Sul concetto di malattia, com'è noto,
esistono notevoli divergenze d'opinione, non solo tra i filosofi, ma anche
tra i medici, tanto che appare ancora attuale l'osservazione del 1926 di
Viktor von Weizsacher "il fatto che la medicina odierna non possegga
una propria dottrina sull'uomo malato è sorprendente, ma
innegabile".
Sul piano filosofico almeno un briciolo di convergenza è riscontrabile
sulla tesi che il termine "malattia" è politetico, cioè
veicola diversi significati che tra loro hanno una somiglianza di
famiglia, all'incirca nel senso indicato da Wittgenstein nelle Ricerche
filosofiche. Assumendo il presupposto che il concetto di malattia si basa
su un insieme ramificato di significati, svilupperò la mia analisi senza
condividere il postulato wittgensteiniano secondo il quale solo l'uso può
determinare il significato, e soprattutto mantenendo la logica classica e
il principio di bivalenza, che invece sono generalmente respinti dagli
epistemologi che hanno proposto la teoria dei fuzzy sets e
spesso anche dagli studiosi delle scienze cognitive.
All'interno della famiglia di significati che formano il concetto di
malattia, due sono quelli più diffusi, per i quali abbiamo in inglese due
termini distinti: "disease", come disfunzione dell'organismo
rilevabile oggettivamente sul piano fattuale e "illness", come
percezione soggettiva della malattia stessa.
Lo scopo di queste note è indagare sull'utilità di assumere la
distinzione tra linguaggio descrittivo da un lato e linguaggio
prescrittivo-valoriale dall'altro (distinzione posta dalla cosiddetta
legge di Hume e fatta propria anche dal neopositivismo) per far luce sulle
difficoltà che il concetto di malattia presenta.
Hume, nella I sezione del libro III del Trattato, ha sostenuto che le
distinzioni morali non sono il prodotto della ragione e che la moralità
non consiste in nessun dato di fatto che si possa scoprire con
l'intelletto. Hume, nel negare la possibilità di fondare razionalmente
l'etica, ha svolto diverse considerazioni che la tradizione filosofica
anglosassone ha denominato come "legge di Hume", che può
riassumersi così: è impossibile derivare razionalmente giudizi morali
dalle conoscenze e dall'analisi di dati di fatto, o, detto in altri
termini: non è corretto passare dal piano dell'essere, dei fatti, al
piano del "dover essere", o ancora, nei termini della filosofia
analitica contemporanea, non si possono derivare asserzioni prescrittive
da premesse descrittive.
Per Hume il criterio che ci guida ad agire in un certo modo, a scegliere
ciò che è bene per noi, non può essere la ragione: "Una cosa è
conoscere la virtù e un'altra conformare a lei la volontà." e
ancora: "Non è contrario alla ragione che io preferisca la
distruzione del mondo intero piuttosto che graffiarmi un dito".
Questa linea di pensiero è fatta propria da Wittgenstein che nel
Tractatus (1921) afferma la totale eterogeneità tra fatti e valori:
"Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non vi è
in esso alcun valore - né, se vi fosse, avrebbe un valore" (6.4.1).
Di conseguenza, nell'ambito della concezione del linguaggio formulata in
quest'opera, ne risulta che "l'etica non può formularsi. L'etica è
trascendentale". (6.421) . Come è noto sia il Circolo di Vienna e
sia, più in generale, il neopositivismo hanno seguito Wittgenstein anche
in questa concezione.
La legge di Hume è stata oggetto di numerose analisi e dispute
filosofiche in campo etico e metaetico ed è stata condivisa da grandi
filosofi del '900 come Russell, Carnap, Ayer, Popper e Hare. In questa
sede si tratterà invece di valutare la fecondità della distinzione posta
dalla legge di Hume ai fini dell'analisi dei concetti di salute e
malattia.
Si può iniziare con una ricognizione dei vantaggi derivanti dall'assumere
la distinzione di cui sopra, in particolare per quanto riguarda:
1. la possibilità di includere nel concetto di malattia componenti che
derivano dal contesto culturale di una data società od epoca, senza per
questo attribuire ambiguità o vaghezza al concetto di malattia, pur
assumendo il dato di fatto che lo stesso insieme di fenomeni biologici sia
considerato malattia in un contesto culturale e invece non lo sia in un
altro. E' evidente che in casi di questo genere, la componente di
significato che varia storicamente e che giustifica l'inclusione o meno di
un dato set di sintomi tra le malattie è quella emotivo-soggettiva; in
altre parole sono le aspettative diffuse e la "percezione" dei
fatti nel quadro della mentalità del tempo che variano indipendentemente
dai sintomi e dall'evoluzione dei fenomeni biologici.
