Alcune
pagine dal capitolo 1 (pag. 20 - 29)
Mons. Tredici abbandona l'insegnamento,
diventa parroco e poi vicario generale
Nel 1922
concorre alla parrocchia cittadina di S. Andrea, nella zona di corso di
Porta Romana, non lontano dalla sua parrocchia nativa. Tuttavia
l'Arcivescovo, mons. Eugenio Tosi, gli comanda di rimanere in Seminario ed
egli obbedisce. Non abbiamo documenti che spieghino perché egli volesse
abbandonare l'insegnamento e dedicarsi interamente all'attività
pastorale. Si possono solo formulare delle ipotesi. Sappiamo che nel 1916
la morte al fronte del fratello minore Carlo, sottotenente di complemento,
lascia in lui un grande dolore e un segno indelebile.
Non siamo in grado di ricostruire il tormento di Tredici per la scomparsa
del fratello. Possiamo però comprendere meglio il suo stato d'animo se ci
riferiamo a situazioni in qualche modo analoghe. Possiamo ad esempio
richiamare la dolorosa esperienza dello scrittore Carlo Emilio Gadda, il
cui fratello Enrico, al quale era particolarmente affezionato (come
Giacinto per Carlo), muore nel corso della prima guerra mondiale. Lo
scrittore apprende all'improvviso della morte di Enrico il 14 gennaio
1919, quando torna a Milano, dopo un lungo periodo di prigionia in
Germania. Così racconta nel diario:
"Ed Enrico dov'è, come sta Enrico? Mi risponde piangendo la mamma […]
La tragica e orribile vita. Non voglio più scrivere; ricordo troppo.
Automatismo esteriore e senso della mia stessa morte: speriamo passi
presto tutta la vita. Condizioni morali e mentali disastrose."
E ancora:
"Orribile senso di miseria e di solitudine nella vita; e sempre lui
nella mente e negli occhi." […] "Adesso la mia realtà è
l'orrore macerante della prigionia, la morte del mio Enrico adorato; la
minaccia dell'incerto futuro."
Immaginiamo un analogo, lacerante dolore in don Giacinto, illuminato,
però, forse sublimato, dalla sua fede religiosa.
Sappiamo che il cappellano militare del 151° Fanteria, don Nazareno
Tabarrini, gli scrive dalle colline del Carso nell'aprile del 1916 per
cercare di lenire il suo dolore e riferendosi al fratello caduto afferma:
"La cara memoria che ha lasciato di sé … ai suoi compagni d'armi,
ai suoi soldati, è veramente lusinghiera: tutti lo ricordano con affetto
e con venerazione quasi, essendo rimasti edificati dalla sua condotta di
soldato e di cristiano."
Il 10 febbraio dell'anno successivo gli scrive dal fronte un altro
cappellano militare, don Giuseppe Baragosa, che era stato suo studente in
Seminario, per riferirgli che aveva visitato la tomba di Carlo e l'aveva
trovata in ordine. Troviamo un dettaglio commovente: don Giuseppe gli
invia con la lettera alcuni "germogli avvizziti per il forte
gelo" che ha raccolto sulla lapide del sepolcro, pensando di fare
cosa gradita al suo insegnante.
Tra le carte di Tredici è conservata anche la lettera manoscritta del
settembre 1921 da Cagliari, con la quale l'avv. Emilio Lussu, neodeputato
al Parlamento italiano, gli segnala, in qualità di capitano in congedo
del 151° Fanteria, che il fratello è seppellito nel cimitero di S.
Pietro sull'Isonzo (Gorizia).
Se la morte del fratello, il 14 marzo 1916, è stata verosimilmente la
causa principale del suo desiderio di lasciare l'insegnamento, possiamo
affermare che non è stata l'unica. Sappiamo anche che negli anni di
guerra aveva intensificato la sua collaborazione con l'oratorio delle
suore Mantellate, a Milano, come negli anni precedenti, quando insegnava
filosofia a Monza, aveva intrapreso volentieri l'attività di coadiutore
nella parrocchia di Biassono. Il contatto con la gente gli era congeniale,
nonostante qualche tratto di timidezza presente nel suo carattere, e
trovava gratificante l'attività pastorale.
