Secondo l'empirismo classico inglese la realtà può essere guardata sotto
tre punti di vista:
1) Realtà materiale
2) Pensiero (contenuti mentali, idee, rappresentazioni)
3) Linguaggio (convenzionale, diverso a seconda delle lingue parlate)
Gli empiristi del '600 considerano il linguaggio la forma esteriore del
pensiero, la modalità che ci permette di comunicarlo ad altre persone, ma nel '900 si ha una "svolta
linguistica": i filosofi
cercano di eliminare il secondo livello, non nel senso che i nostri
concetti e gli altri contenuti mentali non esistano, ma dato che esso è un livello soggettivo (non posso leggere nella
mente altrui!) si presta difficilmente ad una analisi scientifica rigorosa.
Inoltre all'interno della mente umana vi sono emozioni e ricordi, che
risultano essere particolarmente soggettivi, ma se escludiamo questa parte
raffigurativa (sogno, immaginazione, memoria, ecc.) e prendiamo in considerazione solo
la funzione specifica dell'uomo, cioè la capacità di fare ragionamenti
(Aristotele: uomo= animale razionale), secondo i filosofi del '900 questa
capacità si realizza attraverso il linguaggio. Il pensiero usa quindi forma e
strutture linguistiche. E' quindi necessario studiare il linguaggio, non il
pensiero, che risulta essere forma sfuggente del linguaggio. Se riusciamo a
stabilire un linguaggio rigoroso, senza ambiguità, questo sarà la regola
del pensiero, le sue modalità rispecchieranno quelle del pensiero, poiché
quest'ultimo ragiona in forma linguistica. Dato che solo studiando il
linguaggio si ha accesso al pensiero, ci troviamo di fronte ad una sorta di
ribaltamento rispetto a quello che era lo studio dell'intelletto per esempio
in Locke. Il problema che si presenta successivamente è il fatto che è sì
utile uno studio approfondito del linguaggio per eliminarne le ambiguità,
ma questo deve essere esclusivamente il punto di partenza per poi comprendere
la realtà, non si può pensare che lo studio filosofico si esaurisca qui.
Ludwig
Wittgenstein nasce nel 1889 a Vienna da una delle più ricche famiglie
ebraiche d'Europa, poi convertitasi al cristianesimo. Fa studi di ingegneria
a Berlino per due anni, finché non si trasferisce a Manchester per studiare
ingegneria aeronautica, di cui è appassionato. Svolgendo questo tipo di
studi si appassiona alla matematica; a quei tempi il maggior studioso è
docente a Cambridge: Bertrand Russell, famoso per la sua pubblicazione Principia
mathematica, in cui vuol sostenere che il confine tra matematica e
logica non è preciso e definito. Questo pensiero deriva dal pensiero
precedente di Frege, sostenitore del Logicismo, una delle tre concezioni
riguardo ai fondamenti della matematica.
1) Logicismo: tesi secondo cui la matematica è solo uno sviluppo
della logica. Infatti, come in matematica esiste tutto ciò che non è
contraddittorio, anche in logica vale lo stesso. Inoltre una proposizione
può essere o vera o falsa, senza una terza possibilità (logica
aristotelica bivalente).
2) Intuizionismo: in matematica esistono dimostrazioni per assurdo.
Gli intuizionisti le vogliono eliminare perché le considerano poco
intuitive. Vogliono un metodo "costruttivista", cioè in cui il
procedimento si svolga passo dopo passo.
3) Formalismo di Hilbert: tesi secondo cui posso prendere assiomi a
piacere (basta che non siano contraddittori) e la matematica è solo la
trasformazione dei contenuti presenti implicitamente negli assiomi iniziali
secondo determinate regole.
Quando
Wittgenstein si reca a Cambridge si sta svolgendo proprio questa disputa sul
significato della matematica, e Russell risulta essere il maggiore degli
esponenti del logicismo. Il logicismo però va incontro a paradossi: il più
semplice è quello "del mentitore" ( io sto mentendo), oppure il
paradosso "del barbiere" (su un'isola è vietato portare la barba.
Quindi se definiamo il barbiere come colui che rade tutti quelli che non si
radono da soli, lui rade tutti ma nel momento in cui si rade da solo non
sarebbe più il barbiere).
Russell è famoso per la sua "Teoria dei tipi". Frege aveva
scritto un'opera in cui vuol dimostrare la mancanza di confine tra logica e
matematica, e Russell studiandola scopre una contraddizione simile a quella
del barbiere, cioè un paradosso. A questo punto si trova quindi in
condizione di voler salvare il logicismo, ma evitando contraddizioni. Per
questo inventa la teoria dei tipi logici. Essa distingue tre ordini di
concetti o simboli:
1) Quelli che indicano un individuo, ovvero il nome proprio
2) Quelli che indicano le proprietà in quanto classe di individui (tutti i
numeri dispari, tutti quelli che son corvi ecc.)
