Maurilio Lovatti

Il caso del questore di Brescia Manlio Candrilli

 

Lettera del figlio Giancarlo Candrilli all'avv. Pietta del 20 settembre 1983

 

 

Il sottoscritto Giancarlo Candrilli, residente in Roma, via La Spezia 37,

COMUNICA

AI Signor Avvocato Bruno Pietta, nato a Martignacco (Udine) il 6 febbraio 1906 e domiciliato in Manerba del Garda, via Torquato Tasso 24, quanto segue.
Le scrivo quale figlio di Manlio Candrilli, il maggiore dei bersaglieri, questore fascista repubblicano di Brescia, che Lei ebbe "d'ufficio" l'incarico di difendere nel giugno 1945 davanti alla locale Corte d'Assise Straordinaria.
E sono persuaso che la semplice constatazione di essere stato Lei attore e testimone di un avvenimento storico (quale è indubbiamente un processo politico a conclusione del quale l'imputato viene condannato a morte e successivamente fucilato) dovrebbe aiutarla a rendersi conto agevolmente dell'obbligo morale di non rifiutare il Suo personale contributo alle improrogabili esigenze della documentazione storica, soprattutto oggi che ci troviamo ormai ad oltre trent'anni di distanza dall'avvenimento stesso.
Come Le è noto, in occasione del nostro primo incontro Ella mi concesse in visione il fascicolo di causa (del quale era ancora in possesso) e mi descrisse verbalmente sia le circostanze che l'avevano portato ad accettare l'incarico difensivo, sia altri particolari della vicenda, quali ad esempio: "l'aver provveduto al recapito, in unione ad un componente della Segreteria Vescovile (il ragionier Gino Bui), di una missiva indirizzata al Cardinale Schuster dalla stessa Segreteria Vescovile, a nome del Vescovo di Brescia". Scopo della visita era quello di sollecitare un passo del Cardinale, in favore dell'imputato, presso la Sezione speciale della Corte di Cassazione, allora funzionante in Milano. (In merito Ella ha precisato che il Principe della Chiesa, dopo avere ascoltato la Sua descrizione dei fatti, delle varie fasi del processo e della irrogata condanna a morte, espresse fra lo stupore dei presenti, la propria decisione di "non volersi occupare della faccenda").
L'intervento presso di Lei di un ufficiale inglese del Governo Militare Alleato (il maggiore FALK) che, dopo la conclusione del processo Candrilli, venne a chiederLe proprio in considerazione del ruolo da Lei avuto, alcuni ragguagli sullo svolgimento del processo stesso (e, fra l'altro, se si fosse trattato o meno di un processo condotto nel rispetto delle norme di procedura e di diritto sostanziale, specie in ordine ai diritti dell'imputato e della difesa). Declinò invece il mio invito a redigere una dettagliata relazione dei fatti, con la narrazione di tutti i particolari a Lei noti (per diretta conoscenza), delle condizioni ambientali in cui la vicenda processuale aveva trovato compimento, nonché delle impressioni che Lei stesso aveva riportato nel conoscere e nel trattare il Suo assistito. E motivò tale Sua decisione con la preoccupazione di non voler apparire "esibizionista".
lI 24 ottobre 1967, rientrato in sede, Le scrissi per restituire i documenti e gli appunti concessimi gentilmente in visione e per rinnovare la richiesta già rivoltaLe a voce (di potere avere una Sua relazione sulle suddette circostanze), precisando, in merito alla Sua preoccupazione di potere apparire esibizionista, il mio impegno ad utilizzare tale relazione soltanto quale fonte preziosa e riservata di notizie.
Non ebbi il piacere di ricevere una Sua cortese risposta. Né poi ritenni più di ritornare sull'argomento dopo il nostro secondo ed ultimo incontro, avvenuto l'anno successivo, durante il quale, con l'unico intento di avvicinarmi il più possibile alla realtà dei fatti, Le posi tutti quegli interrogativi che si erano via via presentati alla mia mente nel corso dell'esame retrospettivo eseguito anche in base ai documenti da Lei fornitimi oltre che con l'aiuto di tutti gli altri elementi valutativi di cui ero già in possesso.
Ebbi modo di sensibilizzare che Ella non gradiva l'argomento oggetto della nostra conversazione che si traduceva, sotto alcuni aspetti, in un esame chiaramente critico del Suo operato di difensore "d'ufficio".
Ed a parte il tono evasivo e generico delle Sue risposte, tono da Lei giustificato adducendo il lungo tempo trascorso quale plausibile scusante per il mancato ricordo di alcuni particolari, appariva visibile il senso d'insofferenza che Lei dimostrava nei confronti dei quesiti che Le venivano rivolti. Proprio per questo sono ora costretto, mio malgrado a disturbarLa nuovamente e, affinché nessun particolare possa sfuggire alla Sua memoria, mi faccio cura di riassumere nel modo più sintetico i dettagli di quelle ore decisive del 1945, quali risultano dalla narrazione che Lei a suo tempo me ne fece e da altre testimonianze e documentazioni.
