Maurilio Lovatti Il caso di Mario Rossi (1954): testimonianze, documenti, lettere
La ricostruzione dello storico
Carlo Falconi
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La
sostituzione di Mario Rossi al Carretto segnò una data importante per la
GIAC. Il trionfo della sua candidatura fu dovuto ad un abile manovra di
don Arturo Paoli, il quale, avvertito che Gedda stava riprendendo
rapidamente quota in Vaticano, finse di staccarsi dalla guardia del corpo
di Carretto e di ritornare tra i geddiani. Quando fece il nome del Rossi,
Gedda, che lo conosceva appena nonostante fosse un "operaio",
cadde nel trabocchetto. Nella storia della vocazione del Rossi all'A.C.
c'era del patetico, e don Paoli seppe sfruttano opportunamente:
"figlio illegittimo della signora Jolanda Rossi, sarta, tirato su
onoratamente dalla madre con grandi stenti, aveva aspirato a diventare
prete, ma vi aveva dovuto rinunciare per il timore che le leggi canoniche
facessero ostacolo, dato il suo stato civile, all'ingresso in seminario e
per conseguenza aveva portato nell'apostolato laico una veemenza forse un
po' venata d'amarezza ".
"Il
discorso cadde sul Polesine e sulla urgenza di redenzione della sua
gente... Chi sarebbe stato quel temerario che avrebbe incominciato? Un
uomo. Non un superuomo.
Queste note erano segrete. Mentre apparvero, sui giornali della GIAC, rispettivamente nel '51 e nel '52, questi altri pensieri sulla professione e sulla condizione operaia, e specialmente sul paternalismo:
"Un
lavoro senza la presenza dei morti, dei bambini, (lei poveri, un lavoro
senza offerta, un lavoro senza interessamento vivo delle varie categorie e
delle varie classi, un lavoro fatto di mondi chiusi (terribile colpa delle
nostre università!) è un controsenso per il Vangelo e per la storia.
I suoi primi dissensi con Gedda furono relativi alla "base missionaria": ed erano già dissensi sostanziali. Ma la disciplina interna proibì al Rossi di manifestarli in pubblico. Diverso, invece, era il caso dell'ingaggio dell'AC nella battaglia preelettorale, a proposito del quale egli non poteva certo usare reticenze coi suoi giovani. Per ragioni, anche questa volta, di disciplina, attese ad esprimere il proprio pensiero la vigilia delle votazioni e subito dopo. Alla vigilia, il 10 giugno 1953, scrisse:
"Chi
vince? Ch perde? No, non si parla cosi fra noi. Chi si salva nella Verità
e nella Carità, oggi?...
E il 5:
"Grazie a Dio, abbiamo una fede che non è radicata negli uomini, nemmeno nella potenza dello Stato, e neppure nella forza di un partito. Ci siamo impegnati con Cristo e per questo motivo, il nostro coraggio è tanto lontano dalla spavalderia, e il nostro impegno si disinteressa del successo." All'indomani delle giornate elettorali del 7-8 giugno, il suo commento fu il più crudelmente sincero della stampa cattolica: "Esse
hanno chiaramente dimostrato:
Ma se l'antigeddismo di Rossi si fosse limitato a questo, sarebbe rimasto ancora nei limiti di quello di Carretto. Carretto, lo si è visto, ribellandosi al tecnicismo organizzativo e al donchisciottismo politico-apostolico di Gedda, non sapeva proporre che un ritorno più intenso alla vita interiore e alla tradita spiritualità del Getsemani. Non si accorgeva, cioè, che proprio con quell'opporre alla degenerazione presente del suo amico l'integralismo primitivo della sua condotta, rimaneva sostanzialmente fedele a Gedda. A parte ciò, la sua diagnosi era completamente sbagliata: la crisi della Gioventù Cattolica non era affatto una crisi di spiritualità e di soprannaturalità, bensì di capacità di inserimento nell'umano, e l'idealismo borghese e professorale del Carretto non avrebbe mai potuto rendersene conto. Il Rossi invece, fortunatamente, si. La sua infanzia amara e la giovinezza combattuta tra la miseria e la vergogna, erano state una dura scuola di realismo, ma estremamente benefica:
"Il
Signore mi ha concesso tre grandi favori: quello di conoscere l'ambiente
operaio nella fabbrica, quello di essere quotidianamente inserito nell'
ambiente rurale del Polesine, quello di partecipare alla vita studentesca
e professionale. Proprio in queste esperienze, ho imparato che la
fermentazione cristiana, non è un francobollo che si appiccica dal di
fuori, non può ridursi ad un apostolato del dopo-lavoro, ma deve essere
animazione dal di dentro, deve inserirsi come partecipazione vitale e
quotidiana, deve rinunciare allo schema, perché l'uomo bisogna trovano al
di là di ogni schema che lo riduce a farsi contemporaneamente trovare al
di là della catalogazione che gli "altri" vorrebbero fare di
noi. E ancor più felicemente: "E' meglio formare alla realtà e alla durezza del vivere sociale che immettere nella società generazioni di servi o di caporali. Certe persone pie, che non sanno distinguere il dogma e il magistero dal rischio di una esperienza personale, certi comizianti che, ingolositi, fanno la vita sociale parlando di devozione, certamente negano l'originalità di un esperimento sociale cristiano, e anche se usano la parola "sociale", non sentono il midollo drammatico e la complessità umana."
E in un'altra occasione: "Questa società.., non è atea perché non crede in Dio, ma è atea perché non ama l'uomo." Un'eresia per i professionisti della teologia ufficiale impagliata: la cui pericolosità era soprattutto visibile, però, in corollari come questi: "E' certo che alcune posizioni antisociali e assurde non dovrebbero avere ragione di essere, proprio quando si dovrebbe educare maggiormente e favorire la partecipazione popolare alla vita dello Stato. E' certo che alcune posizioni capitalistiche, mentre si sta facilitando l'unificazione sociale fra nord e sud d'Italia, dovrebbero sembrare ridicole. È certo che le barricate e le dighe per fermare una presenza di cristiani audaci e coerenti dovrebbero apparire a chi le erge come antistoriche."
O in pagine di sconcertante polemica come queste altre: "I
conservatori sono coloro che scambiano la pigrizia per integralismo e
confondono l'ortodossia con il loro schematismo mentale, sono gli ammalati
di "retrovia" che preferiscono una tenda da patteggiarsi con
chiunque, alla scomodità di una trincea. I conservatori sono anche coloro
che credono che il dovere di oggi sia di usare tecniche e mezzi
modernissimi, ma lo fanno per incapacità di maturare un pensiero
interpretativo nuovo e fanno apparire la loro attualità nei mezzi che
usano anziché nelle idee che esprimono. Si potrebbe dire che i
conservatori sono degli ingenui, dei disastrosi ingenui che non colgono
situazioni storiche nuove ma si accontentano di incollare francobolli
antichi su rotture e fratture sociali. La cristianità oggi può ridursi a
confondere le strutture vecchie con la tradizione viva, i mezzi apostolici
con l'apostolato, la metodologia con la testimonianza, la tattica con la
prudenza, dimenticando che la prudenza più grande dei santi è il
coraggio; può ridursi a recuperare uomini e situazioni anziché farsene
interprete e mettersi alla testa dell'umanità, raffrontare la grande
ricchezza spirituale che sentiamo di avere alle proporzioni di questo
mondo per toglierlo da una attesa disperata e donargli chiarezza di
visione che permetta attesa di speranza.