3) Quelli che indicano le proprietà di proprietà
Quindi afferma che è lecito applicare le proprietà di un livello
esclusivamente a oggetti che siano di tipo inferiore. Una proprietà come la
mortalità (tipo 2) potrà essere predicata solo di individui come Socrate
(tipo 1) e mai di tipo 2 (come per esempio la mortalità stessa) o di tipo
3.
Nell'ambito della filosofia del linguaggio Russell propone di risolvere il
problema del riferimento a entità non esistenti, come nella frase
"l'attuale re di Francia è calvo". È vero o falso? Se fosse
falso, allora il re di Francia avrebbe i capelli, ma manca il re di Francia
attualmente (e viceversa)! Quindi è necessario scomporre la frase:
"esiste un individuo che è il re di Francia e questo individuo è
calvo". A questo punto so dire con certezza che una parte di frase è
falsa e quindi l'intera proposizione risulta essere falsa: è necessario
arrivare ad un linguaggio che non presenti ambiguità.
Tornando
a Wittgenstein: il suo soggiorno a Cambridge durante il quale stringe un
rapporto di amicizia con Russell si prolunga fino all'inizio della prima
guerra mondiale. A questo punto si reca in Austria arruolandosi e viene
mandato in Polonia, facendo sorveglianza su una nave lungo la Vistola.
Proprio in questo periodo iniziano lunghe riflessioni filosofiche. Verrà
poi ferito in battaglia e per questo messo in congedo a Vienna, dove sembra
inizi a scrivere la sua opera più importante: il Tractatus logico
philosophicus, pubblicato per la prima volta nel 1921, prima in Austria
(edizione però disconosciuta da Wittgenstein stesso perché piena di
errori) e poi in Gran Bretagna, dove grazie ad una introduzione del già
famoso Russell, riscuote subito successo.
Intanto, mandato a combattere sul fronte italiano, nel 1918 è fatto
prigioniero l'ultimo giorno di guerra. Trascorre i mesi di prigionia a
Montecassino. Finalmente liberato abbandona la filosofia e inizia a fare il
maestro di scuola, e per qualche tempo anche il giardiniere in un monastero.
Nel 1926 inizia a uscire dall'isolamento e progetta con una sorella una
villa a Vienna. Si dice che nel 1928, sentita una conferenza di matematica
intuizionista, gli torni la voglia di studiare e torni subito a Cambridge,
dove si laureerà portando come tesi il suo Tractatus.
Notiamo anche una svolta nel suo pensiero: inizia a scrivere le Ricerche
filosofiche, pubblicate postume (morirà nel '51). Si può parlare infatti
di un primo Wittgenstein, riferendosi al Tractatus, e un secondo
Wittgenstein, considerando le Ricerche. Infatti mentre il primo Wittgenstein
considera esclusivamente la capacità descrittiva del linguaggio, quindi
quella di descrivere e comprendere la realtà, il secondo Wittgenstein vuole
analizzare anche gli altri usi, ad esempio quello prescrittivo, o estetico,
o che si utilizza per giocare.
Il TRACTATUS
È molto breve, composto da sette frasi principali. Le prime due si
riferiscono ad un livello ontologico (parla di cose e di fatti), altre due
al pensiero, quindi un livello gnoseologico (parla di immagini mentali,
rappresentazioni), mentre le ultime due al linguaggio, quindi parliamo di un
livello linguistico, cioè come fatti e pensieri possano essere espressi da
un linguaggio rigoroso, privo di ambiguità, grazie alla convinzione secondo
la quale capendo il funzionamento del linguaggio il momento del pensiero
diventa superfluo in quanto segue le regole del linguaggio stesso.
NB: quando Wittgenstein definirà la filosofia dirà che questa non ha
contenuti propri, ma ha compito di eliminare le ambiguità del linguaggio:
molti problemi ed enigmi della filosofia occidentale son dovuti proprio
all'ambiguità del linguaggio. La filosofia svolge quindi una attività di
chiarificazione del linguaggio.
Analizziamo il Tractatus partendo dalle sette frasi. Le prime due son di
carattere ontologico:
1) Il mondo è tutto ciò che accade. ->1.1 il mondo è la totalità dei
fatti, non delle cose.
2) Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose.- > 2.1
noi ci facciamo immagini dei fatti- > 2.2 L'immagine ha in comune con il
raffigurato la forma logica della raffigurazione.
