Nel 1866
Mons. Frascolla, Vescovo di Foggia sui napoletano, era stato dal governo
subalpino, detto italiano, relegato esule a Como, per l'enorme delitto di
aver eseguito un Rescritto della Sacra Penitenzieria. Quando il Prelato vi
giunse fu chiuso in carcere, colle persiane inchiodate, si che era quasi
buio, anche in pieno meriggio. Era Prefetto della Provincia il Valerio, il
quale non mancava di rettitudine e di generosità. Questo encomio l'ho
udito dal labbro di Mons. Frascolla. Il quale fece sapere ai Prefetto che
desiderava parlargli, e questo fu subito alle carceri.
Vedete, gli disse il Vescovo, (i napoletani danno del voi a tutti) vedete,
quelle finestre: tagliare il sole ad un meridionale è una enorme
crudeltà. Il Valerio ne fu commosso e scrisse in giornata al Ministero
che, o si scarcerasse Mons. Frascolla, o lui, Valerio, rinunciava il
posto. Venne tosto dal ministero l'ordine che Mons. Vescovo di Foggia
passasse dalla carcere al Seminario, e gli fosse accordata la libertà di
girare in città, e non ricordo bene su uno o due chilometri fuori dalle
mura.
Era alloggiato nel Seminario Teologico quando, intorno alle Pentecoste del
1866, io fui colà a predicare gli esercizi ai chierici; che furono
interrotti, perché si è dovuto cedere il seminario ai garibaldini. Lo
accompagnava spesso anche a passeggio, senza riguardi, e questa fu forse
una delle cause della mia prigionia in Brescia, circa un mese dopo.
Un giorno eravamo a tavola Mons. Frascolla, il Rettore e i superiori del
Seminario. Uno di questi con una celia riverente, accennò ai meriti di
Mons. Frascolla di contribuire col suo obolo alle imprese del Garibaldi.
C'era più del necessario per pungere la mia curiosità a domandare
spiegazioni di questo ch'io credevo una pura celia. Ma il Vescovo, disse:
incontro difficoltà a fare una seconda edizione di quello che ho già
raccontato a questi Rev. superiori. Alcuni mesi dopo le note stragi di
cristiani nella Siria, stavo una mattina facendo il ringraziamento della
Santa Messa nel mio episcopio di Foggia, quando il cameriere viene ad
annunziarmi che i tali e tali, due o tre signori di Foggia a me
conosciutissimi, in compagnia di un frate forestiero, desideravano
parlarmi. Gli dà ordine che li faccia seder in sala e ammanisca il caffè
per tutti. Accorcio il ringraziamento e vado in sala. Conosco i signori
che mi erano stati indicati dal cameriere, ma mi è affatto sconosciuto il
frate, il quale in compagnia di questi signori non poteva destarmi nessun
sospetto.
Messi a sedere, quei signori mi dicono che mi presentava un religioso
della Siria che raccoglieva elemosine per quella desolata cristianità.
Mi volgo al religioso, un bel frate, dagli occhi vivi, scintillanti ed una
fisionomia che colpiva, mi congratulo con lui che sia sfuggito all'eccidio
e lo prego di ragguagliarmi dei particolari di questa strage. Il che tolse
a fare con parola calda e quasi risentita: gli si accendevano gli occhi e
le guance ed io tutto attribuivo alle autorità delle quali si diceva
spettatore. Veramente l'abito era di panno fino, ma il taglio tutto da
Francescano; pensando dopo, anche l'occhio poteva tradire un pensiero che
si voleva nascondere, ma la compagnia di quei signori, non dirò mi
sgombrava ma devo dire mi impediva ogni più lontano sospetto.
Commosso dissi che io ero uno dei Vescovi più poveri del Napoletano, ma
che avrei dato il più che mi fosse possibile. Uscii un istante e
rientrando diedi al frate trenta colani: per la mia casa erano una somma
considerevole.
Alcuni mesi dopo che al governo borbonico era succeduto il sub-alpino
anche nel napoletano, andai in Andria, mia città natale, per passare
alcuni giorni in casa di mio fratello. Entrato in una sala veggo sulla
caminiera due busti, affatto nuovi per me. Ne fui colpito perché uno di
essi era tutta, tutta la fisionomia del frate di Siria. "Chi
rappresentano?", domandai al fratello. Questo si mise a ridere,
"Oh, dice si tengano per figura, al fine di non aver noie". Ma
che rappresentano?" replicai. "Questo, dice, è il busto del
nuovo Re". "Me l'ero immaginato", risposi, "e l'altro
chi è". "E Garibaldi", mi disse il fratello.
'Garibaldi?!" esclamai: "Si Garibaldi e perché?". Procurai
di dominarmi e dissimulai l'accaduto.
Ritornato a Foggia bruciavo dal desiderio di abboccarmi con alcuno di quei
signori che mi accompagnarono in casa il frate. Uno di essi non tardò a
visitarmi: lo presi in disparte, gli richiamai alla memoria la visita che
mi ha fatto col frate di Siria nel 1860, e lo costrinsi a dirmi con tutta
libertà se quel frate era Garibaldi. La faccia di quel signore presentò,
in un minuto, successivamente i tricolori della bandiera italiana.
"Monsignore, disse, non mi comprometta, era proprio Garibaldi".
Era troppo sconcertato perché io potessi rimproverarlo come meritava.
Differii a farlo più tardi.
Così è spiegata quella che io credevo una pura celia diretta con
riverente libertà da quel professore al Vescovo e non so quante altre
cose si possono spiegare.
Ho sentito il fatto quale mi venne udito dalla bocca istessa di Mons.
Frascolla, fu primo Vescovo di Foggia sul napoletano, intorno alla mensa
del Seminario teologico, presente da sette ad otto Superiori, nel maggio
del 1866.
N.B.: Qualche anno dopo parlando con R.mo Rettore del Seminario Maggiore
di Como, di questa storia di Mons. Frascolla, mi disse che quale io la
racconto, è in tutto quella narrata dal Vescovo suddetto ma Lui inclinava
a crederla, una illusione o fantasia di quell'eccellente uomo, di
immaginazione in vero vesuviana. Il che sia detto affine di mettere le
cose a posto. Mons. Frascolla si mostrava però uomo dotto, perché si
fece recare in carcere la Poliglotta del Walton.
Fonte:
Demetrio Carminati, IV Promemoria, pag. 6-7, in carte "G. B.
Rota", Carte Verzeri, cit. in A. Fappani, L'episcopato di Gerolamo
Verzeri 1850 - 1883, Ateneo di Brescia, Brescia 1982, pag.475-477.
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