Augusto Paganuzzi
Ricordi
del tempo di guerra e di Franco Passarella
La mia famiglia, arrivata a Brescia dal Veneto nel 1932, dopo aver abitato
per alcuni anni in Via Musei, si era trasferita, nel 1940, al Palazzo
INCIS (Istituto Nazionale Case Impiegati Statali), in Piazza Vittorio
Veneto. Io ho, quindi, passato gli anni della guerra 40-45 prevalentemente
in questa zona di Brescia, allora molto periferica. A nord dell'Incis, in
prevalenza, c'erano ancora campi coltivati o fabbriche, come l'OM e la S.
Eustacchio, oltre all'Istituto Pavoniano con la sua chiesa parrocchiale.
In questa grande struttura abitativa, di oltre 60-70 appartamenti,
abitavano molti insegnanti e, fra questi, anche la famiglia del
prof.Passarella, insegnante di storia dell'arte al liceo Arnaldo (e quindi
collega e poi amico di mio padre) e mio stesso insegnante al liceo.
I Passarella m'invitavano spesso nella loro casa per far compagnia al loro
unico figlio, Franco, di un anno maggiore di me. Diventammo quindi molto
amici, sebbene non fosse un tipo molto espansivo.
Da adolescenti, com'eravamo, fra noi si parlava spesso della guerra e del
clima politico nel quale eravamo costretti a vivere. Io, che frequentavo
moltissimo l'oratorio dei Padri della Pace, dove in pratica ho avuto la
mia educazione religiosa e morale, avevo assorbito lo spirito di critica
alla dittatura e di amore per la libertà che vi si coltivava, sia pure
con la prudenza che i tempi pericolosi, nei quali si viveva, consigliava,
e mi ero accorto che anche Franco era molto critico nei confronti del
regime fascista. C'era quindi fra noi una solidarietà d'idee che ci aveva
avvicinato reciprocamente ancora di più.
Durante tutto il periodo di guerra, specie dal 1941, facevo parte di un
gruppo di giovani (eravamo una trentina circa) che aiutavano le
numerosissime iniziative caritatevoli del vescovo mons. Tredici, sostenute
e coordinate dal compianto suo segretario, mons. Angelo Pietrobelli:
raccolta e distribuzione di viveri e di vestiti ai poveri e a quelli che
avevano
perso tutto nei bombardamenti; ascolto ogni mattina dalle 6 alle 8, prima
di andare a scuola, delle radio della Croce Rossa Internazionale e del
Vaticano, che trasmettevano, in orari prestabiliti, lunghi elenchi di
prigionieri di guerra, per rilevare i nomi di quelli bresciani e poterli
poi comunicare alle famiglie; squadre di Pronto Soccorso, che uscivano
subito dopo la fine dei bombardamenti per soccorrere i feriti e
raccogliere le salme dei morti, o che si sostituivano alla Croce Bianca
(non ricordo se allora fosse la Croce Rossa!), spesso a corto di
autoambulanze, per trasportare in ospedale, trasferito alla Pendolina, su
semplici lettighe munite di due ruote di bicicletta saldate ai fianchi, i
malati gravi
bisognosi di ricovero, ecc.
Dopo l' 8 settembre, con la successiva invasione tedesca e l'avvento del
governo repubblichino fascista, noi giovani, sebbene ancora adolescenti
(nel settembre del 43 io non avevo ancora 17 anni, ma alcuni miei amici
erano ancora più giovani), sentivamo che questo tipo di attività
caritativa non era più sufficiente e che bisognava subito fare qualcosa
di più, qualche azione direttamente mirata alla più rapida disfatta dei
nazifascisti, e come testimonianza, in ciò seguendo le orme di tanti
amici di età maggiore che
sapevamo silenziosamente impegnati nella resistenza attiva.
Durante l'estate del 44, passata a Pontedilegno, don Giovanni Antonioli,
allora giovane curato di quella parrocchia, spesso mi chiedeva di aiutarlo
per portare, di notte, armi e viveri ai partigiani, nascosti nelle baite
di Sommalbosco o della Val Grande di Vezza d'Oglio (una volta raggiungemmo
perfino il Mortirolo dalla Val Grande salendo la Val Parola e la Val
Bighera): armi che andavamo a raccogliere in Val Sozzine, sotto pietre e
tronchi, ivi lasciate non ho mai saputo da chi. Altre volte mi mandava in
bicicletta fino a Corteno, e da lì in Val Brandet, per portare messaggi
ai partigiani del luogo. Mi fermavo dal fornaio di Corteno, il quale
sapeva come preavvertire i partigiani del mio arrivo e ci riconoscevano
con fischi prestabiliti.
Ma nei periodi di scuola dovevo stare in città. Avevo anche cercato di
chiedere ad Astolfo Lunardi, tramite la figlia Federica, che faceva parte
del nostro "gruppo del vescovo" e che era amica mia, se potevo
entrare nell'organizzazione partigiana vera e propria, ma avevo avuto il
consiglio di lasciar perdere. Probabilmente mi vedevano troppo giovane o
un soggetto troppo irrequieto e non sicuro. L'unico incarico che avevo
avuto era stato quello di distribuire ogni tanto "Il Ribelle",
il giornale saltuariamente stampato dalle Fiamme Verdi. Federica mi diceva
dove l'avrei trovato: era sempre in qualche via periferica isolata,
nascosto sotto le frasche o sotto i muretti in pietra dei sentieri per la
Maddalena, o in Costalunga. Lo distribuivo di sera, al buio, inserendolo
nelle buche delle lettere o sotto i portoni di case, scelte a caso, o,
qualche volta, durante la ricreazione, anche sotto i banchi del liceo
"Arnaldo", che frequentavo, se riuscivo a non farmi vedere.
Io e Franco Passerella, nei pomeriggi passati insieme, sfioravamo spesso
l'argomento della resistenza, commentavamo gli avvenimenti e spesso ci
domandavamo cosa si sarebbe potuto fare da soli noi due. Mai da lui ho
saputo quello che poi ho letto nell'Enciclopedia Bresciana di Don Antonio
Fappani (vol. XII, pag. 177, ediz. 1996): che "Franco
Passarella era entrato nella Resistenza, sulle orme del padre Ottorino,
assumendo anche incarichi rischiosi nella Brigata G.R. Barnaba". Se
è stato scritto, certamente lo era. Se, quindi, mai me l'ha detto è
forse perché, su questi argomenti, meno si parlava e meglio era. E Franco
era già allora molto riservato e taciturno.
E' in ogni caso poco verosimile che Franco, se fosse stato inquadrato
nelle formazioni della Resistenza, fosse poi andato in montagna, come ha
fatto, senza prima informarsi dove e con chi e senza farsi prima
presentare dai suoi capi o da qualcuno.
D'altronde io stesso non ho mai detto a lui, per molto tempo, quello che
facevo di mia iniziativa, senza neppure che i miei genitori lo
supponessero.
Sopratutto nell'autunno-inverno 43-44, quando il buio arrivava presto e
c'era nebbia, uscivo di casa la sera tardi per andare a scombinare tutti i
segnali stradali militari, che i tedeschi avevano installato agli incroci
delle strade principali, o per mettere dei chiodi d'acciaio sotto le ruote
dei camion militari parcheggiati nella zona di Campo Marte o altrove, in
modo che, quando si fossero avviati, di mattino, le gomme si bucassero.
Poi un giorno, con molta circospezione, glielo dissi per vedere cosa ne
pensava e lo trovai interessato e disposto a farlo insieme. Cambiavamo
sempre zona e lo facevamo saltuariamente per evitare che qualcuno si
appostasse per scoprirci; battevamo in bicicletta la zona di Canton
d'Albera, di S. Eustacchio, di Via Milano, di S. Eufemia, ecc.: uno di noi
davanti, senza portare nulla, in avanscoperta e a fare da palo, e quello
dietro, munito di una chiave inglese, salendo sul telaio della bici per
raggiungere i segnali stradali, svitarli quanto bastava per poterli
ruotare verso altra direzione e quindi riavvitarli. Avevamo anche studiato
come piantare i chiodi su una tavoletta di 3-4 cm. di lato perché
potessero stare fissi con la punta in su e la inserivamo prevalentemente
sotto le ruote posteriori, perché, poi, meno visibili di giorno.
Una volta decidemmo anche di entrare di soppiatto, di notte, nel grande
parcheggio militare di automezzi, che i tedeschi avevano installato nella
zona all'incirca corrispondente all'attuale ospedale civile, per
sabotarli.
Era una notte di nebbia; tagliata la rete di recinzione, ci infilammo
sotto i camion, muniti di una pila, per svitare i tappi delle coppe
dell'olio o per tagliare le cinghie di trasmissione. Fu l'unica volta che
corremmo un vero pericolo. Non sapevamo che il parcheggio fosse custodito
e, ad un certo punto, sentimmo dei passi che si avvicinavano. Mentre
restavamo in totale silenzio e immobilità sotto al camion che avevamo
scelto, vedemmo passare accanto le gambe di una sentinella. Non vi
tornammo più, presi dal terrore.
Oggi, con il senno dell'adulto, è facile riconoscere che queste eranosolo
"ragazzate", azioni piuttosto velleitarie e inutili, con
un'enorme sproporzione fra il minimo danno che potevamo arrecare ai
tedeschi e il rischio che correvamo, se fossimo stati scoperti, ma allora,
nel clima nel quale vivevamo e nella passione giovanile, ci sembrava di
fare qualche cosa di significativo; e lo facevamo accettando il rischio,
anche se convinti che ben difficilmente qualcuno avrebbe potuto scoprirci,
tanto ci sembrava d'essere prudenti.
