Sono nato
a Verolanuova (Brescia) il 3 febbraio 1926. Mio padre Angelo (1900-1971)
era contadino piccolo proprietario. Mia madre Pasqua Santa Giovannini
(1901- 1935) aveva sposato mio padre nel 1921 ed è morta quando avevo
solo 9 anni. Sono il secondo di 6 fratelli, ed il primo figlio maschio. I
quattro fratelli più piccoli si chiamano Luigi, Giovanni, Battista e
Franco. Dopo la morte della mamma, nel 1935 la mia famiglia si è
trasferita a Zanano, nel comune di Sarezzo, in Val Trompia. Mio padre
aveva venduto la terra e aveva trovato lavoro come operaio alla Fabbrica
d'Armi del Regio Esercito (FARE) di Gardone V.T.
Dopo le scuole elementari, dal 1938 al 1941, ho frequentato la scuola
professionale di Gardone V.T. per conseguire la qualifica di operaio
specializzato. Dopo la fine della scuola, dal giugno 1941 all'estate del
1943, ero senza lavoro fisso e allora aiutavo mio padre ad arrotondare il
reddito familiare raccogliendo la sabbia per uso edilizio sul fiume Mella
e la legna da ardere sulle montagne nei dintorni.
Ai primi di settembre del 1943 ho trovato lavoro al campo di aviazione di
Orio al Serio (Bergamo) perché cercavano manodopera per i lavori di
ampliamento della pista di atterraggio, realizzati dalla Todt. Durante la
giornata lavoravamo al campo. La notte alloggiavamo in una caserma di
Bergamo. Lavoravamo anche 12 ore al giorno per allungare e sistemare le
piste d'atterraggio e mangiavamo della brodaglie sia a pranzo che a cena.
Avevo
diciassette anni quando la sera dell'8 settembre 1943, durante
l'occupazione tedesca del Nord Italia in seguito all'armistizio, fui
rinchiuso con altri compagni di lavoro nella stessa caserma di Bergamo ove
avevo dormito le sere precedenti, e i tedeschi fuori urlavano, con la
gente che era stata ammassata nel cortile. Poi mi trovai in fila, senza
capire cosa fosse successo, intruppato in direzione dello scalo
ferroviario di Bergamo, con i tedeschi che urlavano accanto.
Fummo caricati su un carro bestiame e il treno partì in direzione di
Verona e c'era chi bestemmiava, chi gridava. Io pregavo. Pregavo la mia
mamma, che avevo perso quando ero piccolo, che dal cielo mi facesse capire
cosa stava succedendo. Sono stati sette giorni di viaggio terribile, senza
cibo né acqua. Fame e paura. Eravamo con poco spazio e costretti a fare i
nostri bisogni sulla paglia, che gettavamo poi dai finestrini. Anche se
per la maggior parte eravamo maschi, c'erano anche alcune donne.
Il 16 settembre il treno giunse a Innsbruck, dove ci portarono in un campo
di smistamento; lì potemmo ricevere acqua, con un po' di pane e patate.
Poi fummo radunati in una grande baracca per ascoltare un discorso del
gerarca fascista Roberto Farinacci, che a nome de Duce e del fascismo ci
promise la libertà se eravamo disposti ad arruolarci nell'esercito
tedesco. Poco meno di un quarto dei prigionieri accettò. Io fui tra
coloro che rifiutarono: fummo condotti in un'altra baracca, dove dormimmo
per terra e prendemmo i primi fastidiosi pidocchi.
All'alba del giorno successivo fummo riaccompagnati alla stazione
ferroviaria e fatti salire su un treno merci composto di più vagoni. In
diverse stazioni vennero sganciati dei vagoni, secondo la destinazione
prevista per i prigionieri. La prima stazione fu quella di Monaco di
Baviera, dove vennero staccati alcuni vagoni in coda al convoglio. Quelli
del mio vagone furono gli ultimi ad arrivare, essendo stati destinati al
campo di prigionia di Iserlohn. In questo secondo viaggio ci fu almeno
acqua e cibo, per quanto povero, anche se eravamo costretti a fare i
nostri bisogni sul vagone e quindi, dopo tre giorni c'era un odore
disgustoso.
