Giulia Lirli, Paolo Botticini, Vanessa Foti
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Aristotele
appunti tratti dalle lezioni di filosofia
del
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VITA E OPERE
Nasce nel 384. Il padre di Aristotele era un medico che aveva frequentato la
corte di Macedonia (l'interesse naturalistico di Aristotele deriva appunto dalla
professione del padre). Platone muore quando Aristotele aveva 37 anni. Era
entrato nell'accademia platonica a 17 anni. Era nato a Stagira, ma si era
trasferito ad Atene. Molti si aspettavano che diventasse scolarca (capo della
scuola filosofica) alla morte di Platone. Ma alcuni discepoli si erano
coalizzati perché non lo diventasse (oppure secondo alcuni non era molto
d'accordo con le tesi del maestro), quindi alla morte di Platone, Aristotele si
allontana dall'Accademia. Dopo cinque anni viene chiamato dal re di Macedonia:
vive a Pella e insegna al futuro Alessandro Magno per sette anni (l'educazione
comprendeva 5 ore al giorno di educazione fisica/combattimento, il resto del
tempo era dedicato alla filosofia). Poi torna ad Atene e fonda il Liceo
(Aristotele aveva affittato una casetta in un quartiere di Atene che era vicino
al tempio di Apollo Licio, cioè della Licia, regione nella quale il dio
principale era considerato Apollo e non Zeus; da qui il nome liceo, utilizzato
ancora oggi per indicare una tipologia di scuola secondaria). Un anno prima di
morire è costretto a scappare da Atene perché Alessandro Magno, odiato dagli
Ateniesi per aver occupato la Grecia, era da tempo diventato re (Aristotele era
considerato un servo di Alessandro Magno). Muore nel 322.
Carattere di Aristotele:
1. Era rigorosamente eterosessuale, al contrario della maggior parte degli
intellettuali greci di allora. Infatti si era sposato e aveva due figli (il
maschio si chiamava Nicomaco, la figlia Pizia come la moglie), alla morte della
moglie aveva sposato una serva.
2. Di tutte le opere pubblicate non ci è rimasto più nulla, se non qualche
frammento. Ciò che noi conosciamo di Aristotele lo dobbiamo ad alcuni suoi
quaderni di appunti usati per le sue lezioni (Aristotele era molto pignolo e
rigoroso). Questi rotoli scritti, che ad un certo punto erano andati perduti,
sono stati ritrovati due secoli dopo la sua morte durante la distruzione di una
casa, nella cantina. Nel primo secolo a.C. Andronico di Rodi ha pubblicato una
raccolta completa delle sue opere, che non erano destinate alla pubblicazione e
quindi non erano molto curate stilisticamente (al contrario di quelle di
Platone). Anche per Aristotele vi è un sistema di notazione simile a quello
delle opere di Platone
(nome dell'opera, libro, capitolo, pagina divisa in parte A e in parte B,
righe).
ENCICLOPEDIA (classificazione)
DELLE SCIENZE SECONDO ARISTOTELE
"Metafisica" è il
nome usato comunemente, introdotto da Andronico di Rodi; in realtà Aristotele,
usava "filosofia prima" o "ontologia" (scienza dell'ente,
dell'essere).
Le scienze teoretiche non hanno scopo pratico, rispondono al senso di
meraviglia, di curiosità dell'animo umano. Hanno per oggetto rispettivamente
· MATEMATICA: numeri e figure geometriche;
· FISICA: gli enti che divengono, le realtà mutevoli (scienza della natura e
anche dell'uomo, biologia, psicologia nel De anima, sociologia…);
· METAFISICA: la realtà in quanto tale, è la scienza dell'essere in quanto
essere.
Di matematica non ha scritto nulla.
Di fisica ha scritto:
· Fisica (10 libri): è l'opera più importante e tratta dei principi generali
della natura ("physis" in greco vuol dire "natura");
· Sul cielo: in quest'opera espone l'ipotesi geocentrica o tolemaica;
· Sull'anima: in quest'opera elabora la sua dottrina della conoscenza.
Le teorie di Aristotele sui vegetali e sugli animali (botanica e zoologia) sono
completamente superate oggi. Ma la fisica aristotelica è importante perché è
rimasta valida per moltissimo tempo (2000 anni). La fisica moderna (quella di
Newton, Galileo e Cartesio) ha fatto fatica ad affermarsi a causa delle teorie
"poco scientifiche" che i discepoli di Aristotele hanno derivato
dall'ipotesi comunque scientifica del loro maestro.
La Metafisica (14 libri) è forse lo scritto più importante di Aristotele:
alcune delle idee espresse in quest'opera sono ancora in discussione.
Le scienze pratiche sono quelle che orientano l'agire, ci danno dei criteri per
agire bene. Infatti l'uomo, essendo dotato di ragione, continuamente prima di
agire fa delle scelte. "Etica" deriva dal greco "èthos" e
significa costume, modo di comportarsi.