Nella primavera dal 44 sembrava che la fine della guerra, con la disfatta
dei tedeschi sulla linea Gotica, non fosse lontana, il freddo andava
scemando e ci si avviava verso l'estate. Franco Passarella incominciò a
parlare di andare in montagna con i partigiani. Mi diceva che voleva farlo
senza dirlo ai suoi e mi chiedeva se sarei andato con lui. Voleva andare
con i Garibaldini più che con le Fiamme Verdi. Io non avevo questa
intenzione, non mi sentivo di farlo senza dirlo ai miei, sarebbe stato dar
loro un dispiacere troppo grande e se l'avessi detto, essendo minorenne,
non mi sarebbe certamente stato concesso. Anche a lui consigliavo di non
farlo: era figlio unico, aveva solo un anno più di me; gli proponevo,
semmai, di parlarne prima con i suoi. Dopo questi scambi d'idee non
accennò più alla questione; continuò ad andare a scuola, finì l'anno
scolastico, ma poi, un giorno, improvvisamente sparì.
Immaginai cosa fosse successo; non avevo il coraggio di avvicinare i suoi
genitori, per paura che mi chiedessero se sapevo qualche cosa, né essi
vennero da me per chiedere informazioni. Quando, pochi giorni dopo la
scomparsa di Franco, li vidi casualmente per strada, non mi chiesero
nulla, né io a loro. Era una situazione imbarazzante, visti i rapporti di
prima fra noi, ma così è stato. Pensavo che sapessero che il loro figlio
era andato in montagna e che, naturalmente, non volessero neppure dirmelo.
Allora si aveva
paura di tutto e si aveva la prudenza di tacere il più possibile con
tutti.
Non seppi più nulla di lui per tutto il tempo di guerra, né mai chiesi
ai genitori se avessero avute notizie di Franco. Dentro di me, considerato
il comportamento, ero convinto che loro sapessero che lui era andato con i
partigiani. Neppure immaginavo che fosse già morto; lo credevo in
montagna.
Dopo la liberazione Franco non tornò. Per un po' non me ne interessai.
Nella primavera del 45 ero libero dalla scuola, perché avevo saltato la
terza liceo, sostenendo gli esami di maturità dopo la seconda, ma ero
molto impegnato a tempo pieno nelle attività assistenziali del Vescovo.
Ai primi di maggio, dato che conoscevo il tedesco, questi mi mandò
perfino in Germania, con una colonna di 3-4 camion militari, guidati da
autisti civili bresciani, offertagli dagli americani in riconoscenza della
molta assistenza a vari prigionieri alleati (riusciti ad evadere dai campi
di concentramento), che don Pietrobelli era riuscito ad organizzare. In
una settimana di viaggio attraversammo tutta la Germania distrutta
dalla guerra e, risalendo la valle del Reno, arrivammo a Wietzendorf, un
paesino della Bassa Sassonia, dove esisteva un campo di concentramento
nazista che ospitava molti soldati italiani. Ne portammo indietro il più
possibile. Mi sembra di ricordare che ci fosse, fra questi, anche
Grottolo.
Da mia madre seppi, poco dopo il ritorno, che si diceva che Franco fosse
morto. Mi feci coraggio e chiesi alla signora Passarella se sapeva
qualcosa del figlio, ma scoppiò in pianto e mi disse che dalla fuga non
avevano più avuto notizie di lui. Incominciai ad interessarmi del fatto
chiedendo a tanti miei amici che erano stati in montagna nelle Fiamme
Verdi, ma le risposte furono sempre molto generiche ed evasive: dal
"Non ne ho mai saputo nulla", "Nel nostro gruppo non
c'era", "Doveva semmai essere con quelli
della Val Trompia, se fosse andato in montagna..." al: "Non
chiedere troppo in giro; sono successe tante cose brutte durante la guerra
partigiana..."
Poi, un po' alla volta si sparse la voce che fosse stato ucciso dai
fascisti, durante un rastrellamento, nello stesso giorno nel quale era
salito in montagna, ma anche la voce, sussurrata e con il consiglio di non
approfondire, che fosse stato scambiato per una spia fascista e ucciso
dagli stessi partigiani garibaldini della Val Trompia: quelli guidati dal
dr.
Gerola; il quale, però, anche anni dopo, a me l'ha sempre negato.
Che fosse stato ucciso dagli stessi partigiani è poi risultato vero. Non
ho mai saputo da quale formazione, né più lo chiesi. In tutti i casi, si
è trattato di un'azione molto grave. Anche nel clima di allora, di fronte
ad un ragazzo così giovane, senza la certezza che fosse una spia
fascista, si sarebbe benissimo potuto e dovuto tenerlo prigioniero qualche
giorno e chiedere prima informazioni, attraverso i contatti che ogni
formazione partigiana aveva con i sostenitori che vivevano in città. Il
padre, Ottorino, non era uno sconosciuto, era un insegnante di liceo, era
lui stesso nella resistenza, a quello che ho saputo dopo, e in breve si
sarebbe facilmente arrivati a scoprire che Franco Passarella non era una
spia fascista, ma un giovane desideroso veramente di unirsi ai partigiani
per amore della libertà e della sua Patria.
Altrettanto grave, e senza giustificazioni morali, è stato anche il fatto
che, poi, mai nessuno abbia sentito, per anni, il bisogno e il dovere di
informare i genitori di quello che veramente fosse accaduto. Non basta
rifugiarsi "nel clima di allora". In tutti i casi, a mio parere,
si è trattato di un comportamento deplorevole.
Sui genitori le conseguenze sono state disastrose: la madre cadde in un
grave stato di depressione, sfociato poi in atteggiamenti anche
dissociativi fino alla morte, e il padre si era isolato da tutti, senza
più riprendersi fino alla fine.
Franco Passarella andrebbe ricordato come un vero giovane eroe partigiano
bresciano, morto per dare il suo contributo generoso, anche se in modo un
po' ingenuo (ma aveva solo 18 anni!), alla causa della Resistenza.
Brescia, 21.9.05
lapide in via S. Eustacchio a
Brescia (palazzo INCIS)
|
dall' Enciclopedia Bresciana di Antonio
Fappani, vol. XII, ed. Voce del Popolo, Brescia 1996:
|
Bruna Franceschini
Per
non dimenticare Franco Passarella, ragazzo partigiano, ucciso da “fuoco
amico”
E' la sorella Laura, che ora vive a Udine, a raccontare la storia tragica
di un ragazzo eccezionale e sfortunato. Erano entrambi studenti liceali e
loro padre, Ottorino Passarella, era membro del Partito d'Azione e tra i
fondatori del CLN bresciano. Incarcerato dalle SS, fu liberato dopo un
mese, ma i fascisti tornarono per arrestarlo. Riuscì a fuggire a Milano,
col gruppo Parri, per tornare solo a guerra finita.
Prima che anche loro madre, Carolina Sartorelli, insegnante di filosofia
al liceo Calini, fosse arrestata dall'OVRA, denunciata da uno studente per
una qualche frase pronunciata in classe, Franco, conseguita la maturità
classica, partì per la montagna. Era un ragazzo brillante e sensibile,
studente di prim'ordine, e decise di formare un gruppo di ribelli: si
ritrovò sopra Villa Carcina con tre compagni di liceo ed un sottotenente,
un certo Luigi. Ben presto però il gruppo si sfaldò: uno decise di
entrare in seminario, un altro non si sentiva sufficientemente motivato,
un altro ancora temeva per il padre, l'ultimo si rifugiò presso uno zio
parroco, prima di morire di tifo. Franco allora si mise in contatto con i
resistenti della città: Margheriti, Lunardi, Tita Secchi, padre Manziana
e padre Rinaldini. Raggiunse quindi in montagna un gruppo in formazione:
la sorella lo accompagnò fino a Gardone Val Trompia, da dove sarebbe
proseguito a piedi. Non sapeva di vederlo vivo per l'ultima volta, quando
la salutò con il viso illuminato dal sole.
Il gruppo era disorganizzato e male armato, ma Franco possedeva una
vecchia pistola della grande guerra, appartenuta a suo padre. Franco
Pellacini, "Cecco", precisa come molti giovani della classe 1926
siano saliti in montagna in questo periodo, per sottrarsi alla chiamata
della RSI, ritenuta abusiva: "Affluiti sul Guglielmo, erano dislocati
nelle varie cascine della zona. Questo, naturalmente, causò una grande
confusione organizzativa tra i gruppi già esistenti, organnizzati e bene
armati. Il 24 giugno 1944, per i nuovi, arriva l'ordine di trasferimento
in valle Camonica, essendo queste zone più idonee alla guerra partigiana.
Il comandante Marchina (già combattente in Spagna), incarica Franco
Passarella, appena giunto in Guglielmo, del trasferimento del gruppo di
circa 80 uomini. Arrivati presso il monte Muffetto, però, ecco
l'imboscata da parte di un centinaio di fascisti".
Sette ammazzati sul posto, gli altri catturati e deportati in Germania.
Solo due (Pellacini e un milanese, Carlo Grossi) si salvarono, buttandosi
nel greto di un torrente in piena. Mentre i due decisero di raggiungere il
campo dei russi, Franco pensò di tornare in città, nonostante
"Cecco" avesse tentato di convincerlo ad andare con lui, perché
il sentiero che stava imboccando, tra la Val Trompia e la Val Camonica era
pericoloso: erano ormai le tre del mattino e il ragazzo, poco esperto e
frastornato, si inoltrava nel territorio che gli sarebbe stato fatale.
Ottenuto del latte in una baita, bussò poi al parroco di Fraine. Il prete
era terrorizzato e non lo fece entrare. Quando chiese di poter almeno
aggiustare i calzoni: gli passò ago e filo fuori dalla canonica. Non
volle nemmeno che entrasse in chiesa per la confessione, in compenso gli
indicò i boschi di Vissone come luogo più sicuro per nascondersi.