Sappiamo che il concetto più elementare di verità è per Aristotele basata
sulla corrispondenza, cioè una proposizione è vera quando corrisponde ai
fatti. Il linguaggio deve avere una struttura simile a quella della realtà
per poter mettere a confronto le proposizioni con il loro riferimento, e
quindi capire cosa significano. Nel linguaggio abbiamo proposizioni semplici
e complesse. Come nella chimica più atomi formano una molecola, cosi due o
più frasi semplici ne formano una complessa. Anche la realtà è formata
quindi da fatti semplici (o atomici) e complessi ( o molecolari). Per
esempio, nella scacchiera, se io dico che la torre è in e1 è un fatto
atomico. Ma se dico che la torre è in h1 e l'alfiere in f1 ho anche tutte
le conseguenze del caso, cioè che la torre potrà mangiare l'alfiere,
quindi non sto più considerando una semplice informazione riguardo la
posizione.
Nelle frasi noi abbiamo oggetti. Il mondo veniva pensato come insieme di
enti materiali, di tutte le cose, e non come insieme di fatti. In effetti si
potrebbe dire: "questo gesso è bianco": potremmo considerarla una
frase atomica, perché non può essere scomposta ulteriormente, ma in
realtà c'è un oggetto, il gesso, e la sua qualità, il bianco, che di per
se' non risultano essere ne' veri ne' falsi. L'unità minima del linguaggio
di cui si possa dire vero o falso non è la parola, ma la frase che unisce
soggetto e predicato. Quindi le parole non possono essere la base del
linguaggio, ma lo sono le frasi atomiche, che nella realtà corrispondono a
fatti atomici. Ma quindi gli oggetti cosa sono? Wittgenstein dice che gli
oggetti son semplici, indivisibili: pensando agli scacchi, non possiamo
usare mezzo cavallo o mezza torre, o far stare due pezzi in una stessa
casella. Il cavallo però può fare cose e assumere determinate posizioni.
Dal punto di vista logico capisco che deve esserci un oggetto semplice, e
non spetta alla filosofia stabilire cosa è semplice, semmai alla fisica, ma
possiamo dire che sia l'oggetto dal punto di vista logico, cioè ciò su cui
formare frasi atomiche legandole al predicato e su cui basare il linguaggio.
Abbiamo
tre livelli della logica:
1) Proposizionale: l'unità minima è la proposizione semplice, atomica, che
è considerata indivisibile (anche se in realtà scomponibile in soggetto e
predicato). Per esempio: A = oggi piove, B = oggi tira vento. A e B = oggi
piove e tira vento
Wittgenstein utilizza questa logica volendo costruire un isomorfismo (parallelismo) tra linguaggio e realtà.
2)
Predicativa di 1° ordine: si quantificano gli individui. per es. tutti i
corvi son neri.
3) Predicativa del 2° ordine: si quantificano i predicati
(In entrambi si entra nello specifico, nella struttura
della frase semplice).
NB: eredità di Frege: le frasi per descrivere la realtà devono
sempre significare qualcosa, ma quando una frase ha significato? Ad esempio:
"Cielo gli azzurra non". Non ha senso, perché è mal costruita.
"La nota do è azzurra". Non ha senso, anche se è ben costruita.
Infatti non si può dire che è falsa, se no sarebbe vero il suo contrario,
quindi potrebbe essere viola gialla rossa ecc. in questo caso abbiamo
mischiato sfere sensoriali, vista e udito.
Per Wittgenstein la frase ha significato quando, se essa fosse vera, ci
direbbe come stanno i fatti. Il vero e il falso sono sottocasi del
significato della frase.
Ora
consideriamo le frasi 3 e 4, che fanno riferimento al livello gnoseologico,
del pensiero.
3) L'immagine logica dei fatti è il pensiero - > 3.3 solo la
proposizione ha senso, solo nella connessione della proposizione un nome ha
significato.
4) Il pensiero è la proposizione munita di senso. - > 4.1 la
proposizione rappresenta il sussistere e il non sussistere degli stati di
cose.
Noi possiamo farci varie immagini della realtà. Ad esempio, avvenuto un
incidente stradale, possiamo fare un plastico per capire come sia avvenuto
lo scontro tra automobili, cercando di raffigurare la realtà il meglio
possibile. Esistono vari tipi di immagini della realtà (un esempio può
essere la fotografia), ma tutte sono parziali e inadeguate: in una foto non
sento suoni, in un film non percepisco odori. Ogni raffigurazione è quindi
incompleta. Tra tutte le raffigurazioni il pensiero, che funziona secondo
struttura linguistica, è la più completa. In linea di principio il
linguaggio permette tutto, dovrei solo avere la pazienza di descrivere
minuziosamente ogni cosa che mi circonda. È la forma di raffigurazione per
eccellenza, non c'è altro modo di ragionare se non attraverso regole del
linguaggio.
