Augusto Paganuzzi

 

Ricordi del tempo di guerra e di Franco Passarella

 

La mia famiglia, arrivata a Brescia dal Veneto nel 1932, dopo aver abitato per alcuni anni in Via Musei, si era trasferita, nel 1940, al Palazzo INCIS (Istituto Nazionale Case Impiegati Statali), in Piazza Vittorio Veneto. Io ho, quindi, passato gli anni della guerra 40-45 prevalentemente in questa zona di Brescia, allora molto periferica. A nord dell'Incis, in prevalenza, c'erano ancora campi coltivati o fabbriche, come l'OM e la S. Eustacchio, oltre all'Istituto Pavoniano con la sua chiesa parrocchiale.
In questa grande struttura abitativa, di oltre 60-70 appartamenti, abitavano molti insegnanti e, fra questi, anche la famiglia del prof.Passarella, insegnante di storia dell'arte al liceo Arnaldo (e quindi collega e poi amico di mio padre) e mio stesso insegnante al liceo.
I Passarella m'invitavano spesso nella loro casa per far compagnia al loro unico figlio, Franco, di un anno maggiore di me. Diventammo quindi molto amici, sebbene non fosse un tipo molto espansivo.
Da adolescenti, com'eravamo, fra noi si parlava spesso della guerra e del clima politico nel quale eravamo costretti a vivere. Io, che frequentavo moltissimo l'oratorio dei Padri della Pace, dove in pratica ho avuto la mia educazione religiosa e morale, avevo assorbito lo spirito di critica alla dittatura e di amore per la libertà che vi si coltivava, sia pure con la prudenza che i tempi pericolosi, nei quali si viveva, consigliava, e mi ero accorto che anche Franco era molto critico nei confronti del regime fascista. C'era quindi fra noi una solidarietà d'idee che ci aveva avvicinato reciprocamente ancora di più.
Durante tutto il periodo di guerra, specie dal 1941, facevo parte di un gruppo di giovani (eravamo una trentina circa) che aiutavano le numerosissime iniziative caritatevoli del vescovo mons. Tredici, sostenute e coordinate dal compianto suo segretario, mons. Angelo Pietrobelli: raccolta e distribuzione di viveri e di vestiti ai poveri e a quelli che avevano
perso tutto nei bombardamenti; ascolto ogni mattina dalle 6 alle 8, prima di andare a scuola, delle radio della Croce Rossa Internazionale e del Vaticano, che trasmettevano, in orari prestabiliti, lunghi elenchi di prigionieri di guerra, per rilevare i nomi di quelli bresciani e poterli poi comunicare alle famiglie; squadre di Pronto Soccorso, che uscivano subito dopo la fine dei bombardamenti per soccorrere i feriti e raccogliere le salme dei morti, o che si sostituivano alla Croce Bianca (non ricordo se allora fosse la Croce Rossa!), spesso a corto di autoambulanze, per trasportare in ospedale, trasferito alla Pendolina, su semplici lettighe munite di due ruote di bicicletta saldate ai fianchi, i malati gravi
bisognosi di ricovero, ecc.
Dopo l' 8 settembre, con la successiva invasione tedesca e l'avvento del governo repubblichino fascista, noi giovani, sebbene ancora adolescenti (nel settembre del 43 io non avevo ancora 17 anni, ma alcuni miei amici erano ancora più giovani), sentivamo che questo tipo di attività caritativa non era più sufficiente e che bisognava subito fare qualcosa di più, qualche azione direttamente mirata alla più rapida disfatta dei nazifascisti, e come testimonianza, in ciò seguendo le orme di tanti amici di età maggiore che
sapevamo silenziosamente impegnati nella resistenza attiva.
Durante l'estate del 44, passata a Pontedilegno, don Giovanni Antonioli, allora giovane curato di quella parrocchia, spesso mi chiedeva di aiutarlo per portare, di notte, armi e viveri ai partigiani, nascosti nelle baite di Sommalbosco o della Val Grande di Vezza d'Oglio (una volta raggiungemmo perfino il Mortirolo dalla Val Grande salendo la Val Parola e la Val Bighera): armi che andavamo a raccogliere in Val Sozzine, sotto pietre e tronchi, ivi lasciate non ho mai saputo da chi. Altre volte mi mandava in bicicletta fino a Corteno, e da lì in Val Brandet, per portare messaggi ai partigiani del luogo. Mi fermavo dal fornaio di Corteno, il quale sapeva come preavvertire i partigiani del mio arrivo e ci riconoscevano con fischi prestabiliti.
Ma nei periodi di scuola dovevo stare in città. Avevo anche cercato di chiedere ad Astolfo Lunardi, tramite la figlia Federica, che faceva parte del nostro "gruppo del vescovo" e che era amica mia, se potevo entrare nell'organizzazione partigiana vera e propria, ma avevo avuto il consiglio di lasciar perdere. Probabilmente mi vedevano troppo giovane o un soggetto troppo irrequieto e non sicuro. L'unico incarico che avevo avuto era stato quello di distribuire ogni tanto "Il Ribelle", il giornale saltuariamente stampato dalle Fiamme Verdi. Federica mi diceva dove l'avrei trovato: era sempre in qualche via periferica isolata, nascosto sotto le frasche o sotto i muretti in pietra dei sentieri per la Maddalena, o in Costalunga. Lo distribuivo di sera, al buio, inserendolo nelle buche delle lettere o sotto i portoni di case, scelte a caso, o, qualche volta, durante la ricreazione, anche sotto i banchi del liceo "Arnaldo", che frequentavo, se riuscivo a non farmi vedere.
Io e Franco Passerella, nei pomeriggi passati insieme, sfioravamo spesso l'argomento della resistenza, commentavamo gli avvenimenti e spesso ci domandavamo cosa si sarebbe potuto fare da soli noi due. Mai da lui ho saputo quello che poi ho letto nell'Enciclopedia Bresciana di Don Antonio Fappani (vol. XII, pag. 177, ediz. 1996): che "Franco
Passarella era entrato nella Resistenza, sulle orme del padre Ottorino, assumendo anche incarichi rischiosi nella Brigata G.R. Barnaba". Se è stato scritto, certamente lo era. Se, quindi, mai me l'ha detto è forse perché, su questi argomenti, meno si parlava e meglio era. E Franco era già allora molto riservato e taciturno.
E' in ogni caso poco verosimile che Franco, se fosse stato inquadrato nelle formazioni della Resistenza, fosse poi andato in montagna, come ha fatto, senza prima informarsi dove e con chi e senza farsi prima presentare dai suoi capi o da qualcuno.
D'altronde io stesso non ho mai detto a lui, per molto tempo, quello che facevo di mia iniziativa, senza neppure che i miei genitori lo supponessero.
Sopratutto nell'autunno-inverno 43-44, quando il buio arrivava presto e c'era nebbia, uscivo di casa la sera tardi per andare a scombinare tutti i segnali stradali militari, che i tedeschi avevano installato agli incroci delle strade principali, o per mettere dei chiodi d'acciaio sotto le ruote dei camion militari parcheggiati nella zona di Campo Marte o altrove, in modo che, quando si fossero avviati, di mattino, le gomme si bucassero.
Poi un giorno, con molta circospezione, glielo dissi per vedere cosa ne pensava e lo trovai interessato e disposto a farlo insieme. Cambiavamo sempre zona e lo facevamo saltuariamente per evitare che qualcuno si appostasse per scoprirci; battevamo in bicicletta la zona di Canton d'Albera, di S. Eustacchio, di Via Milano, di S. Eufemia, ecc.: uno di noi davanti, senza portare nulla, in avanscoperta e a fare da palo, e quello dietro, munito di una chiave inglese, salendo sul telaio della bici per raggiungere i segnali stradali, svitarli quanto bastava per poterli ruotare verso altra direzione e quindi riavvitarli. Avevamo anche studiato come piantare i chiodi su una tavoletta di 3-4 cm. di lato perché potessero stare fissi con la punta in su e la inserivamo prevalentemente sotto le ruote posteriori, perché, poi, meno visibili di giorno.
Una volta decidemmo anche di entrare di soppiatto, di notte, nel grande parcheggio militare di automezzi, che i tedeschi avevano installato nella zona all'incirca corrispondente all'attuale ospedale civile, per sabotarli.
Era una notte di nebbia; tagliata la rete di recinzione, ci infilammo sotto i camion, muniti di una pila, per svitare i tappi delle coppe dell'olio o per tagliare le cinghie di trasmissione. Fu l'unica volta che corremmo un vero pericolo. Non sapevamo che il parcheggio fosse custodito e, ad un certo punto, sentimmo dei passi che si avvicinavano. Mentre restavamo in totale silenzio e immobilità sotto al camion che avevamo scelto, vedemmo passare accanto le gambe di una sentinella. Non vi tornammo più, presi dal terrore.
Oggi, con il senno dell'adulto, è facile riconoscere che queste eranosolo "ragazzate", azioni piuttosto velleitarie e inutili, con un'enorme sproporzione fra il minimo danno che potevamo arrecare ai tedeschi e il rischio che correvamo, se fossimo stati scoperti, ma allora, nel clima nel quale vivevamo e nella passione giovanile, ci sembrava di fare qualche cosa di significativo; e lo facevamo accettando il rischio, anche se convinti che ben difficilmente qualcuno avrebbe potuto scoprirci, tanto ci sembrava d'essere prudenti.
Nella primavera dal 44 sembrava che la fine della guerra, con la disfatta dei tedeschi sulla linea Gotica, non fosse lontana, il freddo andava scemando e ci si avviava verso l'estate. Franco Passarella incominciò a parlare di andare in montagna con i partigiani. Mi diceva che voleva farlo senza dirlo ai suoi e mi chiedeva se sarei andato con lui. Voleva andare con i Garibaldini più che con le Fiamme Verdi. Io non avevo questa intenzione, non mi sentivo di farlo senza dirlo ai miei, sarebbe stato dar loro un dispiacere troppo grande e se l'avessi detto, essendo minorenne, non mi sarebbe certamente stato concesso. Anche a lui consigliavo di non farlo: era figlio unico, aveva solo un anno più di me; gli proponevo, semmai, di parlarne prima con i suoi. Dopo questi scambi d'idee non accennò più alla questione; continuò ad andare a scuola, finì l'anno scolastico, ma poi, un giorno, improvvisamente sparì.
Immaginai cosa fosse successo; non avevo il coraggio di avvicinare i suoi genitori, per paura che mi chiedessero se sapevo qualche cosa, né essi vennero da me per chiedere informazioni. Quando, pochi giorni dopo la scomparsa di Franco, li vidi casualmente per strada, non mi chiesero nulla, né io a loro. Era una situazione imbarazzante, visti i rapporti di prima fra noi, ma così è stato. Pensavo che sapessero che il loro figlio era andato in montagna e che, naturalmente, non volessero neppure dirmelo. Allora si aveva
paura di tutto e si aveva la prudenza di tacere il più possibile con tutti.
Non seppi più nulla di lui per tutto il tempo di guerra, né mai chiesi ai genitori se avessero avute notizie di Franco. Dentro di me, considerato il comportamento, ero convinto che loro sapessero che lui era andato con i partigiani. Neppure immaginavo che fosse già morto; lo credevo in montagna.
Dopo la liberazione Franco non tornò. Per un po' non me ne interessai. Nella primavera del 45 ero libero dalla scuola, perché avevo saltato la terza liceo, sostenendo gli esami di maturità dopo la seconda, ma ero molto impegnato a tempo pieno nelle attività assistenziali del Vescovo. Ai primi di maggio, dato che conoscevo il tedesco, questi mi mandò perfino in Germania, con una colonna di 3-4 camion militari, guidati da autisti civili bresciani, offertagli dagli americani in riconoscenza della molta assistenza a vari prigionieri alleati (riusciti ad evadere dai campi di concentramento), che don Pietrobelli era riuscito ad organizzare. In una settimana di viaggio attraversammo tutta la Germania distrutta
dalla guerra e, risalendo la valle del Reno, arrivammo a Wietzendorf, un paesino della Bassa Sassonia, dove esisteva un campo di concentramento nazista che ospitava molti soldati italiani. Ne portammo indietro il più possibile. Mi sembra di ricordare che ci fosse, fra questi, anche Grottolo.
Da mia madre seppi, poco dopo il ritorno, che si diceva che Franco fosse morto. Mi feci coraggio e chiesi alla signora Passarella se sapeva qualcosa del figlio, ma scoppiò in pianto e mi disse che dalla fuga non avevano più avuto notizie di lui. Incominciai ad interessarmi del fatto chiedendo a tanti miei amici che erano stati in montagna nelle Fiamme Verdi, ma le risposte furono sempre molto generiche ed evasive: dal "Non ne ho mai saputo nulla", "Nel nostro gruppo non c'era", "Doveva semmai essere con quelli
della Val Trompia, se fosse andato in montagna..." al: "Non chiedere troppo in giro; sono successe tante cose brutte durante la guerra partigiana..."
Poi, un po' alla volta si sparse la voce che fosse stato ucciso dai fascisti, durante un rastrellamento, nello stesso giorno nel quale era salito in montagna, ma anche la voce, sussurrata e con il consiglio di non approfondire, che fosse stato scambiato per una spia fascista e ucciso dagli stessi partigiani garibaldini della Val Trompia: quelli guidati dal dr.
Gerola; il quale, però, anche anni dopo, a me l'ha sempre negato.
Che fosse stato ucciso dagli stessi partigiani è poi risultato vero. Non ho mai saputo da quale formazione, né più lo chiesi. In tutti i casi, si è trattato di un'azione molto grave. Anche nel clima di allora, di fronte ad un ragazzo così giovane, senza la certezza che fosse una spia fascista, si sarebbe benissimo potuto e dovuto tenerlo prigioniero qualche giorno e chiedere prima informazioni, attraverso i contatti che ogni formazione partigiana aveva con i sostenitori che vivevano in città. Il padre, Ottorino, non era uno sconosciuto, era un insegnante di liceo, era lui stesso nella resistenza, a quello che ho saputo dopo, e in breve si sarebbe facilmente arrivati a scoprire che Franco Passarella non era una spia fascista, ma un giovane desideroso veramente di unirsi ai partigiani per amore della libertà e della sua Patria.
Altrettanto grave, e senza giustificazioni morali, è stato anche il fatto che, poi, mai nessuno abbia sentito, per anni, il bisogno e il dovere di informare i genitori di quello che veramente fosse accaduto. Non basta rifugiarsi "nel clima di allora". In tutti i casi, a mio parere, si è trattato di un comportamento deplorevole.
Sui genitori le conseguenze sono state disastrose: la madre cadde in un grave stato di depressione, sfociato poi in atteggiamenti anche dissociativi fino alla morte, e il padre si era isolato da tutti, senza più riprendersi fino alla fine.
Franco Passarella andrebbe ricordato come un vero giovane eroe partigiano bresciano, morto per dare il suo contributo generoso, anche se in modo un po' ingenuo (ma aveva solo 18 anni!), alla causa della Resistenza.


