TREBESCHI: Io ringrazio che si pensi anche in particolare a mio
padre, ma penso che vederne un po’ la figura sia interessante per la
concretezza, per il fatto che non interessi tanto, a voi e in genere, la
conoscenza di singoli personaggi, quanto approfondire il contesto
generale: capire come ha potuto, come può succedere che, in una
determinata situazione, nel nostro paese, si affermino movimenti che
escludono ogni altra posizione, e durino per molti anni (e non è né la
prima né l’ultima volta, purtroppo) e come in queste situazioni
tuttavia qualcuno riesca a mantenere una propria personalità.
Credo che sia un po’ questo nel concreto che può interessare la figura
di mio padre: da una parte un contesto familiare particolare. Da parte
paterna il nonno è morto giovanissimo, quando papà aveva tre anni, e sia
il nonno Cesare che suo fratello Arnaldo erano "zanardelliani doc";
lo zio era laico e mio nonno era anticlericale, oltre che laico; da parte
materna la nonna era religiosissima e, pur essendo molto religiosa, morto
suo marito ha voluto restare ancora una decina d’anni nella casa del
suocero: quindi mio padre è cresciuto naturalmente molto legato a sua
mamma, ma anche con un grande rispetto per la famiglia paterna. Dunque la
presenza delle due tradizioni italiane più significative, sempre con
riguardo alla famiglia, si affianca all’aspetto, che oggi possiamo
ritenere superato ma che ha avuto il suo significato, che il fratello di
mio padre è stato volontario alla prima guerra mondiale ed è morto dopo
un anno al fronte. Non voglio certo sostituirmi ai vostri storici
ufficiali, ma oggi possiamo anche avere molte perplessità su un certo
Dannunzianesimo, che ha portato all’ingresso in guerra, guerra che forse
un po’troppo tardi è stata definita dall’allora papa Benedetto Decimo
Quinto “un’inutile strage”: inutile perché gli storici ci dicono
che quello che volevamo, cioè soprattutto Trento ma in parte anche
Trieste; l’Austria, pur di mantenere la pace, sarebbe stata disponibile
a qualche concessione, forse più a uno statuto particolare per Trieste,
ma per Trento gli Asburgo pare non avessero difficoltà, però ci fu
questa ventata non solo di patriottismo ma diciamo pure di nazionalismo.
Oggi fortunatamente la scolarizzazione è generalizzata mentre ai tempi di
mio padre era limitata ad una classe che potremmo definire genericamente
borghese. La situazione attuale è diversa e quindi è difficile capire
del tutto come la generazione studentesca di allora si fosse lasciata
molto influenzare dalle ventate nazionalistiche, non dico patriottiche.
Ricordo che il mio bisnonno e i suoi fratelli erano stati con Tito Speri
nelle Dieci Giornate, c’era questa tradizione di sentimento
risorgimentale e quelli che allora andavano all’università sentivano
molto l’accentuazione, non solo patriottica, ma proprio anche
nazionalistica, oggi in gran parte quell’atmosfera è cambiata.
Un altro aspetto del mondo di allora era stato un forte antagonismo tra
quelli che potremmo definire rozzamente clericali e anticlericali. C’era
stato un filone ristretto, ma a Brescia abbastanza consistente, di persone
che cercarono di ricomporre le due forze.
Per fare un esempio concreto riferito a mio padre, che era presidente di
una associazione studentesca, il 20 settembre del ‘23 partecipò alla
celebrazione della Breccia Porta Pia e, a seguito di tale episodio,
sebbene il vescovo avesse dato il suo consenso, fu indotto a dimettersi
dalla presidenza dell’associazione per un richiamo da parte della
Segreteria di Stato del Vaticano. Oggi non ce ne rendiamo conto perché
Paolo VI ha pur benedetto i bersaglieri che appunto a Porta Pia hanno
liberato almeno in parte la Chiesa dal potere temporale.
Altro esempio del problema del rapporto conflittuale fra le forze
politiche furono gli scontri violenti, con vittime anche nel bresciano,
tra socialisti e popolari. Un episodio particolarmente grave si verificò
a Sarezzo con un morto e con un pesante strascico di polemiche. Ricordiamo
che nel ’21 si è formato il partito comunista a Livorno, ma fino a
allora la sinistra era stata abbastanza unita e compatta nella
contrapposizione con i popolari. Poi per mettere d’accordo tutti ci
hanno pensato i fascisti che hanno saccheggiato sia i circoli dei
socialisti sia quelli dei popolari.
Un particolare che, per quanto riguarda mio padre può avere un certo
interesse, è stato il matrimonio. Mio padre ha sposato una modenese, di
famiglia veneziana. In Emilia gli scontri fra socialisti-comunisti e
cattolici erano stati particolarmente forti e nella famiglia di mia madre
c’era stata una chiara adesione al fascismo. Successivamente un fratello
di mia mamma, nella guerra di Spagna, si è arruolato con Franco, partendo
sotto la spinta della reazione a eccessi governativi. In particolare
rispetto alle repressioni del governo repubblicano nei confronti della
gerarchia ecclesiastica e dei conventi, in gran parte schierati contro il
rinnovamento repubblicano. Di fatto quindi è andato con quelli che allora
si chiamavano i ribelli. In realtà poi è tornato disgustato ed ha
raccontato che, purtroppo, molti dei nostri legionari in Spagna si erano
dedicati soprattutto a saccheggiare le case portandosi via quadri,
argenteria e altre cose di valore. Nonostante quell’esperienza era
sempre rimasto fascista, ma, dopo l’8 settembre, quando dalla segreteria
repubblichina gli giunse la proposta di comandare una brigata di
squadristi rifiutò e stracciò la lettera di richiesta. Quindi in casa
avevamo diverse posizioni.