lI 9 giugno 1945 "lI Giornale di Brescia", nel preannunziare per il giorno 12 successivo l'inizio del processo contro l'ex questore, riferiva tra l'altro: "Tutti gli avvocati di Brescia, che Candrilli aveva incaricato della difesa, si sono rifiutati decisamente di assisterlo".
Circostanza non rispondente al vero in quanto nel asso di tempo intercorrente fra l'arresto (15 maggio), l'avvio dell'istruttoria (21 maggio) e l'inizio del dibattimento (12 giugno) all'imputato non fu consentito di richiedere, né personalmente, né tramite terzi, l'assistenza di un legale. Fra gli atti istruttori, infatti, esistono soltanto i documenti comprovanti via via il conferimento dell'incarico difensivo "d'ufficio" agli avvocati Ercoli Paroli senior, commissario dei colleghi avvocati e procuratori (in data 31 maggio), Emilio Bernardelli (in data 7 giugno) e Piero Grassi (in data 11 giugno). Anche ai familiari del detenuto non fu possibile assumere un difensore di fiducia giacché la notizia dell'avvenuto arresto e del prossimo processo giunse ad essi in Sicilia soltanto l'undici giugno (cioè il giorno prima dell'inizio del dibattimento).
Quando nell'imminenza del processo, gli organi competenti si occuparono della necessità di un difensore, sia pure d'ufficio, si verificarono delle circostanze significative:
vecchiaia, malattie ed altri motivi non esplicitamente dichiarati falcidiarono letteralmente gli avvocati bresciani.
Sempre il 9 giugno, "Il Giornale di Brescia" continuava nella sua cronaca: "Il Presidente della Corte ha dovuto procedere successivamente alla nomina di più difensori d'ufficio che, tutti, hanno chiesto insistentemente di essere esonerati dall'incarico. Il Presidente si è rivolto allora al Commissario del Collegio degli avvocati e procuratori per incaricarlo della difesa d'ufficio con facoltà di subdelegare. Della quale facoltà il Commissario si è subito valso nominando un suo collega a difensore. Ma anche questi si é rifiutato. Il che dimostra come sia invincibile la ripugnanza che in tutti suscita il miserabile sgherro".
Certamente diversi fattori - faziosità, paura, opportunismo, interesse personale - contribuivano a distogliere i legali bresciani dal compiere un dovere professionale in vista di un processo politico nel corso del quale, come il clima e l'ambiente rendevano prevedibile, la posta in gioco sarebbe stata la vita stessa dell'imputato. Dal canto suo l'ex questore, come ha lasciato scritto, faceva risalire l'avversione dimostrata nei suoi confronti dai suddetti avvocati anche ad un risentimento personale" dovuto ad una disposizione, valevole per tutti, da lui stesso impartita nell'ambito della questura.
Il 12 giugno 1945 " Il Giornale di Brescia così scriveva:
"L'avvocato Paroli senior, commissario dell'ordine degli avvocati e procuratori, che siede, in mancanza dei difensori d'ufficio designati dal Presidente, sul banco degli avvocati, chiede di essere esonerato dal gravoso incarico per le sue condizioni di salute. Viene re perito in aula l'avv. Milana, che riesce però a farsi esimere dall'ufficio. Appena il Presidente ha dichiarato sospesa l'udienza, in attesa di un difensore, questi viene trovato nella persona dell'avv. Pietta che accetta per dovere d'ufficio e che chiede un termine per conferire con l"inaspettato cliente ". In proposito Ella ha riferito che, trovandosi in uno dei corridoi attigui al locale dove era insediata la Corte d'Assise Straordinaria, vide venire verso di Lei, in atteggiamento pieno di sconforto e di disperazione, il vecchio avvocato Paroli, di cui era stato discepolo.
Il decano degli avvocati bresciani si rivolse a Lei, con accento accorato, chiedendo: "Pietta, sono rovinato! Non posso concludere la mia carriera forense con una condanna a morte. Salvami tu. Accetta l'incarico di difendere il questore Candrilli".