Brescia, 21.9.05

 

 

 

lapide in via S. Eustacchio a Brescia (palazzo INCIS)

 

 

 

 

dall' Enciclopedia Bresciana di Antonio Fappani, vol. XII, ed. Voce del Popolo, Brescia 1996:

 

 

 

 

Bruna Franceschini

Per non dimenticare Franco Passarella, ragazzo partigiano, ucciso da “fuoco amico”

 


E' la sorella Laura, che ora vive a Udine, a raccontare la storia tragica di un ragazzo eccezionale e sfortunato. Erano entrambi studenti liceali e loro padre, Ottorino Passarella, era membro del Partito d'Azione e tra i fondatori del CLN bresciano. Incarcerato dalle SS, fu liberato dopo un mese, ma i fascisti tornarono per arrestarlo. Riuscì a fuggire a Milano, col gruppo Parri, per tornare solo a guerra finita.
Prima che anche loro madre, Carolina Sartorelli, insegnante di filosofia al liceo Calini, fosse arrestata dall'OVRA, denunciata da uno studente per una qualche frase pronunciata in classe, Franco, conseguita la maturità classica, partì per la montagna. Era un ragazzo brillante e sensibile, studente di prim'ordine, e decise di formare un gruppo di ribelli: si ritrovò sopra Villa Carcina con tre compagni di liceo ed un sottotenente, un certo Luigi. Ben presto però il gruppo si sfaldò: uno decise di entrare in seminario, un altro non si sentiva sufficientemente motivato, un altro ancora temeva per il padre, l'ultimo si rifugiò presso uno zio parroco, prima di morire di tifo. Franco allora si mise in contatto con i resistenti della città: Margheriti, Lunardi, Tita Secchi, padre Manziana e padre Rinaldini. Raggiunse quindi in montagna un gruppo in formazione: la sorella lo accompagnò fino a Gardone Val Trompia, da dove sarebbe proseguito a piedi. Non sapeva di vederlo vivo per l'ultima volta, quando la salutò con il viso illuminato dal sole.
Il gruppo era disorganizzato e male armato, ma Franco possedeva una vecchia pistola della grande guerra, appartenuta a suo padre. Franco Pellacini, "Cecco", precisa come molti giovani della classe 1926 siano saliti in montagna in questo periodo, per sottrarsi alla chiamata della RSI, ritenuta abusiva: "Affluiti sul Guglielmo, erano dislocati nelle varie cascine della zona. Questo, naturalmente, causò una grande confusione organizzativa tra i gruppi già esistenti, organnizzati e bene armati. Il 24 giugno 1944, per i nuovi, arriva l'ordine di trasferimento in valle Camonica, essendo queste zone più idonee alla guerra partigiana. Il comandante Marchina (già combattente in Spagna), incarica Franco Passarella, appena giunto in Guglielmo, del trasferimento del gruppo di circa 80 uomini. Arrivati presso il monte Muffetto, però, ecco l'imboscata da parte di un centinaio di fascisti".
Sette ammazzati sul posto, gli altri catturati e deportati in Germania. Solo due (Pellacini e un milanese, Carlo Grossi) si salvarono, buttandosi nel greto di un torrente in piena. Mentre i due decisero di raggiungere il campo dei russi, Franco pensò di tornare in città, nonostante "Cecco" avesse tentato di convincerlo ad andare con lui, perché il sentiero che stava imboccando, tra la Val Trompia e la Val Camonica era pericoloso: erano ormai le tre del mattino e il ragazzo, poco esperto e frastornato, si inoltrava nel territorio che gli sarebbe stato fatale. Ottenuto del latte in una baita, bussò poi al parroco di Fraine. Il prete era terrorizzato e non lo fece entrare. Quando chiese di poter almeno aggiustare i calzoni: gli passò ago e filo fuori dalla canonica. Non volle nemmeno che entrasse in chiesa per la confessione, in compenso gli indicò i boschi di Vissone come luogo più sicuro per nascondersi. Neanche il parroco di Vissone si fidò di quel ragazzo dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, che indossava l'elegante sahariana amorosamente preparata da mamma e da Laura. Lo mandò via, così Franco incappò in alcune Fiamme Verdi: aveva l'aspetto del signorino, non sapeva nemmeno parlare dialetto e non conosceva la parola d'ordine, non riferiva nomi e particolari che gli venivano chiesti, un po' perché era nuovo, ma forse anche per rispettare la consegna della segretezza. E quando poi affermò di fuggire da una retata, pensarono che fosse stato invece lui a portare lì i fascisti. Gli spararono un colpo di pistola in testa e gli sfilarono la bella giacca.
Laura, che dopo la partenza del fratello e l'arresto della madre era rimasta sola, entrò nella Resistenza con Cesare Pradella, di Giustizia e Libertà. Era con Sam Quilleri e il maggiore Flamigni, il giorno dell'insurrezione. Quando mamma Carolina tornò a casa e, dopo qualche settimana, anche papà Ottorino, aspettarono tutti il rientro di Franco. Ma invano. Avevano saputo del combattimento, a suo tempo, ma lui non risultava tra i morti, quindi lo si pensava in montagna o, nella peggiore delle ipotesi, tra i partigiani portati in carcere a Darfo e poi inviati in Germania. Forse i questurini mentivano, dicendo che non era passato di là.…
Ora che la guerra era finita attendevano ansiosi che tornasse: dalla montagna, dalla Germania, oppure dalla Russia… La madre, angosciata, tappezzava le stazioni di fotografie: "Chi l'ha visto?" Laura andò in autostop a Firenze, dove una diceva di avere sue notizie. Poi a Como, da un'altra: ma si trattava solo di somiglianza. Lo iscrissero anche ad ingegneria, a Padova, perché non perdesse l'anno.
Nel dicembre 1946 padre Rinaldini venne a sapere che il parroco di Vissone aveva il portafoglio di Franco con una foto della sorella, oltre all'inseparabile "Divina commedia" nell' edizione mignon della Hoepli. Perché non aveva mai avvisato la famiglia? Il prete rivelò poi che le spoglie del ragazzo erano sepolte in un buco, senza neppure una lapide o una croce. Laura si assunse il compito di andare, verificare ed indagare, dirlo poi ai suoi. Dirlo alla madre distrutta dall'attesa, dalle notti snervanti alla stazione, attendendo l'arrivo delle tradotte dalla Germania, esibendo la foto a tutti quelli che ne scendevano. Mesi e mesi tra richieste al comando americano e riconoscimenti di salme. Un dolore lungo e devastante. Un lutto che non sarebbe mai riuscita ad elaborare. Cesare Pradella, il comandante "Gigi", con un compagno ne portò i resti al cimitero di Brescia, contenuti in una piccola cassa coperta dal tricolore. Sam Quilleri scrisse il necrologio per il quotidiano locale, mentre i suoi professori lo ricordavano, studente modello, intelligente e creativo, poliedrico. Furono poi gli alunni della V^ B del liceo Calini a raccogliere tutte le testimonianze e a pubblicarle, raccontando anche la storia della sua tragica insensata fine, della sua morte avvenuta per "fuoco amico".