Un altro fratello della mamma è finito fra gli internati militari: i
famosi seicento mila che dopo l’8 settembre vennero arrestati e
deportati. Questo zio, nel campo di internamento di Hammerstein in
Germania, venne eletto dai suoi compagni come comandante e rappresentante
degli ufficiali che non aderirono alla Repubblica di Salò. Della sua
esperienza di internamento ha tenuto un resoconto minuzioso, distinguendo
gli internati militari in tre categorie: quelli che avevano aderito alla
repubblichina, sperando di tornare e poi non sono tornati, quelli che
avevano aderito al lavoro per avere una mezza pagnotta di più e quelli
invece che non avevano aderito. Oggi, secondo alcuni, quello dei seicento
mila internati viene considerato il primo referendum patriottico, ma
storicamente è inesatto perché non tutti coloro che non fecero ritorno
avevano scelto di opporsi al regime fascista, quindi dire seicento mila
referendum del no repubblichino è una lettura un po’ ottimista dal
punto di vista politico.
Questo fratello della mamma era il fratello minore e, durante la
prigionia, furono molte le sollecitazioni da parte dei famigliari ad
aderire per poter tornare, ricordandogli che aveva una figlia piccola, la
moglie era in attesa di un’altra bambina e la madre molto anziana.
Allora lui aveva scritto una lettera nella quale spiegava la sua scelta,
anche di responsabilità nei confronti degli altri che erano con lui e che
avevano riposto in lui la loro fiducia. In quell’occasione tra gli
internati era stato autorizzato un ufficiale a fingere di aderire per
poter portare questa lettera in Italia, dove suo fratello, pur fascista,
si fece dovere di consegnarla ad amici che l’avrebbero fatta pubblicare
sul “Ribelle” (n.5 del 19 giugno 1944), il periodico clandestino forse
più diffuso in tutta Lombardia.
Mio padre da una parte era sentimentalmente legatissimo alla memoria di
suo fratello Giovanni, morto al fronte durante la Prima Guerra Mondiale,
quindi patriottico e antitedesco, nello stesso tempo molto portato alla
nonviolenza, quindi abbastanza perplesso sul ribellismo. In un primo
tempo, comuni amici cercarono di convincerlo a partecipare alla
costituzione del Movimento Partigiano a Brescia, con l’intento di unire
tutte le forze responsabili. Poi la sua partecipazione fu convinta, pur
mantenendo sempre un atteggiamento di grande prudenza alla quale cercava
di richiamare, soprattutto, i più giovani.
Ricordo una certa riunione nella canonica di San Faustino dove mi fece
conoscere Astolfo Lunardi ed entrambi non molto tempo dopo sarebbero stati
arrestati. Il primo arresto di mio padre fu tutto sommato casuale. Due
miei cugini, Franco e Roberto Salvi, figli della sorella di mio padre, si
erano molto compromessi nella distribuzione di stampa clandestina e nella
ricerca di armi.
Allora lo spionaggio era all’ordine del giorno, ma mi sono fatto una
convinzione in proposito che non è legata solo a quel periodo. C’è nel
Vangelo la parabola del buon seminatore che racconta del seme che cade
sulla strada, nelle spine e sulla buona terra. Anche quello che cade tra
le spine è un buon seme, con riferimento a quelle situazioni, quindi,
possiamo dire che abbiamo avuto purtroppo diffusi fenomeni di giovani che
l’afflato patriottico ha portato ad aderire al primo movimento della
resistenza, poi un po’ la paura, la fame e in alcuni casi anche lo
sconcerto per qualche episodio partigiano non solo increscioso ma
vergognoso, purtroppo effettivamente accaduti, ha cambiato idea. Hanno
deciso di non correre pericoli, stare dalla parte sicura e quindi ci è
capitato di vedere giovani, che consideravamo amici, che poi invece sono
venuti a fare delle perquisizioni nelle nostre case. Questo è un aspetto
che credo vada approfondito, perché è molto importante.
Quando vennero a cercare i miei cugini, io e mio padre eravamo a pranzo a
casa loro e, dato che non c’erano, loro padre scese a parlare con i
repubblichini. Poiché dopo mezz’ora non risaliva, scese anche mio padre
che, alla vista del cognato che era stato picchiato, protestò in modo
energico con i presenti: pertanto entrambi vennero arrestati e con loro
anche un altro cugino più giovane, Mario. Mio padre era avvocato e in
quell’occasione ci fu una mezza sollevazione nel foro bresciano, da
parte di diversi avvocati e giudici e, dopo due giorni, i tre vennero
rilasciati.
In seguito i miei cugini Salvi, uno dei quali sarebbe poi stato eletto in
Parlamento, insieme a don Giacomo Vender, curato di San Faustino, hanno
“procurato” una radio trasmittente, diciamo “rimediata” dalla
scuola Moretto di notte e, dopo la ricerca di altri nascondigli sulle
colline di Cellatica, alla quale anche io avevo partecipato, l’abbiamo
nascosta nella cantina di casa nostra. Un giorno un carissimo amico che
aveva formato il primo gruppo armato di partigiani era riuscito a
rapinare, con un termine giuridicamente esatto, cioè a prelevare dai
magazzini della Beretta a Gardone un buon numero di armi, e pensava che
sarebbe stato importante organizzare una trasmissione radio per la città
da parte del Movimento Partigiano. Ci fu una riunione a casa Salvi a
Cellatica, alla quale partecipammo anche mio padre ed io: a lui venne
chiesto di organizzare le operazioni per avviare le trasmissioni
clandestine di Radio Brescia Libera. Molti allora pensavano che la guerra
si sarebbe conclusa in poche settimane, perché i soldati italiani erano
stati cacciati dalla Russia, gli inglesi erano già sbarcati in Sicilia e
la Francia era caduta, quindi sembrava questione di poco tempo la
capitolazione nazifascista. Mentre papà invitava tutti a non illudersi,
perché Hitler, che aveva promesso di fare terra bruciata, aveva
dimostrato di saperlo fare sia in Polonia sia in Belgio che in Olanda.
Io non mi vergogno a dire che mio padre era fisicamente pauroso: era
convinto che le cose non si sarebbero risolte rapidamente e che bisognava
essere assolutamente prudenti. In occasione della riunione per Radio
Brescia Libera si ragionò sulle persone fidate che potevano essere
coinvolte ed un amico pensò di scrivere i nomi concordati: mio padre si
arrabbiò, perché sapeva del grave pericolo che avrebbero corso, nel caso
in cui l’elenco dei nomi fosse entrato in possesso dei fascisti o dei
tedeschi. Purtroppo l’amico, che aveva assicurato di non mettere per
iscritto la lista dei nomi, successivamente lo fece e, quando venne
arrestato, nella perquisizione trovarono proprio un piccolo foglio con i
dieci nomi individuati durante la riunione.
