2014,
anno di Tredici. Non è un gioco di parole, è solo una formula per
ricordare il cinquantesimo della morte di mons. Giacinto Tredici, vescovo di
Brescia dal 1934 al 1964, protagonista straordinario della storia di
Brescia. Dai tempi di Berardo Maggi, Signore e vescovo della città agli
inizi del XIV secolo, nessuno ha svolto un ruolo così rilevante e decisivo
nella storia di Brescia.
Tredici nasce a Milano nel 1880, diventa sacerdote nel 1904 e per venti anni
insegna filosofia e teologia nel Seminario milanese. In campo filosofico ha
un ruolo significativo, è tra i fondatori della neoscolastica, partecipa a
convegni internazionali e scrive una storia della filosofia ai tempi molto
nota, che è tradotta anche in spagnolo e viene adottata come manuale in
molti seminari del Sud America.
Dopo la prima guerra mondiale, ha una crisi spirituale, in seguito anche
alla morte in battaglia del fratello più piccolo, e chiede di lasciare
l'insegnamento e di diventare parroco. Nel 1924 è accontentato e gli viene
affidata S. Maria del Suffragio, grande parrocchia della periferia milanese.
Nel 1930 il cardinale Schuster, arcivescovo di Milano lo sceglie come
vicario generale della diocesi e nel dicembre del 1933, Pio XI lo nomina
vescovo di Brescia.
Come vescovo di Brescia diviene protagonista di una fase storica
importantissima per la nostra città, che attraversa gli ultimi anni del
regime fascista, la guerra, la Resistenza e poi gli anni della
ricostruzione. Basti ricordare che per un paio di giorni, nell'aprile del
1945, fuggiti i tedeschi ed i fascisti e non ancora arrivati gli americani,
egli si trova ed essere l'unica autorità riconosciuta della città.
Come possiamo giudicare l'azione di mons. Tredici alla luce della
sensibilità contemporanea? Egli talvolta mostra convinzioni ed
atteggiamenti che alla nostra sensibilità contemporanea appaiono datati,
troppo rigidi, talvolta perfino conformisti. In effetti, in diverse
occasioni, traspare in lui una nostalgia per il passato, per la religiosità
del passato talvolta idealizzata; ed è anche vero che lui attribuisce un
valore sommo all'obbedienza al Pontefice, al rispetto della tradizione e che
talvolta tale atteggiamento sembra rispondere ad un suo bisogno, forse non
del tutto consapevole, di rassicurazione. Ma detto questo, va subito
aggiunto che nell'azione pastorale di Tredici vi è un coraggio nel
distaccarsi da opinioni allora largamente diffuse ed una capacità
d'innovazione sorprendente.
Diversi testimoni hanno ricordato come mons. Giacinto insistesse spesso,
perfino nei giorni della malattia che precedette la morte, sul criterio
secondo cui le cose importanti sono veramente poche, intendendo che su
alcuni principi e valori è necessario mantenersi assolutamente fermi e
coerenti, ma su tutto il resto bisogna essere pronti a rivedere il proprio
punto di vista, ascoltando non solo le ragioni dei nostri interlocutori, ma
cercando anche di capire le motivazioni di chi la pensa diversamente. Si
può affermare che quest'orientamento di fondo ha costituito per Tredici una
regola centrale del suo comportamento, rimasta immutata col passare degli
anni. Fermissimo nella difesa delle verità di fede e dei principi morali
fondamentali, egli ha manifestato nella sua lunga attività pastorale una
coraggiosa disponibilità a sperimentare soluzioni nuove, che nasceva spesso
dall'attenzione per le ragioni portate dai suoi collaboratori, sacerdoti e
laici.
In primo luogo va ricordato un episodio finora rimasto praticamente
ignorato. Nel Sinodo diocesano del 1952, una importante relazione sul piano
di riorganizzazione degli oratori parrocchiali è affidata da Tredici ad un
laico. Questa era sicuramente una scelta innovativa e pionieristica. Tredici
è stato in questo un coraggioso antesignano del Vaticano II per quanto
attiene alla valorizzazione del laicato, anche perché questa scelta era
attuata in deroga alle disposizioni del codice di diritto canonico del 1917,
allora in vigore, che presupponeva la partecipazione dei soli sacerdoti ai
Sinodi diocesani.