2. la rivalutazione dei vissuti e delle percezioni soggettive del paziente
ai fini della valutazione delle strategie terapeutiche. E' noto che i
modelli di valutazione dei sintomi e dei risultati delle analisi e degli
esami diagnostici proposti dalla Evidence-Based Medicine, o meglio dalle
interpretazioni neopositivistiche della EBM oggi imperanti nella pratica
medica, prevedono la determinazione delle terapie idonee solo sulla base
della miglior informazione statistica disponibile e quindi tendono
inevitabilmente a sottovalutare le percezioni soggettive del paziente, che
in quanto tali sono meramente individuali e non correlabili coi dati
statistici. L'idea fondante della EBM è che le migliori prove
scientifiche e in particolare i risultati delle sperimentazioni della
ricerca clinica, come i trial clinici randomizzati a doppio cieco, possono
in linea di principio determinare l'opportuna terapia. In questo senso vi
è l'applicazione di un modello positivista: le evidenze, se
sufficientemente ampie e analizzate con metodo, determinano la teoria, e
la teoria, se applicabile al caso concreto, determina l'agire razionale,
cioè in questo caso la terapia. Da questo punto di vista, alla luce della
legge di Hume, si comprende con chiarezza quanto sia arbitrario vincolare
il dovere terapeutico del medico alle evidenze fattuali fornite della EBM
e quindi come possano essere difese anche in linea di principio le tesi
della medicina "orientata al paziente", cioè di quella
concezione del ruolo del medico che si caratterizza per la comprensione
del punto di vista del paziente e per il tentativo di approfondirne il
vissuto. Il medico, cioè, accanto ai riferimenti clinici, esplora meglio
ed accoglie la prospettiva del paziente e ragiona sulla sua esperienza.
3. la necessità di contrastare visioni "riduzioniste" della
malattia: se la malattia viene concepita come pura disfunzione biologica,
ne deriva la conseguenza di orientare le energie e le risorse sanitarie
quasi esclusivamente sulla terapia farmacologica e chirurgica, con esiti
controproduttivi (il cosiddetto "effetto Knock"). Si può notare
come il superamento del concetto di malattia come pura disfunzione
biologica porta ad includere nel significato anche componenti non
puramente frastiche, che nemmeno in linea di principio possono essere
derivabili da resoconti fattuali, come appunto prescrive la legge di Hume.
E' evidente che una concezione di malattia non riduttiva possa contribuire
a rafforzare la cosiddetta tesi "olistica" e la convinzione
dell'opportunità di favorire la prevenzione, investendo risorse
economiche non esclusivamente sulla terapia. Olismo, in opposizione a
riduzionismo, è il punto di vista per il quale "ogni complesso
organizzato può considerarsi spiegabile solo in modo incompleto dalle
parti nelle quali può venire scomposto: il residuo inspiegato emergente
afferisce al tutto." Più precisamente, il termine olismo è usato
nel significato stabilito dal biologo Paul Weiss.
All'opposto la distinzione tra linguaggio
descrittivo e linguaggio prescrittivo-valoriale non risulta di
nessun'utilità in relazione ad altre significative problematiche connesse
con la definizione di malattia, e più precisamente:
a) alla difficoltà di stabilire canoni rigorosi di normalità fisiologica
in conformità a range di valori di analisi o di altri dati oggettivi, con
le conseguenze di ridimensionare l'affidabilità dei risultati delle
sperimentazioni della ricerca clinica, come i trial clinici randomizzati a
doppio cieco, in relazione alla determinazione dell'opportuna terapia. E'
noto che il discostarsi dai valori medi delle analisi non è indice di
patologia per tutti i pazienti, anche se lo è per la stragrande
maggioranza di essi.
b) alla irreversibilità dei processi biologici (dal sistema immunitario
all'organizzazione del cervello) che determinano l'unicità dell'individuo
e quindi non consentono l'applicazione meccanica al singolo malato di
terapie sperimentate su campioni che, per quanto adeguatamente numerosi,
sono stati costituiti proprio selezionando i pazienti sulla base di
criteri di esclusione a priori di chi si allontana dallo standard astratto
di paziente medio di una determinata patologia.
Sottolineo l'irrilevanza della legge di Hume rispetto a questi due ordini
di difficoltà perché spesso, soprattutto nelle critiche all'EBM, essi si
trovano disinvoltamente mescolati con le critiche al riduzionismo.
