estratto da
Giacomo Fanetti, Don Battista Fanetti ‘l curadì, Tipografia Camuna, 2012
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RESISTENZA L’otto
settembre 1943 resta la data storica che segna la fine di un’epoca e
contemporaneamente l’inizio di un nuovo modo di pensare, la data che
costringe tutti a dover scegliere, a svegliarsi dal sonno del ventennio
fascista, a scacciare il fumo obnubilante della propaganda di regime che
ha ottuso le menti rendendole incapaci anche solo di immaginare che
potesse esserci un paese con un futuro diverso. Dopo quella data il mondo
cambia, ma soprattutto cambiano gli italiani. Oltre che contro
l’esercito tedesco siamo in lotta con noi stessi, contro noi stessi. Il
voltafaccia di Mussolini che, pur di sfuggire al giudizio del popolo, si
è svenduto al tedesco invasore diventandone lo sgherro infame dietro il
quale poter commettere soprusi e angherie, ha determinato nella maggior
parte dei militari, ignari di quanto stava succedendo e abbandonati
vigliaccamente senza informazione alcuna sui fronti che fino a quel
momento avevano contribuito a presidiare, un sentimento di ribellione, di
rifiuto e di presa di coscienza che li portò a preferire il campo di
concentramento in Germania o il ribellismo in montagna piuttosto che
servire il nuovo sole offuscato e compromesso dell’avvenire fascista[1].
Non erano più disposti a seguire un duce che li aveva traditi mandandoli
a combattere una guerra senza senso, che li aveva costretti ad assistere a
carneficine perpetrate dall’alleato teutonico, a subire ritirate
ingloriose nelle quali avevano dovuto abbandonare i loro commilitoni
annientati dal gelo e dalle pallottole nelle sterminate ed infinite steppe
russe, a lottare nel fango sul fronte greco-albanese, a morire sulle
roventi sabbie di El Alamein. Finalmente si erano liberati dal peso di
dover ubbidire spinti da un credo e una fede in un concetto di patria, che
era stato loro svenduto e inculcato dai proclami degli sbirri prezzolati
di un duce che voleva continuare a comandare su un popolo che non lo
seguiva più. Ora potevano e volevano scegliere da soli cosa fare del
proprio futuro e quale avvenire volevano per le loro famiglie, per i loro
figli. Come avevano servito fedelmente la patria al di fuori dei suoi
confini, ora la volevano difendere contro il tedesco invasore e contro
coloro che, giustificandone il sopruso, erano diventati loro stessi
oppressori e torturatori. Tanti si trovarono alla spicciolata tra le
montagne delle valli bresciane, ma ancora di più furono quei cittadini
che rimanendo a svolgere i loro compiti usuali, divennero il substrato sul
quale crebbe lo spirito ribellista e libertario di molti giovani. Luoghi
di incontro e di discussione tra coloro che erano saliti in montagna
dandosi alla macchia e la gente rimasta nei paesi a svolgere gli impegni
usuali furono, molto spesso, le parrocchie. Esse fornirono rifugi, spazi e
maestri che aiutarono la maturazione di idee nuove, che favorirono il
formarsi di quel tessuto di silente operosità che aiutò e sorresse con
forniture d’armi, propaganda, viveri e vestiario, la lotta di coloro
che, abbandonato tutto e tutti, volevano essere protagonisti nella
costruzione del proprio futuro. Il
clero bresciano era cresciuto sotto la guida del vescovo Giacinto Gaggia[2],
da sempre antifascista, distintosi per il coraggio nel mantenersi
indipendente dal regime e per aver promosso la formazione, in tutte le
parrocchie, di gruppi dell’Azione Cattolica, i quali divennero l’unico
baluardo contro la tentacolare organizzazione della gioventù fascista.
Un’associazione religiosa che riuniva tanti giovani e li
“costringeva” a riflettere sui valori cristiani che cozzavano contro
la cultura di regime che la martellante propaganda aveva contribuito ad
avallare come unica e indiscutibile. D.
Morelli spiega così l’origine del movimento resistenziale: «Si
fa oggi un gran parlare dello spontaneismo per dire che la Resistenza è
nata da sé, spontaneamente, come un frutto isolato allo scoccar dell’8
settembre. […] ebbene, questa è una cosa che può anche avere qualche
fondamento di verità, ma non assolutamente per i cattolici, in
particolare per il Clero. […]
(ciò) non tiene conto di tutto
quell’intenso e laborioso dibattito che ci fu intorno alla liceità o
meno per il cristiano dell’impugnare le armi – per abbattere il
tiranno come allora si diceva – o, comunque, dell’ispirazione a farlo.
Dibattito che fece maturare la decisione nelle coscienze con una gradualità
di mesi ed anni mentre in pari tempo concrescevano l’orrore per il
paganesimo razzista ed il disprezzo per la viltà del succube fascismo.
Siamo d’accordo che molti giovani
furono convinti alla scelta resistenziale lì per lì, all’ultimo
momento; ma chi li convinse? […] Dobbiamo subito chiederci per quale
motivo così larghi strati della popolazione bresciana parteciparono alla
Resistenza o validamente collaborarono con essa. I contadini, per esempio,
una delle classi sociali più estranee almeno fino a trent’anni fa alla
vita del paese, che non avevano partecipato nemmeno al Risorgimento, che
avevano subito tutte le guerre, che erano strutturalmente immobili da
innumerevoli anni; perché invece si mossero così numerosi e combatterono
e diedero la loro vita volontariamente per la liberazione? Ebbene è noto
l’intimo rapporto che da sempre c’era tra la popolazione contadina ed
il Clero, […] E fu dunque la parola e, più ancora, l’esempio dei
preti che convinsero le masse contadine a battersi contro il nazifascismo».[3] Uno
di questi nuclei di resistenza si sviluppò attorno alla Pace[4]
di Brescia, che “fu soprattutto
scuola di fede, per diretta conseguenza, scuola di libertà: la vera
libertà che era proclamata in nome dei più alti principi”[5].