Le proposizioni 3 e 4 hanno come oggetto il pensiero, dando per scontato che
il pensiero sia una proposizione munita di senso. Abbiamo visto che ci deve
essere isomorfismo tra linguaggio e realtà: come esistono proposizioni
semplici e complesse, cosi esistono fatti semplici o complessi. Invece gli
oggetti rimangono immutabili, così i nomi che hanno lo stesso significato
in ogni proposizione. Se voglio esprimere cos'è un oggetto devo prendere
tutte le frasi che hanno significato in cui viene usata la parola, se voglio
definire cos'è un libro non basta mostrarlo, perché risulterebbe impreciso
(ostensione del linguaggio).
La
quinta frase fa riferimento al livello linguistico:
5) La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari.
- > 5.3 tutte le proposizioni sono risultati di operazioni di verità con
le proposizioni elementari. L'operazione di verità è il modo nel quale
dalle proposizioni elementari nasce la funzione di verità. - > 5.6 i
limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.
Definiamo funzione di verità quella funzione che ci permette di determinare
univocamente la verità di una preposizione complessa in funzione della
verità o meno delle proposizioni semplici che la compongono.
Consideriamo proposizioni P, Q con i relativi funtori logici che le
connettono: (e) , (o), (implica), (non).
|
Nel
1913 un logico americano ha dimostrato che tutti i simboli logici potevano
essere ridotti (anche se con complicazione delle tavole di verità) alla
"funzione TRATTO", cioe "né..né.." , per esempio non
voglio ne' la torta ne' la minestra..
Quindi: ¬P = P/P
P^Q=(P/P)/(Q/Q)
PVQ=(P/Q)/(P/Q)
sono equivalenti perché le condizioni di
verità risultano essere le stesse.
Questa
funzione tratto è necessaria per capire la frase 6 del Tractatus:
6) La forma generale della proposizione è data da p soprassegnato
(insieme delle proposizioni atomiche), da un qualsivoglia sottoinsieme
proprio di p soprassegnato, a cui si applica la funzione tratto.
Posso ottenere qualsiasi proposizione: applico la funzione tratto a tutte
le proposizioni atomiche del sottoinsieme, anche reiteratamente, fino ad
ottenere qualsiasi proposizione molecolare voluta. Tutte le proposizioni
che esistono sono o semplici in p soprassegnato, oppure complesse che ne
derivano utilizzando la funzione tratto.
NB!
Nelle tavole di verità fin qui esaminate non ne abbiamo mai trovate che
diano vero o falso in tutte le righe. Cosa succede se le troviamo? Le
tavole che danno sempre vero vengono chiamate tautologie: esprimono
proposizioni la cui verità non dipende da nulla, è indipendente dal
valore di verità delle singole proposizioni atomiche, ad esempio
"piove o non piove".
Si chiamano invece contraddizioni quelle frasi la cui tavola
risulta essere sempre falsa, come "piove e non piove".
Abbiamo quindi tre possibilità di fronte a proposizioni complesse:
1) Tautologia (sempre vera)
2) Contraddizione (sempre falsa)
3) Tutti gli altri casi in cui il valore di verità dipende da come sono i
fatti (dato che il mondo è tutto ciò che accade.)
Le tautologie e le contraddizioni non hanno senso, perché sono
indipendenti dalla realtà, nonostante siano ben fatte, ma non ci dicono
nulla sul mondo, mentre sappiamo che una proposizione ha senso quando ci
dice come stanno le cose se essa è vera, quindi è strettamente legata
alla realtà.
La
settima e ultima proposizione del Tractatus dice
7) Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.
Questo è un concetto che gia è stato introdotto nella frase 5.6 (i
limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo). Infatti per
Wittgenstein il linguaggio è il modo in cui si esprime il pensiero, e il
pensiero è raffigurazione del mondo. Un pensiero rigoroso è il limite
del mio mondo, tutto ciò che posso pensare rigorosamente. Tutto ciò che
possiamo conoscere è o nell'insieme di proposizioni atomiche o nel
sottoinsieme a cui applicare la funzione tratto. Ciò che è fuori da
queste regole sfugge alla nostra conoscenza e costituisce ciò che
Wittgenstein chiama MISTICO, INEFFABILE, ciò che non può essere espresso
in linguaggio rigoroso.
MOSTRARE
E DIRE
Ogni proposizione dice qualcosa. Se scrivo "Roma è la capitale
d'Italia" dico che la città che convenzionalmente chiamiamo Roma è
la capitale d'Italia, ma non solo essa dice questo, mostra tanto altro, ad
esempio che Roma si scrive con quattro lettere, che c'è un soggetto e un
predicato.