I tedeschi cercarono di arrestare le dieci persone indicate nell’elenco
e, soltanto grazie all’avvertimento che Franco Salvi era riuscito a far
pervenire a mio padre dal carcere, due riuscirono a fuggire in tempo:
Fausto Lechi, nazionalista, già podestà di Brescia che, dopo le leggi
razziali si allontanò dal fascismo, e don Luigi Daffini, allora parroco
di San Faustino.
Don Daffini, tra i promotori del Movimento Partigiano a Brescia, era stato
curato a Cellatica ed era un uomo focoso. Ricordo un episodio particolare:
un giorno un contadino era andato a dirgli che era stato picchiato dai
fascisti, chiedendogli consiglio su che cosa avrebbe dovuto fare. La
risposta di don Daffini fu: “Gioanì ricordati cosa dicono le Sacre
Scritture: o restituzione o dannazione”. Non era certo una persona che
si lasciasse intimorire dalle prepotenze di tedeschi e fascisti, tuttavia
in quell’occasione dovette scappare e nascondersi per evitare l’arresto.
Per mio padre arrivò invece il secondo arresto insieme agli altri
indiziati per la radio. E’ rimasto inspiegabile che, degli arrestati con
quella specifica motivazione, soltanto due furono trasferiti al Lager di
Dachau: mio padre e padre Carlo Manziana, priore dei Filippini dell’oratorio
della Pace. Manziana poi è rimasto deportato a Dachau fino alla
liberazione, mentre mio padre a fine giugno 1944 fu trasferito al campo
austriaco di Mauthausen. Attraverso le informazioni ricevute dall’avvocato
Fergnani, socialista mantovano, sopravvissuto alla deportazione, che aveva
fatto con lui il viaggio dalla Germania all’Austria, abbiamo saputo che
a mio padre avevano detto che sarebbe stato liberato e con il treno
sarebbe tornato a casa: soltanto quando a Innsbruck si accorse che il
treno anziché dirigersi verso il Brennero girava verso Vienna, si rese
conto della beffa.
All’arrivo a Mauthausen, sempre secondo il racconto del compagno
sopravvissuto, per un mese li hanno tenuti in quarantena, cioè non li
hanno fatti lavorare, perché dovevano verificare che non ci fossero
infezioni virali. Di quel periodo l’avvocato Fergnani, in un libro (“Un
Uomo e tre numeri”), ricorda che fra i compagni c’era un avvocato di
Brescia di idee diverse dalle sue, ma con il quale aveva trascorso molto
tempo con lunghe e interessantissime conversazioni.
Sulla possibile causa del trasferimento da Dachau a Mauthausen siamo
risaliti da notizie di vicende familiari, valutando delle particolari
coincidenze temporali. Già il campo di Dachau era un lager duro però non
come Mauthausen e soprattutto Gusen che è stata la sua ultima tappa ed è
stato il più atroce. Una ricostruzione che, dal punto di vista del
calendario sembra abbastanza plausibile, è questa: un cugino della mamma
era il direttore della clinica universitaria del Gaslini a Genova, uno
degli ospedali pediatrici più importanti di Europa. Aveva avuto in cura
il bambino del comandante della piazza, affetto da una grave malattia.
Alla guarigione del bambino, questo ufficiale andò dallo zio e gli disse:
“lei ha fatto un miracolo, mi chieda quello che vuole e io lo farò”.
Lo zio disse: “so che i miei cugini continuano a cercare di mandare un
pacco di viveri in Germania e non hanno mai avuto notizia che fosse
arrivato, vorrei che gliene venisse recapitato uno”. L’ufficiale
promise che avrebbe provveduto ma, alla vista dell’indirizzo di Dachau
disse: “ah io sono un uomo d’onore, quindi manterrò la parola data,
però lei chiede la mia condanna”. In effetti abbiamo saputo che l’ufficiale
tedesco venne mandato in Russia da dove non fece più ritorno.
Sempre in modo fortuito, cioè a un congresso della Croce Rossa a Ginevra,
al presidente della Croce Rossa di Brescia, l’ingegner Buizza, fecero
vedere il materiale raccolto nella biblioteca. Tra gli schedari vide il
bollettino d’arrivo del pacco inviato da Brescia a Dachau, arrivato nel
giorno nel quale però il papà partì per Mauthausen. Da allora non
abbiamo saputo praticamente più nulla perché, come vi ho detto, il papà
aveva il terrore che la sua famiglia potesse essere coinvolta, quindi non
ci ha mai scritto nemmeno una lettera per la paura di comprometterci,
mentre risulta che in molti casi i tedeschi concedessero ai prigionieri,
anche da quei Lager, di inviare una lettera al mese per far credere alla
Croce Rossa che fossero prigionieri normali.
Comunque non abbiamo mai avuto una riga: quello che sappiamo lo sappiamo
da qualche sopravvissuto sul treno da Dachau a Mauthausen. C’era Max
Boris che aveva attivato una radio clandestina a Firenze che è stato uno
dei massimi esponenti dell’associazione deportati e ci ha detto che l’aveva
visto. Ci ha scritto un deportato che era riuscito a farsi mettere nella
segreteria del campo di Mauthausen come interprete: aveva conosciuto il
papà e vide l’ordine di trasferirlo al campo di Gusen 2. Questo campo,
aperto solo recentemente alla visita, era di enormi dimensioni, e
comprendeva gallerie sterminate sotto oltre 50 metri, in un primo tempo
per la fabbrica di componenti di aerei e poi per il tentativo fatto dai
tedeschi di utilizzo di uranio arricchito per un progetto di bomba
atomica. Da quel campo saranno tornati in tutto una trentina di persone
rispetto alle migliaia che vi furono deportate: questo più o meno è il
poco che sappiamo.
Dal punto di vista storico può forse interessare cercare di capire
perché mio padre fosse un po’ in vista.
