David Hume nasce da una famiglia della piccola nobiltà nel 1711 a
Edimburgo, in Scozia, una regione all’epoca molto arretrata rispetto all’Inghilterra,
nonostante l’unione amministrativa delle due corone portata a compimento
nel 1707. Il dispotismo ecclesiastico della Chiesa presbiteriana,
maggioritaria in Scozia, che esercitava un rigido controllo sulla vita
morale dei fedeli, impedisce a Hume di ottenere la cattedra universitaria
dopo la laurea in legge, a causa delle sue posizioni scettiche verso le
superstizioni religiose. Tra il 1739 e il 1740, in Francia, mosso dall’insoddisfazione
per l’orientamento filosofico del suo tempo e da un’avversione critica
per la metafisica tradizionale, scrive il Trattato sulla natura umana (A
treatise of human nature), che si colloca al vertice dell’impostazione
empiristica del problema della conoscenza. L’ambizioso obiettivo del
Trattato è quello di elevare la filosofia al livello di certezza della
scienza, individuando basi certe e incontrovertibili per lo studio della
natura umana, che Hume reputa, per le funzioni che compie, il fondamentale
criterio di unificazione della conoscenza umana, tramite l’applicazione
alla filosofia morale del metodo sperimentale di Newton. Il Trattato si
rivela inizialmente un grave insuccesso editoriale a causa dell’estensione
della cultura ad un pubblico più ampio ma meno abituato a complesse
trattazioni sistematiche del calibro dell’opera di Hume, che viene quindi
rielaborata in Saggi sulla conoscenza umana e Saggi sulla morale. Costretto
a rinunciare alla professione di docente universitario, nel 1752 Hume
ottiene il posto di direttore della biblioteca nazionale dell’ordine degli
avvocati e si dedica alla composizione di una Storia d’Inghilterra. Nel
1757 pubblica la Storia della religione naturale, mentre i Dialoghi sulla
religione naturale vengono pubblicati postumi, nel 1779, per timore di
incorrere nella censura della Chiesa presbiteriana. Il pensiero di Hume è
la sintesi di tre categorie filosofiche:
Lo scetticismo moderato, che lo induce a ritenere adeguate e accettabili
soltanto le idee che trovano un riscontro empirico nelle impressioni;
L’illuminismo, che si traduce nella critica agli oggetti della metafisica
e della religione naturale;
L’antropologia, che individua nell’uomo in quanto tale il proprio
oggetto d’indagine.
Hume definisce percezione ogni contenuto mentale, distinguendo le percezioni
in impressioni e idee: le impressioni sono percezioni del sensibile in
atto,
esperienze presenti e puntuali, chiare, distinte e vivaci, uniche portatrici
di verità e criterio di tutto ciò che pretende di essere vero, mentre le
idee sono una riflessione su una passione o un oggetto che non è presente
e, come tali, sono più deboli e confuse e, “per quanto vivaci, sono
sempre inferiori alla più ottusa delle sensazioni”. Le impressioni sono a
loro volta distinte in impressioni esterne, o di sensazione, e impressioni
interne, o di riflessione, che riguardano passioni ed emozioni, che pur
derivando da una sensazione esterna hanno la stessa vivacità. Riprendendo
la tesi dell’immaterialismo di Berkeley, Hume sostiene che il criterio di
una conoscenza adeguata sia il confronto tra le idee e le impressioni che le
hanno generate, e non tra le impressioni e la realtà che nel senso comune
esse rispecchiano e che tuttavia l’uomo non può che conoscere attraverso
le impressioni stesse. Le impressioni costituiscono il punto di partenza
imprescindibile, oltre cui un empirista non può ambire a spingersi, e di
cui non si può conoscere la causa. Hume riprende da Berkeley l’idea che
essere significhi essere percepito e che non si possa razionalmente
dimostrare l’esistenza della materia indipendentemente dalla nostra
percezione, ritenendo nonostante questo che sia ragionevole credere che la
materia esista e non arrivare alle soluzioni estreme di Berkeley, secondo
cui è Dio a generare in noi le impressioni.