L'etica ha per oggetto il bene dell'uomo considerato come persona. Di etica ha
scritto:
· Etica nicomachea (al figlio Nicomaco);
· Etica eudemia (al discepolo Eudemo).
L'economia ha per oggetto il bene della casa (della famiglia o del capo
famiglia, che possedeva tutti i beni). L'economia era il modo di amministrarli.
Di economia non ha scritto nulla.
La politica è la scienza della città, dello Stato: ha per oggetto il bene
dello Stato.
Il termine scienze poietiche viene dal greco "poíesis", che vuol dire
"produzione di oggetti". Di Aristotele sono noti gli esempi del
calzolaio (che produce calzature su misura) e del costruttore di navi: per
fabbricare sandali e navi ci vogliono delle conoscenze. Ecco perché le scienze
poietiche includono tutte le tecniche, quelle conoscenze che permettono di
produrre oggetti utili. Non possiamo definire le scienze poietiche come
conoscenze pratiche, perché queste orientano l'azione ma non producono un
oggetto, qualcosa di materiale. Come le belle arti, queste producono un oggetto
esterno all'uomo. Diremo quindi che le scienze poietiche sono quelle che
producono oggetti esterni, fuori dall'uomo.
Sulle tecniche non ha scritto nulla.
Sulle arti ha scritto la Poetica, utile storicamente, ma meno rilevante dal
punto di vista filosofico.
La logica non è collocata fra le scienze perché è l'arte del ben ragionare,
dei buoni ragionamenti, e dunque si usa in tutte le scienze. Infatti Andronico
di Rodi ha collocato tutti gli scritti di logica sotto il nome di Organon, che
significa "strumento" in greco. Qui analizza anche il sillogismo, un
metodo di ragionamento.
L'ONTOLOGIA (o FILOSOFIA PRIMA o METAFISICA)
Aristotele ha scritto un libro che ha per oggetto la filosofia e che Andronico
di Rodi ha chiamato Metafisica, (quasi per caso) perché si trattava di 14 libri
dopo la Fisica. Oggi è definita comunemente Metafisica.
Nel primo dei 14 libri c'è una sorta di racconto storico a partire da Talete,
nel quale indaga che cos'è la filosofia, che cos'è l'essere…
Subito dopo vi sono le prime definizioni. La filosofia viene definita come:
1. Scienza dell'ESSERE in quanto essere;
2. Scienza della SOSTANZA;
3. Scienza dei PRINCIPI PRIMI;
4. Scienza di DIO (TEOLOGIA).
1.
Mentre le altre scienze esaminano aspetti particolari di quello che esiste,
invece la metafisica considera l'essere in quanto essere, dal punto di vista che
esiste, che è un ente (ovvero qualunque cosa che esiste ed è determinata; è
quello che chiamiamo "qualcosa" in italiano). La metafisica studia gli
enti, la realtà nei suoi caratteri più generali. È proprio questa la
definizione che rende meglio il significato di "ontologia".
2.
Per spiegare questa seconda definizione è necessario introdurre due termini
importantissimi per Aristotele: SOSTANZA e ACCIDENTE. La sostanza è ciò che
esiste, sussiste di per sé. L'accidente è ciò che inerisce ad altro, che ha
bisogno di altro per essere. Per esempio, considerando un gesso, potremmo dire
che esso è la sostanza, perché esiste da solo, viene prima logicamente, mentre
l'essere "bianco" è un accidente perché è una qualità, una
proprietà, una sua caratteristica. Di una persona potremmo dire che è alta
oppure bassa… Mentre di una cosa l'accidente potrebbe essere il colore,
l'odore oppure il sapore. È evidente che gli accidenti hanno bisogno della
sostanza per essere. Infatti, tornando all'esempio precedente, non possiamo
vedere il "bianco" in sé senza una cosa bianca (il gesso, che è
appunto la sostanza). La realtà è fatta quindi di sostanze e di accidenti.
Aristotele utilizza tuttavia un'altra definizione di "sostanza": egli
la definisce come "un sinolo tra materia e forma". La materia è ciò
di cui una cosa è fatta. Per forma non si intende "forma geometrica",
ma "forma" nel senso aristotelico: la forma è "ciò che fa
essere una cosa quella che è", cioè la sua struttura, la sua funzione.
Nell'esempio del gesso, la forma è "serve a scrivere". In generale
possiamo dire che la forma per gli oggetti artificiali, cioè fatti dall'uomo,
è la loro funzione. Per gli enti naturali e gli esseri viventi la forma è
l'anima, ovvero quello che li rende vivi (anima non è da intendersi qui nel
senso religioso). Gli esseri che vivono si dicono infatti "animati",
in altre parole hanno vita, le loro parti sono connesse in un determinato modo
tra di loro. Riassumendo, la forma è la funzione, la struttura,
l'organizzazione delle parti che rendono una cosa quella che è. Considerando un
gatto, per esempio, potremmo dire che la materia sono le zampe, i polmoni, il
pelo…, mentre la forma è il fatto che sia vivo.