(in Ieri e oggi Resistenza, numero 41 del 2007)

 

Bruno Bertoli, La vicenda doppiamente tragica di Franco Passarella

da Bresciaoggi del 26 luglio 1993

 

lapide a S. Pietro di Solato

 

 

 

Dal sito dell'ANPI

Giugno 1944


Il movimento partigiano registra una grande crescita, si intensificano i sabotaggi e il recupero di armi: il gruppo C 12 di Schivardi si impadronisce di armi e viveri all’Aprica, a Edolo e Mù, a Sonico. Le Fiamme Verdi di Ceto liberano i prigionieri di Breno. In uno scontro con i fascisti viene ferito a morte Antonio Farisè. Sempre le Fiamme Verdi, a Capodiponte, disarmano la GNR e fanno un ricco bottino. Il partigiano Francesco Troletti viene catturato e ucciso a pugni e calci, Giovanni Troncatti viene passato per le armi a Capodiponte dopo un rastrellamento. In una cascina sopra Gianico si fermano a pernottare dei partigiani: a causa della soffiata di una donna (poi giustiziata), vengono sorpresi Giacomo Marioli, ammazzato sul posto, Battista Pedersoli e Antonio Cotti Cottini, prelevati e torturati, prima di essere uccisi. La cascina data alle fiamme.

Una sessantina di partigiani, male equipaggiati, cade in un’imboscata mentre tentano di passare in Valcamonica dalla Valtrompia. Enrico Gazzoli è abbattuto, diciotto sono fatti prigionieri. Lo studente Franco Passerella, figlio diciottenne di Ottorino, membro del CLN, riesce a fuggire ma rimane poi ucciso dalle Fiamme Verdi, che lo scambiano per una spia tedesca. I suoi resti verranno trovati dopo la guerra, per l’instancabile ricerca della sorella Laura, anche lei staffetta partigiana.

 

 

 

CORRIERE DELLA SERA - BRESCIA, 1 SETTEMBRE 2013


Le sue spoglie trovate nel dicembre '46, l'uccisione attribuita erroneamente ai fascisti


Eroe dimenticato


di Mimmo Franzinelli


A quasi settant'anni dalla tragica morte dello studente Franco Passarella, sono in corso ricerche storiche sulla sua figura e si prepara per il giugno 2014 il "sentiero della Resistenza" a lui dedicato nei monti sopra Pian Camuno e Pisogne.
Nato a Venezia nel 1925, giunge a Brescia nel 1941 con i genitori - insegnanti all'Arnaldo e al Calini - e la sorella Laura. Frequenta l'oratorio alla Pace, dei padri filippini, dove stringe amicizia con Cesare Trebeschi e Augusto Paganuzzi con il quale attua ingenue e rischiose forme di sabotaggio della macchina militare tedesca. Franco è un giovane idealista, cattolico e mazziniano, desideroso di contribuire al riscatto nazionale e di partecipare alla lotta partigiana. Per amore della famiglia conclude gli studi e, ottenuta a metà giugno la maturità classica, parte verso la Valtrompia per unirsi a un gruppo di "ribelli".
Quando un rastrellamento disperde la formazione, egli scende verso la Valcamonica. Vaga per un paio di giorni, soccorso da alcuni contadini, poi ha la sventura di imbattersi in un gruppetto di quattro Fiamme Verdi, guidato dal ventiquattrenne Bruno Pe', alle dipendenze del distaccamento C 14. Viene sospettato di spionaggio o - più semplicemente - gli si vuole prelevare gli scarponi nuovi e la giacca a vento. Dopo breve prigionia, il "forestiero" viene ucciso il 25 giugno con un colpo di pistola sotto la gola. Dell'episodio vengono informati i comandanti delle Fiamme Verdi, che riconducono a un "equivoco" la morte del giovane, e mantengono riservata la notizia. Il primo agosto Romolo Ragnoli colloca una pietra tombale sulla vicenda: "Per il cadavere trovato, sarebbe buona cosa seppellirlo facendo una relazione tipo le precedenti. Ferito dai nostri, nel correre ha battuto la testa contro una pietra e si è ucciso. Poveretto!".
Inizia a questo punto la seconda parte del dramma di Franco Passarella, che investe la sua famiglia. La mamma lo cerca con la forza della disperazione e trascorre settimane alla stazione di Brescia, per mostrarne la fotografia ai reduci dall'internamento: qualcuno ha infatti creduto di vederlo in un Lager. Grazie all'intervento del cappellano partigiano don Rinaldini, le povere spoglie dello sventurato diciottenne vengono individuate e il 21 dicembre 1946 si svolge a Brescia un solenne funerale partigiano. Dinamiche e responsabilità dell'uccisione vengono occultate, negate e ribaltate nella versione classica del ribelle colpito dai naturali avversari: "La ferocia fascista lo colse", si leggeva sino a pochi mesi fa nella lapide sullo stabile di Brescia dove abitava la famiglia Passarella.
E ancora oggi, nel cimitero di Vissone una lapide recita: "Franco Passarella / Vissuto per la libertà / Ribelle a lusinghe vili / Qui cadde / Massacrato da orde fasciste". Se durante la guerra oggettive difficoltà impedivano l'accertamento dei fatti, si doveva poi far luce su quella tragedia. Ma esponenti di spicco del partigianato diffondevano versioni compiacenti che velavano la verità e coprivano i responsabili. All'occultamento ha contribuito anche l'Istituto storico della Resistenza bresciana (durante la direzione di Dario Morelli), veicolando versioni parziali e inattendibili. Bisognerà, prima o poi, allineare le tante menzogne e mistificazioni, e ricordare anche i silenzi di chi, sapendo, tacque.
Come non bastassero le distorsioni della memoria, nella primavera 2008 la tomba di Franco Passarella al cimitero Vantiniano è stata distrutta e la salma gettata nella fossa comune. Venezia ha dedicato una via a Franco Passarella, mentre a Brescia ancora non esiste una strada intitolata allo sventurato giovane. Ma il tempo è galantuomo e nei prossimi mesi ci sarà modo, con pubblicazioni e iniziative commemorative, di ristabilire la verità su questa lacerante vicenda, per riscoprire la figura e le idealità di un adolescente generoso.