Iserlohn
è una piccola città tedesca, nella regione della Westfalia, poco più di
20 Km a Sud-est di Dortmund. Il treno dei deportati attraccò a una
stazione molto piccola e tranquilla, che sembrava irreale. I soldati
addetti alla nostra scorta aprirono con fracasso le porte e ci fecero
scendere. Il campo di prigionia a cui eravamo diretti era nella periferia,
e per raggiungerlo attraversammo il centro della città. Ma presto dalle
case sbucarono i civili tedeschi che insultavano i prigionieri italiani,
chiamandoli traditori. Poi arrivammo al campo di prigionia, circondato da
reticolati. I responsabili del Lager ci ricevettero con atteggiamento
minaccioso, puntando i fucili verso di noi e ci accompagnarono alle
baracche, che divennero la nostra dimora fino all'aprile del 1945. Le
baracche presentavano ampie, involontarie feritoie di legno mal connesso,
verso il soffitto, da cui entrava il freddo crudo della notte. Non c'era
riscaldamento, né illuminazione.
Tra i militari dell'esercito tedesco vi erano diversi ucraini e anche un
russo, tutti molto ligi agli ordini dei superiori. C'era sempre un
interprete che parlava italiano, quando le guardie ci facevano
comunicazioni rivolte a tutti i prigionieri italiani del campo.
Io fui destinato, con diversi altri prigionieri, a lavorare in una
fabbrica di bombe a mano, che si trovava a 2-3 Km dal campo. La mattina ci
svegliavamo verso le 6.30, chi non si alzava rapidamente veniva percosso.
Verso le 7 partivamo per le officine; il lavoro iniziava alle 8. Per
arrivarci, ogni mattina, andavamo a piedi, scortati solo da uno o due
soldati tedeschi. Tentar di fuggire era praticamente impossibile. In
officina io lavoravo alla fresa. Spesso dovevo mettere le spolette per le
bombe in una apposita vaschetta dove assumevano una colorazione scura
attraverso un processo di galvanizzazione. Il pranzo veniva consumato in
officina, dopo la campanella delle 12, ce lo portavano le donne e i
bambini del campo ed era sempre la solita zuppa a base di rape e patate.
La cena invece ce la davano al campo. La colazione non era prevista. Un
giorno, durante un bombardamento alleato, le donne incaricate di portarci
il cibo furono colpite e uccise e così noi rimanemmo senza pranzo.
Andavamo all'officina ogni giorno, salvo la domenica, che la trascorrevamo
dormendo e riposandoci. Nelle baracche c'erano molti pidocchi e scarsa
pulizia. Nel campo non c'era alcun cappellano, né veniva alcun sacerdote,
era impossibile partecipare alla Messa o confessarsi.
Nel capannone c'era un vecchio operaio tedesco che s'era preso a cuore la
mia situazione: il primo giorno in cui decise di aiutarmi, mi fece dei
gesti come per dire: vai là, vai in quel punto. Allora ho obbedito e, nel
punto che lui aveva indicato, ho trovato un pezzo di pane. Ogni giorno mi
dava un segnale ed io trovavo il suo regalo in un punto diverso. Anche
nella baracca, nella quale eravamo in 150 prigionieri, italiani, francesi,
inglesi e russi, ero aiutato. C'erano con noi alcuni soldati francesi che,
durante la giornata, lavoravano in un mattatoio. Un sarto parigino, che
era lì con noi, aveva cucito, all'interno dei pantaloni, una seconda
tasca. Era in quella nuova sacca che finivano i pezzetti di carne.
All'uscita dal mattatoio i prigionieri francesi erano obbligati a
rivoltare le tasche per mostrare che non avevano preso nulla con sé. E
loro, regolarmente, rivoltavano le tasche vuote. I piccoli pezzi di carne
venivano cotti sulla stufa, mentre all'entrata un prigioniero controllava
il movimento delle guardie.
