Il 28 gennaio è stata promulgata la
legge n. 10 del 1977 che reca il titolo "Norme per la edificabilità
dei suoli". Questa legge è stata giudicata dai partiti democratici e
dalla stampa un notevole passo in avanti per la normativa urbanistica
italiana, addirittura una "mini-riforma". Ma di che cosa tratta
questa legge e quali problemi risolve? La legge sui suoli contiene varie
modifiche alla legge 17.8.1942 n. 1150, che è la prima ed unica legge
urbanistica organica approvata in Italia. Tutte le altre leggi del
settore, dal primo dopoguerra ad oggi, sono modificazioni ed integrazioni
della legge del '42. La 1150 definisce, tra l'altro, le caratteristiche e
le modalità di formazione e approvazione dei Piani regolatori comunali.
Come è noto in base a tale legge i Piani regolatori indicano le aree da
destinare ad uso pubblico (a verde pubblico, a strade e piazze, "ad
edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed impianti di
interesse collettivo o sociale"). Su tali aree non è possibile
ottenere licenze edilizie e, fino a quando il Comune non provveda ad
espropriarle, al proprietario non spetta alcun indennizzo. Negli anni
Sessanta, si cominciò a discutere se queste norme fossero compatibili con
la Costituzione che statuisce il principio di uguaglianza, in quanto i
piani regolatori consentivano ad alcuni proprietari la facoltà di
edificare e non ad altri. Tali disposizioni, si disse, avevano un
contenuto espropriativo, in quanto destinate ad espropriare al
proprietario l'unico modo di utilizzare il bene conformemente alla sua
destinazione economica, cioè quella edificatoria.
La Corte costituzionale fece sostanzialmente proprio questo punto di vista
e con la sentenza n. 55 del 19.5.1968 dichiarò incostituzionali i vincoli
urbanistici. Sulla base delle indicazioni offerte alla sentenza, i più
argomentarono: se sono incostituzionali, per la violazione del principio
di uguaglianza, i vincoli di inedificabilità che gravano solo su alcuni
proprietari, è certamente conforme alla Costituzione separare, con
provvedimento generale ed astratto, la facoltà di costruire dal diritto
di proprietà. Evidentemente la separazione del diritto di proprietà
dalla facoltà di costruire significava trasferire la rendita fondiaria
rappresentata dalla differenza tra il prezzo di mercato delle costruzioni
e il loro costo (comprensivo dell'area, degli oneri di urbanizzazione e
del profitto medio) dalla speculazione edilizia agli enti locali. Una
scelta che evidentemente non era compatibile con il sistema di potere
democristiano.
Per questo la DC aveva sempre avversato un provvedimento di questo genere
a partire dal famoso "caso Sullo". Quindi dal '68 al '75 si
andò avanti con una serie di proroghe tendenti ad aggirare nei fatti la
sentenza della Corte costituzionale, finché alla fine del '75 venne reso
pubblico il cosiddetto "progetto Bucalossi".
Il progetto Bucalossi non contemplava formalmente la separazione della
facoltà di edificare dal diritto di proprietà, ma introduceva il
meccanismo della "concessione". Per poter costruire, oltre agli
oneri di urbanizzazione, il proprietario doveva - secondo Bucalossi -
versare al Comune una quota variabile dal 5% al 15% del costo di
costruzione.