 

 

Bresciaoggi, 1 settembre 2013

IL LIBRO LA STORIA DEL GIOVANE FRANCO PASSARELLA, NATO A VENEZIA MA VISSUTO A BRESCIA. FU UCCISO DALLE FIAMME VERDI CHE LO SCAMBIARONO PER UNA SPIA


Partigiano scambiato per spia
e ucciso dai compagni

 

 

Le sue spoglie trovate nel dicembre '46: l'uccisione attribuita erroneamente ai fascisti
A quasi settant'anni dalla tragica morte dello studente Franco Passarella, sono in corso ricerche storiche sulla sua figura e si prepara per il giugno 2014 il "sentiero della Resistenza" a lui dedicato nei monti sopra Pian Camuno e Pisogne.
Nato a Venezia nel 1925, giunge a Brescia nel 1941 con i genitori - insegnanti all'Arnaldo e al Calini - e la sorella Laura. Frequenta l'oratorio alla Pace, dei padri filippini, dove stringe amicizia con Cesare Trebeschi e Augusto Paganuzzi con il quale attua ingenue e rischiose forme di sabotaggio della macchina militare tedesca. Franco è un giovane idealista, cattolico e mazziniano, desideroso di contribuire al riscatto nazionale e di partecipare alla lotta partigiana. Per amore della famiglia conclude gli studi e, ottenuta a metà giugno la maturità classica, parte verso la Valtrompia per unirsi a un gruppo di "ribelli".
Quando un rastrellamento disperde la formazione, egli scende verso la Valcamonica. Vaga per un paio di giorni, soccorso da alcuni contadini, poi ha la sventura di imbattersi in un gruppetto di quattro Fiamme Verdi, guidato dal ventiquattrenne Bruno Pe', alle dipendenze del distaccamento C 14. Viene sospettato di spionaggio o - più semplicemente - gli si vuole prelevare gli scarponi nuovi e la giacca a vento. Dopo breve prigionia, il "forestiero" viene ucciso il 25 giugno con un colpo di pistola sotto la gola. Dell'episodio vengono informati i comandanti delle Fiamme Verdi, che riconducono a un "equivoco" la morte del giovane, e mantengono riservata la notizia. Il primo agosto Romolo Ragnoli colloca una pietra tombale sulla vicenda: "Per il cadavere trovato, sarebbe buona cosa seppellirlo facendo una relazione tipo le precedenti. Ferito dai nostri, nel correre ha battuto la testa contro una pietra e si è ucciso. Poveretto!". Inizia a questo punto la seconda parte del dramma di Franco Passarella, che investe la sua famiglia. La mamma lo cerca con la forza della disperazione e trascorre settimane alla stazione di Brescia, per mostrarne la fotografia ai reduci dall'internamento: qualcuno ha infatti creduto di vederlo in un Lager. Grazie all'intervento del cappellano partigiano don Rinaldini, le povere spoglie dello sventurato diciottenne vengono individuate e il 21 dicembre 1946 si svolge a Brescia un solenne funerale partigiano. Dinamiche e responsabilità dell'uccisione vengono occultate, negate e ribaltate nella versione classica del ribelle colpito dai naturali avversari: "La ferocia fascista lo colse", si leggeva sino a pochi mesi fa nella lapide sullo stabile di Brescia dove abitava la famiglia Passarella.

E ancora oggi, nel cimitero di Vissone una lapide recita: "Franco Passarella / Vissuto per la libertà / Ribelle a lusinghe vili / Qui cadde / Massacrato da orde fasciste". Se durante la guerra oggettive difficoltà impedivano l'accertamento dei fatti, si doveva poi far luce su quella tragedia. Ma esponenti di spicco del partigianato diffondevano versioni compiacenti che velavano la verità e coprivano i responsabili. All'occultamento ha contribuito anche l'Istituto storico della Resistenza bresciana (durante la direzione di Dario Morelli), veicolando versioni parziali e inattendibili. Bisognerà, prima o poi, allineare le tante menzogne e mistificazioni, e ricordare anche i silenzi di chi, sapendo, tacque. Come non bastassero le distorsioni della memoria, nella primavera 2008 la tomba di Franco Passarella al cimitero Vantiniano è stata distrutta e la salma gettata nella fossa comune. Venezia ha dedicato una via a Franco Passarella, mentre a Brescia ancora non esiste una strada intitolata allo sventurato giovane. Ma il tempo è galantuomo e nei prossimi mesi ci sarà modo, con pubblicazioni e iniziative commemorative, di ristabilire la verità su questa lacerante vicenda, per riscoprire la figura e le idealità di un adolescente generoso.

Mimmo FRANZINELLI

 

 

 

CORRIERE DELLA SERA - BRESCIA, 4 SETTEMBRE 2013


Così morì Passarella. <<Nessuna verità nascosta>>


di Rolando Anni


Scrivo dopo avere letto l'articolo di Mimmo Franzinelli pubblicato domenica 1° settembre sulla tragica vicenda di Franco Passarella, ucciso dai partigiani perché scambiato per una spia. Mi è davvero impossibile non commentare le tante affermazioni e valutazioni, a mio parere scorrette e imprecise, in esso contenute. Certo è estremamente difficile essere chiari ed esaurienti nel poco spazio che un giornale può offrire, tanto più in un caso così complesso come quello di Passarella. Spero di riuscirci e dunque procedo per punti riferendomi a quanto scrive Franzinelli e ai documenti conservati nell'Archivio storico della Resistenza bresciana e dell'Età contemporanea dell'Università Cattolica.
Franzinelli scrive che Romolo Ragnoli "colloca una pietra tombale sulla vicenda". In realtà Ragnoli, il comandante delle Fiamme Verdi, non ha mai nascosto né sepolto nulla, né durante, né dopo il periodo partigiano, testimoniando quanto poteva sapere (e non poteva sapere tutto) allora e poi. Così il 14 luglio trasmette a tutte le Fiamme Verdi della valle la richiesta di fornire notizie al Comando su Franco Passarella, allegando un biglietto con la descrizione fisica del giovane. Quando poi, nel 1981, in uno dei suoi pochissimi scritti, pubblicato sulla rivista "La Resistenza bresciana" dell'allora Istituto storico della Resistenza bresciana, compila l'elenco dei caduti delle valli bresciane, nel breve profilo che accompagna il nome di Passarella scrive, secondo quanto era a sua conoscenza, che "veniva catturato in uniforme fascista dai partigiani e passato per le armi da questi, non essendo stato in grado di convincerli di non essere una spia". Un po' tardi, si potrebbe dire, ma il lavoro di Ragnoli era il primo, e per ora unico, che cercava di dare conto di tutti i caduti della Resistenza bresciana, sia pure con le imprecisioni che è quasi naturale commettere in lavori così complessi. Scrive ancora Franzinelli, e si tratta di un'accusa grave e gratuita, di "occultamento cui ha contribuito l'Istituto storico della Resistenza bresciana (durante la direzione di Dario Morelli) veicolando versioni parziali e inattendibili". Che cosa poteva infatti sapere e nascondere Morelli nel 1944, mentre era nel carcere di Brescia, e poi, dopo il 1945, dal momento che aveva a disposizione quegli stessi documenti che ha avuto a disposizione Franzinelli?
L'Istituto diretto da Morelli non solo pubblicò la rivista su cui apparve il lavoro di Ragnoli, ma nel 1983 anche il volume di Maria Rosa Zamboni, "Via della libertà", in cui alle pp. 102-103 riportava le stesse notizie di Ragnoli.
Lo stesso Morelli fornì a Bruno Bertoli i documenti che lo storico veneziano pubblicò in un suo saggio su Passarella del 1993. Certo i documenti erano e sono pochi, ma lascio decidere ad altri se i comportamenti di Morelli intendessero occultare fatti e vicende.
Franzinelli scrive ancora che Passarella è stato ucciso il 25 giugno 1944, dopo essere sfuggito per un paio di giorni al rastrellamento fascista nella zona del monte Muffetto e in Bassinale, per poi essere catturato dai partigiani. Come si evince dai documenti di parte fascista (che Franzinelli conosce) il rastrellamento avvenne il 24 giugno. C'è dunque un'evidente discrepanza temporale che andrebbe spiegata dall'autore dell'articolo.
Il gruppo C14, che avrebbe catturato Passarella, secondo Franzinelli era comandato da Bruno Pe'. I partigiani delle Fiamme Verdi con nome o pseudonimo Bruno erano solo cinque e nessuno di cognome Pe'. Era invece il gruppo C2 poi C3 (gli scioglimenti le ristrutturazioni dei gruppi partigiani erano per così dire continui), comandato da Raffaele Bazzoni (pseudonimo Bruno) che era stato interessato al rastrellamento sul Muffetto il 24 giugno, come risulta da una relazione dello stesso Bazzani.
Per quanto riguarda la lettera del 1° agosto 1944, essa non si riferisce alle vicende del 24 o 25 giugno. Il fatto che sia sempre stata considerata, anche da me, riferita a Franco Passarella è dovuta alla sua catalogazione nello schedario al nome del giovane veneziano. Ma così non è. Infatti si tratta di una risposta di Ragnoli a Silvio (Giulio Mazzon) in cui viene ricordato quanto è avvenuto in valle dell'Orso nel gruppo comandato da Lionello Levi. In quella località il 28 luglio si era trovato un gruppo di giovani saliti dal Guglielmo. Allora, così si legge nel documento, "i nostri della C4, credendoli della Muti, hanno loro intimato la resa, questi non hanno voluto saperne, e allora è iniziata una sparatoria, durante la quale uno dei loro è rimasto accidentalmente ucciso". Quindi, nessun riferimento a Passarella. Non si sa il nome di chi fosse rimasto ucciso. È del tutto improbabile che ci fosse in quel gruppo anche lui? Il 28 luglio del 1944 Silvio prese contatto con alcuni giovani che, saliti dalla Valle Trompia e dispersi dal rastrellamento del 24 giugno, erano riusciti a sopravvivere per oltre un mese. In ogni caso nei biglietti scambiati nell'estate del 1944 tra Mazzon, Lionello Levi e Ragnoli viene raccontato quanto i tre comandanti sanno, senza nessun intento di occultare alcunché.
Infine, mi dispiace, e non poco, che Franzinelli discuta su persone come Ragnoli e Morelli, che, ovviamente, non possono rispondere essendo scomparse da tempo, piuttosto che sui documenti.