In contrapposizione alla mancanza di libertà, di dialogo, di
discussione e di confronto, a fronte di un regime che fondava il forzato
consenso sulla propaganda e le parole d’ordine confezionate in slogan
che si alimentavano dell’odio verso i diversi, verso gli ebrei, verso
chi non condivideva le sue idee, i dibattiti che si svolgevano
all’oratorio della Pace aiutavano la maturazione di un’alternativa
credibile per coloro che testardamente volevano poter pensare con la
propria testa, detestavano la guerra e credevano in un domani diverso. Oltre
alla Pace altri furono i luoghi in cui avvenivano gli incontri
clandestini. «Subito
dopo l’otto settembre ’43 cominciarono i contatti tra gli antifascisti
bresciani. Ma quali furono i primi luoghi di questi convegni clandestini?
E’ interessante ricordarli perché anche soltanto questo indica quale fu
la natura del movimento di resistenza antifascista nella provincia di
Brescia e la grande solidarietà che esso ebbe da parte del Clero. I primi
luoghi furono anzitutto le stanze di questa casa della Pace, poi le
canoniche del Duomo, di S. Faustino, l’Istituto Orfani, Palazzo S.
Paolo, l’Editrice La Scuola; poi conventi ed ospedali e le chiese
stesse. Il 22 settembre ’43, per esempio, si fece una riunione in Duomo
Vecchio tra i membri del primo CLN. Due giorni dopo la stessa riunione si
ripeté nella Basilica di S. Faustino. E vi parteciparono tutti: i
comunisti, i democristiani, gli azionisti, i socialisti, ecc.».[6]
Dei
principali nomi da tutti riconosciuti punti di riferimento, ne indicherò
solo qualcuno insigne per coraggio antifascista: oltre al grande vescovo
Gaggia, già citato, e al padre Bevilacqua[7]
che nel 1928 fu inviato a Roma per sottrarlo alle ire dei fascistucoli
nostrani, “Padre
Rinaldini, don Manfredini, don Belotti, mons. D’Acunzo, don Pintossi,
don Pozzi, Padre Carlo Manziana[8],
don Giuseppe Almici, don Giacinto Agazzi, mons. Luigi Fossati, don
Giuseppe Tedeschi, don Francesco Galeazzi, don Giacomo Vender per citare
solo i primi nomi che mi vengono in mente e che sono emblematici”;[9]
senza
citare poi il lungo elenco dei sacerdoti parroci e curati, sparsi nei
numerosi paesi della provincia bresciana, che tennero alto lo spirito
ribelle e trasformarono
alcune canoniche in centri di reclutamento dell’esercito partigiano
senza paura, affrontando soprusi e mettendo a rischio la propria vita. Nella
denuncia sporta nei confronti di mons. D’Acunzo cancelliere vescovile si
enumerano i fatti contestati che sono emblematici ed elencano i molti
aspetti di quella che poteva essere l’attività clandestina di un prete:
«riceve
spesso nella sua abitazione elementi partigiani; riceve e distribuisce il
giornale “il ribelle”; ospita un ferito, ha ospitato anche quattro
partigiani feriti; ha ospitato un capitano degli alpini capo di una banda
ribelle; in casa sua fu depositato un mitra; ascolta radio Londra; ecc».[10] Non
sappiamo quando don Battista iniziò veramente il personale percorso verso
l’antifascismo. E’ indubbio che giunse al suo coinvolgimento diretto
non perché colpito da un’improvvisa luce sulla “via di Damasco”, ma
perché questa decisione maturò piano piano già dal seminario, scaturita
dalla presa di coscienza del messaggio che doveva trasmettere e al quale
aveva donato la sua vita di giovane prete, partendo proprio da quanto
diceva Maritain: «Perché
il cristiano è libero nel mondo? E’ libero perché è legato a ciò che
non è del mondo. Noi siamo legati al Vangelo e il Vangelo annuncia il
Regno di Dio».[11]
Del
periodo di Breno poco ci è pervenuto sulle sue idee anti regime, anche se
proprio a quel tempo risalgono i primi incontri con il maestro Giacomo
Cappellini del quale diventerà grande amico e confidente e spesso anche
ospite presso la casa paterna a Cerveno, proprio sotto l’incombente
Concarena. Ecco alcuni brani tratti da due testimonianze di don Battista: «[…]
Io lo ricordo tra gli scolari di Breno, amato e stimato come un fratello
maggiore. Ne ricordo il vigile interessamento, perché i suoi alunni
frequentassero le scuole parrocchiali di Catechismo. Lo ricordo come
istruttore e comandante della Centuria Alpina di Breno: organizzatore
energico e premuroso, sapeva accoppiare all’energia del comando un senso
cordiale e umanissimo di bontà, che gli cattivava la stima e l’amore
dei giovani […]».[12] «[…]
Entrai un giorno nella tua scuola di Breno piena della tua vita, e non ti
dimenticherò più: tu eri l’operaio dall’occhio penetrante e dalla
mano ferma, cosciente della mansione, delle grandi responsabilità. Tu
portavi nella tua scuola con l’intelligenza l’amore, l’entusiasmo
per il lavoro, la fede in ogni opera santa. Con gli elementi del sapere tu
porgevi il pane della vita: cercavi di infondere nei tuoi uomini le basi
dell’uomo eletto e laborioso. Non chiedevi al tuo lavoro grandi cose, ma
degli uomini di carattere […]».[13] Dopo
l’otto settembre anche Giacomo si rifiuterà di ritornare a insegnare
nelle scuole fasciste e salirà in montagna a combattere un’altra
battaglia, quella della Liberazione. Diventerà uno dei più amati
comandanti di un gruppo di ribelli (Compagnia C8 delle Fiamme Verdi) che
all’alba della liberazione, tradito e catturato il 21 gennaio 1945 a
