Quando diciamo: "questa automobile
non va bene", "questa persona non sta bene", "non è
bene mentire" in realtà usiamo lo stesso termine (bene) con
significati diversi. Nel primo caso il termine "bene" è
sostituibile con locuzioni descrittive senza alterazioni di significato.
Se affermiamo: "Questa automobile, in quinta, raggiunge al massimo i
70 km/h, mentre il libretto di istruzioni della casa costruttrice
garantisce una velocità di 150 km/h", intendiamo dire che l'auto non
va bene, è guasta; questo guasto riveste carattere di oggettività, nel
senso che qualsiasi soggetto non può che riconoscere questo stato di
fatto, indipendentemente da ogni sua convinzione o preferenza in tema di
automobili.
Analogamente si potrebbe pensare che se una persona non sta bene è malata
e la malattia potrebbe essere interpretata come una sorta di guasto nella
"macchina" biologica, cioè come una disfunzione del corpo
umano. Così sarebbe una caratteristica del corpo altrettanto oggettiva
del guasto dell'automobile. Questo tipo di approccio è talvolta chiamato
dagli storici della medicina "paradigma anatomo-patologico" o
"modello riduzionista" della malattia ed è stato quello
dominante a partire dalla metà del XVIII sec. (Morgagni) e fino almeno al
1865, data della pubblicazione dell'Introduzione allo studio della
medicina sperimentale di Bernard. Secondo questa concezione una malattia
si identifica con le lesioni che corrispondono ad un certo quadro
sintomatologico, cioè consiste in un'alterazione anatomica ben
localizzata.
Nonostante l'apparente buon senso implicito in questo approccio, questa
concezione della malattia è ormai insostenibile per diversi motivi.
1) "Disfunzione" o "guasto"
hanno significato solo se lo stato di funzionalità o normalità è
univocamente determinato. Nel caso di un'automobile o di un computer o di
un qualsiasi elettrodomestico le caratteristiche del normale funzionamento
sono ben determinate in quanto essi sono stati fabbricati sulla base di un
preciso progetto che prevede determinate prestazioni, analiticamente
definite (quelle che noi spesso troviamo sul libretto di istruzioni). Nel
caso della malattia la normalità dovrebbe essere definita dal concetto di
salute. C. Boorse , uno dei principali sostenitori contemporanei del
modello riduzionista, definisce la salute come una "gerarchia tipica
di sistemi funzionali interconnessi che mantengono la vita"; ma come
si conosce la "gerarchia tipica", la funzionalità normale? Non
certo per via empirica o statistica: non si può certo sostenere che le
caratteristiche riscontrabili nella maggioranza delle persone definiscano
la normalità e quindi la salute. Se la grande maggioranza della
popolazione mondiale fosse affetta da una data malattia endemica, non
potremmo certo affermare che questa non è una malattia. Nemmeno si
possono considerare univocamente definite le caratteristiche potenziali
della natura umana; anche un filosofo e teologo ortodosso come S. Tommaso
D'Aquino, che pure riteneva si potesse dimostrare che l'uomo è creato da
Dio, sosteneva che la "legge eterna", intesa come modello
dell'attività degli enti creati (e quindi anche dell'uomo) nella mente di
Dio, non era conoscibile dall'uomo, che può conoscerne solo un parziale
riflesso (la legge morale naturale).
2) In linea di principio ogni ente è diverso da
ogni altro: due automobili della stessa marca e modello se fossero
analizzate e misurate con pignoleria esagerata mostrerebbero trascurabili
differenze, magari di qualche micron, in vari pezzi. Tuttavia, in assenza
di gravi difetti di fabbricazione, le differenze sono totalmente
trascurabili, sia ai fini della definizione degli standard delle
prestazioni, sia ai fini delle procedure di riparazione dei guasti. Le
differenze tra persona e persona non sono invece trascurabili né nella
diagnosi, né nella cura. Tali differenze sono imputabili a tre ordini
distinti di motivazioni.
a) L'uomo come tutti gli esseri viventi conserva la memoria delle fasi
precedenti della vita, a differenza degli enti inanimati. Un atomo di
ossigeno si combina con altri atomi per formare una molecola
indipendentemente dalla sua storia passata: dal punto di vista delle
potenzialità due atomi della stessa sostanza sono identici. I processi
vitali hanno invece un carattere storico e irreversibile. Non esistono
dunque due esseri viventi identici. Le malattie lasciano una traccia
irreversibile nelle strutture dell'organismo, cioè comportano variazione
del contenuto d'informazione dell'organismo almeno per i sistemi
neuroendocrino e immunitario.
b) Vi sono delle differenze individuali nel sistema immunitario, in
particolare per quanto concerne la componente genetica.
c) Vi sono delle differenze individuali nell'organizzazione funzionale del
cervello che non hanno cause solo biologiche. Per Endelman il nucleo
dinamico del cervello, cioè quel sottoinsieme di neuroni nel sistema
talamo-corticale con forti integrazioni reciproche che costituisce il
sostrato biologico della coscienza, varia da persona a persona anche per
quanto riguarda quante e quali cellule cerebrali risultano coinvolte: la
"storia" individuale del cervello ne determina in qualche modo
la struttura materiale.