Nonostante l'utilità della distinzione
fatto/valore per l'eliminazione di pericolose ambiguità connesse alla
definizione del concetto di malattia, un'analisi della pratica medica e
delle sue ricadute sociali mostrano l'impossibilità di separare
interamente questioni di fatto e problemi etici. Come sostiene Paolo
Vineis, l'incertezza che permea la diagnosi e conseguentemente la terapia
è di per sé sufficiente per comprendere l'intreccio che lega
irrimediabilmente fatti e valori . Va quindi analizzato il contributo del
pragmatismo alla definizione del concetto di malattia, assumendo
emblematicamente il pragmatismo come posizione filosofica antagonista alla
contrapposizione tra fatti e valori. Del pragmatismo (in particolare Dewey
e Putnam) richiamo in particolare le tesi del primato della ragion pratica
e dell'interdipendenza olistica di fatto e teoria, e di fatto e valore.
Per Putnam come per Dewey non esistono dati puri: nulla è un dato se non
in relazione ad un'idea o ad un piano operativo che può essere espresso
in termini formali; dal punto di vista formale, sia nei linguaggi naturali
sia in quelli formalizzati, il dato è espresso da enunciati singolari,
mentre la legge scientifica presenta un quantificatore universale, ma tale
differenziazione non si fonda su un'irriducibilità in linea di principio.
In altri termini: i fatti sono operazionali nel senso che sono esiti di
operazioni di organizzazione e di scelta; i concetti sono operazionali
perché non sono altro che proposte e piani di operazioni d'intervento
sulle condizioni esistenti. Ogni scelta procedurale all'interno di un
indagine discende da giudizi pratici e, per Dewey, tutti i giudizi pratici
sono valutazioni (cioè, in altri termini, la valutazione è originata
dalla critica alle procedure di risoluzione dei problemi).
Dal punto di vista del pragmatismo i modelli formali di tipo
nomologico-deduttivo non sono da soli sufficienti a rendere conto dei
rapporti tra leggi universali e osservazioni particolari, sia nell'ambito
della conoscenza scientifica, sia nell'ambito dell'etica. Sembra piuttosto
esservi, in entrambi gli ambiti, uno scambio tra legge e dato: il
principio generale, sia esso di natura etica o conoscitiva, estrae
determinate caratteristiche comuni da situazioni che giudichiamo, sul
piano congetturale, buone o giuste, vere o false. A sua volta questo
principio viene utilizzato in modo estensivo per riconoscere altre
situazioni analoghe, per prevedere o guidare l'azione. In entrambi i casi
non è possibile tracciare una netta demarcazione tra fatti e teorie, tra
descrizioni e credenze.
Nell'ambito di questo quadro teorico è possibile valutare l'apporto del
pragmatismo alla definizione del concetto di malattia; in particolare:
1. Il punto di vista del pragmatismo è utile per confutare la tesi di chi
definisce la malattia esclusivamente in funzione dell'autonomia
dell'organismo dall'ambiente esterno. Poiché la capacità degli esseri
viventi di cambiare l'intensità delle proprie funzioni opponendosi alle
conseguenze dei mutamenti ambientali ha permesso agli organismi di
sopravvivere e riprodursi nel corso dell'evoluzione, la malattia si
identificherebbe col fatto che l'organismo non è in grado di mantenere l'omeostasi
a fronte di variazioni ambientali (l'organismo, non potendo modificare
ulteriormente l'intensità delle sue funzioni, è costretto a modificare
il proprio ambiente interno).
2. Il punto di vista del pragmatismo è utile per confutare la tesi di chi
definisce la malattia esclusivamente in funzione della riduzione
dell'efficienza dell'organismo. Combinando i risultati delle teorie
termodinamiche con l'evoluzionismo, è stato sostenuto che le strutture
biologiche selezionate dall'evoluzione sono ottimali per massimizzare la
conservazione di energia, e che quindi tendono a ridurre al minimo
l'entropia nell'organismo. Un processo può essere allora definito
patologico se produce aumento di entropia, che si traduce in minor
efficienza dell'organismo (il lato positivo di questo punto di vista è
che riesce ad includere adeguatamente anche le malattie croniche nel
concetto generale di malattia). Questi due approcci alla definizione del
concetto di malattia, basati rispettivamente sui concetti di omeostasi e
di entropia, sono stati fatti propri anche in Italia da clinici illustri,
come Federspil e Azzone, e sono emblematici della prospettiva di chi
ritiene che la malattia possa essere adeguatamente definita rimanendo
nell'ambito biologico, separando nettamente il piano fattuale da quello
dei valori, delle aspettative individuali e da quelle collettive che
dipendono da variabili storico-culturali. Questi approcci in ultima
analisi si spiegano con riferimento allo scopo implicito di definire la
malattia in modo tale che la condizione di normalità o patologia possa
essere determinata univocamente e oggettivamente, cioè indipendentemente
da convinzioni, preferenze e aspettative che possano variare da soggetto a
soggetto: quindi questi approcci si fondano proprio sulla radicale
irriducibilità tra fatti e valori. Ciò che appare così completamente
trascurato è che, anche a livello di senso comune, la salute è percepita
come un valore, un bene fondamentale e primario e, quindi, la malattia è
concepita come disvalore, come privazione. Da questo punto di vista il
pragmatismo, proprio per il ruolo centrale che attribuisce alla tesi
dell'interdipendenza olistica di fatto e valore, fornisce, a mio giudizio,
un efficace fondamento filosofico per criticare queste definizioni
riduttive di malattia.