Scrive mons. Angelo Portaluppi, che fu il suo successore come parroco di
S. Maria del Suffragio e che bene lo conosceva:
"Aveva da anni, il prof. Tredici, manifestato il suo intimo bisogno
di paternità spirituale. Ogni qualvolta gli accadeva di essere invitato
per qualche aiuto nell'una o nell'altra Parrocchia vicino a Monza, dove
era il seminario liceale, egli vi si recava con molto gusto. Quando il
curato di Biassono andò in seminario a chiedere un aiuto permanente, dato
il bisogno della sua salute, il professore fu ben lieto di potervisi
recare ogni sabato e di rimanervi sino al lunedì mattina. Quella buona
popolazione gustava ed ammirava lo spirito di abnegazione del giovane
insegnante di filosofia (…) e ricorreva a lui per il consiglio e
l'assoluzione. Quando venne trasferito al seminario di Milano gli fu
affidata l'assistenza della chiesa pubblica delle Suore Mantellate. E
assisteva l'Oratorio. A quest'epoca aveva la direzione della Gioventù
Femminile della Diocesi. (…).
Quando divenne vacante la Parrocchia di Sant'Andrea, essendo eletto
vescovo di Adria il Macchi, che poi morì a Como, corse insistente la voce
che prevosto sarebbe stato il prof. Tredici. Non è a dire che egli
intendesse rifiutare perché parrocchia di periferia. Non venne tuttavia
nominato. Era la Parrocchia nell'ambito della quale trovasi l'Oratorio e
l'Istituto delle Suore Mantellate."
Due anni dopo, nel 1924, concorre per la parrocchia di S. Maria del
Suffragio, una delle più grandi e popolose della città, e questa volta
viene accontentato: il 5 ottobre 1924 vi è l'ingresso solenne di don
Giacinto nella nuova parrocchia, che da quindici mesi era priva di
parroco.
S. Maria del Suffragio era una parrocchia di periferia, nella zona est di
Milano, nei pressi di Corso XXII Marzo, in un'area di grande espansione
edilizia. C'era solo la chiesa, di costruzione relativamente recente, che
era stata consacrata dal card. Ferrari nel 1896, ancora incompleta e la
casa del parroco. Accanto alla chiesa vi erano ancora campi coltivati e
molti cantieri con condomini in costruzione. La parrocchia, che era stata
separata da quella della chiesa madre di Calvairate (ubicata più a Sud,
tra viale Umbria e viale Molise, e più periferica) che prese il nome di
San Pio V, e possedeva molti ettari di terreno di beneficio parrocchiale,
che erano in vendita per ricavare le necessarie risorse per completare le
opere parrocchiali.
La popolazione della parrocchia, quasi 35.000 abitanti, era in gran parte
di recente immigrazione: la maggioranza proveniva dall'Italia meridionale,
ma molti erano originari di diocesi vicine, come Lodi, Crema e Cremona,
giunti a Milano per lavoro.
Nel discorso d'ingresso, don Giacinto afferma che, come parroco si sente
"sempre pronto per ogni bisogno, per ogni avventura (nel senso di
evenienza, nda) materiale o morale, con una parola di conforto, di
consiglio, d'ammonimento, di rimprovero, anche, ma il rimprovero fatto
nello spirito di carità del Signore." E aggiunge: "Il vostro
prevosto si mette tutto a disposizione; la sua casa sarà sempre aperta
come quella d'un padre; aperta a tutti: ai poveri e ai ricchi; ai giovani,
a cui andrà con speciale predilezione il mio consiglio e
l'incoraggiamento, e (…) ai vecchi, che forse verranno a dividere con me
il frutto della loro saggezza ed esperienza…"
Dopo aver tratteggiato i caratteri essenziali del ministero del parroco,
egli confessa apertamente: "Qui mi sovviene il pensiero della mia
pochezza: come mi vedo lontano dall'esemplare del buon Pastore, che Gesù
ci ha descritto nel Vangelo…!"