Le definizioni 1 e 2 sono intercambiabili tra di loro. Ma qualcuno potrebbe
obiettare che, mentre l'essere è tutto ciò che esiste, la sostanza è solo una
parte di ciò che esiste. Possiamo rispondere che in effetti studiando la
sostanza si studia tutta la realtà, perché gli accidenti non possono esistere
senza la sostanza.
3.
Le scienze teoretiche, a cui la metafisica appartiene, procedono con metodo
dimostrativo (il "sapere dianoetico" per Platone). Infatti le scienze
teoretiche vengono dette anche scienze del necessario, perché i rapporti sono
di logica conseguenza.
Ogni scienza ha i suoi postulati, che valgono per quella scienza lì. Per
esempio il quinto postulato di Euclide ("data una retta r ed un punto P
esterno ad essa, esiste una sola retta s parallela ad r e contenente P")
vale in geometria. Ma ci sono anche degli assiomi, che hanno un carattere
generale. Postulati e assiomi sono considerati veri perché evidenti (quindi non
vengono dimostrati). Gli assiomi generali (i primi principi) devono essere
studiati dalla metafisica, perché essa utilizza il punto di vista più
generale. La metafisica si occupa per esempio di studiare il principio di non
contraddizione, il principio di identità, il principio del terzo escluso…
4.
La fisica studia tutto ciò che diviene, che si muove, che cambia. Se la
metafisica studia tutta la realtà e la realtà diviene, allora filosofia e
fisica si equivalgono. Questo è falso, perché non possiamo sapere a priori se
tutto diviene, ma pur ammettendo questo, quello che non diviene non può essere
studiato dalla fisica.
La metafisica studia ciò che non diviene. ATTO PURO o DIO, che non diviene per
Aristotele, è immobile. Dobbiamo introdurre la distinzione tra ATTO e POTENZA.
Per esempio, un pulcino può diventare una gallina, perché ciò è possibile,
c'è questa possibilità. Diremo quindi che un pulcino è una gallina in potenza
e che una gallina è una gallina in atto. È evidente che il passaggio
potenza-atto è relativo al punto di vista. Per esempio, un adulto in atto, a
sua volta è un anziano in potenza. Noi possiamo capire che si può pensare a
qualcosa che non abbia più nulla in potenza, ma tutto in atto. Questo è l'atto
puro. Nel dodicesimo libro (o libro lambda) abbiamo la dimostrazione
dell'esistenza dell'atto puro, che è una realtà che non diviene, altrimenti
avrebbe qualcosa in potenza. Alla metafisica spetterà il compito di studiarlo.
Nella Metafisica abbiamo due
argomenti chiave:
· il quarto libro (o libro gamma), dove viene discusso ed enunciato il
principio di non contraddizione, (PNC) alla base di tutto il sapere;
· la dimostrazione dell'esistenza dell'atto puro.
Nella riformulazione del PNC Aristotele non ha nessun merito, è tutto merito
del "parricidio" (Parmenide era il padre spirituale di Platone e
Aristotele) commesso nel Sofista da Platone. Aristotele accetta sostanzialmente
le riformulazioni del PNC avvenute nell'Accademia platonica e distillate nel
Sofista. È importante la discussione sul perché bisogna accettarlo. Si può
dimostrare? La dimostrazione presuppone un presupposto, se il PNC è il primo
assioma chiaramente non si può dimostrare. Se non si può dimostrare, perché
dobbiamo accettarlo? Non è un principio evidente perché molti prima di Platone
non l'avevano formulato così. Ma anche se lo fosse, perché bisognerebbe
accettarlo? Aristotele dice che pur non potendosi dimostrare, non si può non
accettarlo. Aristotele non può dimostrarlo, ma non può fare a meno di
utilizzarlo. Se uno volesse rifiutarsi di usarlo "dovrebbe rimanere in
silenzio come un tronco", dice Aristotele. Nel momento in cui un essere
pensante dice qualcosa sta già usando il PNC. Aristotele vuole far vedere che
il PNC è indispensabile per pensare e per parlare.
DISCUSSIONE DEL PNC
Il principio di non contraddizione è il seguente: è impossibile che il
medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo
oggetto e nella medesima relazione.
La discussione del PNC è trattata nel quarto libro della Metafisica. Essendo un
principio non può essere dimostrato; chi volesse dimostrarlo non saprebbe cosa
chiede: il primo punto di partenza non può essere dimostrato, altrimenti
avremmo prima un principio ancora più generale. Non si tratta di un teorema,
bensì di un assioma. Varie obiezioni sarebbero escluse se fosse un teorema. Un
interlocutore potrebbe dire: "Il PNC è falso". Così facendo, ci
faciliterebbe le cose. Infatti, già accettando che è falso (quindi non vero)
avrebbe già accettato il PNC. Da questa strada non può dunque provenire
nessuna critica pericolosa. Ma l'accusatore potrebbe non pronunciarsi su questa
tesi (cioè potrebbe non dire se secondo lui il PNC è vero o falso). Potrebbe
non usarlo. Noi potremmo fargli vedere che lui o rimane in silenzio come un
tronco oppure nel momento in cui dice qualcosa di significativo sta già usando
il PNC (se un certo ente è x non può essere non-x, se uso ad esempio la parola
matita, non posso anche intendere che significhi non-matita e cioè biro o gatto
o qualsiasi altra cosa). Il linguaggio che permette la comunicazione presuppone
il PNC e l'uomo comunica necessariamente. Il PNC non lo si può dimostrare
direttamente, si può far vedere che non si può fare a meno di utilizzarlo.