Laveno di Lozio, fu tradotto in carcere prima a Breno poi a Brescia e
fucilato nel fossato del castello, quasi di nascosto, il 24 marzo 1945. Di
questo giovane maestro, grande nel sentimento e nell’ardore verso la
patria che languiva stritolata dalle spire dell’esercito tedesco
supportato dall’odio fratricida dei fascisti, don Battista “aveva scritto a caldo il primo profilo commemorativo del comandante
partigiano, edito a ridosso della Liberazione”.[14]
Il “primo profilo”, è un libretto di 78 pagine, dal titolo “Comandante
Giacomo Umberto Cappellini, eroe e martire delle Fiamme Verdi”,
stampato presso la Tipografia Opera Pavoniana a Brescia nel 1945, ora
introvabile. La copia da me consultata è stata lasciata da don Battista
in eredità al nipote Pier Luigi. Sulla prima pagina sono riportate a
penna le seguenti parole: «Con gratitudine per la partecipazione al ricordo del figlio. Famiglia
Cappellini». Questo testimonia la stima e l’affetto che don
Battista aveva per questo giovane maestro e grande comandante partigiano,
che lo portarono a frequentare la casa di Cerveno dove venne accolto come
un amico di famiglia. (Per
gli articoli più significativi scritti in proposito da don Battista, vedi
nell’ALLEGATO “D”). Ritornato
a Brescia dalla Jugoslavia e assegnato come curato alla parrocchia del
Duomo, la sua casa divenne il punto d’incontro di un gruppo di giovani
che qui si radunavano a discutere di libertà, tirannia, doveri e
responsabilità del cristiano, modalità di coinvolgimento personale nella
lotta in corso, strategie di risposta e di resistenza, ma soprattutto a
cercare di disegnare un nuovo futuro, di ipotizzare la rinascita di una
nuova società. Qualcuno sostiene che in casa fossero state anche nascoste
delle armi da consegnare ai partigiani e che venissero depositate copie de
“Il ribelle” in attesa di
essere distribuite clandestinamente in città. Non
si limitò a tramare, ma la voglia di collaborare direttamente alla
liberazione della Patria lo spinse a chiedere al Vescovo il permesso di
salire in montagna per partecipare direttamente alla lotta già iniziata e
condotta da tanti giovani. Il vescovo, tuttavia, gli tarpa le ali e con
un: «di preti Boifava[15] ne basta uno a Brescia…
»,[16]
chiude l’argomento definitivamente. In montagna non salirà, ma non verrà
mai meno il suo diretto impegno di sostegno deciso e costante all’ideale
antifascista. Spesso
ospitò a casa sua anche un altro dei futuri martiri della resistenza
camuna: Luigi Ercoli[17]
(Bienno, 24 settembre 1919 – lager di Melk 15 gennaio 1945) che faceva
la spola tra Brescia e le formazioni partigiane che agivano sulle montagne
sopra Bienno e che lui stesso aveva contribuito a formare. A
tale proposito la testimonianza dell’ing. Cesare Augusto Ippoliti di
Breno ci rivela un Ercoli convinto, determinato e temerario nel ricercare
volontari disposti a tutto per costituire un corpo di resistenti: «Mio
padre Mario Ippoliti era un architetto che insegnava anche alle Scuole di
Avviamento Professionale e conosceva e stimava molto Ercoli, stima del
resto ricambiata. Luigi Ercoli aveva capito che entrambi condividevano gli
stessi sentimenti e le medesime convinzioni nei confronti del regime
fascista, così, dopo l’otto settembre del 1943, gli propose di entrare
nella resistenza e gli chiese di indicargli alcuni nomi di persone che
potessero aiutarlo a formare squadre di partigiani disposti anche a darsi
alla clandestinità. Non ricordo cosa rispose o quali nomi mio padre
allora gli indicò, ma certo la collaborazione non terminò lì. Conservo
infatti diversi numeri originali de “il Ribelle”, foglio distribuito
clandestinamente dalla Resistenza di Vallecamonica, che era consegnato
nottetempo a simpatizzanti e collaboratori fidati, nonché affisso a
portoni e muri nei paesi della Valle.
La
copertina del libro a lui dedicato e intitolato “Luigi Ercoli” è
stata disegnata da mio padre su proposta dei suoi famigliari».[18] A
quando datare l’incontro di don Battista con Luigi Ercoli non si sa con
esattezza, ma ritengo si possa far risalire al periodo iniziale della
resistenza a quando Ercoli fu presentato a mons. Fossati, parroco del
Duomo, anche lui personaggio in prima linea nella resistenza. Mons Fossati
riferisce così l’incontro: «Ho
incontrato Luigi Ercoli nel periodo della lotta clandestina
contro il nazifascismo. Mi fece
l’impressione di essere un uomo, nonostante la sua giovane età (nel
1943 aveva 24 anni!). Calmo e
tenace, prudente e circospetto, ardito e sprezzante del pericolo. Ci fece incontrare la sua cugina che collaborava con lui ed era del
Circolo Femminile Giovanile del Duomo»[19].
Facilmente
fu questa cugina, assidua frequentatrice della parrocchia del Duomo, che
fece da tramite anche con don Battista. Da questo incontro nacque
l’amicizia che portò Luigi Ercoli a frequentare la casa di don Battista
quando si trovava a passare per Brescia e aveva bisogno di un conforto, di
una spinta, di un amico che lo aiutasse a continuare nonostante la lotta
si facesse sempre più difficile e spesso feroce.
Questo è un brano stralciato dalla testimonianza resa da don
Battista nell’ottobre del 1945, che potrete leggere integralmente
trascritta nell’ALLEGATO-“E”:
«[…]
Povero e infaticabile Luigi!