Don Giacinto entra nella sua nuova parrocchia, accolto con gioia dai suoi
fedeli, pronto ad affrontare con entusiasmo il suo nuovo ruolo, ma anche
consapevole della ricchezza di rapporti umani profondi che aveva coltivato
nei lunghi anni di insegnamento, come è confermato dalle decine e decine
di telegrammi, lettere, biglietti di congratulazioni e di auguri di
ex-studenti, militanti, dirigenti, donne e ragazze di AC, insegnanti e
studiosi (da Ludovico Necchi al cardinal Orsenigo) che egli conserverà
nelle sue carte (B 3).
Era una parrocchia molto impegnativa: la domenica mattina si celebravano
sette messe (dalle 6 alle 12.30) ed egli era coadiuvato da ben quattro
curati; leggiamo su un avviso relativo agli orari delle messe i nomi di
don Angelo Verga, don Pietro Donadelli, don Paolo Colombo e don Ernesto
Casaghi (B 4); collaborarono con lui, nei sei anni in cui è stato
parroco, anche don Giuseppe Cucchiani e don Achille De Capitani. Il
pomeriggio c'erano le lezioni di dottrina cristiana, tenute da don
Giacinto stesso.
Nei suoi quaderni di questo periodo sono meticolosamente annotati di sua
mano i dati di ben 322 famiglie in difficoltà, da lui personalmente
visitate; la ricchezza di questi dati lascia supporre incontri non formali
e mostra un'attenzione non comune per i poveri. Per le feste natalizie
organizzava ogni anno consistenti distribuzioni di pacchi dono per le
famiglie povere, finanziate da raccolte capillari di fondi, di cui teneva
personalmente nota. Sotto la voce "pane di S. Antonio" troviamo
diversi quaderni, compilati ognuno per una trentina di pagine, con
indicazioni di aiuti sempre per le famiglie povere (in B 4 sono conservati
quelli degli anni 1924, 1925 e 1930). Era anche molto attento ai malati:
nelle sue carte si trovano numerosi elenchi manoscritti di malati da lui
visitati personalmente (B 4).
Si impegnò anche molto nei lavori di completamento delle opere
parrocchiali. Nel 1924, quando diviene parroco, mancava ancora la facciata
della chiesa. C'era solo il progetto, redatto dall'arch. mons. Spirito
Chiappetta, che prevedeva una facciata di stile gotico e che venne
realizzata in marmo di Botticino, pagata in parte dalla Curia, che
vendette alcuni terreni della prebenda al Comune di Milano. I lavori per
la facciata terminarono nel maggio del 1927 ed essa venne inaugurata in
occasione del venticinquesimo di sacerdozio di don Giacinto, celebrato il
12 giugno. Terminò anche la costruzione della canonica, facendola
innalzare di un piano per realizzare gli appartamenti dei curati. I lavori
si conclusero nel 1928.
Completata la Chiesa, don Giacinto, non avendo i fondi per nuove
costruzioni, e non volendo ulteriormente chiedere offerte ai fedeli,
decide di utilizzare i sotterranei della chiesa, facendo aprire delle
finestre per aerarli lungo le pareti della chiesa. Riuscì così a
ricavare sale di riunione per l'AC e per i giovani e, sotto l'altare, fece
realizzare un salone per il teatro. In quegli anni la parrocchia saldò
anche tutti i debiti a suo tempo contratti per la costruzione della
chiesa.
La situazione sociale degli abitanti della parrocchia era comunque
alquanto preoccupante: vi erano centinaia di sfrattati che vivevano in
baracche; il Comune riuscì ad abbatterle trasferendo gli abitanti in un
grande e vecchio edificio di Corso XXII Marzo, la Senavra, che fu
manicomio tra il 1781 e il 1878 (su quell'area oggi sorge la chiesa del
Preziosissimo Sangue di Gesù).
