Come
nell'Atene di Pericle. Cittadini di pari diritto con la possibilità di
intervenire nelle assemblee di democrazia diretta, partecipando
personalmente alle decisioni. E lasciando il proprio segno nella vita
della polis.
Cosi si sentivano i ragazzi che nei primi anni Settanta, con la barba
lunga e il fermento della contestazione ancora nel sangue, si sarebbero
buttati nell'avventura dei Consigli di quartiere con una buona dose di
idealismo, senso di responsabilità quanto basta e una manciata di
"lieta furia dei vent'anni".
Maurilio Lovatti inizia la sua avventura nel quartiere di Sant'Eustacchio
da giovane studente universitario di Filosofia e partecipante della
gioventù aclista. Dal '74 sarà consigliere di quartiere, poi con la
nascita delle Circoscrizioni, nel '78, diventerà consigliere della Prima
fino ai mandati del 1980 e '85, ricoprendo anche i ruoli di vice
presidente e coordinatore della commissione urbanistica.
Quella che ricorda con più slancio è la fase che definisce spontanea,
quella dei primi anni e dei timidi riconoscimenti che arrivavano
dall'amministrazione comunale. "Eravamo consapevoli di essere di
fronte a qualcosa di nuovo", dice Lovatti, ricordando la composizione
del tutto eterogenea dei primi Consigli, formati da casalinghe
cinquantenni e ragazzi universitari, artigiani e operai, ingegneri e
professionisti che fino ad allora non avevano coltivato nessun interesse
specifico per la politica. Tutti convinti a far sentire la loro voce,
persuasi di poter cambiare il modo di amministrare, agendo con un
controllo immediato su ciò che si taceva, e contribuendo alle decisioni
dal basso.
A voler tentare un inquadramento storico, sono almeno tre i contesti che
possono aver influito sulla partecipazione di quartiere: l'onda lunga del
movimento studentesco, l'autunno caldo, la situazione politica in
evoluzione. Eppure c'era dell'altro nella testa di quella gente che a
centinaia affollava il teatro della Pavoniana fino a occuparne tutti i
posti disponibili, corridoi e anfratti possibili per ascoltare e dire la
propria.
"Il fermento partecipativo può essere stato stimolato dalla
situazione storica, ma c'era anche, non secondario, l'elemento del
"credere" in un progetto ritenuto vicino e possibile, che
dipendeva dall'impegno di tutti". Tanto è vero che i partiti,
seppure non indifferenti al movimento nei quartieri ("il Pci lo vide
come un'occasione per entrare tra la gente dei quartieri, nella Dc e nel
Psi la minoranza più aperta sfruttò quel momento per riequilibrare le
posizioni di forza all'interno del partito"), non ne furono i
protagonisti, ritagliandosi una posizione ai margini. "Il numero
degli "indipendenti" era più della metà, a riprova che
l'organismo di quartiere non era un Consiglio comunale in miniatura che
riproduceva le stesse dinamiche fra maggioranza e opposizione, perché non
era emanazione dei partiti. Non, quindi, un duplicato di quei rapporti di
forza, ma un luogo di confronto dove spesso si affermavano posizioni
trasversali. Questo spiega la fiducia riposta dai cittadini".
I traguardi raggiunti con il Comitato di coordinamento del 1971 e con il
regolamento approvato dal Comune nel 1975, che conferiva ai Consigli di
quartiere un'importante voce in capitolo sui temi di urbanistica, bilancio
e politiche sociali sono, secondo Lovatti, una "conquista sul
campo" dei quartieri. "Allora si dava molta importanza al
consenso, i quartieri erano diventati una massa di pressione talmente
forte e radicata che le istituzioni non potevano ormai trascurare".
La grande alchimia che dava forza alla partecipazione era la capacità di
far convivere stili di vita, età, mentalità e status sociali dei più
diversi, miscelati da un deciso coinvolgimento emotivo. "C'erano
professionisti in giacca e cravatta, come l'indimenticabile ingegner
Giovanni Buizza, che da presidente del Consiglio di quartiere ci ha
accompagnato in tante battaglie, e c'eravamo noi giovani, c'erano
alternativi e c'erano conformisti, persone di destra e di sinistra, e
nonostante ciò ci si riusciva a confrontare, con un accostamento che
aveva talvolta il sapore di un dialogo fra generazioni diverse".
Significativa anche la presenza femminile: a Sant'Eustacchio le donne
erano circa la metà dei componenti del Consiglio, e su tre coordinatori
di commissione, due (per Cultura e Servizi alla persona) erano donne.
"L'atmosfera era contagiosa, anche per quelli inizialmente più
scettici. L'impegno richiesto era molto, come le sere passate a casa
dell'uno o dell'altro per studiare le carte o le nuove normative, o la
distribuzione dei volantini informativi, per cui ciascuno si sceglieva una
zona e li depositava a tappeto nelle buche delle lettere. In questo senso
dico che a noi giovani di allora, convinti ed entusiasti dell'esperienza,
sembrava davvero di vivere in una "Atene di Pericle", così
avvertita era la possibilità di partecipare alla vita della res
pubblica".