Io lo ricordo nei frequenti convegni in casa mia. Non sempre ci
veniva per cospirare; ma forse valevano assai per le lotte cospirative
anche quelle ore abbandonate, durante le quali, in fraterna comunione di
pensieri e di cuore, ci si affacciava con l’ansia generosa della
giovinezza e con la fede che in lui era così viva e spontanea, sui
disegni della Provvidenza, nei quali noi cercavamo di «situare» la
turbinosa e tragica vicenda nazionale. Ricordo il suo fervore attivo,
tenace, talora disperato, sempre supremamente rischioso di «Ribelle»,
nel quadro di una redenzione cristiana della Patria e del Mondo. Parlare
con Lui – anche se, da autentico camuno, non abbondava in parole – era
come tuffarsi in un bagno di fede e di certezza, che si alimentavano di
tutte le audacie e di tutte le possibilità della giovinezza. Così ci si
sentiva più buoni e più ardenti nel rischio e nella lotta, anche se
talora mi accadeva di doverne sorreggere lo spirito affaticato nell’urto
quotidiano della sua nobile e santa passione contro il dilagare della viltà
(come dimenticare le sue roventi invettive contro l’apatia e il vile
conformismo, entro i quali si trincerava ogni giorno più la «Leonessa
d’Italia»), contro il dilagare del tradimento, della corruzione, della
menzogna. Ma erano brevi istanti di smarrimento (Egli non fu mai vinto!),
dai quali sapeva risollevarsi con uno slancio rinnovato, con una volontà
sempre più decisa e una fede sempre più incrollabile».[20] Le
frequentazioni con questo ed altri “Ribelli” fecero si che i fascisti
il 10 marzo ’45 irrompessero nel Duomo e lo arrestassero. Il fatto viene
riferito anche da don L. Fossati in un articolo il cui contenuto è anche
rintracciabile sui mattinali della questura di quel lontano 11 marzo 1945:
«1945
– 11 marzo – Il 10 marzo verso le ore 22 agenti di questura fecero una
perquisizione in casa di Mons. Vincenzo D’Acunzo Cancelliere Vescovile,
a S. Zeno. Pure nello stesso momento arrestarono don
Battista Fanetti, lo studente Fausto Gei, e un gruppo di aspiranti
dell’Azione Cattolica, tutti della Parrocchia del Duomo. A Mons. Pasini
che si recò subito presso di lui, il questore disse che nella parrocchia
della Cattedrale c’era un attivissimo comitato in rapporto con i
ribelli, e gli arrestati erano tutti gravemente indiziati. Il giorno 12
furono rilasciati i ragazzi. Così don Battista Fanetti venne rilasciato
il 22 marzo: a suo carico non risultò nulla. In Duomo non esisteva nessun
comitato. Fu trattenuto invece Mons. D’Acunzo accusato di deposito
d’armi, di rapporti con assenti nemici, di aver diffuso il Ribelle, aver
ascoltato Radio Inglese, tenuto in casa un fuorilegge, e ospitato varie
volte adunanze di partigiani. Uscì, finita la guerra».[21] La
responsabile dell’arresto di don Battista è stato accertato poi essere
una certa Bettinzoli Palmira di Prevalle, nome di battaglia “Mirka”,
una ex staffetta delle Fiamme Verdi, stretta collaboratrice e confidente
di Ercoli, che, allontanata dal comando partigiano perché non più
affidabile, «passa al servizio della squadra politica della Brigata Nera “Tognù”
e (a costoro) confidava ogni
segreto del servizio partigiano, provocando l’arresto, tra gli altri, di
Frigoli Gio Batta, Frizzo Maria, don D’Acunzo Vincenzo, don
Fanetti, Carretto Mariano e tale Guerrini oltre ovviamente a don
Giacomo Vender».[22] Naturalmente Luigi Ercoli
è il primo ad essere denunciato e subito su di lui si scagliarono gli
aguzzini che invano tenteranno di strappare con torture terribili un nome,
una delazione dalla sua bocca. Il
fatto mette in evidenza anche un altro aspetto della lotta partigiana, che
si basava essenzialmente sulla fiducia quasi cieca nei propri aderenti e
collaboratori. Verso i quali certo non mancavano controlli, ma qualche
volta poteva capitare che un/una collaboratore/trice si rivelasse in
malafede e poco affidabile. In questo caso veniva, quando non erano
ravvisate colpe più gravi di doppio-gioco, semplicemente allontanato. A
volte la vendetta dell’escluso/a si concretizzava nella rivelazione di
piani e persone con le quali era venuto a contatto, causando retate,
arresti che culminavano in interrogatori, torture e fucilazioni. Le
atrocità commesse in questa fase della guerra furono numerose, ma mai
fiaccarono lo spirito ribelle e il desiderio di libertà.
Da
un manoscritto della sorella di don Battista, Maria, consegnatomi dal
nipote Pier Luigi, la testimonianza diretta di quei giorni (notare l’uso
originale della 3a persona): APPUNTI:
“proprio nel periodo fascista nel quale regnava il federale
Candrilli, don Battista Fanetti veniva prelevato da casa e messo in
carcere con l’accusa di aver aiutato i partigiani. E questo era vero. Il
capo della squadra mobile era un certo Quartararo[23] che riuscì a fuggire
abbandonando la sua donna incinta. Era come un animale feroce. In tutto il
periodo della sua detenzione, la sorella Maria si recava ogni mattina in
Questura dal suddetto Sig. Candrilli. Perorava la causa di suo fratello.
Il sig. Candrilli la riceveva gentilmente (contrariamente a Quartararo che
era villanissimo) e le prometteva un presto rilascio. Aveva però
una forte ammirazione per quel detenuto, ammirava la sua fierezza e il suo
coraggio e diceva: «Furbo quel pretino, dice sempre di no». La sorella
ebbe occasione di incontrare in queste sue visite Monsignor Pasini, figura
di spicco nella Chiesa bresciana, allora parroco della chiesa di S.