Il degrado era evidente. Scrive mons. Portaluppi: " Chi andava verso
sera dalle parti dell'entrata della Senavra, vedeva le ragazze vestite a
festa uscire e saltare sui tram diretti al centro. Nessuna ora fissa per
il ritorno. Là dentro pochi lavoravano eppure mangiavano tutti. E
bevevano... Il Prevosto Tredici vi andava a volta a volta e aveva una
apposita Conferenza di san Vincenzo che provvedeva, in quella babele, a
raccogliere i piccoli per fare il Catechismo. Dalle signore essi andavano
volentieri... Aspettavano un giorno la settimana sempre qualcosa. Capitò
che qualche mamma credette di far battezzare due volte il bambino; e così
fu tentato per la Cresima. C'era di mezzo un vestito nuovo... Perché
no?!"
Il 9 maggio 1930 don Tredici è eletto a larghissima maggioranza
Presidente del collegio milanese dei parroci, organo consultivo della
curia, segno del suo notevole prestigio personale, nonostante fosse
parroco da poco più di cinque anni e in precedenza la carica fosse stata
ricoperta da parroci delle più importanti parrocchie del centro della
città.
L'attività instancabile di parroco continuò fino al 1930, quando
all'improvviso, come racconta mons. Giovanni Colombo, che allora era
sacerdote da soli quattro anni e che sarà poi arcivescovo di Milano dal
1963 al 1979:
"Una sera primaverile del 1930 il Prevosto di S. Maria del Suffragio
in Milano, rientrando in casa, trovò un biglietto dell'Arcivescovo che lo
invitava a un colloquio urgente. Disse, non senza trepidazione:
"Eccomi a un'altra svolta". E il presentimento del cuore non
fallì.
Da qualche settimana la morte repentina di Mons. Giovanni Rossi aveva
privato Milano di un santo Vescovo Ausiliare e di un vecchio ma
espertissimo Vicario Generale. L'Eminentissimo Card. Alfredo I. Schuster
si trovava in diocesi solo da pochi mesi, ma alla sua sagacità erano
bastati per conoscere situazioni e persone cosi da poter scegliersi con
sicurezza gli opportuni e validi collaboratori. Per il primo e più vicino
dei suoi collaboratori, in sostituzione di Mons. Rossi, la scelta cadde
sul Sac. prof. Giacinto Tredici, da sei anni Prevosto di una delle più
importanti e popolose parrocchie della metropoli.
Era un filosofo e un teologo dalla mente profonda e chiara. Si pensi che
Mons. Francesco Olgiati aveva sperato di indurlo alla carriera scientifica
e averlo collega nella docenza all'Università Cattolica; ma se a Don
Giacinto il contatto coi libri piaceva molto, il contatto diretto con le
anime piaceva incomparabilmente di più, e deluse le speranze
dell'illustre amico. Era stato per molti anni professore in Seminario,
perciò moltissimi Sacerdoti della diocesi erano stati suoi alunni: egli
li conosceva e da loro era conosciuto, stimato e amato. Tutti poi sapevano
che Don Giacinto Tredici era un prete che credeva profondamente, che
pregava lungamente, che si prodigava con cuore paziente e sincero.
Dottrina ed esperienza, contatto con Dio e conoscenza degli uomini,
signorilità di tratto e spirito soprannaturale, mente aperta e cuore
comprensivo: non occorreva certo di più perché la sua nomina a Vicario
Generale incontrasse il consenso di tutta la diocesi che si rallegrò col
Cardinale per l'indovinata e graditissima scelta."
Il cambiamento che gli veniva richiesto non era senza difficoltà, almeno
inizialmente. Doveva sradicarsi da care abitudini, mutare ambiente e
occupazione, distaccarsi da persone amate, per adattarsi a nuove
abitudini, a nuovi contati, a nuove occupazioni e preoccupazioni. Scrive
ancora mons. Colombo:
"Il trapasso dai Seminario alla Parrocchia non era stato senza pena:
ma fu un andare verso l'aspirazione più forte del cuore, verso il lavoro
apostolico preferito. Il passaggio dalla Parrocchia alla Curia era una
cosa diversa: lo distoglieva dal lavoro, forse un po' tumultuoso ma sempre
caldo e appassionato, in mezzo al popolo per portarlo all'aridità di un
tavolo, a un lavoro direttivo molto più delicato e importante ma, certo,
meno ricco di consolazioni e soddisfazioni sensibili. Il contatto
immediato d'anima ad anima ch'era stata la forza e la gioia del Prevosto,
ora il Monsignor Vicario avrebbe potuto concederselo soltanto come un
diversivo marginale: boccate d'aria, della sua aria, respirate di sfuggita
per rinfrescarsi il cuore.