Se distinguiamo sempre il dire dal mostrare, possiamo eliminare i
paradossi, che sono ciò che mette in difficoltà la concezione
corrispondentista di verità (antichissima, già in Aristotele, è vero
ciò che corrisponde alla realtà).
Se il linguaggio non avesse la caratteristica di essere isomorfo alla
realtà non sarebbe nemmeno linguaggio. Come per Kant il trascendentale
rendeva possibile la conoscenza, in Wittgenstein il linguaggio è la
struttura del pensiero, quindi le condizioni poste dal linguaggio sono il
trascendentale del pensiero.
Wittgenstein aveva scritto appunti oltre il Tractatus, nei Quaderni,
tra il '14 e il '16, dove parla dell'etica (argomento riguardo il quale è
molto influenzato da Kant). Dice che un'azione può essere buona o
cattiva, anche nel caso si stia parlando di una azione identica, ma tutto
sta nell'intenzione con cui la si compie. L'etica non è esprimibile in un
linguaggio rigoroso.
Questo ha ovviamente conseguenze pesanti anche sulla filosofia: hanno
senso le preposizioni filosofiche? A cosa è ridotta la filosofia? Ad una
semplice analisi del linguaggio, senza un oggetto proprio. L'attività
filosofica consiste nell'eliminare le ambiguità del linguaggio, tanto da
mostrare che nelle proposizioni metafisiche non c'è significato:
controproducente, ma corretto. L'insignificanza delle proposizioni
metafisiche investe anche il Tractatus, che quindi non ha
significato. Allora che utilità ha avuto? Pensiamo di salire su un
fienile con una scala per non scenderne mai più: potrò buttare via la
scala, ma non posso dire che mi sia stata inutile, perché mi ha comunque
permesso di arrivare fin lì. Il Tractatus ha il compito di farci
riflettere su come è il mondo, definisce ciò che si può dire e di
conseguenza ciò che non si può dire, cioè per esempio l'etica,
l'estetica, la teologia, la filosofia stessa. Queste vengono poste
nell'insieme del mistico, dell'ineffabile di cui si parlava prima.
Vi sono analogie e differenze con Kant: per Kant la metafisica non si può
esprimere con giudizi sintetici a priori, quindi le verità metafisiche
non sono dimostrabili. Ma Kant non aveva mai sospettato che potessero
essere prive di significato, per lui semplicemente non potevamo sapere se fossero vere o
false. Per Kant, cosi come per Wittgenstein, l'uomo ha ontologicamente un
desiderio, una tensione verso la metafisica, che è destinato a rimanere
frustrato. Ma per Wittgenstein c'è un elemento in più, dato che per lui
le proposizioni filosofiche non hanno nemmeno significato, perché
sfuggono a un linguaggio rigoroso.
È importante precisare però la posizione di Wittgenstein riguardo questo
argomento, che si potrebbe definire "schizofrenica": infatti
arriva a dimostrare l'impossibilità della metafisica, ma ne riconosce
l'importanza, a differenza dei Neopositivisti, che ispirati proprio dal
suo Tractatus, avranno come obiettivo l'eliminazione totale della
metafisica.
IL
NEOPOSITIVISMO
Nel 1922 uno studioso tedesco, Moritz Schlick, viene chiamato a insegnare
filosofia della scienza all'università di Vienna. Schlick, a partire dal
1924, organizza riunioni periodiche, ogni giovedì, tra studiosi di varia
formazione (filosofi, fisici, matematici, psicologi, sociologi, ecc.) per
studiare e capire il Tractatus di Wittgenstein. Questo gruppo di
studiosi viene chiamato Circolo di Vienna (ci sarà anche un circolo di
Berlino), e va dal 1924 al 1936, quando Schlick viene assassinato sulle
scale dell'università da uno studente nazista, in quanto il circolo era
considerato una cerchia di oppositori politici di sinistra. Oltretutto il
circolo si scioglie con la fuga di molti componenti ebrei in varie parti
del mondo, come America, Inghilterra e Australia.
Quali sono le caratteristiche del Neopositivismo?
Innanzi tutto è da precisare che può essere chiamato anche positivismo
logico, neoempirismo o empirismo logico. Infatti vige la convinzione che
tutta la conoscenza venga dai sensi.
L'uso sistematico della logica formale: per togliere l'ambiguità del
linguaggio si trasforma ogni proposizione in formula sul modello dei Principia
di Russell.
Matematizzazione delle scienze: tutte le scienze devono esprimere le
proprie leggi tramite formule matematiche. Alcune già lo fanno, come la fisica, ma la cosa vuole essere
estesa anche a scienze come la sociologia.