Le impressioni riappaiono alla nostra mente sotto forma di idee grazie all’azione
della memoria, che ne conserva la forma originale e la primitiva vivacità,
e dell’immaginazione, che attribuisce alle idee una forma e un ordine
diversi e opera attraverso il principio psicologico di associazione. Il
processo di associazione delle idee è messo in moto da una mild o gentle
force, che genera una successione spontanea, non arbitraria e non
inalterabile di idee e permette alla mente di spezzare il legame e
ricomporlo creativamente. Il meccanismo di associazione opera secondo tre
criteri:
Somiglianza: un’impressione o un’idea ne richiamano un’altra simile.
La somiglianza può essere intesa come rapporto naturale che mette in
relazione un ristretto numero di individui in virtù di una proprietà
particolare (il rapporto che intercorre, ad esempio, tra Napoleone e un suo
ritratto), o come relazione filosofica, che accomuna molti individui in base
ad una proprietà generale (il rapporto tra Napoleone e una pianta in base
alla comune natura vegetativa);
Contiguità nel tempo e nello spazio;
Causalità: un effetto richiama alla mente la sua causa, o viceversa.
In quanto empirista, Hume si propone di risalire alle impressioni che stanno
all’origine del principio di causalità: empiricamente si possono
riscontrare la successione tra causa ed effetto, la loro contiguità
spaziale e il rapporto di congiunzione costante, ma non la necessità, che
nel senso comune è ritenuta costitutiva del rapporto tra causa ed effetto.
Hume rifiuta la soluzione razionalista, secondo cui la necessità sarebbe un
elemento a priori della conoscenza, un’idea innata, confutandola sulla
base della distinzione che introduce tra due tipi di conoscenza:
La conoscenza delle relazioni tra idee (relations of ideas), fondata
su proposizioni certe ricavate per intuizione o dimostrazione con una pura
operazione di pensiero, come nella conoscenza matematica, su cui lo
scetticismo non influisce;
La conoscenza delle questioni di fatto (matters of fact), che, come
nella scienza naturale e nella metafisica, è ritenuta vera solo se dimostra
empiricamente l’origine delle idee.
Secondo Hume, è assurdo dimostrare una questione di fatto come quella della
necessità con argomenti a priori e di conseguenza è l’esperienza a
costituire il fondamento dei ragionamenti che riguardano i rapporti tra
causa ed effetto. La necessità è dunque frutto di una credenza (belief),
un processo psicologico generato dall’abitudine (custom o habit)
e fondato sulla supposizione che “i casi di cui non abbiamo avuto
esperienza assomiglino a quelli di cui l’abbiamo avuta”. La conformità
del futuro rispetto al passato è una questione di fatto che non ammette
altre prove se non quelle ricavate dall’esperienza, ma l’esperienza del
passato non può provare nulla per il futuro, non può garantire l’uniformità
della natura. La dimostrazione sintetica (a posteriori) della causalità si
fonda su un procedimento induttivo, che giunge ad affermare la validità di
una legge universale sulla base della ripetizione costante e concordante di
una serie di casi particolari; ma l’induzione, che prevede che un rapporto
di causalità riscontrato in passato si ripeta necessariamente anche in
futuro, ha come premessa fondamentale la regolarità e uniformità della
natura, che può essere a sua volta dimostrata soltanto attraverso l’esperienza
empirica, e quindi per via induttiva.
Questa critica sistematica alla metafisica tradizionale infligge un duro
colpo alla fisica newtoniana, che presuppone la necessità come elemento
costitutivo del rapporto di causalità, e sancisce il primato sulla
conoscenza ricavata dalla ragione dell’istinto e dell’abitudine, vero
fondamento della sintesi sperimentale. Mettendo in discussione la validità
del rapporto causa-effetto, Hume rimuove anche il presupposto inconsapevole
che regola costantemente i comportamenti dell’uomo, che in ogni momento
agisce come se la causalità fosse una legge naturale e incontrastabile. A
differenza di Cartesio, che riteneva la scienza molto più certa della vita
comune, in Hume il sapere scientifico eredita la stessa accettazione
acritica di idee del senso comune, e solo la filosofia è in grado di
sottoporre queste idee inadeguate a una critica razionale. Così, mentre lo
scetticismo cartesiano ha un carattere metodico ed è finalizzato all’acquisizione
di una certezza incontrovertibile destinata ad annullarlo, Hume si riconosce
in uno scetticismo moderato, che non porta la critica ad estremi distruttivi
ma al tempo stesso non può essere neutralizzato.