Abbiamo convenuto che è alla base di tutta la conoscenza umana, di ogni sapere
che si vuole costruire, che è il primo assioma. Spetterà quindi alla
metafisica il compito di indagarlo.
DIMOSTRAZIONE DELL'ESISTENZA
DELL'ATTO PURO
Come accennato in precedenza, la dimostrazione dell'esistenza dell'atto puro si
può considerare il secondo punto chiave della Metafisica. Abbiamo già parlato
dell'atto puro: esso è ciò che è completamente in atto, che non ha nulla in
potenza. Ma il fatto che il concetto sia chiaro, non significa che esso esista.
Ad esempio, tutti sappiamo bene cosa sia un ippogrifo (cavallo alato), ma
sappiamo altrettanto bene che esso non esiste. Quindi per essere sicuri
dell'esistenza dell'atto puro, abbiamo bisogno di dimostrarla.
Per questa dimostrazione ci serviremo di due importanti capisaldi:
· il PNC;
· la proposizione "qualcosa diviene", ovvero almeno un ente (il
minimo indispensabile) si muove, è in mutamento. In questo modo potremmo
convincere anche un ipotetico seguace di Parmenide e Zenone: anche se il
movimento è apparente, egli avrà almeno l'idea che qualcosa è cambiato, avrà
cioè accettato il divenire come cambiamento di idea nel pensiero,
nell'opinione, nella sfera della conoscenza sensibile.
Chiamiamo con "x" un movimento qualsiasi (quello di un pallone per
esempio), esso è stato provocato da y (per esempio la gamba di Pirlo). Infatti
tutti gli eventi fisici sono in relazione causale tra di loro, infatti ci si
può sempre domandare il "perché" di qualunque evento (in fisica
questa relazione è espressa bene dalla legge di Newton: F = ma, dove F
rappresenta la causa e a l'effetto). A sua volta y può essere provocato da z e
così via… Ora, questa serie può essere concepita come finita o infinita.
Aristotele concepiva le serie infinite (è scorretto dire che non le riteneva
possibili come sostengono alcuni libri di testo). Anche un bambino, possedendo
solo il concetto di 0, 1 e di somma, può dar luogo a una serie infinita (quella
dei numeri naturali). Può infatti scrivere:
Per capire come questa
serie di
cause non possa essere infinita, prendiamo il seguente esempio: supponiamo che
una persona abbia bisogno di 1 € per prendersi un caffè. Non disponendo di
denaro, domanda ad un amico che glielo presta. A sua volta l'amico si vede
costretto a chiederlo a un altro amico perché non ce l'ha, e così via. Dal
punto di vista teorico, se le persone, gli € e il tempo fossero in linea di
principio infiniti, questa successione sarebbe chiaramente infinita. Invece, se
nessuno ha l'€, questa catena non potrebbe andare avanti all'infinito, se non
c'è una prima causa, non ci sarebbe movimento alla fine. Consideriamo un
secondo esempio: se una persona ha bisogno di un € per bere un caffè e,
essendone privo, lo domanda a un amico. Questi non l'ha e deve chiederlo ad un
amico. Questi a sua volta è costretto a domandare a un altro, che si comporta
allo stesso modo. Se qualcuno all'inizio non tira fuori un euro, alla fine
nessuno beve il caffè.
Quindi, di per sé una serie di cause potrebbe essere finita o infinita. Quella
infinita non è contraddittoria, ma se voglio capire come si ha il movimento
devo considerare una serie finita. Dunque, noi abbiamo una causa prima.
Ora domandiamoci: "Questa
causa prima è causata o incausata?". Se fosse causata non sarebbe la causa
prima. Concludiamo che la prima causa è necessariamente incausata. Ecco quindi
le proprietà che possiamo derivare:
· è INCAUSATA
· è ETERNA
Se avesse iniziato a esistere ci sarebbe una causa che l'ha fatta esistere.
· è ATTO PURO
Perché la causa prima incausata coincide con l'atto puro? Il movimento è un
passaggio dalla potenza all'atto. Il passaggio è un divenire che richiede una
causa. Se la causa prima presupponesse una causa per passare in atto, non
sarebbe la causa prima.