Legame con Wittgenstein: partono dalle tesi del Tractatus, ma se ne
discostano per quanto riguarda la concezione della metafisica, che loro
vogliono eliminare in quanto priva di significato: assumono quindi un
atteggiamento antimetafisico, diversamente da Wittgenstein che ne
riconosce l'importanza e la necessità e tendenza innata dell'uomo verso
essa.
Sulla base di ciò i neopositivisti enunciano il principio di
verificazione. Si può enunciare in due modi diversi, equivalenti dal
punto di vista logico.
1) Il significato di una preposizione è il metodo della sua verifica.
L'insieme delle esperienze che sono in grado di verificarne la verità o
la falsità, se non posso percepirle empiricamente, non posso controllarne
il vero o il falso. Se una proposizione non può essere verificata
empiricamente, non ha significato. Per esempio: Dio esiste, oppure Dio non
esiste. Quali esperimenti posso fare per verificarlo? Nessuno, quindi non
ha significato.
2) Un enunciato è significativo se e solo se è verificabile.
I neopositivisti vogliono estendere la scienza a tutti i rami del sapere,
e quindi tenere solo le frasi e le teorie dotate di significato. Ma c'è un limite: su cosa si
fonda questo principio? Potrebbe essere un assioma: bisogna pur partire da
una base per costruire una conoscenza, non si può dimostrare tutto. Però
in geometria utilizziamo gli assiomi solo perché sono evidenti, questo
invece non lo è, se no perché nessuno ci ha mai pensato prima?
Potremmo provare ad applicare il principio a se stesso: ha significato il
principio di verificazione? Sappiamo che afferma una corrispondenza
biunivoca tra frasi verificabili (che non significa effettivamente
verificato, ma che può esserlo in linea di principio) e frasi dotate di
significato, ma esse sono infinite! Infatti posso dire "ho comprato
un libro" ma potrei riformulare la frase con numeri all'infinito (ho
comprato 10 libri, 11… 12…ecc.) e sarebbero tutte frasi false, ma
continuerebbero ad avere significato. Quindi se le frasi dotate di
significato sono infinite, come posso sapere se son tutte verificabili, e
viceversa? Un insieme infinito non è verificabile completamente
(diversamente da uno finito, come gli alunni di una classe). Quindi il
principio di verificazione non è verificabile nemmeno in linea di
principio: è un paradosso, il criterio di significato è enunciato come
proposizione priva di significato.
Alcuni difendono il principio sostenendo che sia una scelta convenzionale,
un punto di partenza per costruire un sapere e un linguaggio rigoroso. Ma
in questo modo perde comunque la sua natura incontrovertibile, dato che
non è dimostrato come un teorema davanti a cui il ragionamento mi
evidenzi la validità indubitabile della dimostrazione.
Ma c'è un ulteriore problema: il criterio è talmente forte che va a
creare problemi anche alle stesse leggi scientifiche. Prendiamo per
esempio la formula F = ma. Non è un assioma, non è un giudizio
analitico, ci si è arrivati tramite esperimenti, ma il valore è poi
universale (per Kant è un giudizio sintetico a priori). Quindi, dato che
parliamo di universalità, parliamo di forze infinite, masse qualsiasi
ecc. si torna quindi al problema dell'induzione: accettiamo come se
fossero vere le frasi ottenute con induzione, ma dato che l'insieme è
infinito non sono effettivamente verificabili. Quindi ci troviamo di
fronte ad un altro paradosso, cioè che nemmeno le leggi scientifiche
siano verificabili e quindi dotate di significato. Lo scopo del neopositivismo era di eliminare la
metafisica, e estendere il metodo scientifico a tutti i campi della
conoscenza umana, quindi le leggi scientifiche dovrebbero avere un
significato! Come risolvono questo? Abbiamo tre soluzioni:
Schlick sostiene questa in particolare: se prendo la legge
scientifica in forma esplicita, questa ha valore universale, ma posso
considerarla non come preposizione in senso stretto, ma come una sorta di
ricetta che mi permette di costruire proposizioni che abbiano significato.
Per esempio "tutti i corvi sono neri" può essere tradotta con
"il prossimo corvo che esaminerò sarà nero". Il problema è
che questa soluzione ci impedisce di dire se una formula sia vera o falsa,
perche vero o falso possono essere attribuite solo a frasi non universali
dotate di significato.
Reichenbach (circolo di Berlino): potremmo dire che vero e falso
sono soluzioni senza alternative, rispettando la regola del terzo escluso.
Questo valore assoluto di vero e falso vale per enunciati singoli, che non
includono un quantificatore universale, ma nel caso delle leggi universali
(e quindi scientifiche) potrei sostenere che siano vere quando la
probabilità tende a 1 e false quando tende a 0. Infatti la probabilità
è il rapporto tra casi favorevoli e casi totali (se lancio un dado ho 1/6
di possibilità che mi esca il numero 3 ad esempio). Quindi se la frazione
si avvicina a 1 vuol dire che la probabilità è quasi totale (6/6).