Nel ‘42-‘43 mio padre aveva organizzato una serie di conferenze
facendo venire persone per allora abbastanza in vista, uomini di cultura:
non so, forse il nome più famoso allora potrebbe essere Carnelutti,
grande avvocato, del quale però si diceva “carne per sé e lutti per
gli altri”!; altri come Giorgio La Pira poi sindaco di Firenze, il prof.
Federico Marconcini tributarista che sarebbe poi stato senatore, Mariano
Cordovani allora maestro dei sacri palazzi apostolici (teologo ufficiale
del papa). E siccome erano conferenze un po’ sul filo del rasoio
naturalmente suscitarono molte preoccupazioni in ambiente fascista, anche
perché contemporaneamente il papà aveva organizzato fiere del libro in
città e in provincia riuscendo a far circolare libri italiani e francesi
che non potevano non suscitare sospetti. Le ultime conferenze furono ai
primi di giugno del ‘43 cioè alla vigilia del primo crollo del fascismo
e averle organizzate può averlo messo in luce più del necessario. Papà
annunciava di volta in volta i temi delle conferenze proposte con articoli
che riunì poi in un opuscolo pubblicato semiclandestinamente nell’autunno
del ’43 (A la soglia dei problemi sociali”), sempre nell’autunno
pubblicò diffuse largamente un manifesto: “Ricchi e poveri”.
Molti giovani, che frequentavano quelle conferenze e altre iniziative
promosse da mio padre, si sarebbero poi impegnati a vari livelli: tra
questi Bruno Boni, sindaco di Brescia dal 1947 al 1975, Egidio Ariosto poi
ministro socialdemocratico, Franco Salvi parlamentare dal … al …,
Mario Cassa professore di storia e filosofia al liceo Arnaldo per vari
decenni.
Prof. Molinari:
Direi che è proprio un quadro che può mettere insieme l’aspetto
autobiografico della personalità con lo scenario, perché sia dal punto
di vista dell’intreccio famigliare che dell’intreccio storico mi
sembra ci sia già del materiale che offre molte piste su cui lavorare,
perché è uno spaccato non solo famigliare ma anche della storia di
Brescia e della storia d’Italia.
Jacques Panizza:
Quanto sarebbe pensabile di approfondire, restando legati alla biografia
di suo padre, la tematica delle differenze interne sia a quella parte di
società che ha offerto il consenso al fascismo, sia di quella che ha
fatto opposizione? Cioè ricordava anche lei la differenza fra la famiglia
di suo padre e quella di sua madre e anche all’interno di queste: a me
pareva molto interessante, appunto, questa enorme ramificazione, se ci
sono abbastanza dati, abbastanza materiali per lavorare su questo in modo
piuttosto specifico.
Cesare Trebeschi:
Forse un particolare che ho trascurato è quello diciamo “religioso”:
nel ‘18 mio padre con Battista Montini, che poi ha fatto un po’ di
strada, ha messo insieme un giornale studentesco che è durato qualche
anno (1925); quindi c’è stato questo legame molto stretto con Montini.
L’Istituto Paolo VI ha pubblicato il carteggio giovanile tra mio padre e
Battista Montini. Io prima avevo potuto pubblicare solo le lettere di
Montini non avendo quelle di mio padre, che invece Montini aveva in gran
parte conservato. Quindi questo è un aspetto secondo me di estremo
interesse. I vostri mentori vi diranno, credo, che la Democrazia Cristiana
non è stata fondata da De Gasperi, ma da Montini, che era convinto della
necessità di un impegno civile dei cattolici, non solo civile ma anche
organizzato tra loro. Mio padre invece non era di questo parere ed ebbe
una polemica violenta con un esponente del Partito Popolare nel ‘24 e,
pur essendo prima in rapporti anche molto cordiali, in pratica non si
salutarono più per quindici anni, proprio perché papà era del parere
che siamo cittadini in uno stato, e non soltanto cristiani, dobbiamo
impegnarci per la città di oggi e non soltanto per il paradiso. Città di
oggi nella quale non solo è lecito, ma è bello avere idee diverse: chi
vuole costruire con dei mattoni omogenei probabilmente non pensa che la
varietà sia importante. A casa sua, come dicevo, avevano idee un po’
diverse, però ebbero un rapporto amicale molto stretto, dimostrato da un
carteggio, che in meno di trent’anni sarà costituito da un centinaio di
lettere; poi ne abbiamo trovate anche altre. Papà e Montini erano
coetanei, essendo nati nel settembre ’97, e il papà aveva una stima
enorme di questo suo amico e io lo ricordo, perché papà, avendo come
tutti i genitori forse stima dei propri figli più del dovuto, mi portava
come bagaglio appresso alle riunioni, anche clandestine. Ricordo una certa
riunione a Roma di un suo gruppo, diciamo di cattolici impegnati, che
sostenevano questa opportunità di un’unità solo sulle cose
fondamentali, ma del pluralismo nel resto e si discuteva. “Eh però i
vecchi popolari hanno un leader importante come De Gasperi e quindi
sicuramente riescono a sfondare”! Per di più tra i, diciamo, fondatori
della Democrazia Cristiana c’era un giovane che nei primi anni ‘20 era
stato non so se presidente o segretario della FUCI, ed era riuscito a
conservare rapporti in tutta Italia e quindi aveva una possibilità di
ricostituire e di costituire ex novo un movimento, mentre gli altri erano
piuttosto dispersi e forse non avevano figure particolarmente
rappresentative. Ma dopo la discussione ricordo uno che dice: “Sì sì
va beh, vanno bene tutti come leader, però di là c’è Monsignor
Montini che tiene tutto il Vaticano dalla parte di De Gasperi!” e
ricordo il papà che dice: “Vò me da Montini!” e andammo insieme. Io
ricordo la scena: il disappunto, subito frenato, di mio padre perché
Montini mi offrì una cioccolata con i biscotti e disse al papà: “noàlter
andòm de là”, e mi piantarono in asso per più di un’ora. La
discussione fu evidentemente molto lunga e approfondita e, per la prima
volta, mio padre non mi riferì nulla: evidentemente Montini riuscì a
convincerlo non solo della opportunità hic et nunc dell’unità dei
cattolici italiani ma anche a prendersi una responsabilità personale
nella costituzione a Brescia del partito dei cattolici.