E, ricevuto il Suo assenso, lo rese noto al Presidente Basile, sopraggiunto in quel momento. Quest'ultimo disse subito: " Venga, venga, avvocato, così cominciamo". Ed avendogli Lei fatto presente che per lo svolgimento del suo mandato aveva necessità di conferire con l'imputato, aveva soggiunto: "Le concederò ciò che chiede, ma non perdiamoci in eccessive formalità". In aula, esperiti gli adempimenti iniziali e dopo che le parti erano state invitate dal Presidente a proporre le questioni preliminari, il Pubblico Ministero chiese l'ammissione di alcuni testi (non elencati nel decreto di citazione), che vennero poi escussi in dibattimento senza che risultasse preventivamente da nessun atto l'indicazione specifica, come vuole la legge, del tema da provare. Al riguardo sul verbale del dibattimento e sull'ordinanza di ammissione ditali testi si leggo no rispettivamente le seguenti annotazioni riguardanti la difesa: "nulla ha da opporre alle richieste del PM" e "non si é opposto 11 difensore".
Come risulta dal predetto verbale Ella, successivamente, chiese "congruo rinvio del processo onde poter prendere visione almeno degli atti processuali e conferire con l'imputato". Ottenne soltanto un breve termine di due ore dalle 12,30 alle 14,30 dello stesso giorno (12 giugno). Peraltro, come risulta dal verbale stesso, il dibattimento riprese alle ore quattordici. Cioè mezz'ora d'anticipo sul tempo stabilito.
A questo punto non esiste traccia di atti da Lei compiuti per opporsi alle decisioni della Corte, in rapporto all'inutile brevità del rinvio concesso ed all'anticipata ripresa del dibattimento rispetto all'orario fissato. Neanche la lettura e l'esame del "decreto di citazione" suggerirono l'opportunità di sollevare, in via preliminare, una formale eccezione di nullità "per assoluta incertezza dell'oggetto". Il documento, infatti, conteneva la "rubrica" delle imputazioni che si limitava a riportare gli articoli delle leggi, la cui violazione si attribuiva all'imputato ed al posto del "fatto " che avrebbe dovuto integrare la contestazione delle norme violate una serie di insignificanti perifrasi della fattispecie delle norme stesse: non un nome, non un'indicazione di località, non una circostanza o una data. Esso era, quindi, privo degli elementi di determinazione necessari acchè la difesa fosse in grado di poter esercitare il suo diritto di prova contraria.
L'aperta denuncia di tali irregolarità non avrebbe dovuto essere trascurata: con chiara evidenza, in una causa come quella di Manlio Candrilli, non si poteva rinunziare a nessun diritto, a nessuna facoltà, senza tradire il mandato ricevuto ed accettato, senza tradire il dovere professionale, anche di coraggio, che incombe sulla toga.
Inoltre, nella terz'ultima pagina del verbale del dibattimento si legge testualmente: "Dei testimoni a discarico ammessi non sono comparsi il col. Bettoni, perché assente da Brescia, Io Zappa Luigi non comparso benché regolarmente citato e l'Alessandri non citato per mancanza di recapito". E di seguito: "La difesa non ha insistito sull'audizione degli altri testi non avendo sollevato formale incidente". Frase che risulta cerchiata (per annullarla, in modo da lasciarla leggibile) e sostituita con la seguente La difesa dichiara di non rinunziare ai testi a discarico non comparsi, ma non solleva incidente perché la Corte decida sulla richiesta citazione". Quindi il PM pronunciò la sua requisitoria e concluse chiedendo per l'imputato la condanna alla pena capitale. Infine Lei stesso espose la difesa con la quale chiese che Manlio Candrilli fosse condannato a pena detentiva degradando il capo d'imputazione. La conclusione di carattere strettamente giuridico che è derivata da questo comportamento difensivo risulta dalla stessa motivazione - riportata in appresso - della sentenza con la quale la Suprema Corte decise il ricorso successivamente interposto.
Si può ipotizzare che il suddetto comportamento sia scaturito da diversi fattori. Quali ad esempio: limitata esperienza professionale in campo penale, mancanza di coraggio morale e fisico di fronte alla situazione di fatto esistente in aula, soggezione per l'ambiente così ostile e prevenuto nei confronti dell'imputato.
Ma è certo che Lei non formula nessuna protesta (più o meno vibrata), non solleva alcun incidente e sente la necessità d'iniziare l'arringa difensiva - chissà poi perché -precisando "di avere assunto la difesa dell'imputato per dovere d'ufficio e di avere rifiutato qualunque compenso (da "Il Giornale di Brescia" numero del 14 giugno 1945). Asserzione quest'ultima che se valeva al momento, non rispecchiò la realtà successiva.
Infatti quando Saverio Candrilli, fratello dell'ex questore, giunse a Brescia a processo concluso, Lei ebbe corrisposto un importo di L. 6.000 (seimila) quale onorario.
Subito dopo la condanna il detenuto compilò per Lei un "promemoria" nel quale riassunse in alcuni punti i motivi "che egli riteneva più efficaci e validi per essere evidenziati nel ricorso da presentare in Cassazione:

1) mancata difesa;
2) mancata citazione testi a discolpa. Il V. Questore Sciabica detenuto nelle carceri di Brescia non è stato fatto comparire;
3) testi a carico presentatisi in udienza; conseguente mancata confutazione delle loro accuse, perché si sarebbero dovuti citare altri testi e richiedere il rinvio del processo;
4) l'art. i del D.L. 22 aprile 1945 precisa quali sono le autorità per le quali va applicato l'articolo suddetto. Vi è compreso il Capo Provincia e ne è escluso 11 Questore.
Ciò per l'evidente ragione che il Questore è alle dipendenze del Capo Provincia ed è l'esecutore materiale degli ordini di questi;
5) Il Vice Proc. Generale Santi non ha inserito nel verbale d'interrogatorio la mia affermazione che era un Maggiore dei Bersaglieri già in S.P.E., invalido di guerra e decorato al valore. Ciò ha fatto perché la mia poteva essere una falsa dichiarazione ed aveva bisogno di essere dimostrata. Così facendo il Santi mi ha fatto perdere l'applicazioni delle attenuanti;
6) la collaborazione con i tedeschi non è stata dimostrata in dibattimento; si è solo affermato che io avevo invitato a pranzo degli ufficiali tedeschi ed ho fatto un omaggio floreale alla sig.ra del capitano Priebke;
7) i rastrellamenti, fatti per ordine del Capo Provincia, hanno avuto sempre risultati nulli. Non vi sono stati nè morti, né feriti, né alcun invio di uomini in Germania. Solo sono stati, d'ordine del Capo Provincia, inviati al Distretto alcuni giovani per regolare la loro posizione militare. Nel periodo in cui si sono svolti i detti rastrellamenti, non si effettuavano invii di operai in Germania perché vi andavano volontari; mancava l'ordine d'inviarli al lavoro obbligatorio. Alcuni dei rastrellamenti non furono tali bensì operazioni di fermi di indiziati per reati vari. Tali quelli di S. Eufemia, Cailina, Nave; (desidero conoscere le località dove si svolsero i rastrellamenti per potere essere preciso)."