Neanche il parroco di Vissone si fidò di quel ragazzo dai capelli biondi
e dagli occhi azzurri, che indossava l'elegante sahariana amorosamente
preparata da mamma e da Laura. Lo mandò via, così Franco incappò in
alcune Fiamme Verdi: aveva l'aspetto del signorino, non sapeva nemmeno
parlare dialetto e non conosceva la parola d'ordine, non riferiva nomi e
particolari che gli venivano chiesti, un po' perché era nuovo, ma forse
anche per rispettare la consegna della segretezza. E quando poi affermò
di fuggire da una retata, pensarono che fosse stato invece lui a portare
lì i fascisti. Gli spararono un colpo di pistola in testa e gli sfilarono
la bella giacca.
Laura, che dopo la partenza del fratello e l'arresto della madre era
rimasta sola, entrò nella Resistenza con Cesare Pradella, di Giustizia e
Libertà. Era con Sam Quilleri e il maggiore Flamigni, il giorno
dell'insurrezione. Quando mamma Carolina tornò a casa e, dopo qualche
settimana, anche papà Ottorino, aspettarono tutti il rientro di Franco.
Ma invano. Avevano saputo del combattimento, a suo tempo, ma lui non
risultava tra i morti, quindi lo si pensava in montagna o, nella peggiore
delle ipotesi, tra i partigiani portati in carcere a Darfo e poi inviati
in Germania. Forse i questurini mentivano, dicendo che non era passato di
là.…
Ora che la guerra era finita attendevano ansiosi che tornasse: dalla
montagna, dalla Germania, oppure dalla Russia… La madre, angosciata,
tappezzava le stazioni di fotografie: "Chi l'ha visto?" Laura
andò in autostop a Firenze, dove una diceva di avere sue notizie. Poi a
Como, da un'altra: ma si trattava solo di somiglianza. Lo iscrissero anche
ad ingegneria, a Padova, perché non perdesse l'anno.
Nel dicembre 1946 padre Rinaldini venne a sapere che il parroco di Vissone
aveva il portafoglio di Franco con una foto della sorella, oltre
all'inseparabile "Divina commedia" nell' edizione mignon della
Hoepli. Perché non aveva mai avvisato la famiglia? Il prete rivelò poi
che le spoglie del ragazzo erano sepolte in un buco, senza neppure una
lapide o una croce. Laura si assunse il compito di andare, verificare ed
indagare, dirlo poi ai suoi. Dirlo alla madre distrutta dall'attesa, dalle
notti snervanti alla stazione, attendendo l'arrivo delle tradotte dalla
Germania, esibendo la foto a tutti quelli che ne scendevano. Mesi e mesi
tra richieste al comando americano e riconoscimenti di salme. Un dolore
lungo e devastante. Un lutto che non sarebbe mai riuscita ad elaborare.
Cesare Pradella, il comandante "Gigi", con un compagno ne portò
i resti al cimitero di Brescia, contenuti in una piccola cassa coperta dal
tricolore. Sam Quilleri scrisse il necrologio per il quotidiano locale,
mentre i suoi professori lo ricordavano, studente modello, intelligente e
creativo, poliedrico. Furono poi gli alunni della V^ B del liceo Calini a
raccogliere tutte le testimonianze e a pubblicarle, raccontando anche la
storia della sua tragica insensata fine, della sua morte avvenuta per
"fuoco amico".
(in Ieri
e oggi Resistenza, numero 41 del 2007)
Bruno
Bertoli, La vicenda doppiamente tragica di Franco Passarella
da
Bresciaoggi del 26 luglio 1993
lapide a S. Pietro di
Solato
|
Dal sito
dell'ANPI
Giugno
1944
Il movimento partigiano registra una grande crescita, si intensificano i
sabotaggi e il recupero di armi: il gruppo C 12 di Schivardi si
impadronisce di armi e viveri all’Aprica, a Edolo e Mù, a Sonico. Le
Fiamme Verdi di Ceto liberano i prigionieri di Breno. In uno scontro con i
fascisti viene ferito a morte Antonio Farisè. Sempre le Fiamme Verdi, a
Capodiponte, disarmano la GNR e fanno un ricco bottino. Il partigiano
Francesco Troletti viene catturato e ucciso a pugni e calci, Giovanni
Troncatti viene passato per le armi a Capodiponte dopo un rastrellamento.
In una cascina sopra Gianico si fermano a pernottare dei partigiani: a
causa della soffiata di una donna (poi giustiziata), vengono sorpresi
Giacomo Marioli, ammazzato sul posto, Battista Pedersoli e Antonio Cotti
Cottini, prelevati e torturati, prima di essere uccisi. La cascina data
alle fiamme.
Una
sessantina di partigiani, male equipaggiati, cade in un’imboscata mentre
tentano di passare in Valcamonica dalla Valtrompia. Enrico Gazzoli è
abbattuto, diciotto sono fatti prigionieri. Lo studente Franco
Passerella, figlio diciottenne di Ottorino, membro del CLN, riesce a
fuggire ma rimane poi ucciso dalle Fiamme Verdi, che lo scambiano per una
spia tedesca. I suoi resti verranno trovati dopo la guerra, per l’instancabile
ricerca della sorella Laura, anche lei staffetta partigiana.
CORRIERE
DELLA SERA - BRESCIA, 1 SETTEMBRE 2013
Le sue spoglie trovate nel dicembre '46, l'uccisione
attribuita erroneamente ai fascisti
Eroe dimenticato
di Mimmo Franzinelli
A quasi settant'anni dalla tragica morte dello studente Franco Passarella,
sono in corso ricerche storiche sulla sua figura e si prepara per il
giugno 2014 il "sentiero della Resistenza" a lui dedicato nei
monti sopra Pian Camuno e Pisogne.
Nato a Venezia nel 1925, giunge a Brescia nel 1941 con i genitori -
insegnanti all'Arnaldo e al Calini - e la sorella Laura. Frequenta
l'oratorio alla Pace, dei padri filippini, dove stringe amicizia con
Cesare Trebeschi e Augusto Paganuzzi con il quale attua ingenue e
rischiose forme di sabotaggio della macchina militare tedesca. Franco è
un giovane idealista, cattolico e mazziniano, desideroso di contribuire al
riscatto nazionale e di partecipare alla lotta partigiana. Per amore della
famiglia conclude gli studi e, ottenuta a metà giugno la maturità
classica, parte verso la Valtrompia per unirsi a un gruppo di
"ribelli".
Quando un rastrellamento disperde la formazione, egli scende verso la
Valcamonica. Vaga per un paio di giorni, soccorso da alcuni contadini, poi
ha la sventura di imbattersi in un gruppetto di quattro Fiamme Verdi,
guidato dal ventiquattrenne Bruno Pe', alle dipendenze del distaccamento C
14. Viene sospettato di spionaggio o - più semplicemente - gli si vuole
prelevare gli scarponi nuovi e la giacca a vento. Dopo breve prigionia, il
"forestiero" viene ucciso il 25 giugno con un colpo di pistola
sotto la gola. Dell'episodio vengono informati i comandanti delle Fiamme
Verdi, che riconducono a un "equivoco" la morte del giovane, e
mantengono riservata la notizia. Il primo agosto Romolo Ragnoli colloca
una pietra tombale sulla vicenda: "Per il cadavere trovato, sarebbe
buona cosa seppellirlo facendo una relazione tipo le precedenti. Ferito
dai nostri, nel correre ha battuto la testa contro una pietra e si è
ucciso. Poveretto!".
Inizia a questo punto la seconda parte del dramma di Franco Passarella,
che investe la sua famiglia. La mamma lo cerca con la forza della
disperazione e trascorre settimane alla stazione di Brescia, per mostrarne
la fotografia ai reduci dall'internamento: qualcuno ha infatti creduto di
vederlo in un Lager. Grazie all'intervento del cappellano partigiano don
Rinaldini, le povere spoglie dello sventurato diciottenne vengono
individuate e il 21 dicembre 1946 si svolge a Brescia un solenne funerale
partigiano. Dinamiche e responsabilità dell'uccisione vengono occultate,
negate e ribaltate nella versione classica del ribelle colpito dai
naturali avversari: "La ferocia fascista lo colse", si leggeva
sino a pochi mesi fa nella lapide sullo stabile di Brescia dove abitava la
famiglia Passarella.
E ancora oggi, nel cimitero di Vissone una lapide recita: "Franco
Passarella / Vissuto per la libertà / Ribelle a lusinghe vili / Qui cadde
/ Massacrato da orde fasciste". Se durante la guerra oggettive
difficoltà impedivano l'accertamento dei fatti, si doveva poi far luce su
quella tragedia. Ma esponenti di spicco del partigianato diffondevano
versioni compiacenti che velavano la verità e coprivano i responsabili.
All'occultamento ha contribuito anche l'Istituto storico della Resistenza
bresciana (durante la direzione di Dario Morelli), veicolando versioni
parziali e inattendibili. Bisognerà, prima o poi, allineare le tante
menzogne e mistificazioni, e ricordare anche i silenzi di chi, sapendo,
tacque.
Come non bastassero le distorsioni della memoria, nella primavera 2008 la
tomba di Franco Passarella al cimitero Vantiniano è stata distrutta e la
salma gettata nella fossa comune. Venezia ha dedicato una via a Franco
Passarella, mentre a Brescia ancora non esiste una strada intitolata allo
sventurato giovane. Ma il tempo è galantuomo e nei prossimi mesi ci sarà
modo, con pubblicazioni e iniziative commemorative, di ristabilire la
verità su questa lacerante vicenda, per riscoprire la figura e le
idealità di un adolescente generoso.