Nel meccanismo antropologico della credenza, irrinunciabile per l’uomo che
cerca nella natura stabilità e prevedibilità, sono coinvolti, oltre al
principio di causalità, anche l’esistenza del mondo esterno e dell’io
personale.
L’esistenza del mondo esterno, ovvero l’esistenza degli oggetti
continuata e distinta dalla nostra percezione, non può essere dimostrata
dai sensi, che non possono presentarci le impressioni come indipendenti da
noi e ci forniscono percezioni intermittenti e transitorie, ma dall’immaginazione:
l’opinione dell’esistenza continuata dei corpi dipende dalla coerenza e
costanza delle impressioni e si basa sull’abitudine e sulla necessità di
attribuire al mondo esterno una regolarità maggiore di quella che vi
possiamo osservare. A partire dalla convinzione che in natura ogni cosa sia
individuale, Hume assume, come Berkeley, una posizione nominalista: ogni
impressione è completamente determinata in qualità e quantità, le
immagini sono sempre particolari, ma vengono utilizzate come universali nei
ragionamenti per via dell’abitudine di attribuire uno stesso nome a più
individui per somiglianza.
L’indimostrabilità dell’identità dell’io personale si fonda sull’applicazione
alla res cogitans cartesiana della definizione di sostanza di Locke. La
mente può quindi essere definita come collezione di contenuti mentali o
come substratum, un’anima sostanziale che permane invariata al
mutare dei contenuti mentali e a cui tutti i contenuti mentali ineriscono.
La mente come substratum è ritenuta da Hume un’idea inadeguata,
che non trova alcun riscontro empirico e non può essere oggetto di
pensiero, dal momento che l’uomo è in grado di pensare alla propria mente
solo nell’atto di compiere una certa attività e non in quanto tale, priva
di contenuti mentali. L’io si riduce allora, secondo la definizione di
Hume, ad un “fascio di percezioni che si susseguono con un’inconcepibile
rapidità, in un perpetuo flusso e movimento”, senza una propria unità
naturale. Hume individua la ragione che ci spinge ad “attribuire un’identità
a queste percezioni successive e un’esistenza invariabile e ininterrotta a
noi stessi” in un errore del pensiero e dell’immaginazione: quando
attribuiamo agli oggetti un’identità continua e distinta dalla nostra
percezione, si genera la finzione di qualcosa di invariabile e ininterrotto,
un’identità fittizia che tendiamo ad attribuire a tutte le cose complesse
e mutevoli della natura. Sostenendo l’indimostrabilità dell’identità
personale, Hume riprende il problema della desostanzializzazione impostato
da Locke, che distingue tre specie di sostanze: Dio, la cui definizione
implica una perfetta identità con se stesso, le intelligenze finite, la cui
identità è determinata solo in relazione al tempo e al luogo, e i corpi.
Locke ammette dunque la possibilità dell’esistenza di più di una
sostanza in una persona e di più di una persona in una sostanza.
La morale
La morale, intesa come studio delle azioni umane, è per Hume impossibile da
comprendere senza un’analisi dei sentimenti e delle passioni, che non
sono, in senso cartesiano, “percezioni rese confuse dalla stretta unione
tra anima e corpo”, ma agiscono secondo un meccanismo regolare. Le
passioni, distinte dalle emozioni per la loro vivacità, sono impressioni di
riflessione interne, originarie, in quanto non copiate da percezioni
precedenti, e al tempo stesso derivate mediatamente da una sensazione che
genera l’idea, che a sua volta, operando sull’anima produce nuove
impressioni di desiderio o avversione, speranza o timore. Le passioni
possono essere:
Passioni dirette, che derivano immediatamente da bene e male sensibili, sono
universali e hanno un oggetto determinato. Le passioni dirette sono:
gioia e tristezza, che derivano dalla certezza del bene o del male, timore e
speranza, che sono generate dall’incertezza del bene e del male, desiderio
e avversione, che hanno origine dal bene in quanto bene e dal male in quanto
male, e volontà, che consiste nell’atto fisico o mentale di perseguire il
bene o evitare il male;
Passioni indirette, derivate da bene e male sensibili con l’aggiunta di
altri principi: orgoglio (compiacimento di se stessi) e umiltà (disgusto di
se stessi), amore (compiacimento per un’altra persona) e odio (disgusto
per un’altra persona). Orgoglio e umiltà sono passioni statiche, complete
in se stesse, e non suscitano desiderio o avversione; amore e odio, invece,
sono passioni dinamiche, generano desiderio o avversione per la felicità e
possono diventare moventi di azioni. Il completamento dell’impulso all’azione
generato dalle passioni dinamiche corrisponde alla volontà.