· è IMMATERIALE
Per un ragionamento analogo, la materia è ciò che può assumere delle forme,
la materia si dice infatti recettiva (nel Timeo di Platone poteva assumere ogni
forma). Per assumere una qualunque forma, (cioè caratteristica) che non aveva o
per perderne una che aveva ci vorrebbe sempre una causa. Per esempio il fuoco è
la causa che fa riscaldare l'acqua e il gelo è quella che la fa raffreddare. La
causa prima non è materiale, perché altrimenti ci sarebbe in lei una causa che
le fa assumere una forma.
Abbiamo pertanto dimostrato che la causa prima è l'atto puro. Tuttavia non
possiamo dire che l'atto puro esiste per la proprietà transitiva. Sussiste
infatti una difficoltà molto grossa: se il movimento è un passaggio dalla
potenza all'atto, la causa prima essendo atto puro è pienamente realizzata,
attuata e quindi è immobile. Se è immobile, come fa a muovere? Per muovere
qualcosa c'è infatti bisogno che la causa efficiente sia in movimento (nel
nostro esempio la gamba di Pirlo deve essere in movimento). Una causa del
movimento è essa stessa in movimento.
L'atto puro è invece immobile
È necessario pertanto introdurre una distinzione tra le cause. Aristotele
suddivide così:
materiale, formale, efficiente, finale
Nel senso comune una causa è
quella che risponde alla domanda "perché"? Solitamente consideriamo
la causa che ci sembra più significativa, perché in genere ce n'è più di
una. Per esempio se ci domandiamo il perché della pioggia, potremmo rispondere
che piove perché c'è bassa pressione atmosferica, anche se un'altra causa
potrebbe essere perché c'è acqua sulla Terra. Comunque, nel senso di
Aristotele si definiscono cause tutte le condizioni necessarie perché una cosa
avvenga. Tutte le cause prese assieme sono sufficienti a spiegare un determinato
fenomeno.
Procediamo ora con la spiegazione dei quattro tipi di causa. Per comprenderle
meglio consideriamo l'esempio di Aristotele: una statua in bronzo di Ercole.
La CAUSA MATERIALE è la materia delle cose che esistono. Nell'esempio preso in
esame, diremo che, dal punto di vista della causa materiale, la statua esiste
perché c'è il bronzo.
La CAUSA FORMALE della statua è che essa rappresenta, è simbolica di
Ercole".
La CAUSA EFFICIENTE è lo scultore che ha causato l'opera (è la causa che
comunemente usiamo nella fisica di Newton).
Per quanto riguarda la CAUSA FINALE, qui le cose si complicano. Se colui che ha
messo in moto un progetto è un essere senziente, vuol dire che ha un fine (in
Pirlo c'è la volontà di fare rete). Nell'esempio di Aristotele, quando un
arciere tira una freccia e centra il bersaglio il fine era far centro. Ma
Aristotele attribuiva la causa finale anche agli enti immateriali (un sasso che
rotola, una goccia d'acqua che cade, le bolle d'aria che si formano in acqua…).
Anche nei fenomeni fisici vedeva quindi una causa finale. Infatti secondo quella
che viene definita "dottrina dei luoghi naturali", c'è una tendenza
dei corpi ad andare per natura verso il proprio luogo.
Un causa efficiente è sempre in movimento. L'atto puro è la causa del
movimento senza movimento. Esso agisce come causa finale e non come causa
efficiente. Quindi qualcosa di immobile provoca il mutamento. È interessante
notare come anche oggi si potrebbe entrare in crisi di fronte a questi problemi:
infatti secondo i teologi, Dio è immateriale, ma ha generato il nostro mondo,
che è materiale.
Secondo Aristotele, possiamo comprendere meglio la causa finale facendo
riferimento ad alcuni esempi tratti dalla nostra esperienza. Questi sono:
1. desiderio;
2. pensiero;
3. innamoramento.
Di seguito riportiamo alcuni esempi.
Il desiderio di mangiare un pasticcino può muovere una certa persona perché lo
mangi.
Oppure, quando una persona si appassiona ad un argomento, ad una teoria, questa
non si muove. È il desiderio di conoscere che muove la persona ad impegnarsi a
studiare.
Soprattutto nell'innamoramento, la persona amata non fa nulla, ma l'amante si
sente attirato da essa.
Riassumendo, nella causa finale tendiamo a quel fine, ci avviciniamo, senza che
il fine faccia nulla di attivo per attirarci.
L'Atto Puro, ovvero Dio secondo Aristotele, muove come causa finale. Nella
fisica aristotelica seguendo solo le cause efficienti si può arrivare fino ad
un certo punto: il movimento dei cieli.
La Terra, come vedremo più dettagliatamente in seguito, era considerata ferma
al centro dell'universo e attorno ad essa si muovevano 55 sfere celesti, eterne,
fra loro concentriche e fatte di una materia diversa. Sulla Terra e nell'ambito
dell'atmosfera valevano certe regole, non più valide nella sfera celeste (fuori
dalla Luna).