Nazzaro e Celso”. Don
Battista così scrisse circa i “trattamenti della squadra politica della
questura: «…
ero appena uscito dalle prigioni fasciste con la testa ancora frastornata
dai lunghi, estenuanti interrogatori e dalle … paterne raccomandazioni
di Quartararo».[24] Ancora
più significativo è quanto mi è stato riferito dal nipote Pier Luigi
che racconta quello che la stessa zia gli aveva confidato e cioè che
diverse volte don Battista le aveva affidato alcuni pacchetti più o meno
grossi e pesanti, che trasportava in treno da Brescia a Cividate Camuno e
che consegnava a don Comensoli[25]
presso la canonica del paese. Finita la guerra don Battista confidò alla
sorella che i pacchi da lei trasportati contenevano volantini o
pubblicazioni contrarie al regime fascista e, a volte, armi anche se di
piccolo calibro. Alle rimostranze della sorella, don Battista rispose di
avere taciuto il contenuto per non spaventarla pregiudicando il buon esito
della missione. Inconsapevolmente
la sorella era stata una staffetta della Resistenza bresciana. Da
notare come don Battista avesse saputo scegliere con avvedutezza la sua
collaboratrice: era una dipendente statale (era
impiegata del Catasto a Brescia), quindi iscritta al partito fascista
(iscrizione resa obbligatoria per i
dipendenti statali), risiedeva a Castegnato presso la stazione
ferroviaria sulla linea Brescia-Iseo-Edolo perché figlia del capo
stazione ed era autorizzata a spostarsi giornalmente tra Brescia e
Castegnato per ragioni di lavoro (quindi
era conosciuta dalle guardie che spesso controllavano i passeggeri), a
tutto questo bisogna aggiungere che faceva tutto a sua stessa insaputa e
quindi con la massima naturalezza e tranquillità. Da quanto esposto, la
sorella era un personaggio quasi inattaccabile sotto tutti i punti di
vista e praticamente impossibile da identificare e scoprire. Solo don
Battista avrebbe potuto rivelarne l’identità.
Che
don Battista fosse ben inserito nell’organizzazione resistenziale
bresciana, ne dà testimonianza, se pur fugace, lo stesso don Comensoli
nei suoi diari, dove alla data del 12 aprile 1944 tra le altre notizie
annota: «Da
Brescia […] Il rettore del Collegio mi raccomanda due che non conosce
che trovansi a Brescia nascosti e che gli furono segnalati da D. Fanetti»[26].
Anche
un partigiano appartenente alla Brigata Tito Speri, nella relazione che
manda al comando di brigata sull’arresto di tre ragazzi di Brescia,
nell’esprimere le sue preoccupazioni su quanto potessero rivelare
durante gli interrogatori delle SS. e dei fascisti, esprime così la sua
apprensione: «Scrivo,
per sapere il da farsi anche perché i tre suddetti conoscono bene D.
Fanetti …».[27]
In
merito agli avvenimenti di questi anni, la testimonianza dell’Ing.
Cesare Augusto Ippoliti di Breno è importante perché indirettamente
conferma la vicinanza di don Battista al movimento della resistenza
bresciana: «Del
1945 ricordo questi fatti. Premetto che nell’anno scolastico 1944/’45
io mi ero iscritto al primo anno del liceo classico all’Istituto
Arnaldo, a Brescia. Tuttavia le vicende storiche della guerra avevano reso
difficile e pericolosa la frequenza giornaliera, per coloro che
provenivano da fuori Brescia. Quindi si decise di consentire a quelli che
risiedevano in provincia, per la scuola eravamo classificati come
“sfollati”, di prepararsi privatamente nei loro paesi e poi sostenere
ogni trimestre un esame nel quale appurare il livello di preparazione
raggiunto. Durante questi periodi, nei quali mi recavo a Brescia per gli
esami, ero ospite di don Battista, nella canonica del Duomo, ed è a casa
sua che mi trovavo nei giorni della liberazione. La
canonica sorgeva alle spalle del duomo vecchio, e vi si accedeva da un
vicolo cieco che si diparte da Via Mazzini. Ricordo che proprio la notte
tra il 25 e il 26 aprile del 1945 assistetti ad una scena che si svolse
nell’atrio della canonica. Nelle stanze poste al pianterreno si erano
acquartierati un gruppo di partigiani. Alla sera un vocio concitato avvertì
che qualche cosa stava succedendo nell’atrio, infatti, un gruppo di
questi appena tornato da un’ispezione aveva fermato una ragazza che
sostenevano avesse collaborato con i fascisti. L’intento era di raderle
i capelli a zero in segno di ignominia. Tentativo non portato a termine
per l’intervento di un capo partigiano che ordinò di lasciarla andare
vista la giovane età della ragazza (di sicuro la presenza dei
partigiani in canonica era giustificata dalla confidenza che questi
avevano con don Battista anche prima degli eventi del 25 aprile. Ulteriore
testimonianza della frequentazione con settori importanti della resistenza
bresciana. nda).