Prof. Magurno:
Posso chiederle una cosa che mi incuriosisce molto? Allora suo padre è
stato compagno anche di classe all’ Arici, perché due anni, da quello
che ho letto, due anni di ginnasio, diciamo, li ha trascorsi all’Arnaldo
e poi è passato all’Arici, probabilmente di Giovan Battista Montini;
quindi, siccome erano coetanei, probabilmente hanno sostenuto l’esame di
maturità nello stesso anno, nel senso che, a riguardo, ho un’informazione,
almeno che compare in un libro pubblicato da Augusto Monti, il maestro di
Cesare Pavese, che ha insegnato all’Arnaldo dal ‘19 al ‘23-’24,
come ricorda lo stesso Augusto Monti in un volume “I miei conti con la
scuola”, pubblicato da Einaudi, che si trova anche alla biblioteca dell’Arnaldo
(io, per altro, ho ricordato Augusto Monti, quando insegnavo in quella
scuola, dedicandogli un pomeriggio di studi, invitando il professor Luigi
Pati, dell’Università Cattolica di Brescia, e il professor Tesio, dell’Università
del Piemonte Orientale, e poi il sindaco del paese natale, un paese della
provincia di Cuneo, mi pare, quindi è stato un bel pomeriggio!).. Ebbene,
Monti, ricordando la sua esperienza bresciana, all’interno di questo
volume, parla dell’esame di maturità di Giovan Battista Montini e dice:
“Io ho esaminato un giovane vispo dall’occhio arguto, eccetera
eccetera.., che veniva dal Liceo Arici e che doveva sostenere gli esami
all’Arnaldo”; quindi anche suo padre probabilmente ha sostenuto l’esame
nello stesso anno e, magari, con lo stesso Augusto Monti: questo
particolare non si può appurare?
Cesare Trebeschi:
Credo che papà abbia fatto la maturità a Bologna perché quando partì
suo fratello come volontario, chiese anche lui di arruolarsi, ma fu
investito da un camion proprio il 24 maggio e, quindi, passò l’ultimo
periodo di ospedale in ospedale. All’Arnaldo in quel periodo c’erano
Giorgio Valgimigli poi grande medico, figlio del letterato Manara
Valgimigli e Lionello Levi che è stato Presidente del Consiglio di Stato
e il cui padre Dario insegnava all’Arnaldo.
Prof. Magurno:
Comunque questo Monti parla benissimo di Giovan Battista Montini e dice:
“Ma aveva delle prevenzioni iniziali nei confronti della scuola statale,
però poi parlando è apparso alla fine più disteso e diceva che aveva
fatto un esame brillantissimo e Monti aveva sentito il bisogno di
intrattenersi con lui dopo l’esame”.
Cesare Trebeschi:
Allora un altro professore dell’Arnaldo era un naturalista: ricordo che
mio nonno materno, che era pure naturalista, era professore di botanica
all’Università di Modena e disse all’aspirante genero: “Salutami il
professor Cacciamali “. Quando papà , che aveva avuto degli scontri con
questo grande anticlericale, gli disse: “Mi manda il professor De Toni a
salutarla!”. “De Toni? Lei?”. L’altro personaggio della famiglia,
del quale non dico che ci vergogniamo ma quasi, il fratello del mio nonno
materno, era invece uno studioso di geografia e, purtroppo, collaborò col
famigerato conte Tolomei nel processo di italianizzazione che ha cambiato
tutti i nomi dei paesi e delle famiglie sudtirolesi. Io ho avuto una
vicenda professionale interessante per il riconoscimento della
peculiarità delle comunioni familiari di montagna nell’Ampezzano e c’era
un certo professor Serafino Maierotto, che di famiglia si chiamava Otto
Maier: per dire che è stata una cosa ignobile! In Val D’Aosta son
riusciti a mantenere la loro fisionomia, mentre appunto in Alto Adige è
stata modificata tutta la toponomastica e addirittura i nomi delle
famiglie.
In generale la cancellazione delle identità è una cosa terribile. I
nazisti lo hanno fatto incidendo il numero sul braccio dei deportati,
chiamandoli e facendoli conoscere soltanto per un numero.
|
APPENDICE: Nina Grazi -
Nota storica su Giovanni Andrea Trebeschi
Sin dal dibattito politico
risorgimentale fu abitudine degli storici quella di dividere gli italiani in
due schieramenti, contrapponendo non i partecipanti attivi ai non
interessati alla vita pubblica e al moto unitario del Paese, bensì i
liberali ai clericali, sorvolando, così, quasi del tutto, l’acuto e
diffuso entusiasmo patriottico di questi ultimi. Giovanni Andrea Trebeschi
è, in questo, figura esemplare; figura che seppe combinare la sua profonda
fede religiosa al più convinto ideale patriottico, e che mantenne viva
questa fusione di ideali per tutta la vita, forse perché connaturata alla
stessa, avendo ereditato questi valori, rispettivamente, da madre e padre.
Trebeschi fu espressione tipica, ma al tempo stesso più alta, del contesto
sociale, politico e religioso della città di Brescia e dell’intera Italia
in epoca fascista. È questa la situazione storica su cui egli si affaccia,
con una lotta – o meglio ancora, una convinzione – radicale, costante e
in continua evoluzione, che non oltrepassa mai, e neppure si allontana, dai
principi della morale e della religione cristiana. Numerose sono le critiche
che riceve, per l’impegno politico, l’attenzione per il sociale, la fede
patriottica, ed è proprio nelle risposte a queste critiche, sempre pacate e
cristalline, di chi non ha dubbi, di chi conosce sinceramente quello in cui
crede, che chiaramente viene rivelato il suo ideale. È, per esempio, in una
risposta a Longinotti che Trebeschi si domanda:
« Che fa dunque la G.C.I (Gioventù Cattolica Italiana) di fronte
alla politica? Bisogna tener presente che lo scopo della G.C.I. è la
formazione religiosa sociale delle coscienze giovanili, la preparazione dei
futuri uomini cattolici e cittadini italiani. Ora, cos’è la politica? La
vera sana politica è la grande azione collettiva dei cittadini per il bene
temporale della Patria, della sua terra, delle sue industrie, del suo
popolo, nel senso cristiano, nel rispetto e nell’onore della Chiesa.