Questi tre ordini di differenze individuali sono di generalità
decrescente: il primo (differenze biologiche) è proprio di tutti gli
esseri viventi; il secondo (differenze a livello immunitario) è specifico
degli animali in funzione del posto che occupano nella scala evolutiva;
l'ultimo infine assume particolare rilevanza solo per l'uomo.
La medicina ha guardato con sospetto alla varietà individuale tant'è che
molti autori preferiscono usare il termine di variabilità, che
sottintende una implicita connotazione censoria rispetto a comportamenti
ritenuti incoerenti, bizzarri, instabili o in qualche misura poco
rigorosi.
Il motivo e' semplice: il carattere irriducibilmente vario dei fenomeni
biologici contrasta con l'esigenza primaria di ogni rigorosa indagine
scientifica: avere di fronte a se un oggetto di studio, osservazione e
sperimentazione stabile, non ambiguo, inequivocabilmente definito nei suoi
caratteri "essenziali" ed invarianti da caso a caso, che
risponda a leggi scientifiche generali, di carattere necessario e
tendenzialmente deterministico. Varietà e diversità costituiscono un
insormontabile ostacolo per la generalizzazione dei dati, sia osservativi
sia clinici.
Le tendenze dominanti della medicina contemporanea hanno agito in vario
modo per sminuire o cercare di occultare il ruolo della varietà:
-operando con riferimento alle popolazioni piuttosto che al singolo: trial
clinici, metanalisi e revisioni sistematiche sono tanto più potenti e
conformi ai canoni della EBM (medicina basata sull'evidenza, cioè su
riscontri empirici) quanto più i campioni sono numerosi e si allontanano
dalla dimensione individuale;
-selezionando rigorosamente la popolazione-campione dello studio clinico
sulla base di criteri d'inclusione ed esclusione per l'arruolamento dei
pazienti;
-elaborando criteri diagnostici e classificazioni nosografiche che fanno
riferimento a profili ideali e spesso astratti di pazienti
"medi",
-identificando nelle medie statistiche e nelle tendenze prevalenti dei
campioni la significatività, la rilevanza pratica e l'oggettività.
3) Tra gli elementi che determinano i caratteri di
una malattia va certamente inclusa la percezione soggettiva della malattia
stessa. Pur in presenza di uguali sintomi e con gli stessi valori delle
analisi, due persone possono percepire in maniera soggettivamente diversa
la malattia, con ricadute sul decorso della medesima e sull'efficacia
delle cure. Questo aspetto della malattia corrisponde al significato del
termine "illness" in quanto distinto da quello di "disease".
4) Il concetto di malattia dipende anche dal
contesto culturale. Ciò appare più evidente se si confronta la
percezione sociale della malattia nella contemporanea civiltà occidentale
con quella delle antiche civiltà precolombiane o indiana o cinese.
Così posto il problema, si tratta ora di esaminare
quali influsso la filosofia della scienza abbia esercitato, dal
positivismo ottocentesco ad oggi, sul pensiero di chi ha cercato di
precisare o migliorare la comprensione del concetto di malattia.
Premetto che svilupperò questa disamina da un punto di vista fortemente
critico sia rispetto ai presupposti positivisti o neopositivisti, sia
verso le concezioni strumentalistiche o convenzionaliste della scienza. Un
punto di vista che per semplicità potremmo chiamare "realismo
critico" o popperiano, anche se ovviamente Popper non si è
specificamente occupato di questo tema.
Già alcuni filosofi positivisti ottocenteschi si
erano resi conto delle difficoltà che si incontrano a definire
rigorosamente normalità e patologia. Emile Durkheim, pur sviluppando la
sua analisi nell'ambito del dogma positivistico secondo il quale le teorie
scientifiche si basano e sono derivabili solo dai fatti, nel 1895 scriveva
che la normalità, sia in campo biologico che sociologico, non può essere
individuata solo sulla base di valori statistici medi. Se la grande
maggioranza degli individui presenta un dato carattere, questo tuttalpiù
determina una normalità di fatto, mentre ciò che è patologico può
essere definito solo in relazione ad una normalità di diritto, cioè
rispetto ad un modello di funzionalità ottimale. Dopo aver esaminato ed
escluso che la malattia possa definirsi in relazione al grado di
sofferenza, oppure al perfetto adattamento dell'organismo all'ambiente,
oppure ancora alla pura possibilità di sopravvivenza, Durkheim definiva
la normalità secondo la scienza positiva (ciò che può essere
considerato innocuo, ovvero la normalità di diritto) dei fenomeni e
processi - sia biologici che sociologici- in funzione "delle
condizioni di esistenza della specie in questione, sia come effetto
meccanicamente necessario di tali condizioni, sia come mezzo che permette
agli organismi di adattarvisi" . Era quindi convinto che la
normalità fosse determinabile nell'ambito della scienza positiva,
avalutativa, sia pure non statisticamente o induttivamente.