"Dal linguaggio dei suoi periodici - scrisse il Borghese del 7 Maggio 1954 - (Gioventù, Gioventù operaia, Gioventù rurale, Gioventù studentesca), soprattutto dopo il 7 giugno, risulta chiaro che egli era ossessionato dalla voglia di far capire che era rivoluzionario almeno tanto quanto i comunisti". L'articolista del Borghese fa della palese ironia: ma in fondo non ha tutti i torti. Fra l'estate e l'autunno del '53 maturò davvero con il Rossi una nuova Sinistra Cristiana, quella della Gioventù Italiana di Azione Cattolica, distinta e indipendente da ogni altra parte: da quella ad es. dei giovani democristiani, che non ebbero il coraggio di fraternizzare col Rossi neppure dopo l'esplosione della crisi, e da quella di Iniziativa cristiana. L'articolista del Borghese, però, fraintendeva grossolanamente il vero spirito rivoluzionario del Rossi. "Siamo
vivi e vitali - diceva il giovane presidente della GIAC - non perché
andiamo a prestito di dolore dai comizianti della miseria né perché
andiamo a prestito di gioia dai commercianti del piacere: il dramma di
Cristo, il Paradiso dell'anima in Grazia e la storia di tanta umanità
sono cosi vivi e attuali da non consentirci distrazioni. Ed è per questo
soprattutto che non abbiamo bisogno di andare a chiedere in prestito le
rivoluzioni, perché abbiamo per noi quella vera, quella interiore, quella
che non teme concorrenze sterili, essendo già al di là di ogni
concorrenza, oltre ogni trincea.
Comunque,
è evidente che la collisione col destrismo e col conservatorismo
integralista di Gedda non poteva essere evitata troppo a lungo. Rossi
preferiva, naturalmente, che ciò avvenisse senza rotture violente, per
conquiste progressive. E credeva di aver trovato la piattaforma ideale per
la sua azione. Era infatti riuscito ad ottenere di poter avviare una
riforma sostanziale delle strutture dell'associazione, sostituendo quelle
in atto sin da prima della presidenza Gedda e basate sulla distinzione,
per età, con le nuove appoggiate alla divisione per categorie
sociali(studenti, operai, rurali). Gedda non aveva nascosto la sua
personale, e del resto a tutti nota, avversione a quel classismo malamente
battezzato, che, a suo parere, si sarebbe rivelato prima o poi come un
cavallo di Troia marxista introdotto nella cittadella dell'Azione
Cattolica. Poiché però l'adozione del sistema avrebbe seguito una certa
gradualità, pur di riconciliarsi i giovani, aveva lasciato fare. Al primo
errore, gli sarebbe stato facile intervenire e bloccare l'iniziativa.
"Si apprende che il dott. Rossi, succeduto al prof. Carretto nell'ottobre '52, è stato Sostituito al pari del suo predecessore perché non in pieno accordo con gli orientamenti del prof. Gedda, Presidente Centrale dell'Azione Cattolica. Il dott. Rossi e il prof. Carretto hanno infatti sempre seguito e sostenuto una linea chiaramente democratica, ispirata alla politica di centro e alle tradizioni antifasciste della Gioventù Italiana di Azione Cattolica... Il dott. Rossi stava organizzando per i primi di maggio un'assemblea nazionale dei presidenti e degli assistenti diocesani allorché è stato convocato dai Cardinali Pizzardo, Ottaviani e Piazza, che lo hanno invitato a dimettersi... Il dott. Rossi ha poi riferito personalmente al Prosegretario di Stato Monsignor Montini le circostanze che hanno caratterizzato le sue dimissioni. Il Prosegretario di Stato avrebbe dimostrato di non sapere della iniziativa dei Cardinali."
Poche ore dopo, nella sua consueta edizione pomeridiana, l'Osservatore Romano si limitava a dare l'annuncio della sostituzione del dott. Mario Rossi col dott. Enrico Vinci alla presidenza della GIAC. Ma la vivacità dei commenti apparsi sulla stampa di ogni colore lo richiamò in causa il 23, con questa risposta alle "faziose speculazioni":
"Le
dimissioni del dott. Rossi dalla presidenza della Gioventù Italiana di
Azione Cattolica, e la nomina del successore dott. Enrico Vinci sono state
interpretate da certi giornali, specialmente dall'estrema sinistra, come
un cambiamento di rotta politica, che le gerarchie ecclesiastiche
vorrebbero imprimere alla organizzazione giovanile di Azione Cattolica. La
speculazione si è avvalsa anche delle circolari, diramate dal dott. Rossi
al momento di lasciare la carica, attribuendo ad esse (ed un giornale di
sinistra ne ha addirittura interpolato il testo) un significato che
vogliamo credere esuli dalle intenzioni del firmatario.