3. All'opposto il punto di vista del pragmatismo può fungere da sostegno
al cosiddetto paradigma psico-sociale, che invece sottolinea le cause
remote della malattia e riconosce che la definizione di patologico implica
criteri fondati su valori. Il paradigma psico-sociale è fortemente
criticato da filosofi della scienza e anche da clinici illustri con la
motivazione che esso si baserebbe su una confusione tra livelli diversi di
medicina. Ad esempio Federspil afferma che caratteri storico-sociali e
valori morali sono incidenti solo per l'arte medica, vale a dire per la
pratica clinica e la terapia, ma assolutamente irrilevanti per la medicina
biologica, poiché la scienza è avalutativa, ha solo funzione
esplicativa. Questo genere di critiche non è condivisibile dal punto di
vista del pragmatismo: in particolare nel caso della medicina il piano
teoretico non è autonomo rispetto a quello idiografico (diagnosi) e a
quello pratico (terapia), anche perché, di fatto, l'attività diagnostica
e le esigenze terapeutiche spesso orientano la ricerca pura, stimolando
un'opera d'approfondimento, di revisione o di chiarificazione del quadro
teoretico.
In conclusione, può essere utile esplicitare i
presupposti teoretici che hanno guidato questa mia breve ricognizione
sull'efficacia della legge di Hume ai fini dell'analisi del concetto di
malattia. Come è apparso evidente da ciò che precede, queste note si
inseriscono in un orizzonte di critica al sia al neopositivismo sia alle
concezioni riduzionistiche della medicina, un orizzonte nel quale è
considerato significativo utilizzare gli apporti delle scienze cognitive.
Tuttavia scegliere questo orizzonte e questa prospettiva non implica
necessariamente né il ripudio della logica classica né l'accettazione
dei presupposti dell'epistemologia naturalizzata, anche se la tendenza
degli studiosi oggi più conosciuti nell'ambito della filosofia della
scienza sembrerebbe mostrare esattamente il contrario.
L'abbandono della logica classica e del principio del terzo escluso
sostenuto dai cultori della cosiddetta fuzzy-logic rappresenta un indebito
indebolimento delle potenzialità di falsificazione della ragione,
peraltro nemmeno giustificato dai risultati ottenuti, che grandi
pensatori, certamente non neopositivisti, come Popper e Tarski, hanno a
ragion veduta sempre avversato.
L'epistemologia naturalizzata, infine, presentandosi come una teoria
descrittiva anziché normativa, costituisce in ultima analisi la rinuncia
ad una delle finalità costitutive della filosofia della scienza.
Ha certamente ragione Quine quando sostiene che la biologia
evoluzionistica e la psicologia sperimentale dimostrano che, persino al
livello della somiglianza percettiva, i nostri standard innati mostrano
una confortante tendenza ad accordarsi con la tessitura della natura e che
questa convergenza può essere senza dubbio addebitata alla selezione
naturale. Ma è altrettanto ragionevole ritenere che, se le nostre
modalità di formazione e uso degli apparati concettuali sono radicate in
standard innati, come le scienze cognitive ci mostrano, compito della
scienza è proprio quello di correggerle, in modo normativo, con lo scopo
di rendere la conoscenza meno erronea e più efficace dal punto di vista
pragmatico; in altre parole il compito della scienza è proprio quello di
perfezionare le procedure di correzione degli errori e di formulazione di
nuove congetture che sono già presenti nella quotidiana attività
conoscitiva dell'uomo. Analogamente una filosofia della scienza che
rinunci pregiudizialmente ad ogni ruolo normativo, rischia di abdicare ad
un compito che è proprio della filosofia: in altre parole la filosofia in
quanto tale è anche conoscenza razionale che orienta l'azione.
Nettuno (Roma), 30 settembre 2003
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