Dal punto di vista fisico, la causa remota del movimento delle sfere celesti è
la prima sfera. Ma Aristotele nella Metafisica si domanda perché esse si
muovono. Per spiegare il loro moto non c'è bisogno di una causa efficiente, ma
di una causa finale: un motore immobile, alla cui perfezione le sfere celesti
tendono. Per i Greci le sfere celesti avevano una sorta di anima; tendevano ad
un movimento immutabile, perfettamente circolare, ispirato dalla perfezione del
motore immobile.
L'Atto Puro è chiamato da Aristotele "Dio". Si può intuire
chiaramente il motivo di questa scelta: il "dio" per i Greci erano gli
dei, concepiti come trascendenti, ovvero come non percepibili dalla nostra
esperienza. Dio, essendo non percepibile dai nostri sensi, è trascendente
(solitamente questa è una caratteristica associata alla divinità).
Altri
motivi che spiegano questa identificazione terminologica si basano sul fatto che
Dio:
· è immateriale (caratteristica simile al Dio delle religioni);
· è eterno;
· è la causa dell'ordine del mondo.
Il Dio delle grandi religioni (Cristianesimo, Ebraismo e Islam) è simile al
concetto aristotelico di Dio per questi tre motivi, ma è anche in parte
diverso:
· tutte le religioni gli attribuiscono la caratteristica di creare il mondo dal
nulla (vedremo l'importanza di quest'idea con S. Agostino), mentre i Greci non
avevano il concetto di creazione;
· per le religioni, Dio può conoscere l'uomo (altrimenti non avrebbe senso
pregare Dio), mentre l'Atto Puro, proprio perché totalmente in atto, non può
conoscere realtà contingenti. Infatti, tutte le conoscenze di qualcosa che muta
implicano un divenire all'interno della mente di chi conosce, un passaggio
potenza-atto. Quindi l'Atto Puro non può pensare a verità che cambiano,
perché queste implicano appunto prima un non-sapere e poi un sapere.
Allora, che cosa pensa l'Atto Puro? O pensa a se stesso (l'Atto Puro è pensiero
che rimane immutabile: è pensiero pensante se stesso) o pensa a verità
immutabili (come il PNC ma non ogni verità storica).
In conclusione, l'Atto Puro è un dio "sì e no", ma non è un vero
Dio come pensano le grandi religioni: per un teologo il significato di Dio non
sarebbe scambiabile con quello di Atto Puro.
I SIGNIFICATI DELL'ESSERE E LA SOSTANZA
I significati dell'essere
La metafisica studia l'essere in quanto essere, la realtà in quanto tale,
riflessa nel linguaggio. Nella proposizione "la cattedra è
rettangolare", "cattedra" è il soggetto, "l'essere
rettangolare" è il predicato. Nel linguaggio si esprime la realtà tramite
la struttura soggetti - predicato. Ma un termine può avere un significato:
· univoco, quando una parola ha un solo significato;
· equivoco, quando una parola ha due significati completamente diversi (per
esempio la parola "pesca": pèsca è il frutto del pesco, pésca è
l'attività economica o ricreativa diretta alla cattura dei pesci; dal punto di
vista grammaticale c'è perfetta uguaglianza);
· analogico o polivoco, quando una parola non ha due significati completamente
uguali, ma nemmeno completamente diversi.
Per comprendere meglio quest'ultimo significato, consideriamo le seguenti frasi:
"Questo cibo è sano" e "Questa persona è sana". In
entrambe l'aggettivo "sano" si riferisce alla salute, il significato
è simile, ma non del tutto uguale. Nella prima frase, "sano"
significa che "mangiandolo fa bene alla salute", mentre nella seconda,
vuol dire "in buona salute, non ammalata, che non presenta malesseri o
disturbi".
"Essere" è un tipico esempio di significato analogico".
Consideriamo i due predicati: "Io sono" e "Io sono alto".
Nel primo si fa riferimento al puro esistere di qualcuno, mentre nel secondo
all'esistenza nel soggetto della proprietà dell'altezza.
Parmenide pensava l'essere in maniera univoca: pur rimanendo giusta la
distinzione tra scienza e opinione, nella sua filosofia venivano a crearsi una
serie di paradossi. La riformulazione del PNC platonico-aristotelico presuppone
una più approfondita riflessione sul significato dell'essere.
La categoria per Aristotele
Nel Sofista, Platone aveva individuato cinque generi sommi, le uniche idee che
si potevano predicare (dire) di tutte le idee. Per tutte le altre idee si poteva
applicare il metodo diairetico. Con Aristotele abbiamo uno sviluppo ancora
interno al pensiero di Platone. Aristotele aggiunge che quando pensiamo una
categoria in base all'estensione, dobbiamo considerare se questa classifica,
utile per dare la definizione, ha a che fare con idee tutte dello stesso tipo.
Nella Metafisica elenca otto accidenti, mentre in una lettera ne elenca dieci.
La sostanza è una categoria un po' privilegiata perché esprime realtà che
sussistono di per sé. La qualità è il sommo concetto per quel tipo di
categoria.