 

 

Caro Anni, ecco le prove dei silenzi su Passarella

di Mimmo Franzinelli

 

 

 

 

CORRIERE DELLA SERA - BRESCIA, 12 SETTEMBRE 2013


Una tragedia partigiana
Trebeschi: la verità su Passarella


di Massimo Tedeschi

 

Nello studio di via Battaglie dove la luce di una radiosa mattina di settembre accarezza mobili e pareti che hanno visto pagine - ora lievi ora drammatiche - della storia di Brescia, la voce dell'avvocato si srotola piana, quasi a controllare le emozioni: "Non ho memoria fotografica - spiega - eppure dopo settant'anni mi vedo ancora davanti Franco, il suo viso radioso, la sua figura alta, stagliata proprio contro quella finestra, mentre mi annuncia la decisione di andare in montagna, di unirsi ai ribelli al fascismo".
L'avvocato è Cesare Trebeschi, sindaco di Brescia nel decennio 1975-1985, testimone, protagonista e memoria storica del Secolo breve bresciano. Franco è Franco Passarella (1925-1944), il giovane liceale bresciano di origini veneziane ucciso - ormai è assodato - fra Piancamuno e Montecampione da alcuni partigiani che lo scambiarono per una spia. Sulla vicenda, sul livello di responsabilità delle Fiamme Verdi che operavano in zona, e sulla buona o mala fede nell'oscurare questa dolorosa vicenda (sulla casa di Passarella in città c'è ancora una lapide che attribuisce la sua uccisione alla "ferocia fascista"), s'è accesa sulle pagine del Corriere una disputa fra gli storici Mimmo Franzinelli e Rolando Anni. Trebeschi ne parla con equanime rispetto, citandoli per nome - "Mimmo e Rolando", dice - ma aggiunge alla querelle un punto di vista "altro": una testimonianza diretta sulla figura di Passarella, una meditazione sulle pagine tragiche della guerra di Resistenza, una riflessione sui compiti della storia.
"Franco Passarella, appena arrivato a Brescia, era approdato all'oratorio della Pace dove padre Manziana riuniva un gruppo di pre-fucini: liceali dell'Arnaldo, dell'Arici e del Calini che svolgevano discussioni molto aperte anche politicamente. C'erano Augusto Paganuzzi [che ha ricordato l'amicizia con Passarella e alcune forme di sabotaggio antitedesche condotte insieme in un'intervista on line a Maurilio Lovatti, ndr.], Daniele Bonicelli, Raul e Attilio Franchi, Franco Nardini, Mario Ragusini, Giacomo Ferliga, Flaviano Capretti, Giovanni Minelli, Gabriele Calvi. C'erano i Rinaldini: Emi, il fratello minore Federico che morirà a Mauthausen, Luigi che divenne sacerdote nel '44. Fu in occasione della sua prima messa che conobbi Teresio Olivelli. Noi eravamo i giovani, e poi c'erano tre più avanti di noi che discutevano fra loro molto animosamente: erano Francesco Brunelli, allora presidente di Gioventù cattolica, Mario Cassa e "Ghigi" Giulio Bruno Togni".

In quel clima Passarella matura la decisione di passare alla guerra in montagna. Trebeschi non ha notizie precise su chi avesse indirizzato Passarella, quale fosse la sua destinazione finale, se fosse munito di lasciapassare. "La Brigata Perlasca, che faceva capo a Francesco Brunelli e in cui c'erano i fratelli Arturo e Giuseppe Perucchetti, operava in Valsabbia: la comandava Ennio Doregatti di Castenedolo e il referente locale era Guido Bollani, poi sindaco di Sabbio; in Valtrompia c'era la Brigata Margheriti comandata da Pierino Gerola, poi sindaco di Collio, che in città aveva come riferimento Mario Cassa. Passarella si incammina invece verso la Valcamonica, lungo un percorso allora abbastanza usuale che transitava da Zone. Mario Spinella in un suo libro racconta di essere giunto a Brescia con Nino Crippa e che i padri della Pace lo affidarono a un ragazzotto in bicicletta che lo condusse fino a Zone: quel ragazzo era Raul Franchi. Anch'io, mio padre e tre cugini Salvi, intorno al 10 settembre del '43, riparammo a Zone dopo una soffiata che ci avvisava che i fascisti tornati in auge volevano vendicarsi di mio padre".
Passarella segue lo stesso percorso, destinazione Guglielmo. Ma lì accade l'irreparabile. "C'è un rastrellamento fascista, Franco si sbanda. Chiede soccorso in una delle tre parrocchie di Pisogne, dove il sacerdote gli presta un rapido aiuto e lo indirizza verso un gruppo che c'era in montagna, salvo avvisare contemporaneamente che lui quel giovane non lo conosce, e non è in grado di garantire per lui". Da lì gli interrogatori violenti, l'uccisione, di cui la storiografia ha ormai detto molto. Ultimi, sono arrivati i dettagli più spinosi: "Quello che so, lo so da Mimmo".
Franzinelli ha accusato Dario Morelli, oggi scomparso, a lungo direttore dell'Istituto della Resistenza bresciana, di aver deliberatamente ostacolato se non occultato la ricostruzione dell'episodio. Trebeschi ne dà un'altra spiegazione: "Ero amico di Morelli, avevamo persino collaborato insieme a un lavoro per un convegno sui danni da calamità naturale in agricoltura nel '57 a Parigi. Eppure, quando da presidente di Asm decisi la ristampa anastatica del "Ribelle" e di "Brescia libera", giornali della Resistenza bresciana, mi arrivò da lui una dura diffida dal procedere, perché mancava un numero introvabile di "Brescia libera". Era un uomo di una scrupolosità ossessiva, non si rassegnava a esternare qualcosa che non fosse all'apice della perfezione". Eccesso di scrupolo e carenza di documenti d'archivio avrebbero indotto Morelli a non scrivere sulla vicenda.

C'è però un discorso più generale che per Trebeschi va affrontato, e riguarda i fini e i limiti della storia. "Abbiamo sentito predicare fin dall'asilo che Historia magistra vitae. Ma l'assunto pone dei problemi. Esiste una storia oggettiva? Mimmo ne è convinto. E poi la storia che si insegna deve servire a qualcosa? È giusto mettere in luce delle magagne quando la pruriginosa ricerca dello scandalo fa premio sulla ricerca della verità? Se di una storia si individuano delle macchie è più facile che la curiosità dei lettori vada lì".
Questo vale come richiamo alla responsabilità dello storico e ai limiti dei documenti, non come alibi a silenzi e reticenze. "A 70 anni da quei fatti è giusto, anzi doveroso cercare la verità. Mi pare che finora nè Pier Luigi Fanetti, persona che s'è molto dedicata a questo caso, nè Mimmo siano arrivati a trovare la sentenza di condanna di un processo relativo a Bruno Pè, che è stato il carnefice, e do peraltro atto a Mimmo di aver tralasciato i particolari raccapriccianti della vicenda. Purtroppo i due che avrebbero potuto testimoniare tutto o non ci sono più, o non sono più in grado di farlo. Il primo è l'avvocato Pigi Piotti, mio dirimpettaio di scrivania per 40 anni, che non me ne parlò mai ma era sicuramente a conoscenza dell'episodio, tanto che allude a questa vicenda in una sua poesia racchiusa nella raccolta "A conti fatti". L'altro è suo fratello l'ingegner Tino, Ernesto Piotti, che era comandante delle Fiamme Verdi della zona, e da cui dipendeva il sottogruppo di Bruno Pè".
Infine, c'è il tema della ricostruzione della pagine tragiche della Resistenza. "Non solo è giusto ma doveroso dire come andarono le cose. Anche da parte delle migliori formazioni della Resistenza ci sono stati delitti. Ma un conto è fare la storia completa, un conto farla evidenziando solo le magagne. In quei momenti c'erano anche briganti che si entusiasmavano in buona fede. La parabola evangelica dei semi è di una veridicità impressionante: i semi caduti fra le spine hanno germogliato per qualche giorno, per qualche settimana, e poi si sono fatti risucchiare. Questa è una di quelle tragedie. Ce ne sono anche altre, anche più gravi, delle quali è difficile scrivere. Una riguarda la madre di Passarella, che dopo la morte del figlio vagava sotto i portici, sempre come assente. Ma una vicenda non meno penosa è quella di due amici: uno era padre Rinaldini, dell'altra non farò il nome, che negli ultimi anni erano presenti ma avevano stampate sul volto le tragedie alle quali avevano assistito. Oltre a questo caso, che è stata una barbarie ignobile, ci sono stati alcuni (forse non pochi) casi di giudizi formali da parte della Resistenza conclusisi con condanne ed esecuzioni di spie: penso che qualcuno abbia avuto fino in fondo, davanti agli occhi, quelle scene".