Un altro ambito nel quale mons. Giacinto può essere considerato un
precursore del Concilio è l'attenzione al dialogo ecumenico con le chiese
cristiane separate. Il 1 maggio 1946, Pio XII aveva chiesto a tutti i
Vescovi un parere sull'opportunità di stabilire il nuovo dogma
dell'Assunzione di Maria. Solo sei Vescovi su 1681 avevano manifestato
qualche dubbio o perplessità in merito alla proclamazione del dogma.
Tredici era tra questi sei, e aveva confidato ai suoi collaboratori che le
sue perplessità non riguardavano il contenuto del dogma. Giacinto Tredici
è quindi tra i pochi Vescovi nel mondo che manifesta con chiarezza al
Pontefice la sua contrarietà alla proclamazione del dogma, perché egli
ritiene che tale proclamazione possa costituire un ostacolo al futuro
dialogo ecumenico con i fratelli cristiani separati. Questa sensibilità per
il dialogo ecumenico, che dopo il Concilio Vaticano II è divenuta
patrimonio comune di tutta la Chiesa cattolica, era allora molto meno
sentita e, proprio per questo, l'orientamento assunto da Tredici è
particolarmente significativo.
Un altro episodio che mostra il coraggio nell'intraprendere strade nuove è
la nomina di padre Luigi Rinaldini a cappellano delle formazioni partigiane
nel giugno 1944. In un primo momento Tredici aveva opposto un netto rifiuto
alla richiesta di autorizzare un cappellano per i partigiani, per timore
delle gravi conseguenze che sarebbero potute ricadere sui fedeli, nel caso i
tedeschi o i fascisti ne fossero venuti a conoscenza. Dopo una sola notte di
tormentate riflessioni, il giorno seguente i suoi vicari riescono a
convincerlo a cambiare idea. Già questa disponibilità di Tredici a mutare
radicalmente il proprio punto di vista, accogliendo le ragionevoli
argomentazioni dei suoi collaboratori, è particolarmente significativa,
indice della tipica apertura all'ascolto del Vescovo di Brescia, che non si
nasconde mai dietro all'autorità che gli deriva dal ruolo. Ma qui
c'interessano soprattutto i tempi: l'assenso della S. Sede alla nomina dei
cappellani per i partigiani, espressamente richiesto - a nome dei vescovi
lombardi - dal cardinal Schuster tramite la Nunziatura di Berna, arriverà
solo il 24 novembre, oltre cinque mesi dopo. Cinque mesi in anni normali
possono essere considerati un periodo relativamente breve, ma in situazioni
così concitate e drammatiche (si pensi che la Repubblica Sociale è durata
poco più di un anno e mezzo) sono un lasso di tempo significativo. Inoltre
una decisione del genere, senza un'autorizzazione dei superiori, implicava
l'assunzione di gravi responsabilità per le eventuali conseguenze. Come in
questo caso, durante tutto il periodo della Resistenza, Tredici incoraggia,
difende e protegge i sacerdoti e i laici antifascisti.
Un'altra vicenda molto significativa è quella del cosiddetto caso Rossi,
dal nome del presidente centrale dei giovani d'AC, costretto nel 1954 alle
dimissioni per i contrasti con Luigi Gedda. Tale vicenda può essere
considerata il momento più indicativo della prolungata opposizione di
Tredici all'orientamento assunto dal Presidente nazionale dell'Azione
cattolica, in tema di rapporti tra DC e Chiesa cattolica. In particolare
Tredici non condivideva l'impostazione di Gedda, secondo cui i dirigenti
democristiani avrebbero dovuto semplicemente attuare la linea politica
dettata dalla Gerarchia, tramite l'Azione Cattolica, senza alcun
significativo margine d'autonomia e responsabilità dei laici impegnati in
politica. Ma il di là di questa divergenza fondamentale, che permaneva da
anni (almeno dal 1948), ciò che spinge Tredici a prendere apertamente
posizione a favore dei giovani d'AC e a dissentire apertamente non solo con
Gedda, ma con i più autorevoli collaboratori di Pio XII è l'ipocrita
attribuzione alla linea Rossi di "deviazioni dottrinali", mentre
le divergenze, oltre che politiche, attenevano al ruolo dei laici nella
Chiesa e nella società e alle modalità organizzative del movimento
giovanile d'AC.
Questa vicenda esemplifica efficacemente l'atteggiamento di Tredici: egli ha
sempre sostenuto i giovani d'AC, nel 1948, nel 1954 e negli anni successivi,
anche quando assumevano un orientamento palesemente contrario alle direttive
romane, proprio perché riteneva che le divergenze non riguardassero
fondamentali questioni di fede o di morale, ma attenessero ad un ambito
politico ed organizzativo nel quale l'autonomia e la responsabilità dei
fedeli laici erano un valore da salvaguardare. Oggi potremmo affermare che
l'orientamento di Tredici era semplicemente frutto di buon senso e
ragionevolezza. Ma nei tardi anni '40 e negli anni '50, la posizione di
Tredici su queste questioni non corrispondeva certamente all'orientamento
della maggior parte dei vescovi lombardi o italiani.