Ai primi del Novecento, i positivisti francesi che sviluppano le teorie di
Durkheim, come Lucien Levy-Bruhl o Albert Bayet si interrogano sulla
difficoltà di stabilire una normalità di diritto a partire dalla
scienza, che per i positivisti era solo scienza descrittiva di fatti e
delle loro relazioni.
Nel frattempo l'impetuoso progresso della medicina produceva esiti
contrastanti: i successi della microbiologia e dell'immunologia portavano
acqua al mulino dei sostenitori del modello riduzionista (la malattia è
conseguenza di una ben precisa causa) mentre gli sviluppi della
psichiatria e della psicanalisi proponevano un concetto di malattia più
complesso e spesso non univoco.
Nel periodo tra le due guerre la filosofia della scienza è dominata dal
neopositivismo: i filosofi del Circolo di Vienna sospinti da una forte
carica antimetafisica si propongono di portare a termine il grande ideale
positivista di una scienza totalmente fondata sull'esperienza empirica,
una scienza le cui teorie siano derivabili esclusivamente dai dati
sensibili tramite l'applicazione della matematica e della logica formale.
E' l'ideale di una scienza avalutativa, oggettiva, incontrovertibile e
libera da opinabili presupposti metafisici culturali e morali. E' la
tentazione, rassicurante ma pericolosa, di considerare i fatti come sacri,
dimenticando che essi- come dice Popper- sono carichi di teoria. Questa
impostazione considera come ascientifica ogni considerazione di criteri di
finalità e quindi trascura la dimensione teleonomica, che per la biologia
è invece significativa.
Come è noto, i successivi sviluppi della filosofia della scienza, da
Popper a Quine, hanno mostrato inesorabilmente l'illusorietà di tale
sogno, così come il fallimento della logica induttiva, nel senso che
anche i sistemi più raffinati di logica induttiva, come quelli di
Hintikka, non sono stati in grado di determinare una soddisfacente
funzione di conferma delle ipotesi scientifiche sulla base delle evidenze
osservative.
Attardarsi a criticare i residui neopositivistici nella medicina
contemporanea potrebbe apparire come un'operazione accademica. Ma non è
così: mentre tra i filosofi della scienza che si occupano della fisica o
della chimica l'approccio neopositivista è quasi completamente
abbandonato, esso è ancora fortemente presente nella medicina e negli
ultimi quindici anni, con la diffusione della Evidence based medicine, si
è ulteriormente rafforzato. Suggerisco che tale difformità possa essere
spiegata col fatto che le teorie mediche sono spesso costituite da
asserzioni probabilistiche, la cui falsificabilità è meno netta rispetto
alle affermazioni universali del tipo "tutti corvi sono neri".
L'idea fondante della EBM è che le migliori prove scientifiche e in
particolare i risultati delle sperimentazioni della ricerca clinica, come
i trial clinici randomizzati a doppio cieco, possono in linea di principio
determinare l'opportuna terapia. Questa è l'applicazione di un modello
positivista: le evidenze, se sufficientemente ampie e analizzate con
metodo, determinano la teoria, e la teoria, se applicabile al caso
concreto, determina l'agire razionale, cioè in questo caso la terapia.
Quale contributo può attualmente fornire la
filosofia della scienza alla definizione di malattia?
1) Si può rilevare innanzi tutto che non è inutile cercare una
definizione rigorosa di malattia. In genere le definizioni possono
rivestire in una teoria un ruolo puramente convenzionale e allora
evidentemente non si discutono. Ma la definizione di un concetto può
anche essere considerata come una sintesi delle conoscenze acquisite in un
determinato ambito scientifico, a condizione che rifletta adeguatamente la
realtà che vuol definire.