Gli
"eretici" conobbero in privata sede le specifiche accuse mosse
loro dal Santo Offizio (il quale da mesi li teneva sotto sorveglianza, non
lasciandosi sfuggire un sol rigo dei loro scritti o una sola frase dei
loro discorsi: materiale tutto che trovarono debitamente consegnato a un
voluminoso dossier): 1) disobbedienza al Papa; 2) "francesismo"
(si trovò che citavano troppo Mauriac, de Lubac, Maritain, Mounier, ecc.:
l'ombra dell'eresia irenista si era dunque allungata su di loro); 3)
tendenze pericolose (non meglio qualificate, ma traducibili in qualche
modo nel termine "sinistrismo"). La messinscena del Santo
Offizio non turbò il dott. Rossi né i suoi collaboratori centrali. Il
giorno delle consegne, il dott. Vinci si senti chiedere se dovessero
salutarlo col saluto romano: poi gli piovvero sul tavolo 25 lettere di
dimissioni.
"oltre
ad un esame sugli sviluppi dell'organizzazione, l'Assemblea si occuperà
altresì dei riflessi di carattere prevalentemente morale, che derivano
dai problemi della casa, del lavoro e dell'assistenza e che devono
richiamare l'attenzione dei più qualificati dirigenti dell'Azione
Cattolica. Evidentemente questa non può e non vuole ingerirsi
indebitamente nella sfera delle responsabilità e delle competenze proprie
delle pubbliche autorità, ma può e deve studiare tali problemi sotto
l'aspetto che direttamente la riguarda e l'interessa, fornendo conclusioni
ed indicazioni che le autorità stesse non possono non tenere in
particolare considerazione. Se è vero, infatti, che l'Azione Cattolica
secondo la sua natura si propone propriamente l'apostolato religioso per
la riconquista a Cristo della società moderna, non è men vero che essa
segue concretamente gli anzidetti problemi là dove nascono e si pongono,
per cercare di affrontarli e risolverli nel modo migliore.
Gedda poi, nella sua relazione ufficiale, fu decisamente polemico, sia difendendo la "base missionaria":
"A quanti chiedono qual'è l'obiettivo specialmente perseguito dalla Presidenza Generale potete rispondere tranquillamente che è quello dell'apostolato esterno, o missionario che dir si voglia. Intenti a questo lavoro ci potete ritrovare in ogni giorno dell'anno. E questo dico…, anche per suggerirvi una risposta a quei malevoli i quali pensano che la Presidenza Generale sia sempre in agguato per formulare degli interventi di altro genere."
sia affrontando scopertamente il tema della crisi Rossi:
"In
questi ultimi giorni proprio quando la Presidenza Generale poteva
desiderare la massima tranquillità per disporre con tempo e riflessione
questa nostra Assemblea, si è improvvisamente rivelata una crisi di
quella organizzazione che se un Papa ha potuto definire pupilla dei suoi
occhi, noi che vi abbiamo appartenuto, io che l'ho diretta per dodici
anni, sentiamo di considerarla cuore del nostro cuore, la Gioventù
Italiana di Azione Cattolica. Tutti noi abbiamo sofferto in questi giorni
(e tanto più quando le reazioni all'intervento superiore hanno dimostrato
la necessita e la tempestività di quell'intervento) perché non è chi
non veda e non è chi non potesse prevedere che da simili contingenze
nascono difficoltà per l'organizzazione, per tutta l'Azione Cattolica,
senza dire che queste difficoltà raggiungono gradi altissimi per chi si
trova a dirigere in tali momenti. Ma non per questo abbiamo alterato la
nostra serenità spirituale, la carità delle nostre maniere, il ritmo del
nostro lavoro.
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Fonte: Carlo Falconi, Gedda e l'Azione Cattolica, Parenti, Firenze 1958, pag. 207 - 227.
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