Bresciaoggi, 1 settembre 2013
IL
LIBRO LA STORIA DEL GIOVANE FRANCO PASSARELLA, NATO A VENEZIA MA VISSUTO A
BRESCIA. FU UCCISO DALLE FIAMME VERDI CHE LO SCAMBIARONO PER UNA SPIA
Partigiano scambiato per spia
e ucciso dai compagni
Le sue
spoglie trovate nel dicembre '46: l'uccisione attribuita erroneamente ai
fascisti
A quasi settant'anni dalla tragica morte dello studente Franco Passarella,
sono in corso ricerche storiche sulla sua figura e si prepara per il
giugno 2014 il "sentiero della Resistenza" a lui dedicato nei
monti sopra Pian Camuno e Pisogne.
Nato a Venezia nel 1925, giunge a Brescia nel 1941 con i genitori -
insegnanti all'Arnaldo e al Calini - e la sorella Laura. Frequenta
l'oratorio alla Pace, dei padri filippini, dove stringe amicizia con
Cesare Trebeschi e Augusto Paganuzzi con il quale attua ingenue e
rischiose forme di sabotaggio della macchina militare tedesca. Franco è
un giovane idealista, cattolico e mazziniano, desideroso di contribuire al
riscatto nazionale e di partecipare alla lotta partigiana. Per amore della
famiglia conclude gli studi e, ottenuta a metà giugno la maturità
classica, parte verso la Valtrompia per unirsi a un gruppo di
"ribelli".
Quando un rastrellamento disperde la formazione, egli scende verso la
Valcamonica. Vaga per un paio di giorni, soccorso da alcuni contadini, poi
ha la sventura di imbattersi in un gruppetto di quattro Fiamme Verdi,
guidato dal ventiquattrenne Bruno Pe', alle dipendenze del distaccamento C
14. Viene sospettato di spionaggio o - più semplicemente - gli si vuole
prelevare gli scarponi nuovi e la giacca a vento. Dopo breve prigionia, il
"forestiero" viene ucciso il 25 giugno con un colpo di pistola
sotto la gola. Dell'episodio vengono informati i comandanti delle Fiamme
Verdi, che riconducono a un "equivoco" la morte del giovane, e
mantengono riservata la notizia. Il primo agosto Romolo Ragnoli colloca
una pietra tombale sulla vicenda: "Per il cadavere trovato, sarebbe
buona cosa seppellirlo facendo una relazione tipo le precedenti. Ferito
dai nostri, nel correre ha battuto la testa contro una pietra e si è
ucciso. Poveretto!". Inizia a questo punto la seconda parte del
dramma di Franco Passarella, che investe la sua famiglia. La mamma lo
cerca con la forza della disperazione e trascorre settimane alla stazione
di Brescia, per mostrarne la fotografia ai reduci dall'internamento:
qualcuno ha infatti creduto di vederlo in un Lager. Grazie all'intervento
del cappellano partigiano don Rinaldini, le povere spoglie dello
sventurato diciottenne vengono individuate e il 21 dicembre 1946 si svolge
a Brescia un solenne funerale partigiano. Dinamiche e responsabilità
dell'uccisione vengono occultate, negate e ribaltate nella versione
classica del ribelle colpito dai naturali avversari: "La ferocia
fascista lo colse", si leggeva sino a pochi mesi fa nella lapide
sullo stabile di Brescia dove abitava la famiglia Passarella.
E ancora
oggi, nel cimitero di Vissone una lapide recita: "Franco Passarella /
Vissuto per la libertà / Ribelle a lusinghe vili / Qui cadde / Massacrato
da orde fasciste". Se durante la guerra oggettive difficoltà
impedivano l'accertamento dei fatti, si doveva poi far luce su quella
tragedia. Ma esponenti di spicco del partigianato diffondevano versioni
compiacenti che velavano la verità e coprivano i responsabili.
All'occultamento ha contribuito anche l'Istituto storico della Resistenza
bresciana (durante la direzione di Dario Morelli), veicolando versioni
parziali e inattendibili. Bisognerà, prima o poi, allineare le tante
menzogne e mistificazioni, e ricordare anche i silenzi di chi, sapendo,
tacque. Come non bastassero le distorsioni della memoria, nella primavera
2008 la tomba di Franco Passarella al cimitero Vantiniano è stata
distrutta e la salma gettata nella fossa comune. Venezia ha dedicato una
via a Franco Passarella, mentre a Brescia ancora non esiste una strada
intitolata allo sventurato giovane. Ma il tempo è galantuomo e nei
prossimi mesi ci sarà modo, con pubblicazioni e iniziative commemorative,
di ristabilire la verità su questa lacerante vicenda, per riscoprire la
figura e le idealità di un adolescente generoso.
Mimmo FRANZINELLI
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CORRIERE
DELLA SERA - BRESCIA, 4 SETTEMBRE 2013
Così morì Passarella. <<Nessuna verità
nascosta>>
di Rolando Anni
Scrivo dopo avere letto l'articolo di Mimmo Franzinelli pubblicato
domenica 1° settembre sulla tragica vicenda di Franco Passarella, ucciso
dai partigiani perché scambiato per una spia. Mi è davvero impossibile
non commentare le tante affermazioni e valutazioni, a mio parere scorrette
e imprecise, in esso contenute. Certo è estremamente difficile essere
chiari ed esaurienti nel poco spazio che un giornale può offrire, tanto
più in un caso così complesso come quello di Passarella. Spero di
riuscirci e dunque procedo per punti riferendomi a quanto scrive
Franzinelli e ai documenti conservati nell'Archivio storico della
Resistenza bresciana e dell'Età contemporanea dell'Università Cattolica.
Franzinelli scrive che Romolo Ragnoli "colloca una pietra tombale
sulla vicenda". In realtà Ragnoli, il comandante delle Fiamme Verdi,
non ha mai nascosto né sepolto nulla, né durante, né dopo il periodo
partigiano, testimoniando quanto poteva sapere (e non poteva sapere tutto)
allora e poi. Così il 14 luglio trasmette a tutte le Fiamme Verdi della
valle la richiesta di fornire notizie al Comando su Franco Passarella,
allegando un biglietto con la descrizione fisica del giovane. Quando poi,
nel 1981, in uno dei suoi pochissimi scritti, pubblicato sulla rivista
"La Resistenza bresciana" dell'allora Istituto storico della
Resistenza bresciana, compila l'elenco dei caduti delle valli bresciane,
nel breve profilo che accompagna il nome di Passarella scrive, secondo
quanto era a sua conoscenza, che "veniva catturato in uniforme
fascista dai partigiani e passato per le armi da questi, non essendo stato
in grado di convincerli di non essere una spia". Un po' tardi, si
potrebbe dire, ma il lavoro di Ragnoli era il primo, e per ora unico, che
cercava di dare conto di tutti i caduti della Resistenza bresciana, sia
pure con le imprecisioni che è quasi naturale commettere in lavori così
complessi. Scrive ancora Franzinelli, e si tratta di un'accusa grave e
gratuita, di "occultamento cui ha contribuito l'Istituto storico
della Resistenza bresciana (durante la direzione di Dario Morelli)
veicolando versioni parziali e inattendibili". Che cosa poteva
infatti sapere e nascondere Morelli nel 1944, mentre era nel carcere di
Brescia, e poi, dopo il 1945, dal momento che aveva a disposizione quegli
stessi documenti che ha avuto a disposizione Franzinelli?
L'Istituto diretto da Morelli non solo pubblicò la rivista su cui apparve
il lavoro di Ragnoli, ma nel 1983 anche il volume di Maria Rosa Zamboni,
"Via della libertà", in cui alle pp. 102-103 riportava le
stesse notizie di Ragnoli.
Lo stesso Morelli fornì a Bruno Bertoli i documenti che lo storico
veneziano pubblicò in un suo saggio su Passarella del 1993. Certo i
documenti erano e sono pochi, ma lascio decidere ad altri se i
comportamenti di Morelli intendessero occultare fatti e vicende.
Franzinelli scrive ancora che Passarella è stato ucciso il 25 giugno
1944, dopo essere sfuggito per un paio di giorni al rastrellamento
fascista nella zona del monte Muffetto e in Bassinale, per poi essere
catturato dai partigiani. Come si evince dai documenti di parte fascista
(che Franzinelli conosce) il rastrellamento avvenne il 24 giugno. C'è
dunque un'evidente discrepanza temporale che andrebbe spiegata dall'autore
dell'articolo.
Il gruppo C14, che avrebbe catturato Passarella, secondo Franzinelli era
comandato da Bruno Pe'. I partigiani delle Fiamme Verdi con nome o
pseudonimo Bruno erano solo cinque e nessuno di cognome Pe'. Era invece il
gruppo C2 poi C3 (gli scioglimenti le ristrutturazioni dei gruppi
partigiani erano per così dire continui), comandato da Raffaele Bazzoni
(pseudonimo Bruno) che era stato interessato al rastrellamento sul
Muffetto il 24 giugno, come risulta da una relazione dello stesso Bazzani.
Per quanto riguarda la lettera del 1° agosto 1944, essa non si riferisce
alle vicende del 24 o 25 giugno. Il fatto che sia sempre stata
considerata, anche da me, riferita a Franco Passarella è dovuta alla sua
catalogazione nello schedario al nome del giovane veneziano. Ma così non
è. Infatti si tratta di una risposta di Ragnoli a Silvio (Giulio Mazzon)
in cui viene ricordato quanto è avvenuto in valle dell'Orso nel gruppo
comandato da Lionello Levi. In quella località il 28 luglio si era
trovato un gruppo di giovani saliti dal Guglielmo. Allora, così si legge
nel documento, "i nostri della C4, credendoli della Muti, hanno loro
intimato la resa, questi non hanno voluto saperne, e allora è iniziata
una sparatoria, durante la quale uno dei loro è rimasto accidentalmente
ucciso". Quindi, nessun riferimento a Passarella. Non si sa il nome
di chi fosse rimasto ucciso. È del tutto improbabile che ci fosse in quel
gruppo anche lui? Il 28 luglio del 1944 Silvio prese contatto con alcuni
giovani che, saliti dalla Valle Trompia e dispersi dal rastrellamento del
24 giugno, erano riusciti a sopravvivere per oltre un mese. In ogni caso
nei biglietti scambiati nell'estate del 1944 tra Mazzon, Lionello Levi e
Ragnoli viene raccontato quanto i tre comandanti sanno, senza nessun
intento di occultare alcunché.