Un terzo genere di passioni comprende appetiti e bisogni fondamentali che ci
portano a cercare il possesso dell’oggetto che è loro congiunto per
raggiungere il piacere e nascono da un “impulso naturale o istinto
assolutamente inesplicabile”. Queste passioni sono la vendetta, l’amicizia,
la fame, la concupiscenza e altri desideri fisici.
Secondo Hume la ragione, “una vaga e tranquilla passione che guarda le
cose da un punto di vista generale e remoto e che mette in moto la volontà
senza eccitare alcuna sensibile emozione”, ha un ruolo puramente
strumentale: non può stabilire il fine di un atto volontario né esserne il
solo movente, dirige le azioni con un ragionamento ma non le genera, non
produce azioni e volizioni e non può conferire né togliere la preferenza
ad un’emozione. La ragione è schiava delle passioni, che non può
combattere senza la direzione della volontà, dal momento che “nulla può
opporsi ad un impulso passionale se non un impulso contrario”.
Tra la fine del II e l’inizio del III libro del Trattato, è esposta la
cosiddetta legge di Hume (is-ought question o great division),
che ambisce a provare l’indimostrabilità delle norme morali: un
ragionamento non è valido, e quindi non è dimostrata la conclusione, se da
premesse sul piano dell’essere (piano descrittivo, in cui le proposizioni
descrivono la realtà empirica e sono vere nella misura in cui la
rispecchiano) giunge a una conclusione sul piano del dover essere (piano
prescrittivo, in cui le proposizioni esprimono un dovere e non possono
essere vere o false). In virtù del criterio aristotelico di validità dei
ragionamenti, i ragionamenti impiegati per giustificare le norme morali di
carattere prescrittivo sono fallaci, dal momento che la conclusione non è
implicitamente inclusa nelle premesse descrittive. Il fondamento della
morale non è quindi la ragione, che non può stabilire il fine ultimo ma
solo concorrere alla scelta dei giusti mezzi per perseguirlo, ma il
sentimento morale (moral sense), che già Anthony Ashley Cooper,
conte di Shaftesbury (1671-1713), aveva definito come la facoltà specifica
per riconoscere, mediante una semplice percezione, il giusto, discernendolo
da ciò che è moralmente negativo. Lord Shaftesbury aveva introdotto una
distinzione tra passioni utili all’individuo e dannose per la comunità,
utili all’individuo e alla comunità e dannose per l’individuo e per la
comunità; a questa suddivisione Hume si ispira per individuare quattro
generi di qualità morali: quelle che procurano piacere immediato a chi le
possiede, quelle che procurano piacere immediato ad altri, quelle che
procurano piacere mediato e utilità a chi le possiede e quelle che
procurano piacere mediato e utilità ad altri. Questi quattro generi di
qualità morali possono essere ricondotti a due categorie più generali, le
qualità che procurano interesse personale e quelle utili alla società. L’obiettivo
della morale era, secondo Shaftesbury, indirizzare i comportamenti umani a
passioni utili all’individuo e alla società, e così per Hume la morale
è utile solo se i doveri costituiscono anche un vero interesse per l’individuo:
la virtù non deve essere ricoperta da un “abito di lutto”, dev’essere
priva di “inutili austerità e rigori”, “sofferenze e umiliazioni” e
non deve comportare il sacrificio del piacere se non con la speranza di un
compenso maggiore in un altro periodo della vita.