Un ulteriore ultimo esempio di autonomia di pensiero e di capacità di non
adeguarsi passivamente alle opinioni più diffuse può essere cercato nel
rapporto con la DC. Mons. Giacinto, come d'altronde la grande maggioranza
dei cattolici negli anni '40 e '50, attribuiva un valore fondamentale
all'unità politica dei cattolici, ritenuta condizione indispensabile per
salvaguardare la libertà religiosa ed evitare la conquista del potere ai
partiti di sinistra (non bisogna dimenticare che il PCI di Togliatti era
allora strettamente legato all'URSS). Pertanto tutta la sua azione in campo
politico e sociale si è imperniata sulla difesa e sulla corretta attuazione
di questo valore. Tuttavia questa priorità non ha mai portato ad una
eccessiva identificazione della Chiesa con la politica democristiana.
Soprattutto Tredici cerca di evitare che la curia o l'AC interferiscano
direttamente nelle scelte politiche della DC, non opponendosi
sostanzialmente alla visione politica di Bruno Boni, molto attenta a
salvaguardare l'aconfessionalità del partito e l'autonomia dei laici
cattolici impegnati in politica. Tutte queste ragioni lo portano ad
astenersi da un intervento diretto nelle vicende economiche locali, ma non
lo esimono dall'intervenire ripetutamente per ribadire i principi
fondamentali della dottrina sociale della Chiesa. Possiamo osservare che
egli non corre il rischio di una acritica accettazione del modello di
sviluppo economico che si afferma negli anni della ricostruzione e nemmeno
delle scelte liberiste compiute dal governo nazionale guidato dalla DC,
anche perché, rispettando l'autonomia dei cattolici impegnati in politica,
evita che le scelte concrete del partito limitino l'autonomia di giudizio
della Chiesa.
Da queste e da altre vicende deriva che Tredici non possa essere considerato
un conservatore illuminato, poiché in numerosi ambiti è stato innovatore.
Inoltre lo stesso atteggiamento tradizionalista, che pure talvolta si
manifesta nei suoi scritti, deve essere fortemente ridimensionato in una
valutazione complessiva della sua azione pastorale.
Prendendo a prestito la celebre distinzione aristotelica tra virtù etiche e
dianoetiche, penso che mons. Giacinto Tredici può essere sicuramente
considerato un modello positivo per le sue virtù morali: non solo il suo
senso del dovere, la sua coerenza interiore, la sua onestà, il profondo
rispetto per le persone, il suo coraggio nelle scelte (nonostante l'umana
paura, soprattutto nei drammatici momenti della guerra e della resistenza)
ma anche la sua mancanza d'ambizione, che gli ha consentito di non essere
mai succube dei potenti e dei ricchi.
Invece il suo limite principale può essere rinvenuto nella sua visione
talvolta idealizzata del passato. Ma non va dimenticato che
quell'atteggiamento tradizionalista, conservatore, in alcune rare occasioni
anche apparentemente conformista, frammisto in qualche caso ad una sorta di
nostalgia per un passato ormai irrimediabilmente perduto e sentito come
migliore del presente, che talvolta emerge quasi inintenzionalmente in
alcune sue valutazioni e prese di posizione, non sempre si manifesta come un
difetto: va tenuto presente che è proprio grazie a questa visione che, in
epoche difficili, come quella della dittatura fascista, Tredici è riuscito
a sostenere con coraggio le sue convinzioni, senza cedimenti o adulazioni
verso i potenti, senza compromettersi con un regime che, sotto una patina
d'apparente collaborazione con la Chiesa, nascondeva tratti pagani ed
anticristiani e, soprattutto, mancanza di rispetto per la libertà delle
persone e per i diritti umani. Analogamente, nell'epoca della ricostruzione,
ha potuto mantenere ferma la concezione cristiana della giustizia sociale,
riuscendo ad evitare di identificarsi totalmente con la politica economica
della DC e di essere influenzato dagli interessi dei gruppi economici
dominanti, dei "poteri forti" come si dice oggi, nonostante il
clima di aspra lotta politica.
Maurilio Lovatti
Questo Mese Idee,
mensile, febbraio 2014
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