Tutto questo è stato veramente sofferto. Ma Mons. Tredici, coerente ai
principi anche nella vita spirituale come lo era nella logica della sua
vita intellettuale, non fu uomo da indulgere a quelle nostalgie e a quelle
preferenze, che pur continuava a sentire acutamente. Sapeva d'essere al
mondo per servire il Signore, e di essersi fatto sacerdote per servirlo
con amore totale ed esclusivo."
In effetti, per lui l'obbedienza alle decisioni del suo vescovo è
veramente sofferta: ancora 26 anni dopo, quando da vescovo di Brescia
riceve le dimissioni da parroco di mons. Guglielmo Bosetti, vescovo
ausiliare, nella lettera di risposta, scrive che la funzione di vicario
generale implica:
"la partecipazione più diretta al governo dell'intera diocesi:
attività questa che non produce tanto facilmente le legittime
soddisfazioni della cura parrocchiale, ma che pure è necessaria perché i
parroci e tutti i sacerdoti possano compiere facilmente la loro missione a
contatto immediato coi fedeli."
Resta sempre, negli anni successivi, molto affezionato alla sua parrocchia
milanese; da Vescovo di Brescia porta quotidianamente, fino alla morte, la
croce pettorale che gli era stata donata dai fedeli di S. Maria del
Suffragio in occasione della sua consacrazione episcopale, nonostante
altre e più preziose croci gli siano state regalate successivamente.
Fino alla venuta del nuovo parroco, il 7 dicembre 1930, egli rimane
comunque a servizio della parrocchia, nonostante abbia già assunto la
funzione di vicario generale della diocesi. Nel 1931 è nominato da
Schuster Arciprete del Duomo di Milano.
Mons. Giovanni Colombo, nell'occasione della ricorrenza del cinquantesimo
di sacerdozio di Tredici, ha interrogato molti sacerdoti milanesi per
raccogliere i ricordi più significativi dell'attività di vicario
generale di don Giacinto. Ne emerge un quadro in cui spicca la fedeltà
assoluta al cardinale Schuster, la costante, minuziosa adesione ai voleri
dell'arcivescovo, con il quale si incontrava ogni mattina, per affrontare
i problemi più rilevanti della diocesi. Concordava le soluzioni con
l'arcivescovo e poi seguiva scrupolosamente, nelle varie attività, le
indicazioni ricevute. Quando Schuster era assente, si manteneva in
costante contatto epistolare, nel quale esponeva le questioni sorte e
richiedeva le disposizioni conseguenti. Il cardinale aveva assoluta
fiducia nel suo collaboratore.
Mons. Colombo riporta come molti sacerdoti fossero favorevolmente
impressionati dalla sua benevola accoglienza e dall'atteggiamento
d'incoraggiamento, che non mancava mai di fronte alle difficoltà:
"Riceveva con un sorriso che non lasciava mai intravedere stanchezza
o indifferenza. Lasciava esporre con agio e ascoltava tutto con molta
pazienza (fino talvolta - mi ha detto qualcuno - a farla perdere a chi di
fuori attendeva il turno d'entrare; ma in compenso nessuno usciva
dall'udienza insoddisfatto). Sapeva cogliere e illuminare il nocciolo
delle questioni.
S'attaccava per istinto all'interpretazione e alla soluzione più benigna
e più favorevole, e l'abbandonava a malincuore solo se costretto
dall'evidenza dei fatti contrari.
Quando gli accadeva di dover dare un rifiuto, di dover imporre qualcosa di
spiacevole, lo faceva con tale sincerità di rammarico che l'altro sentiva
che la colpa della sua afflizione non era certo del Vicario Generale, il
quale non gli aveva potuto dire di sì.
Si prendeva a cuore le questioni che gli venivano proposte, andava fino in
fondo senza precipitazione e senza lungaggini: non raramente si assumeva
personalmente l'incarico di pratiche delicate, faceva viaggi, visitava
parrocchie per chiarire sul posto, con una visione diretta, le
difficoltà."