 

 

 

 

CORRIERE DELLA SERA - BRESCIA, 12 SETTEMBRE 2013
La lettera


"Così si infanga il ricordo delle Fiamme Verdi"


di Agape Nulli Quilleri

Intervengo con disgusto leggendo la distorsione di fatti ed eventi, di cui sono stata testimone, operata sulla base di supposizioni e valutazioni personali di documenti che non hanno alcun riferimento certo e preciso agli avvenimenti di cui trattano. Tutto ciò fatto con scopi, che preferisco non indagare e commentare. Affermo che è un'offesa alla verità ed alle persone quanto scritto in più occasioni sul Corriere della Sera, edizione Brescia, inerentemente la vicenda del giovane Partigiano Franco Passarella. Franco era mio compagno all'Arnaldo. La sua famiglia è stata legata a me ed a mio marito Sam Quilleri, alpino e comandante partigiano, nel dolore e nella angoscia. A smentire tutta la ricostruzione che pervicacemente è stata riportata sul Corriere della Sera edizione di Brescia è sufficiente la Pubblicazione prodotta nell'aprile 1949 dal Comitato Studentesco del Liceo Calini in cui si descrive con precisione, compiutezza e chiarezza quanto accaduto. È una pubblicazione del 1949, lo ripeto per far chiaramente comprendere che non si è nascosto nulla, in cui è raccontata tutta la verità di un tragico destino che ha portato un giovane amante della libertà ad essere ucciso ed ancor peggio quasi torturato dai suoi stessi fratelli. Cosa di cui ho per anni condiviso con la mamma di Franco la disperazione. Non mi dilungo nella narrazione del racconto. Mai abbiamo perpetrato ritorsioni o vendette, nei territori nei quali abbiamo combattuto non ci sono state uccisioni e stragi immotivate, perché le stragi restano tali chiunque le compia. Abbiamo certo commesso errori, ma restano errori nell'ambito delle possibilità dell'errore umano, non diventano statisticamente così numerosi da poterli considerare strategia di comportamento. Noi non abbiamo necessità di ripulire il nostro passato per coprire tante malefatte. Ma non voglio innescare polemiche con chi interpreta le proprie convinzioni ed utilità come verità danneggiando non tanto e solo lo scorrere degli avvenimenti ma innescando odi e dubbi. Fortunatamente sono ancora viva e posso con conoscenza personale, ricordi e documenti, non da interpretare a piacimento, ma che scrivono e testimoniano i fatti e la verità, difendere e confermare l'onore di chi ha permesso la riconquista della libertà. Grazie generale Ragnoli, grazie prof. Morelli. A voi l'onore di rappresentare ancora oggi l'Italia migliore.

Il Corriere edizione di Brescia non ha, in questa come in altre vicende, alcun intento che non sia la ricostruzione, quanto più possibile fedele e plurale, della verità storica. Nel merito, e nella sostanza, gli esiti a cui approdano i due storici intervenuti sul caso Passarella sono peraltro in larga parte sovrapponibili a quanto scrive la signora Agape Nulli Quilleri (Massimo Tedeschi)

 

 

 

 

BRESCIAOGGI, 12 SETTEMBRE 2013


Franzinelli, la storia a fumetti


di Flavio Marcolini

Annunciata lo scorso 22 agosto dal prestigioso "Zeit Magazine" che gli ha dedicato la copertina informando che presto uscirà in traduzione tedesca da Suhrkamp, è arrivata in libreria la graphic-novel "Una mattina mi son svegliato" (Utet, 96 pagine, 16 euro), che raccoglie cinque storie raccontate da Mimmo Franzinelli e illustrate da Andrea Ventura su quanto accadde in Italia all'indomani dell'8 settembre, dopo che fu reso noto l'armistizio con gli angloamericani e dai microfoni dell'Eiar il maresciallo Badoglio diede l'annuncio di averlo firmato a Cassibile il 3 settembre.
Disegnatore milanese, Ventura presta il suo tratto grafico alla documentata narrazione dello storico bresciano in un volume scritto a quattro mani, in cui ciascuno racconta con il mezzo espressivo che gli è proprio, queste cinque vicende emblematiche, di personaggi famosi e gente comune, colte nel turbine della storia da un evento decisivo, con le sue ripercussioni drammatiche in un alternarsi convulso e frenetico di viltà ed eroismo, rassegnazione e speranza.
In un'Italia contesa tra occupazione tedesca, riorganizzazione fascista e Resistenza, quelle di Lotte Froelich, Primo Levi, Franco Passarella, Giorgio Albertazzi e Nuto Revelli sono vicende molto diverse fra loro, rappresentative di una intera generazione che nella tempesta ha cercato strade di salvezza, riscatto, liberazione, raccontate in queste pagine con piglio avvincente. Il primo dei cinque pezzi il 27 gennaio scorso, in occasione della Giornata della Memoria, ha avuto l'onore di essere pubblicato in anteprima niente meno che sul New York Times.
Intitolato "Hotel Meina", racconta un episodio minore della persecuzione antisemita (già al centro di un film di Lizzani nel 2007), quella che ebbe come protagonisti l'avvocato italiano Mario Mazzucchelli e la moglie tedesca di origini ebraiche Lotte Froelich, che fu coinvolta nella strage di un gruppo di ebrei ospiti dell'Hotel Meina sulle rive del lago Maggiore. Notissimi sono i fulgidi itinerari esistenziali degli scrittori Primo Levi (che sopravvisse ad Auschwitz) e Nuto Revelli (eroico comandante partigiano sui monti del Piemonte), mentre meno conosciute sono le altre due vicende, tutte camune.
Protagonista di una è l'attore Giorgio Albertazzi, che combatté a lungo in Alta Valcamonica dalla fine del 1944 fino alla conclusione della guerra nella legione repubblichina Tagliamento. "L'impressione è che Albertazzi sia giunto nelle file della Rsi sull'onda di vicende familiari seguite al linciaggio di uno zio a Firenze dopo il 25 luglio - osserva Franzinelli -. Dietro la sua storia c'è stata da parte mia una ricerca di fonti e documenti d'archivio, costantemente confrontati con la sua autobiografia "Un perdente di successo", rispetto alla quale ho scoperto una importante discordanza: al termine della vicenda che gli costò il carcere, l'assassinio di un partigiano, egli venne amnistiato, non assolto come lui scrive. Naturalmente sarò curioso di sentire la sua opinione in merito".
L'altra storia camuna è quella, che lo storico definisce "tristissima e deplorevole", dello studente veneziano Franco Passarella, ucciso a Solato di Piancamuno con un colpo di pistola alla gola dalle Fiamme Verdi il 25 giugno 1944 perché ingiustamente sospettato di spionaggio (o forse per prendergli gli scarponi nuovi e la giacca a vento).
Anche se la verità era risaputa in valle, dopo la Liberazione il 21 dicembre 1946 si svolse a Brescia un solenne funerale partigiano. E come vittima dei fascisti lo ricorda tuttora una lapide nel cimitero di Vissone. "In guerra è accaduto di tutto e come storico non mi stupisco - commenta amaramente Franzinelli - ma io mi indigno per i settant'anni di deformazioni, coperture e bugie su questo caso. Mi dispiace che a ciò abbia contribuito, non solo l'occultamento della verità praticato dalle Fiamme Verdi chiuse in un immotivato reducismo, ma anche l'Istituto storico della resistenza bresciana, in seno al quale non ha certamente giovato la identificazione fra il partigiano reduce e la figura del direttore e storico, Dario Morelli, in un reciproco e inevitabile pericoloso condizionamento".

 

 

 

 

 

CORRIERE DELLA SERA - BRESCIA, 18 SETTEMBRE 2013


L'Italia migliore è quella che ha il coraggio di ammettere la verità


La nipote di Passarella dà voce alla famiglia: "Zio Franco sepolto dal silenzio"