Le categorie sono la sostanza
o vari tipi di accidente (qualità, quantità, relazione, luogo, tempo, agire,
subire...)
Il termine "categoria" avrà una certa fortuna (sarà utilizzato da
Kant nel '700 nella Critica della ragion pura). Gli accidenti hanno un genere di
esistenza subordinata: esistono nella misura in cui esiste la sostanza. Ciò è
confermato dal fatto che tutte le lingue indoeuropee hanno la stessa struttura
predicato-soggetto.
La critica alle idee platoniche
Accenniamo questo tema prima di trattare il De anima.
Per Platone, le idee esistevano di per sé, avevano cioè un'esistenza separata
da quella nella mente dell'uomo. Al di là di dove esse stiano, esistono
indipendentemente e non dipendono dal fatto che l'uomo le conosca (come potrebbe
essere, per esempio, l'America prima che gli Europei la scoprissero).
Aristotele era giunto a una conclusione che lo poneva in contrasto con gli altri
discepoli di Platone: egli credeva infatti che non ha senso pensare le idee
separate, per lui erano un inutile doppione (idee in se stesse - idee nella
mente).
Per Platone il mondo delle idee giustificava il possesso da parte dell'uomo di
conoscenze universali, nonostante l'uomo avesse solo un'esperienza solo di tipo
sensitivo, che contiene solo dati particolari. Allora Aristotele afferma che
l'unico motivo per cui bisognava fare ricorso al mondo delle idee è il fatto
che non riusciamo a spiegare diversamente la presenza nelle nostre menti dei
concetti universali. Se riuscissimo a spiegare ciò, allora potremmo eliminare
questo inutile doppione.
Platone sosteneva che il demiurgo avesse unito le idee e la "materia
prima" plasmando il mondo. Aristotele potrebbe dire che il demiurgo ha
unito la forma (idee) e la materia per formare le sostanze. Il mondo delle idee
è l'insieme delle forme, ciò che rende il cosmo quello che è.
Come già sottolineato da Platone nel Parmenide (nella metafora del Terzo uomo,
in particolare) l'idea della mimesi non spiega bene come la forma sia nella
sostanza. Avendo di fronte un uomo, Platone direbbe che in questa forma-uomo
c'è l'idea di uomo. Ma perché gli uomini sono uomini? La risposta
"perché imitano l'idea di uomo" non è pienamente soddisfacente per
Aristotele, il quale sosterrà che la forma comune è propria di tutti gli
uomini, mentre l'idea di uomo esiste nella mente come concetto. I medievali
faranno propria quest'idea dicendo che l'universale esiste in re (forma nelle
cose) e post rem (nella nostra mente, dopo aver conosciuto).
Il problema del come conosciamo concetti universali non è ancora affrontato.
Qui abbiamo solo la parte distruttiva. Nel De anima troveremo quella
costruttiva.
Le tipologie del movimento
Oggi la nostra idea di movimento è solo quella di movimento locale. Per i Greci
era una delle quattro forme di movimento.
1. Movimento locale. Consiste nello spostamento di un corpo da un posto
all'altro.
2. Movimento di tipo qualitativo. Si ha quando cambia una qualità. Per esempio,
per una persona esposta al sole, il movimento qualitativo consiste nel
cambiamento del colore della pelle.
3. Movimento quantitativo. Consiste nell'accrescimento o nella riduzione.
Aristotele aveva colto che in generale nel cambiamento c'è qualcosa che cambia,
ma anche (cosa che spesso non si osserva) che spesso c'è qualcosa che non deve
cambiare: il soggetto del cambiamento.
Prima di introdurre la quarta
tipologia del movimento, ricordiamo che stiamo analizzando una parte comune alla
fisica e alla metafisica e che dobbiamo pervenire a una definizione di movimento
che valga per entrambe.
4. Movimento sostanziale. Quando una sostanza inizia a esistere o finisce di
esistere, possiamo interpretare come movimento sostanziale la nascita/morte, se
la sostanza è un essere vivente. Ma per Aristotele vi erano movimenti
sostanziali non solo per gli esseri viventi, ma anche per ogni essere fisico,
cioè per ogni qualcosa che sussista di per sé. Per esempio un libro, una volta
gettato nel caminetto, è cenere e fumo. Prima di essere stampato non esisteva,
ma esisteva la cellulosa e l'inchiostro. La realizzazione ha fatto sì che una
sostanza che prima non c'era, ci fosse (inizio e fine di una sostanza).
Per arrivare alla definizione
generale di movimento consideriamo ora il riscaldamento dell'acqua. Si tratta di
un movimento qualitativo freddo - caldo.
Possiamo interpretare questo movimento come il passaggio da una privazione
(esseri privi di una caratteristica "calore") a una forma oppure dalla
potenza all'atto.
