita terrena ad un'altezza soprannaturale,
non ci abbandona neppure nell'altra vita. Ce lo dice l'Apostolo, in un
magnifico capo della sua prima lettera ai Corinti, dove, dopo d'aver fatto
il panegirico della carità e d'averne magistralmente descritte le
prerogative, conclude: " La carità non viene mai meno " (I Cor.
XIII; 8). Essa infatti ci accompagnerà anche in paradiso, dove costituirà
la stessa nostra beatitudine, nell'amore senza limiti della infinita Bontà.
Possa davvero questa divina virtù, vera partecipazione della bontà di Dio
fra noi, diffondersi ed impadronirsi di tutti gli uomini, che si amano
troppo poco, si odiano, si combattono, e cosi non trovano un momento di
riposo e di felicità.
" Grazie a Voi e pace, da Dio Padre Nostro, e dal Signore Gesù Cristo
" (Rom. I; 7).
Brescia. 15 febbraio
1938.
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