Il 18 giugno, Le venne dato avviso dell'avvenuto deposito in Cancelleria della sentenza di condanna a morte. Ed il 21 giugno, nell'assoluto rispetto dei termini prescritti dall'art. 17 del Decreto Legge istitutivo delle Corti d'Assise Straordinarie, si ebbe la presentazione del ricorso per Cassazione avverso la sentenza di condanna. Il testo del ricorso in minuta era stato scritto da Lei, mentre il documento originale venne firmato dall'avv. Paroli, che così ne fu ufficialmente il presentatore.
A questo punto è lecito chiedersi come mai ritornava sulla scena del dramma quell'avv. Paroli che in precedenza, con il suo comportamento, si era assunta la gravissima responsabilità di aver reso praticamente impossibile all'ex questore, sia durante la istruttoria che nella fase preliminare del dibattimento, l'esercizio del sacrosanto diritto della difesa.
Era stato Lei stesso, allora non abilitato a patrocinare in Cassazione, a rivolgersi al suo vecchio maestro ed anche a persuadere il condannato a conferire a quest'ultimo l'incarico in questione. Solo Lei potrebbe conoscere appieno l'effettivo motivo dell'intervento dell'avv. Paroli. Infatti il suddetto professionista potrebbe aver compiuto l'atto di firmare il ricorso per molteplici ragioni. Ad esempio: perché spinto dal desiderio di ricambiare a Lei la personale cortesia di avere aderito di accettare l'incarico della difesa d'ufficio dell'imputato; oppure per resipiscenza nei confronti del proprio operato precedente; o forse per timore di possibili future eventualità.
Sta di fatto che il condannato fece esplicito riferimento alle gravi responsabilità che si erano assunte, con il loro atteggiamento nei suoi confronti, il Paroli e gli altri avvocati che si erano rifiutati di difenderlo, in due appunti da lui stesso versati a matita su carta igienica e consegnati al fratello Saverio nel corso dei colloqui avuti con quest'ultimo durante il periodo detentivo.
D'altra parte, sottoponendo ad un attento esame il testo del ricorso, sorgono alcune perplessità che non si possono passare sotto silenzio. Purtroppo tali dubbi investono l'operato dell'estensore e del firmatario del documento. Infatti non è chiara la ragione per cui il difensore si sia limitato a sintetizzare i "motivi" di ricorso in due unici punti, quando aveva a disposizione elementi, numerosi e validi, come quelli contenuti nel "promemoria" stilato proprio per lui dall'imputato.
E soprattutto è difficile comprendere come mai Ella non denunziò, quale primo motivo di ricorso, la grave omissione commessa dal sostituto procuratore "politico" avv. Santi nel far verbalizzare le dichiarazioni rese dallo stesso imputato nel corso dell'istruttoria.
Particolare di fondamentale importanza che costituiva una palese violazione di legge e che aveva fatto perdere all'ex questore l'applicazione in suo favore sia delle attenuanti di cui all'art. 26 del CPMG (sostituzione automatica della pena di morte con degradazione con la reclusione per un periodo intercorrente fra i 10 ed i 20 anni) che di quelle generiche.
Beneficio quest'ultimo che la Corte d'Assise Straordinaria di Brescia aveva negato affermando che il Candrilli aveva operato "con la scienza e coscienza di favorire il tedesco invasore che era il nemico del legittimo Stato italiano, costituito dal Regno d'Italia. Per questo delitto pena adeguata é quella di morte che non può essere evitata da nessuna attenuante, perché l'attività del Candrilli ha sparso tanto orrore e tanto strazio in molte giovani vite da non destare alcuna pietà ma deve essere colpita dalla severa giustizia punitrice con la più grave sanzione che essa può infliggere ".
E la stessa Corte non si accorgeva che tale motivazione non rispondeva certo al precetto della legge "poiché nessuna ragione logica esclude che colui, che abbia ricoperto cariche importanti commetta una grave in frazione alla legge penale, non possa per i precedenti di illibatezza, per opere di bene compiute e per altre ragioni accertate dal giudice", nel caso del maggiore Candrilli, in particolare, la ferita subita e gli atti di valore compiuti in guerra, premiati con due decorazioni al valore militare, la cui esistenza proprio il magistrato aveva il dovere e l'obbligo di accertare) "essere ritenuto meritevole della concessione delle attenuanti generiche" (Sentenza Cassazione 26.9.45 - imputato Luigi Sangermano).
Perché mai Ella non si soffermò nel ricorso sul reato di "omissione di atti d'ufficio" compiuto dal Santi, che si prestava, in modo particolare, per far sì che la Corte Suprema sindacasse la procedura seguita dai giudici di primo grado? Né vale, in proposito, osservare che il ricorso stesso si concludeva con la seguente argomentazione:
"Consideri in fine, la Corte, che il Candrilli ufficiale dell'esercito Regio, riportò in Libia" (invece esattamente, in Somalia) "una ferita per la quale venne dichiarato inabile di guerra (anche un profano di terminologia militare sa che nel linguaggio abituale si dice invalido di guerra)" ed inviato in congedo nel '24 (altra inesattezza perché il tenente Candrilli venne collocato a riposo per infermità proveniente da cause di servizio di guerra nel luglio 1931).
"Tale circostanza non poté dimostrare al dibattimento per la ristrettezza del tempo e per la impossibilità di produrre una documentazione adeguata".
E fu proprio questa una conclusione, a dir poco, imprevedibile ed assurda. Perché non spettava all'imputato fornire la documentazione di quanto da lui dichiarato, bensì al giudice di controllarne la veridicità; nel ricorso non veniva fatto alcun cenno alle ricompense al valore militare meritate in guerra dal Candrilli; all'atto in cui si attingeva a redigere il ricorso, il difensore era perfettamente al corrente dei particolari relativi alle suddette decorazioni.
Particolari appresi dalle ripetute dichiarazioni verbali dell'imputato, dal contenuto del "promemoria" che questi aveva redatto per suggerirgli i "motivi" di ricorso ed anche da un accertamento personalmente svolto, consultando gli annuari degli ufficiali in SPE. Da quanto precede si evince che Ella accettò supinamente il ragionamento capzioso ed errato dell'avvocato Santi (esternato allo stesso imputato per giustificarne la mancata verbalizzazione delle dichiarazioni rese in istruttoria e riguardanti il passato militare del medesimo) senza peraltro manifestare alcuna volontà di reazione sul terreno pratico all'assurda argomentazione del suddetto inquirente.
E questo stato d'animo proprio Lei dovette contagiare, sia durante il dibattimento che nei giorni successivi, anche al suo assistito. Infatti, il 22 giugno 1945, cioè all'indomani della presentazione dei ricorso, l'imputato sentì il bisogno di confermarLe in un altro appunto le ormai note circostanze: "Non ho detto in aula che ero decorato di una medaglia di bronzo (Somalia) 1924) e di una croce di guerra al valor militare (Libia 1921) perché quando sono stato interrogato in carcere dall'avv. Santi, funzionante da Sostituto Procuratore Generale (a suo dire), avendogli dichiarato che ero Maggiore dei Bersaglieri, invalido e decorato, mi disse: "Lo dite voi occorre la prova; e non verbalizzò nulla". E cosa fa, allora Lei?
Lo stesso giorno 22 presenta il seguente esposto al Comando del Distretto militare di Brescia:

"Il sottoscritto avv. Bruno Pietta di Brescia, nella sua qualità di difensore d'ufficio di Candrilli Manlio, ex questore di Brescia, chiede che codesto Comando voglia rilasciargli una dichiarazione da cui risulti quanto lo scrivente ha potuto constatare dagli annuari 1930/1931 degli Ufficiali in SPE e cioè che il Candrilli, allora tenente di fanteria nel quinto Reggimento Bersaglieri, è insignito
a) della medaglia di bronzo al v. m.
b) della croce di guerra al v. m.
c) della medaglia della campagna di Libia 1917/18.
d) della medaglia della campagna Italo-Austriaca 1915-18.
Tanto si chiede per dovere d'ufficio e anticipatamente si ringrazia.
Con ossequio. F. to avv. Bruno Pietta ".

A questo punto sorge spontanea la domanda: cosa si riprometteva di fare Lei una volta venuto in possesso del documento richiesto? Forse di trasmetterlo alla Corte di Cassazione, in allegato ad una "memoria suppletiva" da far seguire al ricorso? Perché mai, allora, non citare esplicitamente già nello stesso ricorso tutte le circostanze, riservandosi di provarle successivamente?
lnterrogativi sconvolgenti che fanno logicamente concludere che il questore fascista, nel corso della sua vicenda giudiziaria, non venne difeso con decisione ed efficacia.
Si aggiunge, per completezza di cronaca, che il Comando del Distretto militare di Brescia non rispose nemmeno alla richiesta rivoltagli e che la "memoria suppletiva" non venne mai presentata in Cassazione. E dire che tale memoria avrebbe potuto utilmente integrare il ricorso con tutti quegli altri elementi che l'imputato stesso aveva ritenuto di ribadirLe con il citato appunto del 22 giugno e precisamente:
tra i testimoni citati vi era Sciabica, detenuto, ed il Presidente non lo fece venire a deporre;
i testi d'accusa ammessi a deporre in udienza hanno affermato il falso ed il Sig. Presidente non mi ha dato modo di poterlo provare. Infatti per la Pasotti (che nella sua testimonianza aveva dichiarato: "in una stanza c'erano due giovani alti che per ordine di Candrilli mi hanno frustrata". Sarebbe bastato che si facessero presentare i fratelli Speciale che non sono affatto alti di statura; per Robustelli, Romelli e Rondinelli sarebbe bastato sentire alcune guardie della squadra politica presenti alle bastonature, come: Romagnoli, Napoli, Oteri ecc. ed il S. Ten. Spinelli - art. D.L. 1945: i Questori non sono compresi".
Ma non è tutto! Ella trascurò inspiegabilmente di mettere in evidenza nella stesura del ricorso la falsità del teste Mario Crocitti richiedendo la ricognizione del certificato penale dell'imputato che l'avrebbe ampiamente dimostrata. (Il Crocitti, funzionario di P.S., nella sua deposizione aveva affermato testualmente: "Mi dichiarò che da giovane aveva appartenuto alla mafia e che aveva commesso un omicidio". Ed a richiesta della difesa aveva ripetuto:
"Confermo che il Questore mi ha dichiarato che da giovane aveva fatto parte della mafia e che se era stato assolto per insufficienza di prove dall'imputazione di omicidio ciò era avvenuto perché aveva saputo gabbare i giurati".
Inoltre Lei omise di inserire nel ricorso, e non si comprende come un particolare del genere possa essere sfuggito ad un uomo di legge, un altro valido motivo che avrebbe potuto essere determinante per una decisione favorevole alla Cassazione. La violazione, da parte della CAS di Brescia del precetto di legge contenuto nell'ultimo comma dell'art. 348 del Codice di procedura penale: "Non possono essere assunti, a pena di nullità, come testimoni gli imputati dello stesso reato o di reato commesso, anche se sono stati prosciolti o condannati, salvo che il proscioglimento sia stato pronunciato in giudizio per non avere commesso il fatto".
E la Corte aveva invece fatto testimoniare quali testi d'accusa, il maresciallo di PS Guido Spinelli ed il colonnello Francesco Giordano, a quell'epoca entrambi "detenuti in attesa di giudizio" per avere collaborato con il tedesco invasore. Per di più, inspiegabilmente, Ella non rivelò dalla lettura del verbale di dibattimento che le generalità di alcuni testi (precisamente Robustelli Giorgio, De Petris Settimo, Lanciano Carlo, Pandolfelli Alfredo, Sella Alessandro) erano state riportate in modo difforme (rispettivamente Robustelli Eugenio, De Petris Giuseppe, Luciano Carlo, Pandolfelli Angelo, Sella Giovanni) da come figurano annotate negli atti istruttori (decreti di citazione o verbali di interrogatorio). Uso il termine "non rilevò " perché la mancata inclusione nel testo del ricorso per Cassazione di un particolare del genere, d'importanza così fondamentale, non potrebbe essere altrimenti giustificata. In relazione a quanto precede non si può fare a meno di dedurre che la sua linea di condotta fu certamente condizionata da un diffuso stato di paura e di timore reverenziale verso la Corte e si è estrinsecata in uno stile non esplicito, sempre in bilico fra il dire ed il non dire, che non assunse mai le caratteristiche necessarie di coraggiosa difesa e di vigorosa protesta.
I giudizi che scaturiscono dall'esame dei Suoi atti trovano conferma nei termini di paragone che in quei giorni non mancarono, giacché gli uomini rivelano la loro tempra proprio nei frangenti difficili ed eccezionali. Cito il caso del valoroso avvocato Riva di Bergamo che fu il difensore dinnanzi alla CAS di Brescia dell'avv. Vincenzo Federici, ex pubblico accusatore presso il Tribunale Speciale per la difesa dello stato, e del Maggiore Ferruccio Spadini, comandante del presidio di Breno della G.N.R. stralciando i seguenti passi dai resoconti dei due dibattimenti ( è da notare che quello del Federici fu il primo processo politico che si svolse a Brescia dopo il 25 aprile), quali apparvero su Il Giornale di Brescia

26 maggio 1945 - Appena aperta l'udienza l'avv. Riva di Bergamo solleva un incidente sostenendo l'incompetenza territoriale della Corte di Brescia. In subordine che l'udienza venga almeno rinviata, poiché alcuni testi non sono presenti e altri dovrebbero venire citati.
L'avvocato anticipa, a chiarimento del suo protetto, una delle tesi difensive affermando che il Federici fu gerarchicamente comandato al posto di pubblico ministero anche nel primo processo che egli sostenne a Brescia e che quindi era obbligato a compiere, a sensi di legge, quello che era un dovere d'ufficio.
Il presidente, secco, lo interrompe: "un magistrato non si deve mai piegare " e la folla esplode in un tumulto ed impedisce all'avvocato di proseguire. Ristabilito il silenzio, il difensore si richiama alla libertà ed al rispetto della toga, soggiungendo che, come tale, egli deve essere apprezzato per la passione ed il calore con cui esplica quella che è sacra missione in quanto egli, e con lui tutti i suoi familiari, ha un passato di accesa attività antifascista e di persecuzione politica; ha conosciuto la durezza del carcere e l'umiliazione dell'esilio. La Corte si ritira e respinge le richieste della difesa."