Quindi potrei sostenere che le leggi scientifiche siano vere perché hanno
un alto grado di probabilità. Le critiche: la probabilità la devo
calcolare
su tutti i casi possibili, ma se ad esempio dico che tutti i corvi sono
neri, è vero che ora come ora sulla terra ne abbiamo un insieme finito,
ma dicendo tutti intendo anche quelli del passato e del futuro, quindi
ottengo N/x, con N che sono i casi osservabili e x che tende a infinito:
il limite di N/x con x che tende a infinito risulta essere zero, quindi si
torna al punto di partenza. Oltretutto secondo Russell abbiamo un difetto
logico: se definisco la probabilità come rapporto tra casi favorevoli e
casi totali, la prima proposizione che posso fare sarà "ho osservato
il primo corvo ed è nero", "ho osservato il secondo ed è
nero" e così via. Sono tutte proposizioni vere, quindi siamo davanti
a un circolo vizioso: si fa dipendere il concetto di verità dalla
probabilità, ma la probabilità dipende a sua volta dalla verità.
Teoria della coerenza (Neurath): le teorie scientifiche, espresse
in linguaggio formalizzato, risultano essere tutte legate fra loro: se
inserisco un'affermazione falsa, crolla tutto. Se è cosi possiamo dire
che le proposizioni singole si verificano con osservazioni, ma quelle che
non sono verificabili perchè hanno quantificatori universali le diciamo
vere nella misura in cui non sono in contraddizione con nessuna
affermazione già verificata. Schlick obietta che l'unico criterio possa
essere la coerenza: io posso inventare una fiaba coerente ma questo non fa
sì che diventi vera.
Consideriamo il concetto di verità:
Aristotelica, o del senso comune. La proposizione è vera se
corrisponde alla realtà.
Coerenza, una legge scientifica è vera se coerente con le altre
proposizioni verificate.
Pragmatica: l'uomo è misura di tutte le cose (Protagora) ma la
persona potrebbe essere sempre ubriaca per esempio, e come posso sapere
quindi se ciò che mi dice è vero o no? Porterebbe a un totale
relativismo, che non consentirebbe di sopravvivere nella società, quindi
gli uomini convengono di chiamare vero tutto ciò che è utile. Per
esempio, supponiamo che qualcuno abbia un difetto visivo e veda il rosso
per il nero e viceversa. Non è importante la soggettività individuale,
noi usiamo la parola nero ai fini della comunicazione e risulta efficace
se quando gli chiedo un oggetto nero, me lo passa effettivamente, anche se
lo vede rosso e lo chiama nero. Il criterio di verità non appartiene al
dominio della conoscenza, ma ha fonte anche nell'utilità e nella
convenzione (criterio extralogico, pragmatico).
Schlick sostiene la prima, e non la coerenza, in quanto la considera
condizione necessaria ma non sufficiente di verità. (Un romanzo storico
può essere coerente, ma non per questo è vero.)
Nonostante
i neopositivisti vogliano l'eliminazione della metafisica, ci si rende
conto che lo stesso discorso non può essere fatto con l'etica, che non è
eliminabile in quanto l'uomo deve poter scegliere in base a criteri, e
utilizzare frasi non descrittive ma prescrittive, che però non posso
affermare siano vere o false (per esempio "chiudi la porta",
"non rubare"). Su cosa devo basare l'etica accettando il
principio di verificazione? La soluzione prevalente è quella dell'emotivismo,
cioè la concezione secondo cui le norme morali si fondano non sulla
ragione, ma su uno stato emotivo che l'uomo prova per natura (l'empatia di
Hume) e che determina apprezzamento per le azioni buone e riprovazione,
repulsione per quelle cattive. Come mai esiste la violenza e l'ingiustizia
se l'uomo ha questo sentimento innato in sé? Perché la società,
l'educazione e i traumi possono deformare questo sentimento.
Riguardo la politica si potrebbe fare un discorso simile a quello che
riguarda l'etica: potrebbe esistere infatti per esempio nel codice penale
una legge che riguarda un crimine che nessuno commetterà mai, e quindi
non ha a che fare con questioni di fatto. Ma nel caso delle leggi la
situazione è più semplice, dato che già nell' '800 emerge
l'utilitarismo, per cui le leggi vengono valutate in base alle conseguenze
che producono, quindi se uccido avrò l'ergastolo, e non una semplice
multa, ai fini di scoraggiare il più possibile la commissione del reato.
Non c'è solo questo aspetto, ma anche l'utilità sociale, in quanto buone
leggi aumentano il benessere sociale.