Con don Battista ci intrufolammo in mezzo alla folla esultante per le
strade della città quando entrarono gli americani in Brescia. Nei giorni
successivi, non potendo ritornare a casa a Breno, in quanto la Valle
Camonica era ancora parzialmente occupata dalle truppe tedesche in
ritirata, fui ospitato dalla sua famiglia a Castegnato, presso la
stazione. Ritornai
a Breno qualche giorno dopo quando i miei, preoccupati per la mancanza di
notizie, inviarono una macchina a prelevarmi. Non
ricordo che mi avesse confidato qualche cosa inerente l’arresto di cui
fu protagonista nel marzo del 1945». Terminata
la guerra di liberazione don Battista si ritira e il suo fattivo
contributo viene dai più dimenticato, ciò non toglie che la sua
collaborazione fosse stata coraggiosa, convinta e soprattutto
disinteressata. Riguardo
agli episodi che portarono all’arresto di don Battista, vi è anche la
lettera di un giovane dell’epoca che abitava proprio di fronte al Duomo
e che fu, suo malgrado, testimone del viavai di persone che entravano ed
uscivano dalla chiesa e che venne pure a sapere degli arresti. Questo
signore, letta la lettera che Pier Luigi Fanetti aveva inviato al Giornale
di Brescia all’approssimarsi del decennale della morte dello zio
avvenuta il 10 giugno 1997, ritenne opportuno inviargli uno scritto per
riferire e precisare quanto era di sua conoscenza.
Il documento mi è stato gentilmente concesso dal nipote e qui lo
riproduco quasi nella sua interezza: «Ho
letto con attenzione ed interesse la Sua lettera al G.d.B. pubblicata
oggi, martedì 5 giugno 2007. Attenzione ed interesse destati dal fatto
che, all’epoca degli avvenimenti che Lei ricorda, abitavo non lontano
dal Duomo di Brescia, del quale ero parrocchiano, e ricordo benissimo il
rev. Don Fanetti (immagino si tratti di Battista Fanetti, Suo zio) ed
anche di quello che poi fu Mons. Luigi Fossati.
Don Fanetti era un prete piccolo, magro e pallido che si occupava
dei giovani di A.C. e che un bel giorno (forse proprio il 10.03.45) fu
arrestato da agenti della Questura repubblicana di Brescia e, con lui,
come Lei ricorda, anche giovani che avevo visto frequentare la casa dove
abitavo, ma dei quali non rammento i nomi. Si venne poi a sapere come don
Fanetti, con l’ausilio di quei giovani, manovrasse una ricetrasmittente
collocata sulla cupola del Duomo e che, poco prima dell’arresto, fu
precipitata di sotto e quindi non trovata. Come venisse ricetrasmesso da
quella radio, oramai al tramonto della RSI, proprio non riesco ad
immaginarlo; fatto sta che i “congiurati” passarono un brutto quarto
d’ora e, a quanto mi consta, la sfangarono perché sopravvenne la fine
delle ostilità in Italia.
Di Mons. Fossati ricordo, nell’immediato dopoguerra, oltre
l’epa notevole, le concioni domenicali (che omelie non potevano essere
dette per tutto ciò che di politico veniva enunciato), che ci rivolgeva
dall’alto di quel pulpito di legno, posto all’incrocio delle navate
del Duomo.
Per quanto riguarda il silenzio di don Fanetti circa il suo passato
“resistenziale”, ho la convinzione che fu dovuto, oltre a naturale
riservatezza, al rifiuto del trionfalismo che percorse le nostre contrade
all’indomani della fine della guerra con la discesa in piazza di un gran
numero di “eroi della 6a giornata”, e forse anche al
pensiero che, seguendo il suo insegnamento, alcuni giovani rischiarono per
davvero la vita.
[…] sono anch’io del parere che bene fa la Diocesi ad avviare
negli oratori il progetto educativo, civile e preferirei non politico, ma
storico (la Chiesa non dovrebbe fare politica), che ha portato alla
nascita di questa repubblica; ma Le domando, verrà anche detto a quei
giovani dei preti che nascondevano all’interno delle chiese armi ed
esplosivi che poi davano ai partigiani i quali se ne servivano per
uccidere? […]».
Domande a cui il dibattito durante
e post bellico ha almeno in parte già risposto. Tuttavia lascia perplessi
il fatto che a quasi sessantasette anni dalla fine di questa guerra
fratricida ci si soffermi ancora su argomenti che dovrebbero essere stati
abbondantemente digeriti e acquisiti. Il continuo ritornare sugli stessi
discorsi denota la caparbia e assurda pretesa di voler riscrivere una
storia che gli avvenimenti e le vicende trascorse hanno ampiamente
documentato, dimostrato e sancito. Rifare il passato, sconfessando la
lotta partigiana di liberazione asserendo essere stata una lotta di sole
bande squattrinate e sbandate e non invece, come fu veramente, una lotta
di tutto un popolo, significa voler accreditare una verità storica falsa
e fuorviante che volutamente dimentica l’impegno della stragrande
maggioranza di una popolazione senza la quale anche lo sforzo dei
combattenti sul campo sarebbe risultato vano e perdente. Cito per tutti
l’esempio dei paesi di Corteno e Cividate Camuno, che si schierarono
compatti e senza esitazione dalla parte dei partigiani ai quali,
nonostante il rischio concreto di rappresaglie, diedero, durate tutti i
mesi della lotta partigiana, un appoggio incondizionato, generoso e
solidale[28].
Un dibattito che ritengo non debba trovare albergo tra queste pagine, ma
che si dovrà affrontare una volta per tutte per spiegare anche alle nuove
generazioni il ruolo della lotta partigiana che fu vera lotta di
liberazione dal fascismo e dal nazismo, pietra angolare di questa nazione
che trovò nella Costituzione repubblicana del 1948 la sua realizzazione,
il suo sbocco e il suo fondamento.