di Anna Maria Catano


Settant'anni di colpevole silenzio. Colpevole da parte di quanti avrebbero avuto il dovere morale di far luce. E che invece hanno taciuto, coperto, e in qualche caso negato, la verità della tristissima vicenda di Franco Passarella, giovane antifascista assassinato - forse addirittura torturato - in Valcamonica da Bruno Pe delle Fiamme Verdi nel giugno del '44.
E settant'anni di doloroso silenzio della famiglia Passarella. La mia famiglia.
Carolina Sartorelli in Passarella, mia nonna, impazzita dal dolore dopo aver cercato e aspettato per due anni e mezzo - con la forza della disperazione che solo una madre può avere - quel figlio che non tornava più dalla montagna e che sperava potesse far ritorno da qualche lager. Docente di filosofia, antifascista della prim'ora, fragilissima e forte al contempo, subì il carcere fascista e l'infinito strazio di sopravvivere al "suo" Franco trentasei lunghissimi anni.
Mio nonno, Ottorino Passarella, giornalista de Il Gazzettino di Venezia. Licenziato, insieme ad altri colleghi, per le sue posizioni antifasciste. Assunto al Popolo di Brescia, perse nuovamente il lavoro per essersi rifiutato di prestare giuramento alla Repubblica Sociale Italiana. Fondatore con Leonardi, Vasa e Bellocchio del Comitato di Liberazione Nazionale bresciano. Detenuto dalle SS, sfuggì fortunosamente a un secondo arresto nel '44 e raggiunse Milano per unirsi a Ferruccio Parri del gruppo Giustizia e Libertà. Nel libro "Il cavallo nero", del 1968, scrive: "Il capo dei tuoi aguzzini si chiama Pe... ti assassinarono e si divisero le vesti come con Cristo".
E infine Laura, la sorellina. Mia madre. Entrata a 16 anni nella lotta clandestina, dapprima con piccoli incarichi poi nella brigata Barnaba di Giustizia e Libertà. Croce di guerra come partigiana combattente; medaglia della città di Brescia nel 1995; diploma d'onore Anpi nel 2011; medaglia d'argento Fivet, Federazione italiana volontari della libertà nel 2010. Durante la cerimonia di consegna commenta: "Avrei preferito aveste dato a Franco la medaglia d'oro". A lei toccò il terribile compito del riconoscimento del cadavere straziato del fratello, un povero mucchio d'ossa dilaniato dagli animali. Perché nessuno, né gli assassini, né alcuni paesani e partigiani che sapevano, né il parroco di Vissone si preoccuparono di avvertire i familiari, né di dargli pietosa o cristiana sepoltura. Fu proprio quel prete - due anni e mezzo dopo l'uccisione - a consegnare a padre Rinaldini i documenti che Franco aveva con sé - la carta d'identità, un'edizione Hoepli de "La Divina Commedia", una foto della sorella - e a indicare il luogo dove giacevano i miseri resti.
Tanto è stato scritto sulla "banalità del male". Di orrori ed errori il Novecento è saturo. Non mi è invece possibile tacere, considerate le lettere dei giorni scorsi, sul fatto che orrori ed errori, anche quelli commessi in tempi difficili, sono sempre compiuti da uomini. E che le responsabilità, del bene e del male, rimangono esclusivamente personali. È uno dei pilastri del diritto moderno, base di democrazia e civile convivenza: ogni individuo risponde delle proprie azioni davanti alla legge, agli uomini e a Dio.
Franco è morto per un tragico errore. I partigiani non erano truppe regolari. E un episodio brutale non può né deve mettere in discussione i valori della Resistenza. L'humus politico culturale dell'immediato dopoguerra inoltre non era certo dei più favorevoli alla ricerca della verità. La famiglia Passarella non si è mai pronunciata contro le Fiamme Verdi. Persino mia nonna, annebbiata dal dolore, ha sempre sostenuto con orgoglio i valori della guerra partigiana. Non sappiamo - né sapremo mai - se Romolo Ragnoli avesse dato ai suoi l'ordine di tacere per timore che venisse intaccato l'onore delle Fiamme Verdi, come è stato ipotizzato da qualcuno. O se siano prevalse paura e convenienze politiche. Ma l'Italia migliore è quella che ha il coraggio di ammettere la verità. Ed alcune menzogne, già confutate ma ancora riproposte dall'Istituto di Resistenza bresciana, suonano intollerabili. Prima fra tutte quella che Franco indossasse la divisa fascista.
Franco, il 19 giugno '44, è stato accompagnato all'inizio del sentiero della Valtrompia dalla madre e dalla sorella. Indossava la giacca a vento e gli scarponi che sono stati visti successivamente addosso a uno dei quattro componenti del gruppo che lo aveva assassinato. Come riporta anche Luigi Piotti, delle Fiamme Verdi, in una poesia dedicata a Franco e pubblicata nel '72. E come ha ripetuto ancora, pochi giorni prima di morire: " ... eh... ho visto gli scarponi e la giacca a vento addosso a uno di loro". O l'altra fandonia secondo la quale sarebbe deceduto battendo la testa su un sasso, categoricamente smentita dal foro del proiettile ben visibile nel cranio. E non continuo oltre.
Lo storico Mimmo Franzinelli - cui va il ringraziamento per l'importante, rigoroso lavoro di ricostruzione dei fatti - ha già puntualmente risposto a queste falsità. E le testimonianze orali raccolte in Valcamonica da Giovan Maria Fanchini, che ringrazio, sono ulteriore conferma. Dopo settant'anni è ormai tempo della memoria. Grazie all'impegno dell'avvocato Pier Luigi Fanetti si è da poco costituito un comitato che sta valutando le iniziative di commemorazione per il giugno 2014. Affinché la generosità di Franco sia d'esempio alle generazioni future. Affinché il suo sacrificio non sia stato invano.

 

 

Bresciaoggi mercoledì 25 settembre 2013 – LETTERE – Pagina 45

 

PARTIGIANI

«Un ghiribizzo di libertà»

Camminando sotto la Corna Blacca alla fine dell´estate, ho ripensato a coloro che si ribellarono alla Repubblica sociale italiana e salirono in montagna per resistere ai fascisti e ai nazisti. Così mi è venuta in mente la conclusione della prefazione al libro Brigata Perlasca di Emilio Arduino.
«In ogni caso, almeno di una cosa possiamo garantire il lettore: che la massima cura fu posta nel mantenerci fedeli alla verità, evitando ogni tentazione di gargarismi retorici e di raffreddori patriottardi. Né facemmo molta fatica, perché sapevamo che bastava stavolta copiare la verità per illustrare la gloria. Vada questo nostro lavoro a quelli che hanno combattuto, a quelli che hanno sofferto, a quelli che sono morti; a tutti i poveri diavoli che la sorte ha sbattuto nel pieno di quello strano mondo, ingenuo e precursore, scombinato e puro, sciabattato e generoso; a tutti quelli che hanno respirato quel tumultuoso frastuono di patimenti e di gioie, di coraggio e di paure, di grandezze e di fesserie. Poiché nulla sarà mai più simpatico di chi fece il monello in un gioco di morte per un ghiribizzo di libertà: e questo, in sostanza, fu il partigiano».
Uno di essi era Franco Passarella, giovane antifascista nato a Venezia e residente a Brescia, che, dopo essere salito in Valtrompia per unirsi ai ribelli, fu ucciso da una squadra di partigiani in Valcamonica.
La tragica vicenda è raccontata in una delle storie illustrate del libro «Una mattina mi son svegliato» che è stato ottimamente recensito da Flavio Marcolini in Bresciaoggi del 12 settembre.


Pier Luigi Fanetti
BRESCIA

 


 

da: Piero Gerola, Nella notte ci guidano le stelle, Edizioni Brescia Nuova, Brescia 1988

- pag. 51 ".....FRANCO, il giovane figlio del prof. PASSARELLA, che cadrà sulle nostre montagne, ucciso in seguito ad un tragico errore, è attratto dalla simpatia che emana Margheriti e contribuisce al movimento ribelle rendendosi attivissimo nella distribuzione della stampa clandestina insieme a Umberto Magni......"
- pag. 80 ".....Il tre gennaio Margheriti e Magni che sono sempre in contatto con il gruppo di Collio, tramite la signorina Gobbini, mandano un messaggio in cui si fissa un appuntamento in casa Magni al n. 24 di via S. Croce. Ci dobbiamo accordare per ritirare delle armi nascoste alle Fornaci e fissare le modalità per la consegna di gelatina che ci viene insistentemente richiesta da Milano. All'appuntamento saranno presenti: i fratelli Magni,Piero Gerola, FRANCO PASSARELLA ed Ermanno Margheriti per il quale sarà l'ultimo incontro......"

- pag. 106 (giugno 1944) ".....Con la chiamata alle armi del primo semestre del 1926, tra il 15 e il 20 giugno, circa 250 uomini si rifugiano in montagna per arruolarsi nelle file partigiane......Altri provengono da Brescia inviati in valle da Paolo Fagioli e da Guido Allegrini, giungono con il tram delle sei e trenta. Fra questi: FRANCO PASSARELLA, Enrico Gazzaroli, Vittorio Toselli, Giovanni Taesi, Otello Lugas, Achille Gregori ed un certo Fagiolo. Un altro gruppo di circa ottanta giovani quasi tutti di Gardone V.T. e di Marcheno, raggiunge sempre nello stesso periodo, il monte Guglielmo.
- pag.107 - 108 ".....Un gruppo di cinquantasette uomini, male equipaggiati, scortati da una pattuglia di cinque elementi armati di quattro moschetti ed un mitra, il 24 giugno decide di portarsi in Valcamonica dove correva voce che fosse stato effettuato un lancio di viveri e di rifornimenti vari. La marcia ha inizio all'una di notte. Guida la formazione un ex combattente di Spagna, Marchina (Parigi) di Gussago. Giunti in località Colma di S. Zeno, dopo quattro ore di marcia, Marchina lascia momentaneamente il gruppo per raggiungere la famiglia ed informarla del suo trasferimento. Assumono il comando due giovani studenti cittadini uno dei quali è FRANCO PASSARELLA. Dopo un lungo cammino, giungono nei pressi del monte Mosna (Pian di Artogne) in val Maione. Gli uomini stanchi e con i piedi dolenti a causa delle calzature non idonee alle marce in montagna, si fermano per una breve sosta. La zona non è delle più sicure per farvi sosta poiché è allo scoperto e si può essere avvistati in lontananza. Nasce perciò una discussione fra i capi ed i valligiani che fanno parte del gruppo. Questi ultimi più diffidenti poichè a conoscenza della struttura della montagna, vorrebbero proseguire di notte sulle cime, per camminare più sicuri ed anche per abbreviare il cammino. I comandanti della spedizione, non conoscendo la zona, si sono portati troppo in basso. Decidono pertanto di inviare a valle due uomini armati per chiedere informazioni.

Sono quasi le dieci e, mentre i due stanno parlando con un contadino, costui guardando verso l'alto esclama: "Ma quelli non sono partigiani!" Uno dei due giovani, Mario Zoli, si rende subito conto che sono rastrellatori. Vorrebbe segnalare il pericolo ai compagni ma è troppo distante da loro. Non ha il tempo di pensare oltre poichè il gruppo è investito su tre lati da un violento fuoco che provoca uno sbandamento generale. Un giovane cittadino dai capelli rossi e ondulati, Enrico Gazzaroli, cade colpito a morte. Molti riescono a fuggire, scendendo dall'unico lato della montagna non occupato dai rastrellatori. Attraversano il torrente Re in Piandartogne ma 18 vengono fatti prigionieri. Altri deportati in Germania. Le forze attaccanti circa 200 uomini, erano composte da SS tedesche, Feldgendarmerie ed elementi fascisti.
I superstiti con il morale a terra, raggiungeranno Pontogna e Caregno quindi rientreranno alla spicciolata alle loro case. Solo tre uomini raggiungeranno il gruppo del Guglielmo."