Il circolo di Vienna si scioglie dopo l'uccisione di Schlick e i membri si
disperdono, soprattutto negli Stati Uniti: si parla di seconda fase del
neopositivismo.
SECONDO
WITTGENSTEIN
Torniamo a Wittgenstein: dopo la pubblicazione del Tractatus, volendo
essere coerente, aveva abbandonato gli studi filosofici, facendo il
maestro elementare, dedicandosi al giardinaggio e infine trasferendosi a
Vienna dove progetta una casa per la sorella, che però verrà poco
abitata anche a causa della crisi del '29. Durante il suo soggiorno a
Vienna viene in contatto con il circolo di Vienna, senza però partecipare
alle riunioni, nonostante sia spesso invitato, con gran delusione dei
neopositivisti. Sentendo poi una conferenza di matematica nel '28 si dice
che la passione per gli studi si sia riaccesa e sia corso a Cambridge,
dove la fama lo aveva preceduto, grazie al successo del Tractatus, con cui
si laurea per poi diventare assistente di filosofia.
Il "secondo Wittgenstein" scrive in tedesco le Ricerche
filosofiche, opera che non è di facile lettura, in quanto non contiene
tesi in maniera esplicita, ma domande e critiche al fine di affrontare
problemi linguistici: lo scopo della filosofia non è infatti dar
risposte, ma far riflettere.
Che differenze ritroviamo tra il primo e il secondo Wittgenstein?
La prima è senza dubbio che nel Tractatus analizza esclusivamente un
linguaggio di tipo descrittivo. Abbiamo visto che per determinare se la
frase ha significato bisogna ricorrere ai criteri di vero e falso, quindi
ci si riferisce ad un linguaggio descrittivo. Ora però abbiamo una prima
svolta: Wittgenstein ritiene unilaterale e sbagliato questo modo di
studiare il linguaggio, il considerare il descrittivo l'essenza del
linguaggio: la descrizione della realtà è solo una tra le tante funzioni
possibili del linguaggio. Questa pluralità di usi del linguaggio sono
chiamati da Wittgenstein giochi linguistici. Ciò implica che se
accettiamo che il descrittivo sia solo uno di tanti usi, la teoria del
significato basata su vero o falso del Tractatus va superata, ora questo
ci è dato dall'uso.
Così può sembrare che quindi Wittgenstein abbia cambiato completamente
il discorso, dato che nel primo Wittgenstein il significato è argomento
centrale. Ma ciò che non risulta cambiato è il ruolo della filosofia,
che rimane una analisi del linguaggio, con il compito di eliminare
ambiguità ed errori.
Non c'è un linguaggio ideale: il descrittivo è sì il più studiato da
sempre nella filosofia occidentale, ma possiamo aprire orizzonti e
scoprire altri tipi di linguaggio, non meno importanti. Ogni gioco
linguistico ha le sue regole, che possono essere rigorose (come in
matematica) o più approssimative.
NB: mentre nella tradizione filosofica si dava per scontato che un
concetto fosse chiaramente compreso dalla sua definizione, e quindi ci sia
la possibilità di usare indifferentemente uomo e animale razionale, che
risultano perfettamente sostituibili in un enunciato, secondo Wittgenstein
esistono concetti che non sono definibili, con confini molto labili, come
appunto "gioco" : ambiguità che ovviamente non ci è permessa
in un contesto come quello matematico. Possiamo invece permetterci
l'utilizzo di "famiglie di significati", perché il contesto e
l'uso eliminano l'ambiguità. La famiglia di significati si può applicare
anche al gioco linguistico, perché è un concetto che appartiene a una
famiglia di significati che presentano somiglianza tra loro.
A cosa servono le regole nel linguaggio? Ancora una volta risulta efficace
considerare il gioco degli scacchi: se io conosco le regole posso giocare,
ma non sono loro a dirmi come fare per vincere. Al massimo mi dicono cosa
non è possibile fare. Allo stesso modo nel linguaggio le regole ci dicono
come combinare le parole in modo tale che abbiano senso, e ogni gioco
linguistico ha le sue regole: nella fisica ad esempio non userò il verbo
dovere, che invece userò in proposizioni relative all'educazione per
esempio "non devi dire bugie". Come in Kant c'è un elemento a
priori della conoscenza intellettiva, cioè le categorie, così per quanto
riguarda il linguaggio, che nei contenuti è a posteriori, l'elemento a
priori è la grammatica
Il linguaggio serve per comunicare,quindi non può esistere un linguaggio
privato (idioletto).
In risposta al secondo Wittgenstein nasce la "filosofia
analitica", cioè il tentativo di costruire un linguaggio rigoroso
anche in campo etico, estetico, teologico e metafisico, considerato
impossibile dal primo Wittgenstein.
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