Perché dunque la G. C. non dovrebbe collaborarvi? Sì, che vi collabora;
formando e sviluppando nei nuovi cittadini le virtù cattoliche che sono
anche le uniche virtù patriottiche: spirito di sacrificio, di disciplina,
rispetto all’Autorità, formando carità nelle famiglie, senso di
giustizia nei proprietari, di dovere nei lavoratori. . .
Ma la politica è praticamente lotta di partiti, spesso violenta e chiassosa
campagna elettorale: ciò è assolutamente fuori dai fini della G.C.I. e per
questo il Papa ne proclama la più precisa e leale distinzione.»
E ancora, alle critiche di chi vede La Fionda vincolata alla politica
risponde:
«E che cos’è questa signora Politica, dopo tutto, da meritare tante
condanne?
È l’anima della Storia. E dite poco voi?
È la scienza del Governo degli Stati.
E allora, come disinteressarsene noi; noi, che viviamo in una epoca storica
in cui il governo degli Stati è uno dei problemi più gravi e importanti
per l’Umanità e per le sue vie dell’incivilimento? La politica serve a
molte, a troppe ambizioni e a molte, a troppe tasche. Sì, è vero. Ed è
per questo che molte cose vanno male e infinite ragioni di lamentele e di
malcontenti e di reazioni turbano la vita della Nazione. […] »
Con il trascorrere degli
anni inizia tuttavia ad emergere sulla scena politica bresciana un fascismo
che si fa via via sempre più radicale, e contro il quale il contrasto di
Trebeschi si fa sempre più acceso. L’occasione delle prime polemiche è
la questione di Fiume. Un ex fiondista, ora esponente del nascente fascismo,
Alessandro Melchiori, accusa Trebeschi di rinnegare l’italianità, sino a
definirlo, nel giornale studentesco Vita Nova, di essere la rovina del
Movimento Studentesco Bresciano, e di essere un politicante. L’opposizione
di Trebeschi di fronte ai numerosi tentativi di Melchiori di trovare
adesioni tra il movimento studentesco è severissima, così come severissima
è la posizione di Trebeschi di fronte ai primi pronunciamenti fascisti,
considerando il Popolo d’Italia, insieme all’Avanti, «figli della
medesima megera, smorfie di un medesimo odio e di una medesima
contraddizione. . .»
E ancora, sul fascismo,
scrive:
«Quando manca un principio base superiore a un movimento, e quando il
metodo di tale movimento si basa solo sul pregiudizio della ragione a chi
picchia più sodo, più brutalmente, quando un movimento vuole fare anche
guerra religiosa casca, decade, traligna, tradisce persino i suoi primi
postulati.»
I fascisti lo ricambiano con forte violenza verbale, numerosi sono gli
attacchi che Trebeschi vede indirizzarsi, soprattutto da parte de La Fiamma,
a causa della sua presa di posizione contro il fascismo. Rapidamente, però,
lo scontro verbale diventa concreto: è il 1° novembre 1922 quando i
fascisti invadono Palazzo S. Paolo, sede de La Fionda, danneggiando e
distruggendo macchinari della tipografia e degli uffici, rovinando carte e
documenti con insulti e frasi ingiuriose. È il numero successivo, uscito in
ritardo, de La Fionda stessa a dare notizia del gravissimo episodio. In esso
si ribadisce la non adesione al fascismo: non è possibile, si sottolinea,
che i cattolici aderiscano ad associazioni che prendono atteggiamenti più o
meno apertamente antireligiosi. Nello stesso numero, però, ci si chiede per
quale motivo una rappresaglia puramente politica abbia invaso e colpito
istituzioni di carattere religioso.
Ancora una volta, anche di fronte un episodio così colmo di violenza,
Trebeschi carica – di contro – le sue parole di speranza, di fiducia. Le
sue posizioni sono però sempre fermamente e radicalmente ostili al
fascismo: «[…] Al Fascismo però si deve riconoscere la sincerità di
essersi finalmente proclamato Partito Politico; non gli resta che un gesto
ancora di lealtà: quello di proclamarsi ufficialmente “antireligioso”».
Esso si fonda su teorie dell’odio, della violenza, del cinismo e,
soprattutto, della menzogna: in questo ultimo elemento Trebeschi intravede,
oltre al resto, il carattere profondamente diseducativo del fascismo stesso,
per i giovani e per la società tutta. Al di là di questi fermi
pronunciamenti e nonostante questa profonda convinzione Trebeschi non ha
intenzione di sacrificare completamente il movimento nella lotta politica.
Nonostante il rincrudire degli episodi di violenza fascista – spesso non
solo verbale – Trebeschi ribadisce il ruolo esclusivamente morale,
religioso e culturale de La Fionda, e distingue chiaramente l’attività
dell’Apostolato Cattolico dall’attività politica.
In risposta ad un articolo del Popolo di Brescia, respinge l’accusa di
voler istituire una «milizia bianca» e ordina, per non offrire pretesti al
Fascismo, la soppressione del gruppo delle «Camicie bianche» promosso da
Davide Cancarini tra i soci della Gioventù Cattolica di Val Trompia per
evitare eventuali assalti a processioni religiose da parte di elementi
sovversivi.
In qualsiasi lettera inviata, in ogni articolo scritto riecheggia tutta la
fierezza del cattolico militante e del cittadino democratico.
Andrea Trebeschi
dall'Enciclopedia Bresciana di mons. Antonio Fappani:
(Brescia, 3 settembre 1897
- Gusen, Austria, 24 gennaio 1945). Di Cesare (v.) e di Elvira Fiorini.
Avvocato. Di famiglia patriottica, rimane orfano con due fratelli a soli tre
anni, per cui sente vivissima l'influenza della madre, donna di viva
intelligenza, di alte virtù e di profonde convinzioni religiose. Frequenta,
1903-1904, fin dalla prima elementare il Collegio Cesare Arici e ottiene la
menzione onorevole mentre il condiscepolo Giovanni Battista Montini miete il
primo premio. Frequenta poi le scuole pubbliche per ritornare al Collegio
Arici dove nel 1914 è segretario della Congregazione Mariana della quale
Giovanni Battista è prefetto. Completa il ginnasio all'Istituto Arnaldo da
Brescia, mentre frequenta con il fratello Giovanni l'oratorio della Pace. Si
iscrive all'Associazione Alessandro Manzoni della quale diviene presto
protagonista, coinvolto in un intenso apostolato oltre che religioso,
culturale e civile. Nel 1914 a 17 anni promuove a Cellatica una biblioteca
circolante e dà vita ad un giornaletto poligrafato dal titolo "Parvae
Favillae" per tenere i contatti con i compagni dispersi dalle vacanze.