La
scelta di don Battista di sottrarsi agli innumerevoli peana, agli inni di
vittoria che seguirono la fine di questo tormentato momento di storia
patria, la dice lunga sul suo essere antifascista, ma soprattutto sul suo
modo di intendere il compito del sacerdote. Aveva dato tutto con passione,
collaborando alla realizzazione di un progetto di nazione che il fascismo
aveva stravolto e snaturato, ma, una volta raggiunto lo scopo della
liberazione del paese e della restituzione al popolo della sovranità per
venti anni negata, lascia ad altri la realizzazione dello stato
repubblicano, ritirandosi nell’ambito religioso e pastorale che gli era
più consono e che riteneva il solo cui valeva la pena di dedicare la
propria vita, al quale destinare tutte le forze della sua giovane età. La
decisione di appartarsi, di defilarsi dalle manifestazioni di giubilo
spesso eccessive, fu anche determinata dalle precarie condizioni di salute
che gli eventi degli ultimi mesi del 1945 contribuirono a peggiorare. Nel
testamento lascerà al nipote Pier Luigi i suoi libri sul fascismo, il
nazismo e la resistenza, sapeva infatti che nelle sue mani non sarebbero
stati dispersi, ma conservati con grande affetto. Il passaggio del
testimonio era un invito a proseguire la “corsa” dell’impegno
antifascista e del sostegno incondizionato ai valori della Costituzione
nata dalla resistenza. Estratto
dal libro di Giacomo Fanetti, Don
Battista Fanetti ‘l curadì, Tipografia Camuna,
2012 (pubblicato on line per gentile concessione dell'autore e dell'editore)
[1] D. LUSETTI, Lager XI –
B, diario di prigionia, Ed. EDITEB, Brescia, Giugno 1967, pag. 15. «9 settembre. Ieri, 8 settembre, ero di servizio d’ispezione. Smonto alle diciassette passando le consegne all’altro sottufficiale e mi avvio alla mensa. Alle venti la radio trasmette, nientemeno, che la guerra è finita con la capitolazione. Restiamo muti guardandoci in viso. Ascoltiamo attentamente il messaggio di Badoglio, breve, sibillino. Mi restano impresse nella mente queste parole: “Difendere contro chiunque il suolo della Patria”. Certamente seguiranno nuovi ordini precisi. E come reagirà la Germania? Noi qui siamo serrati e circondati da ogni parte dai tedeschi, ma tutto per il momento è silenzio e calma. Al pensiero di rivedere finalmente le nostre famiglie, ci invade una gioia inesprimibile […]». Inizia così il diario di Lusetti, un diario meticoloso che ci fa ripercorrere gli anni terribili della prigionia nei vari campi di detenzione in Austria e Germania fino al 10 aprile del ’45 quando furono liberati dagli americani. Questo fu l’8 settembre per lui e per gli altri 650.000 militari italiani che rifiutandosi di collaborare con il governo fantoccio di Salò e le SS tedesche furono caricati su carri bestiame e internati nei lager. Esperienza di sofferenza indicibile che molti non riusciranno a sopportare e a raccontare. L’inspiegabile leggerezza dell’annuncio dell’8 settembre del ’43 aveva segnato la condanna di tutti costoro. Su Badoglio, il suo governo e la casa reale ricadrà la responsabilità di aver abbandonato un esercito che fino a quel momento li aveva seguiti. La storia si riserverà poi su di loro una parziale rivincita. Si veda anche (uno tra i tanti): MAURO CEREDA, Storie dai lager, i militari italiani internati dopo l’8 settembre, Ed. Lavoro, Roma, Luglio 2004. [2]
Giacinto Gaggia (vescovo di Brescia dal 1913 al 1930)
fu tra i vescovi più apertamente antifascisti; dichiarò che il
fascismo era un partito “difensore di teorie sostanzialmente
pagane, che esalta la statolatria, umilia la libertà spirituale
dell'uomo, viola i diritti della persona, pretende di avere il
monopolio delle coscienze”. Fu l'unico vescovo italiano ad
astenersi dal partecipare alle elezioni del 1929, dopo la firma dei
Patti Lateranensi, rifiutandosi di giustificare l'astensione con
motivi di salute ed affermando: «Dite
pure che sto bene: benone! ». A.FAPPANI,
I vescovi di Brescia, Brescia,
Ed. Moretto, 1982.
Pag. 233-234. [3]
D. MORELLI in: Il contributo del clero bresciano all’antifascismo e
alla resistenza, Ce.Doc. Brescia, Marzo 1975.
pag. 71-73. [4]
Chiesa di Brescia, da sempre gestita dai padri Filippini dal
nome di S. Filippo
Neri del quale sono i continuatori e al quale hanno improntato da
sempre la loro attività soprattutto incentrata attorno all’oratorio
che doveva essere scuola e palestra per i giovani.
[5]
A. CISTELLINI, Momenti e aspetti della cultura cattolica nel ventennio
fascista, Ce.Doc., Brescia, gennaio 1997, pag.61 [6]
D. MORELLI in: Il contributo del clero bresciano all’antifascismo e
alla resistenza, opera citata, pag.58-59. [7]
Dal sito ufficiale della Congregazione dell’Oratorio di San Filippo
Neri – Brescia: “Padre Bevilacqua, 1881-1965, per la sua
propaganda libertaria e quindi antifascista dovette nel 1928 esiliare
a Roma dove fu ospite dell’allora don G. B. Montini futuro papa
Paolo VI, che lo volle, una volta papa, cardinale (ordinato il 15
febbraio 1965 in San Faustino a Brescia). Numerosi furono gli
incarichi ricoperti, tra i quali membro della commissione preparatoria
liturgica del Concilio Vaticano II. Il 6 maggio 1965 muore assistito
dal confratello Mons. Manziana vescovo di Crema”. A.CISTELLINI
in: Momenti e aspetti della cultura cattolica nel ventennio fascista,
opera citata, pag.60: «Chi lo conobbe bene e da vicino potrà
convenire che egli fu soprattutto un uomo di genio, di luminose
intuizioni, ma, più ancora, sue qualità prestigiose erano una
ineguagliabile grandezza d’animo, una inesauribile generosità, un
instancabile zelo apostolico, che lo figuravano più che altro come
stimolatore e suscitatore di energie, oltre che affascinante oratore». [8]
Carlo Manziana nasce a Urago Mella (Bs) il 26.07.1902. Entrò ancora
giovane nella congregazione dei Padri della Pace. Il 25.2.1944 fu
inviato assieme ad altri nove bresciani al campo di concentramento di
Dachau. Nel 1963 venne nominato da papa Paolo VI vescovo di Crema. Si
ritirò dall’amministrazione della diocesi nel settembre 1981. Morì
a Brescia il 2 giugno 1997. (da
Internet) [9]
D. MORELLI in: Il contributo del clero bresciano all’antifascismo e
alla resistenza, opera citata, pag.58 e 60. [10]
D. VENTURINI, Giacomo Cappellini e la Resistenza in Valle Camonica,
opera citata, pag. 8. [11] C. MANZIANA in: Il
contributo del clero bresciano all’antifascismo e alla resistenza,
opera citata, pag.10. [12]
B. FANETTI, Comandante Giacomo Umberto Cappellini, eroe e martire
delle Fiamme Verdi, Tip. Opera Pavoniana, Brescia, 1945, pag. 44. D.