Riprendendo la Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, Hume ritiene che
il criterio di valutazione morale si basi sulla simpatia, la “tendenza
naturale a simpatizzare con gli altri e ricevere per comunicazione le loro
inclinazioni e sentimenti per quando diversi o contrari rispetto ai nostri”,
la causa dell’uniformità nel carattere e modo di pensare degli uomini di
una stessa nazione. Quando una passione si insinua per simpatia, prima se ne
manifestano gli effetti e i segni esteriori, che risvegliano l’idea, che a
sua volta si trasforma in impressione e produce tanta emozione quanto una
passione originale. La simpatia rende gli spiriti degli uomini simili nei
sentimenti, così che nessuno può avvertire un’impressione che gli altri
non possono; come la vibrazione si propaga da una corda ad un’altra
ugualmente tesa, così le impressioni si trasmettono facilmente da una
persona ad un’altra con cui ha in comune il sentire universale. Tramite il
sentimento disinteressato di simpatia, secondo Hume, assimiliamo come nostro
un sentimento altrui, come se provenisse originariamente dal nostro
carattere e dalla nostra disposizione naturale, rendendoci capaci di
addentrarci nel bene e nella fortuna di persone estranee, nelle loro cause
ed effetti, per provarne gioia ed esprimerne una valutazione morale. La
simpatia ha la funzione di ricordare all’uomo l’esigenza di principi
generali di valutazione delle azioni e influenza il giudizio, permettendo di
correggere i contrasti che derivano dalla libera manifestazione di interessi
egoistici attraverso l’universalizzazione dell’agire umano.
Il sentimento di simpatia è connaturato all’essere umano ma può essere
appannato dalle condizioni di vita e dall’educazione: nella visione
ottimista tipica dell’illuminismo, eliminando ignoranza, povertà e
disumanità, la simpatia potrebbe svilupparsi fino a far coincidere l’interesse
personale con il benessere collettivo della società. L’esempio più
significativo dell’influenza dell’ambiente sociale sulla formazione del
senso morale soggettivo è la giustizia, che sarebbe un valore superfluo in
una realtà caratterizzata dall’abbondanza e dalla possibilità di
soddisfare le esigenze di ciascuno, ma riveste un ruolo di indispensabile
importanza per tutelare un vivere sociale privo di questa condizione di
abbondanza, che ha bisogno di regole e criteri di distribuzione. Anche gli
altri valori morali universalmente riconosciuti sono funzionali alla vita
comune e la loro mancanza arrecherebbe danno alla vita sociale. Per questo
motivo, Hume esalta l’obbedienza come virtù più importante dal punto di
vista politico: nulla danneggerebbe la società più della mancanza di un
governo che necessita, per esercitare la propria funzione, dell’obbedienza.
L’oggetto della valutazione morale non sono per Hume le azioni, “segni
esterni o indici della presenza di certi principi nello spirito”, ma i
moventi che le hanno generate, in cui si deve scoprire la qualità positiva
o negativa, di bontà o malizia. Dal momento che non possono esistere tanti
istinti originari quanti sono i sentimenti morali che proviamo, i principi
generali su cui si fondano tutti i sentimenti morali non possono che essere
naturali e l’esperienza testimonia che sono profondamente radicati nella
natura umana e che non esistono individui o nazioni del tutto privi di senso
morale. Nonostante i principi dei sentimenti morali siano naturali, le
virtù possono essere naturali, se caratterizzate da stabilità e
continuità, o artificiali, se legate a particolari momenti storici. Il
metro di valutazione dei comportamenti morali è la loro ricaduta sulla
dimensione sociale: è da considerarsi moralmente positivo quanto va a
vantaggio della società e moralmente negativo quanto la danneggia.
Il pensiero politico
Hume esprime il proprio pensiero politico in uno scritto del 1748, Del
contratto originario, in cui cerca un punto di conciliazione tra la
filosofia del diritto, che sostiene l’origine divina dei governi, e il
contrattualismo di Locke. Secondo Hume, entrambe le posizioni sono
legittime, ma nessuna delle due possiede un carattere universale: è vero
che, come tutto ciò che esiste al mondo, i governi hanno origine divina, ma
ciò non ne implica la bontà; è vero che gli uomini accettano di
sottostare alle leggi per garantirsi una pacifica convivenza, ma questa non
è una condizione universale di tutti i governi, molti dei quali sono nati
da rivoluzioni o sottomissioni di popoli.