Tredici nutriva grande stima, un sentimento quasi filiale nei confronti di
Schuster. Così si esprime il 21 gennaio del 1934, in attesa di entrare
solennemente a Brescia:
"[Un] saluto deferente pieno di riconoscenza e di venerazione, va
all'Eminentissimo Cardinale Arcivescovo, che, già padre mio per
l'autorità, lo è poi testé divenuto un'altra volta in modo più intimo
generandomi all'Episcopato. Egli ha voluto farmi oggetto della sua
benevolenza chiamandomi presso di sé e così, nei disegni della
Provvidenza, mi ha preparato alla sua scuola ai doveri dell'Episcopato.
Non dimenticherò i suoi esempi di quella vita apostolica che edifica
tutti i figli di Ambrogio: lieto che la mia nomina ad una Diocesi
suffraganea mantenga ancora in me verso lui un caro rapporto di colleganza
e di subordinazione."
Se il suo ruolo negli affari correnti della curia arcivescovile era molto
intenso, in particolare nei rapporti ordinari col clero delle parrocchie,
e nell'organizzazione della prima visita pastorale del Cardinale Schuster
(durata dal 9 marzo del 1930 al 29 settembre del 1935), molto poco
appariscente è la rilevanza esteriore e pubblica della sua attività. Don
Tommaso Leccisotti, nella sua monumentale biografia del cardinale
Schuster, di quasi mille pagine, non lo cita mai. Non risulta nemmeno
presente all'incontro del 26 ottobre 1932, a Milano, tra Mussolini e il
Cardinale, incontro reso difficile dall'aspra polemica dell'anno
precedente tra Chiesa e regime fascista sull'azione cattolica.
Anche i suoi interventi sulla Rivista diocesana milanese sono scarsi e di
secondaria importanza: nel luglio del 1932 troviamo sue disposizioni per
la regolamentazione delle offerte per le messe funebri, ad ottobre dello
stesso anno è pubblicata una lettera di Schuster a lui diretta come
arciprete del Duomo, sulla riorganizzazione del Periodico eucaristico
mensile, nel settembre del 1932 e del 1933 lo troviamo nella presidenza
delle adunanze dei vicari foranei della diocesi.
Poiché come racconta mons. Giovanni Colombo, don Tredici e il cardinale
Schuster s'incontravano ogni mattina nello studio del cardinale per
discutere minuziosamente gli affari di curia, i loro contatti erano
prevalentemente verbali. Tuttavia nelle rare occasioni in cui il Cardinale
o don Giacinto erano fuori Milano, si scrivevano quasi quotidianamente. Da
queste poche lettere possiamo trarre qualche informazione sulla intensa
attività di don Tredici come vicario generale della diocesi. Già il 20
gennaio del 1931, quando è vicario da pochi mesi, trovandosi il cardinal
Schuster nel Lazio (il giorno precedente era pervenuta una sua lettera da
Montecassino) gli scrive una lunga lettera che tratta di una serie di
questioni impellenti: la nomina dei componenti della commissione per il
concorso alle parrocchie, la sostituzione del sacerdote assistente
spirituale delle suore di una casa di cura della diocesi in Liguria, a
Pietra Ligure, la scelta del successore, le modalità di ripianamento dei
debiti del Seminario e le proposte per la successione al monsignorato di
S. Ambrogio, allora vacante. Da questa lettera emerge una particolare
autorevolezza di Tredici, che non si limita a riassumere i problemi e le
novità, ma avanza proposte concrete su ogni aspetto, come una logica
conclusione dell'istruttoria compiuta.
Il 15 luglio del 1932, nella notte, scrive al Cardinale per comunicare una
tragica notizia: un seminarista di 15 anni, era stato arrestato per
l'omicidio della domestica di un sacerdote e aveva confessato il delitto;
la notizia giungeva del tutto inaspettata: il ragazzo in seminario aveva
"buoni voti", anche in condotta e la mattina del delitto si era
accostato alla Comunione.