Infine, mi dispiace, e non poco, che Franzinelli discuta su persone come
Ragnoli e Morelli, che, ovviamente, non possono rispondere essendo
scomparse da tempo, piuttosto che sui documenti.
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Caro
Anni, ecco le prove dei silenzi su Passarella di
Mimmo Franzinelli
CORRIERE
DELLA SERA - BRESCIA, 12 SETTEMBRE 2013
Una tragedia partigiana
Trebeschi: la verità su Passarella
di Massimo Tedeschi
Nello studio di via Battaglie dove la luce di una radiosa mattina di
settembre accarezza mobili e pareti che hanno visto pagine - ora lievi ora
drammatiche - della storia di Brescia, la voce dell'avvocato si srotola
piana, quasi a controllare le emozioni: "Non ho memoria fotografica -
spiega - eppure dopo settant'anni mi vedo ancora davanti Franco, il suo
viso radioso, la sua figura alta, stagliata proprio contro quella
finestra, mentre mi annuncia la decisione di andare in montagna, di unirsi
ai ribelli al fascismo".
L'avvocato è Cesare Trebeschi, sindaco di Brescia nel decennio 1975-1985,
testimone, protagonista e memoria storica del Secolo breve bresciano.
Franco è Franco Passarella (1925-1944), il giovane liceale bresciano di
origini veneziane ucciso - ormai è assodato - fra Piancamuno e
Montecampione da alcuni partigiani che lo scambiarono per una spia. Sulla
vicenda, sul livello di responsabilità delle Fiamme Verdi che operavano
in zona, e sulla buona o mala fede nell'oscurare questa dolorosa vicenda
(sulla casa di Passarella in città c'è ancora una lapide che attribuisce
la sua uccisione alla "ferocia fascista"), s'è accesa sulle
pagine del Corriere una disputa fra gli storici Mimmo Franzinelli e
Rolando Anni. Trebeschi ne parla con equanime rispetto, citandoli per nome
- "Mimmo e Rolando", dice - ma aggiunge alla querelle un punto
di vista "altro": una testimonianza diretta sulla figura di
Passarella, una meditazione sulle pagine tragiche della guerra di
Resistenza, una riflessione sui compiti della storia.
"Franco Passarella, appena arrivato a Brescia, era approdato
all'oratorio della Pace dove padre Manziana riuniva un gruppo di
pre-fucini: liceali dell'Arnaldo, dell'Arici e del Calini che svolgevano
discussioni molto aperte anche politicamente. C'erano Augusto Paganuzzi
[che ha ricordato l'amicizia con Passarella e alcune forme di sabotaggio
antitedesche condotte insieme in un'intervista on line a Maurilio Lovatti,
ndr.], Daniele Bonicelli, Raul e Attilio Franchi, Franco Nardini,
Mario Ragusini, Giacomo Ferliga, Flaviano Capretti, Giovanni Minelli,
Gabriele Calvi. C'erano i Rinaldini: Emi, il fratello minore Federico che
morirà a Mauthausen, Luigi che divenne sacerdote nel '44. Fu in occasione
della sua prima messa che conobbi Teresio Olivelli. Noi eravamo i giovani,
e poi c'erano tre più avanti di noi che discutevano fra loro molto
animosamente: erano Francesco Brunelli, allora presidente di Gioventù
cattolica, Mario Cassa e "Ghigi" Giulio Bruno Togni".
In quel clima Passarella matura la decisione di passare alla guerra in
montagna. Trebeschi non ha notizie precise su chi avesse indirizzato
Passarella, quale fosse la sua destinazione finale, se fosse munito di
lasciapassare. "La Brigata Perlasca, che faceva capo a Francesco
Brunelli e in cui c'erano i fratelli Arturo e Giuseppe Perucchetti,
operava in Valsabbia: la comandava Ennio Doregatti di Castenedolo e il
referente locale era Guido Bollani, poi sindaco di Sabbio; in Valtrompia
c'era la Brigata Margheriti comandata da Pierino Gerola, poi sindaco di
Collio, che in città aveva come riferimento Mario Cassa. Passarella si
incammina invece verso la Valcamonica, lungo un percorso allora abbastanza
usuale che transitava da Zone. Mario Spinella in un suo libro racconta di
essere giunto a Brescia con Nino Crippa e che i padri della Pace lo
affidarono a un ragazzotto in bicicletta che lo condusse fino a Zone: quel
ragazzo era Raul Franchi. Anch'io, mio padre e tre cugini Salvi, intorno
al 10 settembre del '43, riparammo a Zone dopo una soffiata che ci
avvisava che i fascisti tornati in auge volevano vendicarsi di mio
padre".
Passarella segue lo stesso percorso, destinazione Guglielmo. Ma lì accade
l'irreparabile. "C'è un rastrellamento fascista, Franco si sbanda.
Chiede soccorso in una delle tre parrocchie di Pisogne, dove il sacerdote
gli presta un rapido aiuto e lo indirizza verso un gruppo che c'era in
montagna, salvo avvisare contemporaneamente che lui quel giovane non lo
conosce, e non è in grado di garantire per lui". Da lì gli
interrogatori violenti, l'uccisione, di cui la storiografia ha ormai detto
molto. Ultimi, sono arrivati i dettagli più spinosi: "Quello che so,
lo so da Mimmo".
Franzinelli ha accusato Dario Morelli, oggi scomparso, a lungo direttore
dell'Istituto della Resistenza bresciana, di aver deliberatamente
ostacolato se non occultato la ricostruzione dell'episodio. Trebeschi ne
dà un'altra spiegazione: "Ero amico di Morelli, avevamo persino
collaborato insieme a un lavoro per un convegno sui danni da calamità
naturale in agricoltura nel '57 a Parigi. Eppure, quando da presidente di
Asm decisi la ristampa anastatica del "Ribelle" e di
"Brescia libera", giornali della Resistenza bresciana, mi
arrivò da lui una dura diffida dal procedere, perché mancava un numero
introvabile di "Brescia libera". Era un uomo di una
scrupolosità ossessiva, non si rassegnava a esternare qualcosa che non
fosse all'apice della perfezione". Eccesso di scrupolo e carenza di
documenti d'archivio avrebbero indotto Morelli a non scrivere sulla
vicenda.
C'è però un discorso più generale che per Trebeschi va affrontato, e
riguarda i fini e i limiti della storia. "Abbiamo sentito predicare
fin dall'asilo che Historia magistra vitae. Ma l'assunto pone dei
problemi. Esiste una storia oggettiva? Mimmo ne è convinto. E poi la
storia che si insegna deve servire a qualcosa? È giusto mettere in luce
delle magagne quando la pruriginosa ricerca dello scandalo fa premio sulla
ricerca della verità? Se di una storia si individuano delle macchie è
più facile che la curiosità dei lettori vada lì".
Questo vale come richiamo alla responsabilità dello storico e ai limiti
dei documenti, non come alibi a silenzi e reticenze. "A 70 anni da
quei fatti è giusto, anzi doveroso cercare la verità. Mi pare che finora
nè Pier Luigi Fanetti, persona che s'è molto dedicata a questo caso, nè
Mimmo siano arrivati a trovare la sentenza di condanna di un processo
relativo a Bruno Pè, che è stato il carnefice, e do peraltro atto a
Mimmo di aver tralasciato i particolari raccapriccianti della vicenda.
Purtroppo i due che avrebbero potuto testimoniare tutto o non ci sono
più, o non sono più in grado di farlo. Il primo è l'avvocato Pigi
Piotti, mio dirimpettaio di scrivania per 40 anni, che non me ne parlò
mai ma era sicuramente a conoscenza dell'episodio, tanto che allude a
questa vicenda in una sua poesia racchiusa nella raccolta "A conti
fatti". L'altro è suo fratello l'ingegner Tino, Ernesto Piotti, che
era comandante delle Fiamme Verdi della zona, e da cui dipendeva il
sottogruppo di Bruno Pè".
Infine, c'è il tema della ricostruzione della pagine tragiche della
Resistenza. "Non solo è giusto ma doveroso dire come andarono le
cose. Anche da parte delle migliori formazioni della Resistenza ci sono
stati delitti. Ma un conto è fare la storia completa, un conto farla
evidenziando solo le magagne. In quei momenti c'erano anche briganti che
si entusiasmavano in buona fede. La parabola evangelica dei semi è di una
veridicità impressionante: i semi caduti fra le spine hanno germogliato
per qualche giorno, per qualche settimana, e poi si sono fatti
risucchiare. Questa è una di quelle tragedie. Ce ne sono anche altre,
anche più gravi, delle quali è difficile scrivere. Una riguarda la madre
di Passarella, che dopo la morte del figlio vagava sotto i portici, sempre
come assente. Ma una vicenda non meno penosa è quella di due amici: uno
era padre Rinaldini, dell'altra non farò il nome, che negli ultimi anni
erano presenti ma avevano stampate sul volto le tragedie alle quali
avevano assistito. Oltre a questo caso, che è stata una barbarie
ignobile, ci sono stati alcuni (forse non pochi) casi di giudizi formali
da parte della Resistenza conclusisi con condanne ed esecuzioni di spie:
penso che qualcuno abbia avuto fino in fondo, davanti agli occhi, quelle
scene".