2) Si attribuisce a Ippocrate l'affermazione: "esistono i malati, non
le malattie" e tale affermazione può avere un importante significato
a livello della pratica clinica, come invito a non trascurare le
specificità individuali del paziente. Ma la tesi galeniana, specialmente
nella forma con cui è stata riportata all'attualità da storici della
scienza, anche prestigiosi, come Mirco Grmek, può essere fuorviante per
la medicina biologica, vale a dire per la teoria scientifica, che in ogni
caso assume un'importanza rilevante per la pratica clinica. Lo storico
della Sorbona ha sostenuto che le malattie sono solo modelli esplicativi
della realtà e non elementi costitutivi di essa. Per Federspil e Azzone
ciò può condurre ad uno strumentalismo miope: una teoria scientifica è
tale proprio perché scopre delle leggi, vale a dire delle connessioni,
tra cause ed effetti, nel nostro caso ad esempio tra agente infettivo e
malattia. La sola pratica, anche se efficace (si pensi all'agopuntura) non
è ancora scienza medica: già Aristotele sosteneva che la scienza è
superiore all'esperienza, perché chi ha scienza conosce il perché e la
causa, mentre gli empirici sanno solo il puro dato di fatto.
3) Tra le definizioni che i filosofi della scienza hanno proposto, alcune
sono solo scorciatoie insoddisfacenti. Pedersen e altri filosofi della
scienza di orientamento ermeneutico sostengono che è del tutto inutile
cercare una definizione di malattia, sostenendo che il termine è
polisignificante, cioè veicola diversi significati che tra loro hanno una
somiglianza di famiglia, nella direzione indicata da Wittgenstein nelle
Ricerche filosofiche, e che solo l'uso può determinare tali significati.
Dal punto di vista logico il termine malattia sarebbe vago, ma non
ambiguo. Nella stessa direzione si muove chi, come ad esempio
Kraupl-Taylor , cerca di definire la malattia, prescindendo dallo stato
biologico, in funzione del senso di preoccupazione del paziente o del
medico curante. La definizione di malattia può essere utile solo nella
misura in cui "cattura" aspetti fondanti della realtà.
4) Si è cercato di definire la malattia in funzione dell'autonomia
dell'organismo dall'ambiente esterno . La capacità degli esseri viventi
di cambiare l'intensità delle proprie funzioni opponendosi alle
conseguenze dei mutamenti ambientali ha permesso agli organismi di
sopravvivere e riprodursi nel corso dell'evoluzione. La malattia
consisterebbe nel fatto che l'organismo non è in grado di mantenere l'omeostasi
a fronte di variazioni ambientali. L'organismo, non potendo modificare
ulteriormente l'intensità delle sue funzioni, è costretto a modificare
il proprio ambiente interno.
5) Si è anche cercato di definire la malattia in funzione della riduzione
dell'efficienza dell'organismo . Combinando i risultati delle teorie
termodinamiche con l'evoluzionismo si può sostenere che le strutture
biologiche selezionate dall'evoluzione sono ottimali per massimizzare la
conservazione di energia, e che quindi tendono a ridurre al minimo
l'entropia nell'organismo. Un processo può essere allora definito
patologico se produce aumento di entropia, che si traduce in minor
efficienza dell'organismo. Questo impianto riesce ad includere
adeguatamente anche le malattie croniche nel concetto generale di
malattia.
6) Accanto a queste due ultime definizioni, che considerano la malattia
come fatto puramente biologico, si è sviluppato il paradigma
psico-sociale , che invece sottolinea le cause remote della malattia e
riconosce che la definizione di patologico implica criteri fondati su
valori. Il paradigma psico-sociale è fortemente criticato da filosofi
della scienza e anche da clinici illustri con la motivazione che esso si
baserebbe su una confusione tra livelli diversi di medicina. Ad esempio
Federspil afferma che caratteri storico-sociali e valori morali sono
incidenti solo per l'arte medica, vale a dire per la pratica clinica e la
terapia, ma assolutamente irrilevanti per la medicina biologica, poiché
la scienza è avalutativa, ha solo funzione esplicativa. Ritengo che
questa critica non sia del tutto condivisibile: in particolare nel caso
della medicina il piano teoretico non è autonomo rispetto a quello
idiografico (diagnosi) e a quello pratico (terapia), sia perché i
fondamenti logici della spiegazione sono gli stessi (mi riferisco al
modello nomologico-deduttivo o modello Popper-Hempel) sia perché, di
fatto, l'attività diagnostica e le esigenze terapeutiche spesso orientano
la ricerca pura, poiché possono stimolare un'opera d'approfondimento, di
revisione o di chiarificazione del quadro teoretico.
7) Non si deve credere che l'inclusione di caratteri storico-sociali tra
le cause della malattia conduca necessariamente al relativismo storico, in
particolare alla concezione di malattia mentale come deviazione dal
conformismo. In uno scritto del 1955 lo psicanalista Roger Money-Kyrle
mostra come, pur non trascurando le forme storicamente determinate della
devianza sociale, sia possibile costruire un parametro di razionalità
"non disturbata" che non si riduca alla funzione di adattamento
agli standard sociali comunemente accettati.
Nettuno (Roma), 2 ottobre 2001
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