La guerra registra il suo
passaggio dall'avversione alla partecipazione e all'arruolamento nel 1916.
Immobilizzato a lungo per un incidente automobilistico, riceve la notizia
della morte, avvenuta il 24 luglio 1916, per ferite di guerra del fratello
Giovanni del quale da ora in poi assume il nome firmandosi Gian Andrea. Pur
nel servizio militare, continua l'attività di apostolato e assume la carica
di presidente della Società A. Manzoni (v.); organizza manifestazioni e
attività di sostegno e di assistenza ai combattenti e ai mutilati e reduci.
Organizza in casa sua una "Maison du soldat français"; ospita,
sempre in casa, legionari cecoslovacchi, mentre la madre fonda con altre
signore l' "Associazione madri e vedove dei caduti di guerra".
Prima ancora che la guerra termini, il 15 giugno 1918 fonda "La
Fionda", organo dapprima della "Manzoni" e, più tardi,
dell'Unione Nazionale Studenti Medi, con diretta collaborazione di don Piero
Rigosa, Giovanni Battista Montini, Mario Marcazzan, Mario Bendiscioli,
Giulio Bevilacqua, Giuseppe Schena e altri. Mentre "La Fionda",
che ha il sostegno di personalità quali p. Semeria, p. Giovanazzi, p.
Gemelli, mons. Pini ecc., allarga sempre più il suo ambito mobilitando
giovani di altre città e regioni, pubblicando un'edizione per il
Mezzogiorno con sede a Napoli, egli intensifica l'attività (sezioni, gruppi
di cultura, corsi, conferenze, teatro e anche una libreria), organizza un
"Convegno studentesco della Vittoria" (22-24 aprile 1919), che
porta alla rinascita della F.U.C.I. (Federazione Universitari Cattolici
Italiani). Ai primi del 1922 fonda l'Unione Studenti Medi Cattolici, della
quale la "Fionda", nel settembre, diventa l'organo. Nel 1924
promuove un "Patronato nazionale per l'assistenza morale e materiale
delle organizzazioni degli studenti cattolici medi". Per gli studenti
nell'estate 1924 apre a Saviore una colonia alpina. Intensamente impegnato,
trova il tempo di laurearsi nel luglio del 1921, di sposarsi l'1 giugno 1922
con Vittoria De Toni (n. a Modena il 22 novembre 1903) e di superare gli
esami di procuratore il 14 aprile 1923. Dalla moglie avrà quattro figli:
Maria Elvira (Brescia, 22 settembre 1923), insegnante, Cesare (Brescia, 21
agosto 1925), avvocato e sindaco di Brescia dal 1975 al 1985, Giovanni
Battista (Brescia, 6 aprile 1927) ed Elvira Amalia (Brescia, 4 maggio 1929).
È impegnato fin dal 1919 nell'attività diocesana nell'Azione Cattolica e
in particolar modo nella Federazione Giovanile Leone XIII. Nel dicembre 1921
viene chiamato alla vice presidenza della Giunta diocesana dell'A.C.; il 24
agosto 1922 viene nominato presidente del Centro cittadino cui affianca un
sottocentro per le periferie: oratori, scuole di religione, un circolo
militare, associazioni scautistiche, conferenze di S. Vincenzo, adorazione
notturna, ritiri, sostegno ai templi votivi, giornate del Vangelo,
Università Cattolica e molte altre attività lo vedono in prima linea tanto
da portarlo il 6 aprile 1923 alla presidenza della Gioventù Cattolica
bresciana. In tale incarico organizza il Congresso Regionale Lombardo
(Brescia 1-6 maggio 1923). Ma nel settembre 1924 incappa in un incidente.
Alla richiesta del Commissario Regio di una partecipazione della Gioventù
Cattolica alla festa del XX Settembre, data che ha «ormai perduto ogni
vuoto carattere settario», vi aderisce; ma le riprovazioni
dell'"Osservatore Romano", della "Civiltà Cattolica",
di dirigenti cattolici lo costringono il 4 dicembre 1924 a rassegnare le
dimissioni di presidente, rimanendo nella carica di vice presidente della
Federazione Giovanile Leone XIII.
Negli stessi mesi si
consuma anche la sua militanza politica nel P.P.I. dove ha assunto fin dal
1919 decise posizioni sulla aconfessionalità del partito, sulle battaglie
sindacali di Guido Miglioli e dei suoi, sul voto delle donne, ecc. Accetta
di essere eletto consigliere comunale di Cellatica, partecipa al Congresso
nazionale di Napoli, ma fin dall'ottobre 1921, in vista del Congresso di
Venezia del P.P.I., presenta con Leonzio Foresti, alla sezione cittadina, un
ordine del giorno in favore di una collaborazione con i socialisti per una
più netta resistenza al fascismo e una più decisa politica sociale.
Coerentemente si impegna in un'intensa azione sociale fra studenti e operai.
Decisa è la sua battaglia al fascismo, dal quale riceve attacchi e anche
minacce e dal quale deve registrare nel 1922 e poi nel novembre 1926 la
devastazione della sede della Fionda e delle associazioni cattoliche di
Palazzo S. Paolo. Nel tentativo di tener viva l'attività del movimento
cattolico nella società italiana distinta dal Partito Popolare, polemizza
vivacemente con l'on. Longinotti e fino al novembre 1926 continua
l'attività nel movimento studentesco e della Fionda. Sacrificata questa
dalla violenza fascista, continua ancora per qualche anno, nonostante gravi
prove morali, a far parte della Giunta Diocesana e del Consiglio Nazionale
dell'A.C. che lascia poi nel novembre 1934 con la presidenza nazionale di
Gedda. Tuttavia continua come "umile miles Christi" ad
interessarsi del Movimento Laureati cattolici. Numerose iniziative,
conferenze, pubblicazioni lo accompagnano, mentre le cure familiari e quelle
professionali scandiscono anni di nascondimento. Avvocato, gode la
considerazione di maestri del diritto come Piero Calamandrei. Ma continua a
studiare e a sperare, anzi, come scrive in "A la soglia dei problemi
sociali." "a meditare per operare" a "meditare e
studiare con mente libera da ogni pregiudiziale interessata (...) con cuore
aperto a tutte le giustizie e a tutte le generosità". La meditazione e
l'attenzione al momento storico lo orientano verso don Primo Mazzolari,
Giorgio La Pira, e Parte Guelfa di Malvestiti.