 

- Lettera di Rolando Anni al Giornale di Brescia (30 settembre 2017)

- Articolo del Gazzettino (14 novembre 2017)


- Marcello Flores, Mimmo Franzinelli, Storia della Resistenza, Laterza, Bari - Roma 2019:

Per una valutazione d’insieme della giustizia partigiana, si dovrebbero altresì considerare i casi di giustizia negata, ossia di mancato avvio dell’azione giudiziaria per gravi reati perpetrati da elementi appartenenti alla Resistenza.
Spesso, per evitare problemi, i colpevoli occultarono prove e fornirono versioni falsificate delle uccisioni, attribuendole al nemico. Nel marasma della guerra civile, con l’ampia autonomia operativa dei gruppi, risultava impossibile un controllo ravvicinato e pertanto – anche grazie a forme di omertà dovute a paura o a malinteso senso di cameratismo – vi furono non pochi casi di omicidi impuniti, commessi per finalità private. Talvolta si dovette attendere il dopoguerra per l’avvio, su denunzia dei familiari delle vittime, dell’indagine giudiziaria; talaltra non si addivenne ad alcun processo.
In sede locale, peraltro, la memoria popolare ha conservato a lungo il ricordo di questi eventi luttuosi.
Per limitarci a un solo episodio, rappresentativo di molti altri analoghi, si può citare il caso del diciottenne studente veneziano Franco Passarella, figlio di Ottorino Passarella, componente del CLN cittadino di Brescia. Il giovane ebbe la sfortuna di aggregarsi a una banda della Val Trompia appena prima che questa venisse travolta da un rastrellamento tedesco. Salvatosi a stento, si disperse nei boschi e dopo lungo girovagare incappò in un gruppetto di Fiamme Verdi capeggiato da Bruno Pè, che il 25 giugno 1944, al culmine di interrogatori a base di sevizie, lo uccisero con una revolverata alla gola, per derubarlo della giacca a vento e degli scarponi. Ai genitori e alla sorella si fece credere che fosse stato internato in Germania. Nel dopoguerra il cadavere fu ritrovato grazie alle indicazioni del cappellano partigiano padre Luigi Rinaldini, che conosceva i retroscena dell’assassinio (ma per carità di patria non li rivelò).
A Franco Passarella furono tributate solenni onoranze partigiane e sulla sua abitazione bresciana venne affissa una lapide:
ALLA LIBERTÀ OFFRENDO
IL PROPRIO MARTIRIO
FRANCO PASSARELLA
PARTÌ DA QUESTA CASA
IL 19-VI-1944
LA FEROCIA FASCISTA LO COLSE
VENEZIA 25-X-1925 VALLE CAMONICA 25-VI-1944
Dopo anni di estenuanti ricerche, suo padre scoprì il nome dell’assassino.
L’Istituto storico della Resistenza di Brescia, egemonizzato da ex partigiani della stessa formazione cui era appartenuta la squadra omicida, accreditò a quel punto versioni indulgenti («Ricercato dai nazifascisti, veniva catturato in uniforme fascista dai partigiani e passato per le armi da questi, non essendo stato in grado di convincerli di non essere una spia»), poi riproposte con adattamenti di facciata, nell’intento di “salvare l’onore” della formazione cui apparteneva il gruppetto omicida. Soltanto nel 2015, grazie alla giornalista Anna Maria Catano (nipote dell’ucciso), autrice del volume Il partigiano Franco, questa vicenda terribile, in cui si mescolano crimini ed errori, coperture e mistificazioni, è stata portata alla luce in tutte le sue interconnessioni. Da quella lapide è stata scalpellata la scritta menzognera sulla ferocia fascista. A Franco Passarella sono stati di recente intitolati un “sentiero della Resistenza”, sui luoghi della tragica esperienza partigiana, e una via nella città di Brescia.

 

 

- Luciano Moia, Il mistero di Franco, il ragazzo bresciano ucciso dai "suoi" partigiani (Avvenire, 24 aprile 2024)

È un caso scomodo per la Resistenza quello di Franco Passarella, il partigiano liceale, ucciso in Val Camonica il 25 giugno 1944. Aveva 18 anni, l’esame di maturità sostenuto da pochi giorni, un desiderio insopprimibile di unirsi ai "ribelli per amore", la Divina Commedia nello zaino. Ma la sua battaglia non dura che pochi giorni. A Brescia, sulla facciata del palazzo dove abitava, per settant’anni una lapide ha recitato: «Alla libertà offrendo il proprio martirio Franco Passarella da questa casa partì il 19 giugno 1944. La ferocia fascista lo colse». Ma non è vero.  Fascisti e nazisti non c’entrano nulla con la sua morte. E non fu neppure colpito, come poi cercò di raccontare per decenni l’Anpi, "da fuoco amico". Franco  viene assassinato da una pattuglia infedele di "Fiamme Verdi", i partigiani cattolici. Quattro sbandati  noti come banda di Solato, che di cattolico naturalmente non hanno nulla e che hanno aderito alla Resistenza solo per dare copertura alla loro vita criminale di agguati, ruberie e soprusi.

Perché uccidono a freddo un ragazzino che arriva direttamente dall’Oratorio della Pace di Brescia e che racconta loro di voler combattere contro il nemico invasore? Forse per rubargli gli scarponi nuovi e la giacca da montagna. Forse solo per crudeltà. Forse per altri motivi che non sappiamo. È  un mistero che gli storici non sono ancora riusciti a risolvere  e, a guardare bene, non si tratta dell’unico aspetto che non torna in questa vicenda. Il dato più fastidioso è forse  la lunga congiura del silenzio, le omertà, i depistaggi  che per lunghi decenni hanno tentato di coprire gli autori dell’omicidio. Quasi che una superiore "ragion di Stato partigiana" avesse imposto una verità di comodo per non gettare ombre sulla lotta partigiana.

Tentativo tanto ingenuo quanto ipocrita perché muove da un convincimento sbagliato.  L’illusione, cioè che nell’atroce guerra civile che insanguinò l’Italia dall’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45, si possa tracciare una linea netta di demarcazione, da una parte solo buoni, nobili e generosi. Dall’altra solo infami e assassini.  Non fu così, perché la vita non è così. E tantomeno la guerra. E raccontare che nelle bande partigiane si nascondevano anche personaggi ignobili, capaci di gesti crudeli come quello di cui fu vittima il giovanissimo Franco,  non significa denigrare la Resistenza, ma contribuire a renderla più vera e più credibile,  liberandola da sovrastrutture retoriche e da mitologie inutili e fastidiose.

Il  libro scritto dalla giornalista Anna Maria Catano  –  Il partigiano tradito  (San Paolo, pagine 146, euro 20,00) con la prefazione del vescovo emerito di Palestrina, Domenico Sigalini, di origini bresciane, e introduzione dello storico Mimmo Franzinelli - va proprio nella direzione di restituire ai fatti il loro valore, senza mistificazioni o cautele improntate al politicamente corretto. L’autrice ha un motivo in più per farlo. È nipote del partigiano assassinato e per tanti anni è stata lei stessa vittima, anche nella sua famiglia, di questa congiura del "non detto". Non una parola in casa, per tanti anni. Mai un accenno alle circostanze in cui morì lo zio.

Un silenzio che ha alimentato il suo desiderio di sapere e poi la passione, in alcuni passaggi anche la rabbia, con cui ha scritto queste pagine. Sentimenti che non hanno offuscato però il rigore con cui ha messo in fila i fatti, ha fatto parlare i testimoni, ha ridato vita ad episodi che altrimenti sarebbero rimasti sepolti in una memoria collettiva più interessata a nascondere che a rivelare le circostanze di quanto successo. "In Val Camonica lo sapevano tutti… le testimonianze raccolte fra i borghi camuni confermano che la banda di Solato era arcinota in vallata". Ma anche alla fine della guerra, quando ormai la storia ha emanato il suo verdetto senza appello, tutti preferiscono tacere. Catano spiega, sulla base di documenti consultati presso l’Anpi di Brescia, come sia potuto accadere che quattro sbandati ben noti per la loro ferocia e arroganza, abbiano potuto agire indisturbati per mesi e macchiarsi di delitti atroci.

Solo nell’autunno del ’44, alcuni mesi dopo la morte del partigiano-ragazzino, le Fiamme Verdi bresciane si organizzano e costituiscono una struttura gerarchica. E infatti a questo punto la banda di Solato si scioglie e i suoi componenti entrano in altre formazioni. Il capo, Bruno Pe, quello che ha sparato a freddo al partigiano liceale, va addirittura a lavorare per i nazisti dell’Organizzazione Todt, impegnata a costruire ponti e strade per la Wehrmacht. Tanto per definire la caratura morale del figuro.  Oggi di Franco Passarella rimane una via intitolata a Brescia e una calle a Venezia, sull’isola di Sant’Elena, in memoria delle origini della famiglia. Oltre a un sentiero alpino, a Pisogne, sponda orientale del lago d’Iseo. Ma soprattutto rimane la volontà di non dimenticare il suo gesto di adolescente generoso, deciso a combattere la dittatura fascista e l’occupazione nazista.

 

 

Maurilio Lovatti fascismo e guerra

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