19 agosto 1945 - "Cosi dopo una intensa e movimentata giornata di udienza (l'interrogatorio di Spadini ha dato luogo ad una serie di battibecchi tra la Corte e la difesa autoritariamente troncati, infine, dal Presidente, per non dover rispondere. Forse ad una caustica ma esatta osservazione dell'avv. Riva) il processo é stato rinviato a lunedì, per dar modo alla difesa di produrre importanti testi, assentatisi nel pomeriggio di ieri, e la sorte dell'imputato appare più che mai incerta".
Ricordo anche il caso dell'avv. Tommasini, difensore d'ufficio di Galeazzo Ciano nel gennaio 1944. Come afferma Gianfranco Venè nel suo libro Il processo di Verona (ed. Mondatori) "egli era un civilista: commise, durante il processo una serie di gaffes così comiche da incrinare, per qualche momento, la tragica atmosfera del processo. Ma la sua arringa fu vibrante e coraggiosa, nonostante che il Prefetto Cosmin, capo della provincia, avesse detto ai difensori che non si comportavano bene c'era pronto del piombo anche per loro".

Considerando obiettivamente il clima di "eccezionale tensione" esistente nell'aula dove stava per iniziare il processo Candrilli, nessuno avrebbe potuto avere qualcosa da eccepire nei Suoi confronti se Ella avesse rifiutato, come altri suoi colleghi che lo avevano già fatto (nell'ordine Paroli, Bernardelli, Grassi) l'incarico difensivo d'ufficio che Le veniva proposto: avrebbe potuto, comunque, anche giustificare detto rifiuto con l'impossibilità di prestare la sua opera di difensore con pienezza di libertà, in quanto era evidente che sarebbe stato costretto ad agire sotto la pressione della violenza del pubblico (art. 185 e 468 del C.P.P.).
Invece la Sua partecipazione, sollecitata dal Paroli, rendeva possibile la prosecuzione del dibattimento appena iniziato ed a conclusione del quale si aveva il noto esito fatale per l'imputato. Mentre se il processo, per mancanza di difensore, fosse stato celebrato qualche tempo dopo si sarebbe sicuramente risolto in maniera ben diversa tanto fragili ed opinabili erano le accuse e di certo mutate le condizioni ambientali.
E' vero che le ipotesi e le deduzioni contano poco, ma i documenti sono tali che servono a completare senza possibilità di equivoci la cronaca dei fatti e ad illuminare tutti i retroscena di quella 'sporca" storia che fu il processo Candrilli.
Come Le è noto il ricorso fu articolato in due unici motivi, di cui solo il primo aveva un certo peso specifico, anche se il tono dell'esposizione avrebbe potuto essere più deciso, circostanziato e colorito. Ne riporto il testo integralmente:
"Violazione dell'art. 452 C.P.P. in relazione all'art. 524 n. 1 C.P.P.
In omaggio alla verità, va premesso che il Candrilli non ebbe modo di assumere un difensore a suo carico; il difensore d'ufficio, nominato pel dibattimento nella persona dello scrivente, dovette chiedere di essere esonerato dall'incarico per le gravezze dell'età e per la malferma salute.
Un nuovo difensore d'ufficio venne, dopo varie ricerche, trovato al dibattimento e questi ignaro del processo, chiese ed ottenne un termine di poche ore per conferire coll'imputato ed esaminare, molto sommariamente, le carte. All'inizio della ripresa d'udienza il difensore proponeva alla Corte una lista di testimoni a discarico, dei quali la Corte ammise quelli più facilmente rintracciabili e ne ordinò la citazione per il giorno dopo. Esaurita l'escussione dei testi a carico e sentiti gli unici due a discarico, comparsi, il difensore dichiarò che non intendeva rinunziare all'audizione degli altri, come il colonnello Alessandro Bettoni e tale Zappa di Brescia, ammessi, citati e non comparsi perché assenti dalla città.
Entrambi erano stati indotti su circostanze di rilievo: il Bettoni due volte arrestato dal Candrilli per ordine del Ministero dell'Interno, quale sospetto di attività patriottica e antitedesca, fu trattato con riguardo e correttezza dall'imputato.
Lo Zappa, dopo aver aiutato un disertore tedesco a fuggire, ricevendone fa pistola e la divisa e dandogli un abito borghese, seppe che la gendarmeria era a conoscenza delle cosa. Si confidò al Candrilli per averne consiglio ed aiuto; ed il Candrilli, anziché denunziarlo o far di peggio, lo consigliò ad occultare l'arme e la divisa e a raccontare alla gendarmeria germanica di essere stato costretto a cedere l'abito sotto la minaccia di morte.
La violazione di legge è evidente; l'art. 452 C.P.P. prevede il caso che il teste citato non comparisca, e stabilisce all'uopo che il Giudice, sentito il PM e le parti private, decide se proseguire o meno nel dibattimento. Nella fatti-specie la Corte non ha sentito nessuno; non il PM perché non l'ha interpellato; non l'imputato e la difesa perché non ha neppure rilevato che nella chiara dichiarazione di non rinunziare ai testi era implicita e trasparente la richiesta di rinvio del processo.
Comunque nel verbale del dibattimento non vi è traccia alcuna di una decisione della Corte al riguardo. Va aggiunto che mentre in un primo tempo, nel verbale si leggeva la dichiarazione pura e semplice della difesa, in seguito è stato aggiunto che il difensore non ha sollevato incidente.
L'aggiunta non ha alcun rilievo perché non spettava al difensore di far incidenti, bensì alla Corte di decidere sulla richiesta di rinvio, implicita nella dichiarazione di non rinunciare al testimoniale.
Io sono intimamente convinto che Lei, come i più abbia appreso, a suo tempo, dalla stampa la notizia del rigetto del ricorso Candrilli (6 luglio 1945) e sono sicuro che, successivamente, non si sia curato di conoscere la motivazione della decisione della Suprema Corte. Ritengo, quindi, necessario offrirgliene ora il destro, proprio sul punto che maggiormente la digrada perché bolla, purtroppo con le note irrimediabili conseguenze, il Suo operato di difensore. Sanciva, infatti, il Supremo collegio che: "In merito all'istanza di annullamento del giudizio e della sentenza proposta col primo motivo di ricorso denunziando per denegata giustizia la procedura seguita dalla Corte di merito coll'avere omesso di provvedere sull'istanza di rinvio del dibattimento, implicita nella dichiarazione della difesa di non rinunciare ad alcuni testi ammessi e non comparsi, va rilevato infatti, che successivamente alla detta dichiarazione il PM e la difesa hanno perso le loro conclusioni nel dibattimento senza sollevare formale incidente, perché la Corte d'Assise deliberasse sull'istanza di rinvio, né hanno comunque insistito per l'audizione dei testi non rinunziati. Non può pertanto esservi stata denegata giustizia dal momento che non è stato sollevato incidente che la Corte di merito dovesse decidere con ordinanza, e d'altra parte il silenzio serbato dalla difesa sana per acquiescenza la procedura dalla stessa seguita".