Nel luglio del 1933, assente da Milano il Cardinale, prende la decisione
di concedere il funerale religioso al sen. Pietro Alberici, che dal 1930
era Presidente della Corte d'Appello di Milano, che era sposato solo
civilmente con una divorziata (ex moglie di un ergastolano) prendendo atto
che questa sua situazione irregolare non era di dominio pubblico, che il
defunto si era confessato pochi giorni prima di morire, e che si
"sarebbe creata notorietà" negando il rito funebre.
Il 6 giugno del 1933, recatosi a Roma per consegnare una lettera di
Schuster al cardinal Gaetano Bisleti, Prefetto della Congregazione dei
seminari e delle università, e per trattare la questione della nomina del
rettore del collegio lombardo di Roma, è ricevuto in udienza da Pio XI.
L'occasione in cui forse si manifesta la sua più rilevante presenza
pubblica è l'inaugurazione della stazione centrale di Milano il 1 luglio
1931. All'inaugurazione, secondo le intenzioni del governo, avrebbero
dovuto partecipare sia Mussolini sia il cardinale Schuster. Poiché si era
in una fase di scontro pieno tra Chiesa e fascismo, il Cardinale aveva
fatto sapere che non avrebbe presenziato all'inaugurazione in segno di
protesta per le persecuzioni del regime, cui era sottoposta l'Azione
cattolica. Di conseguenza Mussolini decide di non recarsi a Milano e
delega il ministro delle comunicazioni Costanzo Ciano (padre di Galeazzo)
a rappresentare il governo. Schuster invia a rappresentarlo il suo vicario
generale, don Tredici, che quindi benedice la stazione nel giorno
dell'inaugurazione. Questo avvenimento, relativo ad una delle più
significative opere pubbliche del Regime, sarà motivo del tutto fortuito
ed occasionale della supposizione, diffusasi anche tra qualche bresciano
al momento della nomina di Tredici, che egli fosse in qualche modo un
ammiratore od un simpatizzante del fascismo, come ricorda anche Cesare
Trebeschi. Si vedrà nel capitolo 2 come tale supposizione sia
assolutamente priva di fondamento.
Nella Rivista diocesana milanese, in occasione dell'annuncio della sua
nomina a Vescovo di Brescia, troviamo una lunga nota biografica che è
anche un saluto e un ringraziamento della diocesi, non firmato, ma
approvato dal cardinal Schuster, nella quale si legge che don Giacinto
Tredici "rivelò una acuta comprensione delle realtà contingenti,
sempre ispirando la sua azione a nobili sensi di civismo e di patriottismo
e portando in ogni pubblica manifestazione l'autorità della sua
illuminata opera fiancheggiatrice di ogni nobile iniziativa nel campo
morale, assistenziale e culturale."
E molti anni dopo, il 7 ottobre 1962, in occasione del LX di sacerdozio di
Tredici, il cardinale Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano e
futuro Paolo VI, riferendosi agli anni di sacerdozio a Milano dirà:
"Egli ha tanto lavorato [nella diocesi ambrosiana] specialmente come
professore nei seminari milanesi, come prevosto di una delle più popolose
parrocchie di Milano, S. Maria del Suffragio, e come vicario generale
dell'intera arcidiocesi: la riconoscenza e la memoria sono sempre vive a
Milano ed hanno perciò oggi nella preghiera e nell'augurio la loro
sincera espressione."
Possiamo immaginare i sentimenti contrastanti che si agitano nell'animo di
don Giacinto, mentre si appresta a partire da Milano per assumere le
funzioni di Vescovo di Brescia; il turbamento e l'incertezza nel lasciare
un ambiente in cui era conosciuto e stimato, la prospettiva di abbandonare
abitudini e frequentazioni ormai consolidate, amplificate dalla rapidità
degli eventi: in soli tre anni, da semplice parroco a Vescovo di una
diocesi grande e popolosa. Forse avrà ripensato con un pizzico di
nostalgia al momento in cui aveva lasciato l'insegnamento con la
prospettiva di vivere da parroco, a contatto quotidiano con i suoi fedeli.
Nello stesso tempo, don Giacinto si prepara ad accettare con fiducia le
nuove responsabilità.
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