Un'innovazione del genere aveva, dal punto di vista pratico, l'indubbio
vantaggio di contribuire a risanare le dissestate finanze dei Comuni; ma
il motivo "teorico" o di principio che indusse a questa proposta
fu di altro genere. Il significato della concessione è quello di rendere
meno pronunciata la differenza di trattamento tra chi possiede terreni
vincolati (soggetti ad esproprio) e chi è proprietario di terreni
edificabili, penalizzando questi ultimi, obbligandoli cioè a pagare il
"diritto" di costruire. Come si vede si tratta di una
quasi-separazione (di fatto) tra il diritto di proprietà e la facoltà di
costruire. La separazione sarebbe totale se la quota da corrispondere per
la concessione fosse eguale alla rendita fondiaria. Il testo della legge
n. 10 approvata dal Parlamento è un rifacimento del progetto Bucalossi,
con ampie modifiche ed integrazioni. Sono stati proprio questi
miglioramenti a provocare l'astensione (determinante) delle sinistre. Può
essere interessante analizzarli anche per rendersi conto di quanto abbia
inciso la pressione delle sinistre. Le modifiche ed integrazioni che la
legge n. 10 introduce nella vigente legislazione sull'edilizia economica e
popolare sono senza dubbio rilevanti e meritano un esame a parte, che
verrà effettuato in un prossimo articolo. Per quanto concerne invece la
parte inerente l'istituto della concessione, importanti modifiche sono
state ottenute all'articolo 6 che stabilisce le norme per la
determinazione del costo di costruzione, sul quale si applica l'aliquota
variante dal 5% al 20% per stabilire l'ammontare della concessione. Per le
ristrutturazioni ed interventi su edifici esistenti, il costo è stimato
dall'Amministrazione Comunale sulla base dei progetti presentati, mentre
secondo il progetto Bucalossi tali interventi erano esonerati dal
contributo per la concessione. Se l'esonero fosse stato mantenuto nella
legge, i centri storici sarebbero stati abbandonati alla ristrutturazione
selvaggia, resa ancora più conveniente, con la conseguente espulsione dei
ceti meno abbienti. L'articolo 9, invece, prevede la gratuità della
concessione per ristrutturazione solo nei casi in cui il proprietario si
convenzioni con il Comune, impegnandosi a concordare gli affitti ed a
contribuire alle spese di urbanizzazione.
Per le nuove costruzioni il costo è determinato annualmente con decreto
del ministro dei Lavori pubblici, sulla base del costo dell'edilizia
convenzionata; ma per gli edifici con caratteristiche tipologiche
superiori, sono consentite maggiorazioni del costo fino al 50%, mentre
tali maggiorazioni non erano contemplate dal progetto Bucalossi. Infine,
sempre nell'articolo 6, il massimo dell'aliquota da applicare al costo per
determinare il contributo per la concessione è stabilito, come visto, al
20%, mentre per Bucalossi era pari al 15 per cento. Ciò può tradursi in
maggiori entrate per i Comuni in misura di oltre il 30 per cento.
Una importante battaglia si è svolta sulle norme transitorie. Il progetto
Bucalossi, fermi restando gli oneri di urbanizzazione, concedeva
fortissimi sconti sulla quota di concessione per un periodo fino a 36 mesi
dalla entrata in vigore della legge.
Come l'esperienza dimostra, l'introduzione di periodi di transizione nella
legislazione urbanistica comporta effetti deleteri. Basti pensare al
famigerato anno di moratoria della "legge-ponte" (la 765 del
6.10.1967), dal 10 settembre 1967 al 31 agosto 1968, quando vennero
rilasciate licenze edilizie per 8,5 milioni di vani residenziali (oltre a
240 milioni di metri cubi di altre costruzioni), circa il triplo della
media annuale dei vani autorizzati nel decennio precedente. Se si
considera che nel progetto Bucalossi la concessione era a tempo
indeterminato ed era trasferibile (unitamente all'area relativa) e quindi
soggetta a compra-vendita, si vede quale regalo veniva fatto alle
mobiliari ed agli speculatori.
Essi avrebbero potuto chiedere la concessione nei primi sei mesi
dall'entrata in vigore della legge (gratis) e poi rivenderla
successivamente, lucrando la differenza.
Le sinistre in Parlamento hanno cercato di bloccare tale manovra due modi:
1) ottenendo di fissare un termine di ultimazione dei lavori, non oltre
tre anni dal rilascio della concessione (articolo 4, comma 4);
2) riducendo il periodo di transizione. Su questo punto, per la resistenza
democristiana, ci si è dovuti accontentare di un compromesso. Il periodo
di transizione è stato così fissato:
primi sei mesi: esonero totale;
dai 6 ai 12 mesi: sconto del 70%
dai 12 ai 24 mesi: sconto del 40%
(1 - continua)
Maurilio Lovatti
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