Hume focalizza la propria analisi politica sui doveri, distinguendo tra i
doveri naturali dai quali nessun uomo può prescindere, come l’amore per i
figli, e i doveri che devono essere rispettati per necessità sociale, come
l’obbedienza. L’obbedienza civile e il rispetto dei governi sono
tuttavia condizionati dalla loro legittimità, stabilita in base ai seguenti
principi:
Il lungo possesso del potere, anche se ottenuto con un atto di usurpazione
è fonte di legittimità;
Il potere presente è considerato comunque valido in mancanza del lungo
possesso;
E’ legittimo il potere conquistato;
E’ legittimo il potere monarchico ereditario;
Sono legittime le leggi positive, stabilite da un potere legittimo.
Il pensiero religioso
Hume tratta il tema della religione in due scritti, la Storia della
religione naturale, in cui analizza le origini della religione dalle
operazioni complesse della natura umana, e i Dialoghi sulla religione
naturale, che hanno lo scopo di individuare i fondamenti razionali della
religione. Nel tentativo di mascherare le proprie posizioni scettiche, Hume
sostiene che la critica al fondamento razionale della religione sia
finalizzata ad aprire la strada all’affermazione della fede e della
rivelazione.
Nella Storia della religione naturale, Hume individua l’origine della
religione nel terrore, nella necessità di cercare protezione e placare i
timori per il futuro rivolgendosi a Dio, una causa ignota a cui l’uomo
tende a trasferire passioni tipicamente umane. La religione non può,
secondo Hume, fondarsi sui miracoli, che sono trasgressioni alle leggi della
natura e alla sua uniformità e potrebbero essere considerati attendibili
solo nel caso in cui la falsità della testimonianza fosse un prodigio
superiore al fatto stesso. Nella vita quotidiana, ragioniamo sulla base
delle testimonianze e raggiungiamo la certezza quando riscontriamo
conformità tra testimonianza e fatti, ma la violazione delle leggi della
natura non può mai raggiungere un grado di certezza tale da costituire il
fondamento del sentimento religioso: il miracolo è possibile a priori ma
non raggiunge mai la certezza di una prova.
I Dialoghi sulla religione naturale presentano maggiori difficoltà di
interpretazione a causa delle correzioni apportate da Hume, non si sa se per
un effettivo cambiamento di posizione o per non incorrere nella censura
della Chiesa presbiteriana. I personaggi che intervengono nei Dialoghi sono
tre: Demea, credente convinto, Cleante, che rappresenta la posizione deista
basata sull’accettazione dei soli aspetti della religione dimostrabili con
la ragione, e Filone, che incarna lo scetticismo moderato. Si è a lungo
dibattuto se il pensiero di Hume debba essere individuato nella posizione di
Filone o in quella di Cleante. Cleante si occupa di confutare le prove della
metafisica tradizionale a sostegno dell’esistenza di Dio:
L’argomento a priori, basato sul principio che tutto ciò che accade ha
una causa e sull’identificazione della causa prima incausata con Dio, è
confutato sostenendo che non si possano dimostrare questioni di fatto con
argomenti a priori. “Non c’è un essere la cui esistenza sia
dimostrabile” perché niente è dimostrabile a meno che il contrario non
implichi una contraddizione.
Hume confuta l’argomento finalistico a posteriori, sostenendo la mancanza
di prove empiriche che consentano di individuare il principio da cui deriva
l’ordine del cosmo: sappiamo che c’è un principio di ordine nello
spirito e per analogia siamo portati a credere che ci sia anche nella
materia, ma i ragionamenti sperimentali per analogia non possono portare a
conclusioni certe.
Gli argomenti morali, che intendono attribuire a Dio le virtù di giustizia,
benevolenza, misericordia e rettitudine, sembrano essere confutati dalla
miseria e malvagità dell’uomo: se Dio avesse la volontà di impedire il
male ma non il potere, non sarebbe onnipotente, se invece ne avesse il
potere ma non la volontà, sarebbe malvagio.
A conclusione dei Dialoghi, Hume afferma che “i principi di Filone sono
più probabili di quelli di Demea, ma quelli di Cleante si avvicinano di
più alla verità.”
risorse
internet su Hume
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