Mi pento però di una cosa: quando vedo il mozzicone di una mia sigaretta,
avverto ancora un forte senso di colpa... Durante il nostro trasferimento
dal campo di concentramento all'officina, raccoglievamo infatti i
mozziconi che riuscivamo a trovare per terra. Una volta tornati al campo
proponevamo il baratto a chi, per ragioni di malattia o di debilitazione
non si spostava dalla baracca. Loro pagavano il tabacco con un pezzo di
pane.
Oltre
alla recinzione esterna, c'erano anche i reticolati interni al campo, che
separavano gruppi di baracche dagli altri edifici del campo. E nei
reticolati passava la corrente. Appesi a quei fili ho ricordi terribili.
Uno è caratterizzato da una scena spaventosa. Due russe, madre e figlia
stavano da una parte e dall'altra del filo. Evidentemente era molto tempo
che s'erano perse di vista e che si cercavano. Così, quando si sono
incontrate, nonostante la presenza del reticolato, probabilmente ignorando
che passava l'elettricità, hanno cercato di abbracciarsi disperatamente.
Sono morte subito, fulminate. Noi sapevamo che nel reticolato passava la
corrente. Avevo prestato grande attenzione, agli inizi, con i miei
compagni di baracca. Avevamo naturalmente una fame cane, si mangiava
esclusivamente, due volte il giorno, una zuppa lunghissima di rape, pane e
talvolta patate.
C'eravamo però accorti che, accanto al nostro luogo di prigionia, c'era
un campo di patate. Così abbiamo deciso di scavare sotto il reticolato e
di uscire per prenderne un po'. Approfittammo del fatto che da tre giorni
il faro che, nel corso della notte, illuminava la vasta area del campo,
era guasto. Nell'oscurità, con le mani e con i bastoni, abbiamo scavato
un buco sotto il reticolato. Otto di noi sono riusciti a passare. Proprio
in quel momento la luce del faro è stata riaccesa e il fascio luminoso è
stato seguito dalle sventagliate delle mitragliatrici. Tutti quelli che
stavano al di là della rete sono stati uccisi. Io e un altro prigioniero
siamo balzati indietro e subito siamo rientrati nella baracca Dopo un
attimo sono arrivati i tedeschi che urlavano. Io rispondevo nein nein, che
non c'entravo niente, ma ansimavo a tal punto che si capiva lontano un
miglio che avevo corso e che ero terrorizzato da quanto era successo.
Venni portato nella cella di isolamento. Dormivo sul pavimento e la porta
si apriva esclusivamente per scodellare la zuppa quotidiana di rape. Mi
interrogarono varie volte, ma io negai sempre di aver partecipato al
tentativo di fuga.
Dopo ventun giorni trascorsi in questo modo, fui riportato alla baracca,
con gli altri. Anche se non avevo più forze dovevo tornare al lavoro
nell'officina esterna dove si costruivano bombe a mano. Quando ci hanno
messo in fila per partire in direzione del capannone, io, a causa della
debilitazione, non sono riuscito a stare perfettamente in riga. Cosi un
tedesco mi ha dato una sberla e io sono caduto a terra. Mi sono rialzato
con la volontà di rispondere all'offesa. Ma il soldato mi ha puntato
l'arma alla tempia. Per un attimo ho temuto che fosse arrivata la mia
fine.
Ma ecco
un mattino speciale. Quella mattina - era il 25 aprile 1945 - fummo
prelevati dai soliti militari tedeschi per essere accompagnati ai
rispettivi posti di lavoro, ma appena giunti nel centro della città di
Iserlohn, anziché seguire il solito percorso ci avviarono verso la piazza
centrale della città. Ci chiedevamo cosa stesse succedendo, non ci
rendevamo conto quale fosse il motivo di questo inaspettato ordine, anche
perché le guardie ci squadravano con occhi biechi e sospettosi come se
volessero cogliere in noi un segno di gioia per quell'incomprensibile
sosta forzata a cui eravamo sottoposti. Mentre ci facevamo mille domande,
la piazza si stava riempiendo di tanti altri prigionieri a noi
sconosciuti, provenienti da chissà dove. Alle entrate o uscite della
piazza si erano collocati i militari - in modo da impedire eventuali
tentativi di fuga. Il pomeriggio verso le 15 i nostri sorveglianti, pochi
a dir il vero, urlando come il solito, ci inquadrarono in una lunga
colonna e ci fecero marciare in direzione dove pensavamo ci fosse il
fronte poiché sentivamo sempre più vicino il brontolio dei
cannoneggiamenti. Difatti dopo circa 15 chilometri di lenta marcia
arrivammo al ponte di un fiume; io mi trovavo fra i primi della colonna e
vedemmo che oltre il ponte stavano schierati venticinque carri armati
inglesi, pronti ad aprire il fuoco. Ci guardammo attorno, continuammo ad
osservare in ogni direzione con fare impaurito e sospettoso e ci
accorgemmo, sbigottiti e increduli che i nostri aguzzini erano spariti.