A meno di un mese dalla conclusione del processo Candrilli, precisamente il 4 luglio 1945, cioè due giorni prima che il ricorso dell'ex questore fosse deciso, Ella, evidentemente giudicato in possesso di quei requisiti di" illibatezza", ineccepibili precedenti politici e di provata "condotta morale" richiesti dall'art. 10 della legge 22 aprile 1945 n. 142, passava dall'espletamento del ruolo di difensore d'ufficio di un imputato fascista all'assolvimento della funzione di membro dell'ufficio del PM della Corte d'Assise Straordinaria di Brescia, cui era stato chiamato con provvedimento del Procuratore Generale del Regno presso la Corte d'Appello della città.
Ed il giorno 6 successivo iniziava la Sua attività di Sostituto Procuratore Generale "per merito politico" procedendo nelle carceri giudiziarie di Brescia all'interrogatorio proprio di due "collaboratori" del suo assistito del mese precedente: i funzionari di P.S. Pietro Sciabica e Domenico Cosentino.

Nel corso del nostro secondo ed ultimo incontro, cui ho fatto cenno in premessa, Ella tenne a dichiararmi, fra l'altro, che "nella vita si era sempre pentito quando aveva ritenuto di porgere una mano ad un uomo in procinto di affogare". Ora alla luce di tutti i particolari su riportati, Lei stesso vorrà convenire che tale Sua considerazione non può minimamente attagliarsi al caso Candrilli.
Non solo, ma sono anche rimaste indelebilmente scolpite nella mia mente due frasi con le quali Ella ritenne di dover rispondere ad altrettanti quesiti che Le avevo posti.

"ciò sarebbe stato sufficiente per buscarsi una fucilata all'angolo di una strada" e "in fin dei conti, cosa è successo? E' morto soltanto un uomo!".

E su queste due frasi, oggi come allora, senza rancore alcuno, ma sempre al servizio della verità, ritengo opportuno lasciarLa, con l'augurio che Ella abbia modo di riflettere a lungo sugli avvenimenti oggetto della presente lettera e che, nel riflettere, possa sentire il dovere di aggiungere qualche spiegazione od ulteriore dettaglio, in merito a quanto precede.

F.to Giancarlo Candrilli

fonte: Ludovico Galli, Il questore di Brescia della Repubblica Sociale Italiana, Brescia 2005, stampa a cura dell'autore, L. Galli, via Pavoni, 21 25128 Brescia, pag. 19-40

 

 

 

 

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