Nel 1941 è attivo nella
sempre più decisa resistenza al fascismo. Con don Agazzi, mons. Almici,
Enrico Roselli, Enrico Testa studia un piano di apostolato negli
stabilimenti; con Vittorio Gatti, con i librai cattolici si spende per
progetti editoriali, per le fiere del libro cattolico; con don Daffini, p.
Manziana organizza un ciclo di conferenze che vede tra gli oratori La Pira,
Marconcini, p. Cordovani, Fanfani, Corsanego ecc. Tiene conferenze, scrive
su l'"Italia" di Milano, "La Voce Cattolica", ecc.,
diffonde manifestini di propaganda. Il 25 luglio 1943 la caduta del fascismo
lo trova pronto. Il 26 luglio in una riunione nella canonica di S. Faustino,
presenti militanti del movimento cattolico, viene incaricato
dell'organizzazione cattolica in campo politico e sociale, dei rapporti con
gli altri partiti. L'attività di progettazione si fa intensa.
Dopo il crollo dell'8
settembre 1943, avvertito della possibilità di una cattura da parte dei
tedeschi e fascisti ritornati in circolazione, a Zone, dove si rifugia,
incontra i primi resistenti. Pregato da p. Manziana di scendere in città,
qui è fra gli organizzatori della resistenza attiva anche se vede il
pericolo di imprudenze e di fughe in avanti. Molti gli incontri con
personalità non solo bresciane, alla ricerca di quadri del movimento
cattolico politico, sociale, amministrativo. Per il 4 novembre 1943 lancia
un appello alla resistenza; pochi giorni dopo appoggia un colpo di mano per
assicurare al movimento clandestino la radiotrasmittente dell'Istituto
Moretto che egli ospita in casa sua a Cellatica. Sempre più sospettato
viene, nel dicembre, arrestato e trattenuto 48 ore in Questura. Tuttavia
accetta di incontrare l'esponente più in vista del fascismo repubblicano,
Innocente Dugnani, al quale ribadisce l'impossibilità di qualsiasi
collaborazione. Le energiche proteste degli avvocati e magistrati della
città, assieme a quella del vescovo, lo riportano, con scuse, in libertà e
l'assicurazione che simili incresciosi errori giudiziari non si sarebbero
ripetuti. Ma quando il suo nome viene trovato assieme a quelli di p. Carlo
Manziana, Mario Bendiscioli, don Giacomo Vender, Pietro Feroldi in un
elenco, trovato addosso a Peppino Pelosi (v. Pelosi Giuseppe), di persone
disposte a collaborare a Radio Brescia Libera che dovrebbe svolgere
propaganda antifascista, viene il 6 gennaio 1944 definitivamente arrestato
assieme ad altri. Dopo i primi interrogatori e pestaggi, il 28 gennaio viene
trasferito a Verona nel forte di S. Mattia e poi a quello di S. Leonardo, e
il 29 febbraio viene trasferito in Germania. Passa dal campo di
concentramento di Dachau a quello di Mauthausen e poi l'1 gennaio 1945 a
quello di Gusen, dove consumato da stenti e dal duro lavoro, si spegne il 24
gennaio "per debolezza cardiaca".
Nell'ottobre 1969 gli
veniva dedicato un nuovo villaggi a Gussago. Per delibera del Consiglio
comunale di Brescia gli è stata intitolata una via (v.). Alla sua memoria e
a quella di Franco Gerardi è dedicata la lapide sotto il porticato interno
del palazzo della Corte d'Appello con la seguente iscrizione: «A perenne
memoria / dei colleghi / che diedero la vita / per la resurrezione d'Italia
/ l'ordine degli avvocati e procuratori / ricostruito in libertà / ne
scolpisce qui i nomi e il sacrificio / monito ed esempio / per l'avvenire /
avv. Andrea Trebeschi / morto in campo di concentramento a / Mauthausen il
24 gennaio 1945 / dr. Franco Gerardi / fucilato dai tedeschi a Limone del
Garda / il 28 giugno 1944».
Fu collaboratore del "Cittadino di Brescia",
dell'"Italia" (Milano), di "Voce Cattolica" e "Voce
del Popolo".
HA PUBBLICATO:
"Idealità nostre" e "Contrasti" assieme a Gianni Naldi,
edito dall'Associazione Studenti Bresciani "A. Manzoni" (Brescia,
Fratelli Geroldi, 1918, 43 p.); "Luci e riflessi di vita
giovanile" (Brescia, Tip. Ed. Morcelliana, 1924, 142 p.);
"Preghiere e pensieri di vita cristiana" (Brescia, Tip. Pavoniana,
II edizione, 1936, p. 279, in 8°); "Le casse rurali ed artigiane"
(Brescia, Tip. Pavoniana, 1938, p. 227, in 8°); "L'uomo di tutti i
tempi" (Brescia, Scuola Tip. Opera Pavoniana, 1938, 27 p.); (A.T.)
"La terra non inganna" (Milano, Ed. Ancora, 1941, 256 p.); "A
la soglia dei problemi sociali" (Brescia, Queriniana, 1943, 31 p.);
"Alcuni pensieri del nonno Andrea per ricordare il giorno del
Battesimo" (s.i.t., 23 giugno 1963); "A mio figlio nel giorno
della sua prima Comunione: oggi, per domani e sempre" (Tip. Morcelliana,
1932). Traduzione: G. e P. Mornand, "La dolorosa infanzia.
Romanzo" (Brescia, Tip. O. Rovetta, 1934, 288 p.).
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