Attraversammo il ponte e fissando lo sguardo davanti a noi ci accorgemmo
che il sogno che stavamo facendo qualche attimo prima era invece realtà.
Una volta che abbiamo maturato certezza che i carri armati che toccavamo
erano veramente anglo-americani ci abbracciammo tutti, mentre sul mio viso
scendevano le ultime lacrime versate su quella terra; ma questa volta
erano lacrime di gioia. Io ancora incredulo d'aver lasciato alle spalle
quelle 'carogne' di tedeschi pregavo ancora mia madre e ringraziavo Dio
per avermi risparmiato la vita. Con il cuore gonfio di emozione pensai a
quel lungo periodo vissuto in cosi tremende umiliazioni, ansie e in
continua paura, che stavo lasciando definitivamente dietro di me. Mi
sentivo finalmente libero.
Una volta passato il fronte non sapevamo cosa fare e con altri due, al
primo paese che incontrammo, trovammo un carrettino per la spesa e
chiedemmo la strada per andare in Italia. Eravamo ignoranti. La sera
passarono dei militari neri americani e ci buttarono pacchetti di
sigarette e cioccolato che mangiammo immediatamente. Eravamo stanchi.
Ci trovavamo nella periferia di una cittadina e temendo di addormentarci
di notte con la pioggia, andammo sotto il portico di una casa abbandonata.
Tutti e tre ci addormentammo, ci mettemmo delle coperte e il mattino
seguente ci svegliammo coperti di soldi. Tre sacchi di soldi e noi non ci
siamo accorti di nulla. Si vede che la casa era abitata, temevano che
entrassimo e hanno lasciato lì i soldi. Sì, ma erano marchi di guerra,
non valevano niente. Entrando in paese vedemmo una forneria desolata e
entrammo a vedere se c'era qualcosa da portare via. Trovammo mezzo sacco
di farina, lo prendemmo e lo caricammo sul carrettino. Il termine rubare
non mi piace. Non era rubare.
Con la speranza di incontrare qualcuno, anche se in giro non c'era anima
viva, uscimmo dal paese, ci fermammo alla prima fattoria, andammo in
stalla, dove c'erano delle mucche, e lì io andai a bussare alla porta
rischiando grosso, ma non rispose nessuno. Allora con la farina e con
delle uova che trovammo lì, mescolavo sul fuoco che avevamo preparato.
Tutto d'un tratto sentii un sibilo forte e una scheggia mi ribalta la
gamella sul fuoco. Uscimmo con molto timore, poiché pensavamo fosse
qualche tedesco e ci accorgemmo che fuori nel cortile invece c'era una
pattuglia di americani che stava facendo saltare le bombe. Fu una
scheggia, un caso. Strada facendo incontrammo una jeep americana che ci
fermò e i militari si misero a parlarmi in inglese, ma io non lo
conoscevo. Mi fecero capire di andare con loro e noi li seguimmo e ci
fecero anche correre. Arrivammo in un paese fuori dal quale c'era questo
campo di smistamento. Ci fecero entrare lì e incontrammo tanta altra
gente.