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CORRIERE
DELLA SERA - BRESCIA, 12 SETTEMBRE 2013
La lettera
"Così si infanga il ricordo delle Fiamme
Verdi"
di Agape Nulli Quilleri
Intervengo con disgusto leggendo la distorsione di fatti ed eventi, di cui
sono stata testimone, operata sulla base di supposizioni e valutazioni
personali di documenti che non hanno alcun riferimento certo e preciso
agli avvenimenti di cui trattano. Tutto ciò fatto con scopi, che
preferisco non indagare e commentare. Affermo che è un'offesa alla
verità ed alle persone quanto scritto in più occasioni sul Corriere
della Sera, edizione Brescia, inerentemente la vicenda del giovane
Partigiano Franco Passarella. Franco era mio compagno all'Arnaldo. La sua
famiglia è stata legata a me ed a mio marito Sam Quilleri, alpino e
comandante partigiano, nel dolore e nella angoscia. A smentire tutta la
ricostruzione che pervicacemente è stata riportata sul Corriere della
Sera edizione di Brescia è sufficiente la Pubblicazione prodotta
nell'aprile 1949 dal Comitato Studentesco del Liceo Calini in cui si
descrive con precisione, compiutezza e chiarezza quanto accaduto. È una
pubblicazione del 1949, lo ripeto per far chiaramente comprendere che non
si è nascosto nulla, in cui è raccontata tutta la verità di un tragico
destino che ha portato un giovane amante della libertà ad essere ucciso
ed ancor peggio quasi torturato dai suoi stessi fratelli. Cosa di cui ho
per anni condiviso con la mamma di Franco la disperazione. Non mi dilungo
nella narrazione del racconto. Mai abbiamo perpetrato ritorsioni o
vendette, nei territori nei quali abbiamo combattuto non ci sono state
uccisioni e stragi immotivate, perché le stragi restano tali chiunque le
compia. Abbiamo certo commesso errori, ma restano errori nell'ambito delle
possibilità dell'errore umano, non diventano statisticamente così
numerosi da poterli considerare strategia di comportamento. Noi non
abbiamo necessità di ripulire il nostro passato per coprire tante
malefatte. Ma non voglio innescare polemiche con chi interpreta le proprie
convinzioni ed utilità come verità danneggiando non tanto e solo lo
scorrere degli avvenimenti ma innescando odi e dubbi. Fortunatamente sono
ancora viva e posso con conoscenza personale, ricordi e documenti, non da
interpretare a piacimento, ma che scrivono e testimoniano i fatti e la
verità, difendere e confermare l'onore di chi ha permesso la riconquista
della libertà. Grazie generale Ragnoli, grazie prof. Morelli. A voi
l'onore di rappresentare ancora oggi l'Italia migliore.
Il
Corriere edizione di Brescia non ha, in questa come in altre vicende,
alcun intento che non sia la ricostruzione, quanto più possibile fedele e
plurale, della verità storica. Nel merito, e nella sostanza, gli esiti a
cui approdano i due storici intervenuti sul caso Passarella sono peraltro
in larga parte sovrapponibili a quanto scrive la signora Agape Nulli
Quilleri (Massimo Tedeschi)
BRESCIAOGGI,
12 SETTEMBRE 2013
Franzinelli, la storia a fumetti
di Flavio Marcolini
Annunciata lo scorso 22 agosto dal prestigioso "Zeit Magazine"
che gli ha dedicato la copertina informando che presto uscirà in
traduzione tedesca da Suhrkamp, è arrivata in libreria la graphic-novel
"Una mattina mi son svegliato" (Utet, 96 pagine, 16 euro), che
raccoglie cinque storie raccontate da Mimmo Franzinelli e illustrate da
Andrea Ventura su quanto accadde in Italia all'indomani dell'8 settembre,
dopo che fu reso noto l'armistizio con gli angloamericani e dai microfoni
dell'Eiar il maresciallo Badoglio diede l'annuncio di averlo firmato a
Cassibile il 3 settembre.
Disegnatore milanese, Ventura presta il suo tratto grafico alla
documentata narrazione dello storico bresciano in un volume scritto a
quattro mani, in cui ciascuno racconta con il mezzo espressivo che gli è
proprio, queste cinque vicende emblematiche, di personaggi famosi e gente
comune, colte nel turbine della storia da un evento decisivo, con le sue
ripercussioni drammatiche in un alternarsi convulso e frenetico di viltà
ed eroismo, rassegnazione e speranza.
In un'Italia contesa tra occupazione tedesca, riorganizzazione fascista e
Resistenza, quelle di Lotte Froelich, Primo Levi, Franco Passarella,
Giorgio Albertazzi e Nuto Revelli sono vicende molto diverse fra loro,
rappresentative di una intera generazione che nella tempesta ha cercato
strade di salvezza, riscatto, liberazione, raccontate in queste pagine con
piglio avvincente. Il primo dei cinque pezzi il 27 gennaio scorso, in
occasione della Giornata della Memoria, ha avuto l'onore di essere
pubblicato in anteprima niente meno che sul New York Times.
Intitolato "Hotel Meina", racconta un episodio minore della
persecuzione antisemita (già al centro di un film di Lizzani nel 2007),
quella che ebbe come protagonisti l'avvocato italiano Mario Mazzucchelli e
la moglie tedesca di origini ebraiche Lotte Froelich, che fu coinvolta
nella strage di un gruppo di ebrei ospiti dell'Hotel Meina sulle rive del
lago Maggiore. Notissimi sono i fulgidi itinerari esistenziali degli
scrittori Primo Levi (che sopravvisse ad Auschwitz) e Nuto Revelli (eroico
comandante partigiano sui monti del Piemonte), mentre meno conosciute sono
le altre due vicende, tutte camune.
Protagonista di una è l'attore Giorgio Albertazzi, che combatté a lungo
in Alta Valcamonica dalla fine del 1944 fino alla conclusione della guerra
nella legione repubblichina Tagliamento. "L'impressione è che
Albertazzi sia giunto nelle file della Rsi sull'onda di vicende familiari
seguite al linciaggio di uno zio a Firenze dopo il 25 luglio - osserva
Franzinelli -. Dietro la sua storia c'è stata da parte mia una ricerca di
fonti e documenti d'archivio, costantemente confrontati con la sua
autobiografia "Un perdente di successo", rispetto alla quale ho
scoperto una importante discordanza: al termine della vicenda che gli
costò il carcere, l'assassinio di un partigiano, egli venne amnistiato,
non assolto come lui scrive. Naturalmente sarò curioso di sentire la sua
opinione in merito".
L'altra storia camuna è quella, che lo storico definisce
"tristissima e deplorevole", dello studente veneziano Franco
Passarella, ucciso a Solato di Piancamuno con un colpo di pistola alla
gola dalle Fiamme Verdi il 25 giugno 1944 perché ingiustamente sospettato
di spionaggio (o forse per prendergli gli scarponi nuovi e la giacca a
vento).
Anche se la verità era risaputa in valle, dopo la Liberazione il 21
dicembre 1946 si svolse a Brescia un solenne funerale partigiano. E come
vittima dei fascisti lo ricorda tuttora una lapide nel cimitero di Vissone.
"In guerra è accaduto di tutto e come storico non mi stupisco -
commenta amaramente Franzinelli - ma io mi indigno per i settant'anni di
deformazioni, coperture e bugie su questo caso. Mi dispiace che a ciò
abbia contribuito, non solo l'occultamento della verità praticato dalle
Fiamme Verdi chiuse in un immotivato reducismo, ma anche l'Istituto
storico della resistenza bresciana, in seno al quale non ha certamente
giovato la identificazione fra il partigiano reduce e la figura del
direttore e storico, Dario Morelli, in un reciproco e inevitabile
pericoloso condizionamento".
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CORRIERE
DELLA SERA - BRESCIA, 18 SETTEMBRE 2013
L'Italia migliore è quella che ha il coraggio di
ammettere la verità
La nipote di Passarella dà voce alla famiglia: "Zio
Franco sepolto dal silenzio"
di Anna Maria Catano
Settant'anni di colpevole silenzio. Colpevole da parte di quanti avrebbero
avuto il dovere morale di far luce. E che invece hanno taciuto, coperto, e
in qualche caso negato, la verità della tristissima vicenda di Franco
Passarella, giovane antifascista assassinato - forse addirittura torturato
- in Valcamonica da Bruno Pe delle Fiamme Verdi nel giugno del '44.
E settant'anni di doloroso silenzio della famiglia Passarella. La mia
famiglia.
Carolina Sartorelli in Passarella, mia nonna, impazzita dal dolore dopo
aver cercato e aspettato per due anni e mezzo - con la forza della
disperazione che solo una madre può avere - quel figlio che non tornava
più dalla montagna e che sperava potesse far ritorno da qualche lager.
Docente di filosofia, antifascista della prim'ora, fragilissima e forte al
contempo, subì il carcere fascista e l'infinito strazio di sopravvivere
al "suo" Franco trentasei lunghissimi anni.
Mio nonno, Ottorino Passarella, giornalista de Il Gazzettino di Venezia.
Licenziato, insieme ad altri colleghi, per le sue posizioni antifasciste.
Assunto al Popolo di Brescia, perse nuovamente il lavoro per essersi
rifiutato di prestare giuramento alla Repubblica Sociale Italiana.
Fondatore con Leonardi, Vasa e Bellocchio del Comitato di Liberazione
Nazionale bresciano. Detenuto dalle SS, sfuggì fortunosamente a un
secondo arresto nel '44 e raggiunse Milano per unirsi a Ferruccio Parri
del gruppo Giustizia e Libertà. Nel libro "Il cavallo nero",
del 1968, scrive: "Il capo dei tuoi aguzzini si chiama Pe... ti
assassinarono e si divisero le vesti come con Cristo".