VENTURINI, Giacomo Cappellini e la Resistenza in Valle Camonica, Ed.
el carobe, dicembre 2007, Esine (Bs), II ediz., pag. 273. [13]
Ibidem, pag. 262. [14]
Ibidem: dall’introduzione
di Mimmo Franzinelli, pag. 8. [15] Don Pietro Boifava [un colosso nero e peloso, con uno schioppo ad armacollo ed alla cintura
due pistole e una spada.(info@piardi.org)], curato di Serle, nel
1849 durante la sollevazione delle dieci giornate di Brescia, organizzò
un gruppo di suoi
concittadini che, in armi, presero posizione sui Ronchi e da lì
cercarono di impedire all’esercito austriaco che proveniva da
Verona, di portare rifornimenti e di unirsi alle truppe già presenti
in città. [16]
D. VENTURINI, Giacomo Cappellini … opera citata, nota 1, pag. 271. [17]
AA.VV., Luigi Ercoli, 2a Ed., Tip. Camuna, Breno,
Giugno 1971, pag. 54-57. [18] Ibidem
: Copertina del libro: “una
barriera di filo spinato in primo piano circonda una serie di baracche
allineate di un campo di concentramento avvolto da una spessa e fredda
coltre di neve, mentre un raggio di luce, che si è fatto breccia tra
le minacciose nuvole di un plumbeo cielo, illumina la scena”. [19] Ibidem,
dall’articolo: “Lottare come cattolico e come italiano”,
pag. 49. [20]
Ibidem, pagg. 54-57. [21]
DON L. FOSSATI, Il Vescovo e il clero bresciano dal 1943 al 1945.,
pag. 142.
MAURILIO LOVATTI, Giacinto Tredici, Vescovo di
Brescia in anni difficili, Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia,
ottobre 2007, pag. 147.
ANTONIO FAPPANI, La Resistenza Bresciana,
vol. III, estate
1944-Aprile 1945, Ed. Squassina, Brescia 1965, pag. 262.
D. MORELLI in: Il contributo del clero bresciano
all’antifascismo e alla resistenza, opera citata, pag. 61. [22]
Da una missiva del Comitato di Liberazione Nazionale inviata alla
Corte d’Assise Straordinaria di Brescia, durante il processo
intentato nei confronti di P. Bettinzoli dopo il suo arresto avvenuto
il 24 maggio 1945 da parte del Cln. ANTONIO
M. ARRIGONI, Don Giacomo Vender nelle carte della Corte d’Assise
Straordinaria di Brescia, in: “Don Giacomo Vender: fonti per una
biografia”, Archivio Storico della Resistenza bresciana e dell’età
contemporanea, Tip. Camuna, Brescia marzo 2010, pag. 64. [23]
Gaetano Quartararo era il vice commissario, capo della squadra
politica presso la questura di Brescia. [24]
D. VENTURINI, Giacomo Cappellini … opera citata, pag. 268. [25]
Don Comensoli fu l’anima vera della resistenza camuna. Presso la sua
canonica, dall’ottobre del 1944 in poi, alloggiò, in incognita e
con l’appoggio tacito e incondizionato della popolazione, anche il
comandante delle Fiamme Verdi Camune, Romolo Ragnoli che da lì
impartiva ordini e disposizioni ai vari gruppi di resistenti della
Valle. MORELLI
DARIO, La montagna non dorme, Morcelliana, Brescia, 1968, pag. 59. GELFI
SALVA, La mia avventura (1943-1945), da Discorsi di una guerra civile,
Annali anno II, 2006 Archivio Storico della Resistenza Bresciana e
dell’Età Contemporanea, Aprile 2006, pag. 91 e seg. [26] ROLANDO ANNI e INGE
BOTTERI, Il diario originale e inedito di Carlo Comensoli (18 ottobre
1943 – 24 marzo 1945), a cura dell’Archivio storico della
Resistenza bresciana e dell’età contemporanea, Brescia ottobre
2007, pag. 78. [27]Archivio
Storico della Resistenza Bresciana e dell’età contemporanea, presso
l’Università Cattolica del
Sacro Cuore di Brescia, Busta 36, Fasc. 2 data 29.6.1944. [28] Vedasi in proposito quanto riportato su: La montagna non dorme, Dario Morelli, Morcelliana, Brescia 1968, pagg. 28-30.
|
vedi anche:
Maurilio Lovatti, Giacinto Tredici vescovo di Brescia in anni difficili, Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia 2009, pag. 451, € 20
Giacinto Tredici, vescovo di Brescia in anni difficili
Maurilio Lovatti Indice generale degli scritti
Maurilio Lovatti Scritti di storia locale
Maurilio Lovatti, Giacinto Tredici vescovo di Brescia in anni difficili, Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia 2009, pag. 451, € 20 |