Per alcuni mesi, quasi cinque, non mi fu possibile tornare in Italia e
raggiungere la famiglia; mio padre e i miei fratelli non sapevano nulla di
me, nemmeno se ero ancora vivo e dove ero. I prigionieri del campo furono
gradualmente rimpatriati, prima inglesi e francesi, poi i russi e gli
altri Paesi vincitori; per ultimi gli italiani. In questi mesi il campo
era sotto il comando inglese, anche se c'erano anche dei militari
americani, e c'era cibo in abbondanza. Durante la guerra alcuni
prigionieri che lavoravano nelle fattorie avevano casualmente scoperto
dove alcuni contadini tedeschi tenevano nascoste delle cibarie. A guerra
finita, anche se continuavamo a dormire nelle baracche del campo, avevamo
una certa libertà di movimento. Di notte alcuni prigionieri italiani
uscirono dal campo e andarono a prendere del cibo nascosto dai contadini
tedeschi. Una contadina tedesca, che era in disagiate condizioni
economiche e che aveva perso in guerra il marito e un figlio, nei giorni
successivi venne al campo per lamentarsi col comandante del comportamento
dei prigionieri italiani. Il comandante inglese del campo non conosceva il
tedesco e l'italiano, ma solo il francese. Siccome io conoscevo bene sia
il francese sia il tedesco, che avevo appreso durante la prigionia, feci
per mesi l'interprete e traducevo in francese tutte le comunicazioni e le
richieste dei tedeschi che non conoscevano l'inglese. Nel caso di questa
contadina tradussi però volutamente in maniera infedele, in modo che il
comandante non comprendesse le responsabilità dei prigionieri nei furti
di cibarie, affinché non li punisse. Tuttavia questa donna tedesca era
veramente affamata e spesso non aveva cibo per lei e la figlia ancora
bambina. Allora cominciai a portarle periodicamente del cibo e si creò
tra noi un legame di amicizia. Lei aveva capito che avevo tradotto male
volutamente al comandante e allora mi chiamava scherzosamente
"piccolo, cattivo italiano". Quando partii da Iserlohn, nel
settembre del 1945, mi regalò un maglione di lana preparato da lei.
Alla fine
di settembre del 1945, finalmente anche i prigionieri italiani hanno
potuto far ritorno a casa. Io accompagnai in treno un amico prigioniero,
gravemente malato, che doveva raggiungere moglie e figli ad Udine.
Purtroppo le sue condizioni, già molto gravi, peggiorarono repentinamente
a causa del viaggio, ed egli morì alla stazione di Milano, senza riuscire
a rivedere i familiari, i quali a loro volta non avevano più avuto
notizie del congiunto.
Poi ripresi il viaggio in treno per Brescia, e alla stazione di Brescia
salii sul tram per la Valtrompia. Ero però assolutamente senza soldi e
non potevo comprare il biglietto. Il controllore, che non credeva al mio
racconto, trovandomi privo di biglietto, mi fece scendere a Porta Trento.
Per fortuna sul tram c'era una persona che conosceva io padre e che,
giunto a Zanano, corse a dargli la notizia che ero tornato. Mio padre
abbandonò il mulo con cui stava lavorando e si precipitò alla fermata
del tram. Nel frattempo io ero salito sul tram successivo, dove mi
credettero, e mi lasciarono viaggiare senza biglietto. Così rividi mio
padre e poi i miei fratelli.
Alla fine del 1945 fui arruolato nell'esercito italiano. Io non volevo
fare il servizio militare, dopo la terribile esperienza della prigionia e
cercai di farmi esonerare, ma non ci fu nulla da fare. Allora scappai in
Svizzera e mi stabilii a Bien, vicino a Berna, dove vissi dal 1946 al 1951
e giocai a calcio nella squadra locale, nella serie A del campionato
svizzero.
Nel 1951, durante una visita ai genitori, fui arrestato dai Carabinieri di
Villa Carcina e tradotto al comando militare di Montorio Veronese. Fui
obbligato ad arruolarmi e assegnato alla Divisione Sanità del comando
militare territoriale di Bolzano. Durante il servizio militare partecipai
al concorso nazionale di dattilografia del Ministero della Difesa ed
arrivai primo in Italia.
(testimonianza
raccolta da Maurilio Lovatti)
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