E infine Laura, la sorellina. Mia madre. Entrata a 16 anni nella lotta
clandestina, dapprima con piccoli incarichi poi nella brigata Barnaba di
Giustizia e Libertà. Croce di guerra come partigiana combattente;
medaglia della città di Brescia nel 1995; diploma d'onore Anpi nel 2011;
medaglia d'argento Fivet, Federazione italiana volontari della libertà
nel 2010. Durante la cerimonia di consegna commenta: "Avrei preferito
aveste dato a Franco la medaglia d'oro". A lei toccò il terribile
compito del riconoscimento del cadavere straziato del fratello, un povero
mucchio d'ossa dilaniato dagli animali. Perché nessuno, né gli
assassini, né alcuni paesani e partigiani che sapevano, né il parroco di
Vissone si preoccuparono di avvertire i familiari, né di dargli pietosa o
cristiana sepoltura. Fu proprio quel prete - due anni e mezzo dopo
l'uccisione - a consegnare a padre Rinaldini i documenti che Franco aveva
con sé - la carta d'identità, un'edizione Hoepli de "La Divina
Commedia", una foto della sorella - e a indicare il luogo dove
giacevano i miseri resti.
Tanto è stato scritto sulla "banalità del male". Di orrori ed
errori il Novecento è saturo. Non mi è invece possibile tacere,
considerate le lettere dei giorni scorsi, sul fatto che orrori ed errori,
anche quelli commessi in tempi difficili, sono sempre compiuti da uomini.
E che le responsabilità, del bene e del male, rimangono esclusivamente
personali. È uno dei pilastri del diritto moderno, base di democrazia e
civile convivenza: ogni individuo risponde delle proprie azioni davanti
alla legge, agli uomini e a Dio.
Franco è morto per un tragico errore. I partigiani non erano truppe
regolari. E un episodio brutale non può né deve mettere in discussione i
valori della Resistenza. L'humus politico culturale dell'immediato
dopoguerra inoltre non era certo dei più favorevoli alla ricerca della
verità. La famiglia Passarella non si è mai pronunciata contro le Fiamme
Verdi. Persino mia nonna, annebbiata dal dolore, ha sempre sostenuto con
orgoglio i valori della guerra partigiana. Non sappiamo - né sapremo mai
- se Romolo Ragnoli avesse dato ai suoi l'ordine di tacere per timore che
venisse intaccato l'onore delle Fiamme Verdi, come è stato ipotizzato da
qualcuno. O se siano prevalse paura e convenienze politiche. Ma l'Italia
migliore è quella che ha il coraggio di ammettere la verità. Ed alcune
menzogne, già confutate ma ancora riproposte dall'Istituto di Resistenza
bresciana, suonano intollerabili. Prima fra tutte quella che Franco
indossasse la divisa fascista.
Franco, il 19 giugno '44, è stato accompagnato all'inizio del sentiero
della Valtrompia dalla madre e dalla sorella. Indossava la giacca a vento
e gli scarponi che sono stati visti successivamente addosso a uno dei
quattro componenti del gruppo che lo aveva assassinato. Come riporta anche
Luigi Piotti, delle Fiamme Verdi, in una poesia dedicata a Franco e
pubblicata nel '72. E come ha ripetuto ancora, pochi giorni prima di
morire: " ... eh... ho visto gli scarponi e la giacca a vento addosso
a uno di loro". O l'altra fandonia secondo la quale sarebbe deceduto
battendo la testa su un sasso, categoricamente smentita dal foro del
proiettile ben visibile nel cranio. E non continuo oltre.
Lo storico Mimmo Franzinelli - cui va il ringraziamento per l'importante,
rigoroso lavoro di ricostruzione dei fatti - ha già puntualmente risposto
a queste falsità. E le testimonianze orali raccolte in Valcamonica da
Giovan Maria Fanchini, che ringrazio, sono ulteriore conferma. Dopo
settant'anni è ormai tempo della memoria. Grazie all'impegno
dell'avvocato Pier Luigi Fanetti si è da poco costituito un comitato che
sta valutando le iniziative di commemorazione per il giugno 2014.
Affinché la generosità di Franco sia d'esempio alle generazioni future.
Affinché il suo sacrificio non sia stato invano.
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Bresciaoggi mercoledì 25 settembre 2013 –
LETTERE – Pagina 45
«Un
ghiribizzo di libertà»
Camminando sotto la
Corna Blacca alla fine dell´estate, ho ripensato a coloro che si
ribellarono alla Repubblica sociale italiana e salirono in montagna per
resistere ai fascisti e ai nazisti. Così mi è venuta in mente la
conclusione della prefazione al libro Brigata Perlasca di Emilio
Arduino.
«In ogni caso, almeno di una cosa possiamo garantire il lettore: che la
massima cura fu posta nel mantenerci fedeli alla verità, evitando ogni
tentazione di gargarismi retorici e di raffreddori patriottardi. Né
facemmo molta fatica, perché sapevamo che bastava stavolta copiare la
verità per illustrare la gloria. Vada questo nostro lavoro a quelli che
hanno combattuto, a quelli che hanno sofferto, a quelli che sono morti;
a tutti i poveri diavoli che la sorte ha sbattuto nel pieno di quello
strano mondo, ingenuo e precursore, scombinato e puro, sciabattato e
generoso; a tutti quelli che hanno respirato quel tumultuoso frastuono
di patimenti e di gioie, di coraggio e di paure, di grandezze e di
fesserie. Poiché nulla sarà mai più simpatico di chi fece il monello
in un gioco di morte per un ghiribizzo di libertà: e questo, in
sostanza, fu il partigiano».
Uno di essi era Franco Passarella, giovane antifascista nato a Venezia e
residente a Brescia, che, dopo essere salito in Valtrompia per unirsi ai
ribelli, fu ucciso da una squadra di partigiani in Valcamonica.
La tragica vicenda è raccontata in una delle storie illustrate del
libro «Una mattina mi son svegliato» che è stato ottimamente
recensito da Flavio Marcolini in Bresciaoggi del 12 settembre.
Pier Luigi Fanetti
BRESCIA
da: Piero
Gerola, Nella notte ci guidano le stelle, Edizioni
Brescia Nuova, Brescia 1988
- pag.
51 ".....FRANCO, il giovane figlio del prof. PASSARELLA, che cadrà
sulle nostre montagne, ucciso in seguito ad un tragico errore, è attratto
dalla simpatia che emana Margheriti e contribuisce al movimento ribelle
rendendosi attivissimo nella distribuzione della stampa clandestina insieme
a Umberto Magni......"
- pag. 80 ".....Il tre gennaio Margheriti e Magni che sono
sempre in contatto con il gruppo di Collio, tramite la signorina Gobbini,
mandano un messaggio in cui si fissa un appuntamento in casa Magni al n. 24
di via S. Croce. Ci dobbiamo accordare per ritirare delle armi nascoste alle
Fornaci e fissare le modalità per la consegna di gelatina che ci viene
insistentemente richiesta da Milano. All'appuntamento saranno presenti: i
fratelli Magni,Piero Gerola, FRANCO PASSARELLA ed Ermanno Margheriti per il
quale sarà l'ultimo incontro......"
- pag. 106 (giugno 1944) ".....Con la chiamata alle armi del
primo semestre del 1926, tra il 15 e il 20 giugno, circa 250 uomini si
rifugiano in montagna per arruolarsi nelle file partigiane......Altri
provengono da Brescia inviati in valle da Paolo Fagioli e da Guido Allegrini,
giungono con il tram delle sei e trenta. Fra questi: FRANCO PASSARELLA,
Enrico Gazzaroli, Vittorio Toselli, Giovanni Taesi, Otello Lugas, Achille
Gregori ed un certo Fagiolo. Un altro gruppo di circa ottanta giovani quasi
tutti di Gardone V.T. e di Marcheno, raggiunge sempre nello stesso periodo,
il monte Guglielmo.
- pag.107 - 108 ".....Un gruppo di cinquantasette uomini, male
equipaggiati, scortati da una pattuglia di cinque elementi armati di quattro
moschetti ed un mitra, il 24 giugno decide di portarsi in Valcamonica dove
correva voce che fosse stato effettuato un lancio di viveri e di
rifornimenti vari. La marcia ha inizio all'una di notte. Guida la formazione
un ex combattente di Spagna, Marchina (Parigi) di Gussago. Giunti in
località Colma di S. Zeno, dopo quattro ore di marcia, Marchina lascia
momentaneamente il gruppo per raggiungere la famiglia ed informarla del suo
trasferimento. Assumono il comando due giovani studenti cittadini uno dei
quali è FRANCO PASSARELLA. Dopo un lungo cammino, giungono nei pressi del
monte Mosna (Pian di Artogne) in val Maione. Gli uomini stanchi e con i
piedi dolenti a causa delle calzature non idonee alle marce in montagna, si
fermano per una breve sosta. La zona non è delle più sicure per farvi
sosta poiché è allo scoperto e si può essere avvistati in lontananza.
Nasce perciò una discussione fra i capi ed i valligiani che fanno parte del
gruppo. Questi ultimi più diffidenti poichè a conoscenza della struttura
della montagna, vorrebbero proseguire di notte sulle cime, per camminare
più sicuri ed anche per abbreviare il cammino. I comandanti della
spedizione, non conoscendo la zona, si sono portati troppo in basso.
Decidono pertanto di inviare a valle due uomini armati per chiedere
informazioni.
Sono quasi le dieci e, mentre i due stanno parlando con un contadino, costui
guardando verso l'alto esclama: "Ma quelli non sono partigiani!"
Uno dei due giovani, Mario Zoli, si rende subito conto che sono
rastrellatori. Vorrebbe segnalare il pericolo ai compagni ma è troppo
distante da loro. Non ha il tempo di pensare oltre poichè il gruppo è
investito su tre lati da un violento fuoco che provoca uno sbandamento
generale. Un giovane cittadino dai capelli rossi e ondulati, Enrico
Gazzaroli, cade colpito a morte. Molti riescono a fuggire, scendendo
dall'unico lato della montagna non occupato dai rastrellatori. Attraversano
il torrente Re in Piandartogne ma 18 vengono fatti prigionieri. Altri
deportati in Germania. Le forze attaccanti circa 200 uomini, erano composte
da SS tedesche, Feldgendarmerie ed elementi fascisti.