Lovatti iniziò a interessarsi ditemi urbanistici quasi per caso,
"erano temi ostici e noi eravamo un po' tutti digiuni, non c'era
nessuno che li seguisse, così mi offrii io. Creammo un gruppo di studi
per affrontare un settore completamente nuovo, ci si trovava la sera per
studiare le normative urbanistiche. Alla fine maturammo una certa
competenza ".
E in Consiglio le discussioni erano accese, si dava battaglia sui temi
urbanistici, dai sensi unici ai percorsi delle linee autobus, fino a
questioni più importanti affrontate in quella metà degli anni Settanta,
come il prolungamento di via Veneto in quella che sarebbe diventata via
Salvo d'Acquisto, e che allora non esisteva ancora, la realizzazione del
giardino di via Reverberi, la pratica per rendere di fruibilità pubblica
Campo Marte, "che venne avviata proprio allora nel Consiglio di
quartiere".
Anche in campo culturale fu una stagione feconda, con la nascita dei primi
corsi di ginnastica per adulti e anziani, oltre alle lezioni di pittura,
ceramica e altro. "Oggi è diventata una prassi, ma allora era
qualcosa di assolutamente inedito: quando chiedevamo di poter utilizzare
la palestra degli istituti ci guardavano straniti, al tempo erano solo le
scuole e le società sportive ad essere "legittimate" per questo
tipo di attività".
La vita dei consigli fu costellata anche di battaglie perse, vissute
spesso come uno smacco, come fu il caso della vicenda di Canton d'Albera,
secondo Lovatti la più emblematica per Sant'Eustacchio.
In quel caso i consiglieri di quartiere si spesero perché l'area di
Canton d'Albera, nei pressi di via Pastrengo e via Leonardo Da Vinci
(estesa su 9 mila metri quadrati, dove attualmente sorge il complesso
della banca Bipop Unicredit e gli altri esercizi limitrofi), venisse
vincolata a servizi pubblici, dopo che la normativa regionale del 1975
aveva aumentato i metri quadrati da destinare a servizi per abitante.
"I quartieri volevano che la nuova normativa venisse applicata alla
svelta, traducendosi in una variante del Piano regolatore, mentre gli
interessi economici premevano per andare a rilento, e ottenere nel
frattempo la possibilità di edificazione privata dell'area". Il
braccio di ferro con la Giunta comunale fu lungo ed estenuante, e si
concluse con la sconfitta dei quartieri, che non riuscirono a
salvaguardare l'area dall'edificazione privata.
Lovatti ha vissuto anche la stagione del lento esaurirsi della spinta
partecipativa. "Se nei primissimi anni dopo il passaggio alle
circoscrizioni c'era ancora un certo clima, tanto che molti consiglieri
provenivano ancora dai quartieri, perché liste con soli candidati imposti
dai partiti avrebbero rischiato di perdere, col tempo furono i quartieri a
irrigidirsi, a smarrire l'impulso propositivo, la capacità di massa
critica e quindi la forza contrattuale. Il clima culturale e politico era
cambiato, e i partiti invasero il campo, a incominciare dalla
distribuzione dei presidenti".
A fare da spartiacque fu la legge del 1976 che istituiva le
circoscrizioni, una normativa che secondo Lovatti offre due chiavi di
lettura: "dal punto di vista della partecipazione fu un passo
indietro, perché con circoscrizioni molto estese diventava più difficile
la rappresentatività rionale, ma sotto il profilo del decentramento fu un
passo avanti, perché accorpando i quartieri rese possibile realizzare
strutture e centri sociali di riferimento per le diverse aree della
città". Evolversi, alla fine degli anni Settanta, era diventato un
salto necessario, tanto più che il movimento dei quartieri, pur
referenziato localmente, aveva sempre cercato di "pensare
globale", evitando la tentazione campanilistica per contribuire,
soprattutto tramite il Comitato di coordinamento di tutti i Consigli, a
temi disinteresse generale come bilancio e Piano regolatore.
E' in questa prospettiva che va decifrata l'eredità lasciata dalla lunga
stagione della partecipazione. "Il ruolo delle Commissioni in
Circoscrizione, ad esempio, quella Urbanistica, quella alla Cultura e
attività promozionali e quella dei Servizi alla persona è un retaggio di
allora, così come la possibilità per i cittadini di partecipare alle
sedute delle Commissioni, che sono 'aperte', e la prassi per cui gli
assessori prima di decidere su tematiche di quartiere sentono chi è sul
territorio". Certo, "sarebbe potuto rimanere qualcosa di più,
soprattutto in tema di istanze partecipative. Ma qualcosa è restato.
Senza dimenticare che arrivare all'accorpamento era nella logica delle
cose: solo così i quartieri hanno potuto disporre di strutture, palestre
e centri di aggregazione che una dimensione rionale non avrebbe potuto
offrire".
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