I superstiti con il morale a terra, raggiungeranno Pontogna e Caregno quindi
rientreranno alla spicciolata alle loro case. Solo tre uomini raggiungeranno
il gruppo del Guglielmo."
- Lettera
di Rolando Anni al Giornale di Brescia (30 settembre 2017)
- Articolo
del Gazzettino (14 novembre 2017)
- Marcello Flores, Mimmo Franzinelli, Storia
della Resistenza, Laterza, Bari - Roma 2019:
Per una valutazione d’insieme
della giustizia partigiana, si dovrebbero altresì considerare i casi di
giustizia negata, ossia di mancato avvio dell’azione giudiziaria per
gravi reati perpetrati da elementi appartenenti alla Resistenza.
Spesso, per evitare problemi, i colpevoli occultarono prove e fornirono
versioni falsificate delle uccisioni, attribuendole al nemico. Nel marasma
della guerra civile, con l’ampia autonomia operativa dei gruppi,
risultava impossibile un controllo ravvicinato e pertanto – anche grazie
a forme di omertà dovute a paura o a malinteso senso di cameratismo –
vi furono non pochi casi di omicidi impuniti, commessi per finalità
private. Talvolta si dovette attendere il dopoguerra per l’avvio, su
denunzia dei familiari delle vittime, dell’indagine giudiziaria;
talaltra non si addivenne ad alcun processo.
In sede locale, peraltro, la memoria popolare ha conservato a lungo il
ricordo di questi eventi luttuosi.
Per limitarci a un solo episodio, rappresentativo di molti altri analoghi,
si può citare il caso del diciottenne studente veneziano Franco
Passarella, figlio di Ottorino Passarella, componente del CLN cittadino di
Brescia. Il giovane ebbe la sfortuna di aggregarsi a una banda della Val
Trompia appena prima che questa venisse travolta da un rastrellamento
tedesco. Salvatosi a stento, si disperse nei boschi e dopo lungo
girovagare incappò in un gruppetto di Fiamme Verdi capeggiato da Bruno
Pè, che il 25 giugno 1944, al culmine di interrogatori a base di sevizie,
lo uccisero con una revolverata alla gola, per derubarlo della giacca a
vento e degli scarponi. Ai genitori e alla sorella si fece credere che
fosse stato internato in Germania. Nel dopoguerra il cadavere fu ritrovato
grazie alle indicazioni del cappellano partigiano padre Luigi Rinaldini,
che conosceva i retroscena dell’assassinio (ma per carità di patria non
li rivelò).
A Franco Passarella furono tributate solenni onoranze partigiane e sulla
sua abitazione bresciana venne affissa una lapide:
ALLA LIBERTÀ OFFRENDO
IL PROPRIO MARTIRIO
FRANCO PASSARELLA
PARTÌ DA QUESTA CASA
IL 19-VI-1944
LA FEROCIA FASCISTA LO COLSE
VENEZIA 25-X-1925 VALLE CAMONICA 25-VI-1944
Dopo anni di estenuanti ricerche, suo padre scoprì il nome dell’assassino.
L’Istituto storico della Resistenza di Brescia, egemonizzato da ex
partigiani della stessa formazione cui era appartenuta la squadra omicida,
accreditò a quel punto versioni indulgenti («Ricercato dai nazifascisti,
veniva catturato in uniforme fascista dai partigiani e passato per le armi
da questi, non essendo stato in grado di convincerli di non essere una
spia»), poi riproposte con adattamenti di facciata, nell’intento di “salvare
l’onore” della formazione cui apparteneva il gruppetto omicida.
Soltanto nel 2015, grazie alla giornalista Anna Maria Catano (nipote dell’ucciso),
autrice del volume Il partigiano Franco, questa vicenda terribile, in cui
si mescolano crimini ed errori, coperture e mistificazioni, è stata
portata alla luce in tutte le sue interconnessioni. Da quella lapide è
stata scalpellata la scritta menzognera sulla ferocia fascista. A Franco
Passarella sono stati di recente intitolati un “sentiero della
Resistenza”, sui luoghi della tragica esperienza partigiana, e una via
nella città di Brescia.
- Luciano Moia, Il mistero di
Franco, il ragazzo bresciano ucciso dai "suoi" partigiani (Avvenire,
24 aprile 2024)
È un
caso scomodo per la Resistenza quello di Franco Passarella, il partigiano
liceale, ucciso in Val Camonica il 25 giugno 1944. Aveva 18 anni,
l’esame di maturità sostenuto da pochi giorni, un desiderio
insopprimibile di unirsi ai "ribelli per amore", la Divina
Commedia nello zaino. Ma la sua battaglia non dura che pochi giorni. A
Brescia, sulla facciata del palazzo dove abitava, per settant’anni una
lapide ha recitato: «Alla libertà offrendo il proprio martirio Franco
Passarella da questa casa partì il 19 giugno 1944. La ferocia fascista lo
colse». Ma non è vero. Fascisti e nazisti non c’entrano nulla
con la sua morte. E non fu neppure colpito, come poi cercò di
raccontare per decenni l’Anpi, "da fuoco amico". Franco viene
assassinato da una pattuglia infedele di "Fiamme Verdi", i
partigiani cattolici. Quattro sbandati noti come banda di Solato,
che di cattolico naturalmente non hanno nulla e che hanno aderito alla
Resistenza solo per dare copertura alla loro vita criminale di agguati,
ruberie e soprusi.
Perché
uccidono a freddo un ragazzino che arriva direttamente dall’Oratorio
della Pace di Brescia e che racconta loro di voler combattere contro il
nemico invasore? Forse per rubargli gli scarponi nuovi e la giacca da
montagna. Forse solo per crudeltà. Forse per altri motivi che non
sappiamo. È un mistero che gli storici non sono ancora riusciti
a risolvere e, a guardare bene, non si tratta dell’unico
aspetto che non torna in questa vicenda. Il dato più fastidioso è
forse la lunga congiura del silenzio, le omertà, i depistaggi
che per lunghi decenni hanno tentato di coprire gli autori dell’omicidio.
Quasi che una superiore "ragion di Stato partigiana" avesse
imposto una verità di comodo per non gettare ombre sulla lotta
partigiana.
Tentativo
tanto ingenuo quanto ipocrita perché muove da un convincimento
sbagliato. L’illusione, cioè che nell’atroce guerra civile
che insanguinò l’Italia dall’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45, si
possa tracciare una linea netta di demarcazione, da una parte solo buoni,
nobili e generosi. Dall’altra solo infami e assassini. Non fu
così, perché la vita non è così. E tantomeno la guerra. E raccontare
che nelle bande partigiane si nascondevano anche personaggi ignobili,
capaci di gesti crudeli come quello di cui fu vittima il giovanissimo
Franco, non significa denigrare la Resistenza, ma contribuire a
renderla più vera e più credibile, liberandola da
sovrastrutture retoriche e da mitologie inutili e fastidiose.
Il libro
scritto dalla giornalista Anna Maria Catano – Il
partigiano tradito (San Paolo, pagine 146, euro 20,00) con la
prefazione del vescovo emerito di Palestrina, Domenico Sigalini, di
origini bresciane, e introduzione dello storico Mimmo Franzinelli -
va proprio nella direzione di restituire ai fatti il loro valore, senza
mistificazioni o cautele improntate al politicamente corretto. L’autrice
ha un motivo in più per farlo. È nipote del partigiano assassinato e per
tanti anni è stata lei stessa vittima, anche nella sua famiglia, di
questa congiura del "non detto". Non una parola in casa, per
tanti anni. Mai un accenno alle circostanze in cui morì lo zio.
Un
silenzio che ha alimentato il suo desiderio di sapere e poi la passione,
in alcuni passaggi anche la rabbia, con cui ha scritto queste pagine.
Sentimenti che non hanno offuscato però il rigore con cui ha messo in
fila i fatti, ha fatto parlare i testimoni, ha ridato vita ad episodi che
altrimenti sarebbero rimasti sepolti in una memoria collettiva più
interessata a nascondere che a rivelare le circostanze di quanto successo.
"In Val Camonica lo sapevano tutti… le testimonianze raccolte fra i
borghi camuni confermano che la banda di Solato era arcinota in
vallata". Ma anche alla fine della guerra, quando ormai la storia ha
emanato il suo verdetto senza appello, tutti preferiscono tacere. Catano
spiega, sulla base di documenti consultati presso l’Anpi di Brescia,
come sia potuto accadere che quattro sbandati ben noti per la loro ferocia
e arroganza, abbiano potuto agire indisturbati per mesi e macchiarsi di
delitti atroci.
Solo nell’autunno
del ’44, alcuni mesi dopo la morte del partigiano-ragazzino, le Fiamme
Verdi bresciane si organizzano e costituiscono una struttura gerarchica. E
infatti a questo punto la banda di Solato si scioglie e i suoi componenti
entrano in altre formazioni. Il capo, Bruno Pe, quello che ha sparato a
freddo al partigiano liceale, va addirittura a lavorare per i nazisti dell’Organizzazione
Todt, impegnata a costruire ponti e strade per la Wehrmacht. Tanto per
definire la caratura morale del figuro. Oggi di Franco Passarella
rimane una via intitolata a Brescia e una calle a Venezia, sull’isola
di Sant’Elena, in memoria delle origini della famiglia. Oltre a un
sentiero alpino, a Pisogne, sponda orientale del lago d’Iseo. Ma
soprattutto rimane la volontà di non dimenticare il suo gesto di
adolescente generoso, deciso a combattere la dittatura fascista e l’occupazione
nazista.
Maurilio
Lovatti fascismo e guerra
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