PRIVAZIONE, FORMA (caratteristica, qualità, aspetto)
POTENZA, ATTO
Il movimento è un passaggio dalla privazione alla forma, dalla potenza
all'atto. Questa definizione è sufficiente a spiegare il movimento? Oltre a non
spiegare la causa, abbiamo bisogno di postulare che deve essere la stessa acqua
perché avvenga il riscaldamento. Solitamente lo si dà per scontato, ma perché
ci sia cambiamento il soggetto deve essere lo stesso: nel mutamento deve esserci
qualcosa che non cambia. Allora potremmo chiamare "sostrato", quella
" incognita" che rimane invariata. Ecco quindi la definizione
aristotelica di movimento: Il mutamento è un passaggio dalla privazione alla
forma, dalla potenza all'atto con un sostrato che rimane invariato.
Nel movimento locale che interessa un libro, per esempio, il sostrato è il
libro.
Nell'esempio di movimento qualitativo dell'acqua, come il riscaldamento della
stessa, il sostrato è l'acqua.
Nell'accrescimento di un bambino il sostrato di questo movimento quantitativo è
il bambino stesso.
Ma nel movimento sostanziale, qual è il sostrato?
Potremmo dire che è l'idea di libro, che rimane nella nostra mente. Oppure
potremmo dire che sono gli atomi - materia. Ma sbaglieremmo, poiché la materia
della carta è diversa da quella della cenere. Dobbiamo fare ricorso al concetto
di "materia prima", presente nel Timeo (Platone non usava questo
termine). Una delle sue caratteristiche era la potenzialità, poteva cioè
assumere qualunque forma: è la materia considerata strettamente priva di ogni
caratteristica, come pura possibilità di assumere forma. La materia prima
rimane invariata. Se non ci fosse nulla di immobile non ci sarebbe movimento:
Aristotele è il primo a ipotizzare che il concetto di movimento implica
qualcosa di immobile.
LA FISICA
Aristotele applica questo concetto di movimento anche a casi più estremi. Ma
prima di intraprendere lo studio della fisica aristotelica, dobbiamo
disaffezionarci alla nostra idea di fisica. Le leggi che studiamo pensiamo che
siano universali e necessarie. Le leggi di Newton valgono
sempre e dovunque. Aristotele sul "sempre" si sarebbe trovato
d'accordo. Ma non sul "dovunque". Secondo Aristotele, esistevano
infatti due ambiti diversi nell'universo. Ricordiamo inoltre che i pianeti conosciuti erano sei, oltre alla terra:
Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno, la Luna e il Sole.
La fisica è la scienza della natura. Ecco la distinzione di Aristotele:
La distinzione si fonda su due
ambiti.
1. Ciò di cui sono fatti i corpi (materia delle cose).
2. Tipo di movimento.
1. Sulla Terra tutto è fatto
di terra, aria, acqua e fuoco. Escludendo Anassagora e Democrito, era questo il
senso comune greco (i Greci avevano una chimica piuttosto rozza e grossolana).
Questi elementi esistevano solo sulla Terra: secondo Aristotele, dalla Terra in
poi, tutto era fatto dal "quinto elemento" (semplicemente perché
viene dopo il quarto) o "sostanza incorruttibile" (oppure anche
"etere", ma questo termine dal 1800 assumerà in fisica un altro
significato). Questa materia non può subire nessun altro mutamento se non
quello circolare perfetto (che è un tipo particolare di movimento locale che
avviene a velocità costante, cioè ad accelerazione nulla).
2. Questa è appunto la seconda differenza: mentre sulla Terra sono possibili
vari tipi di movimento (rettilineo, composto, naturale, violento…), nei cieli
è possibile solo quello circolare perfetto.
FISICA TERRESTRE
Si fonda sulla teoria dei luoghi naturali: i quattro elementi e i loro composti
tendono a disporsi in una certa dislocazione. Dal basso: terra, acqua, aria e
fuoco.
Tale teoria sembrava abbastanza
ovvia perché compatibile con le osservazioni empiriche.
Il calore (fuoco) tende ad andare verso l'alto. Se osservata la fiamma sembra
che vada verso l'alto. I sassi cadono verso il basso.
Il problema che ci sia questa disposizione è accettabile. Ma Aristotele
considerava il luogo naturale come la causa finale del movimento.
Immaginiamo di far cadere un libro. La causa materiale è "essere di
carta"; la causa formale è "essere un libro"; la causa
efficiente e quella finale sono in questo caso cause motrici. In particolare,
diremo che la causa efficiente è "è stato tolto il vincolo", quella
finale è "il libro (grave) tende a raggiungere il suo luogo
naturale".
E' evidente che se si tratta di un movimento provocato da un agente intelligente,
la causa finale deve esserci ed è intuitiva, è quella voluta dall'agente
stesso, come l'arciere che scocca la freccia verso il bersaglio. Ma Aristotele la estende a tutti
gli enti fisici: il grave tende verso il suo luogo naturale (è una tendenza
intrinseca). Sulla base di questa teoria, Aristotele classifica i movimenti
sulla Terra in naturali e violenti. Nei movimenti naturali il grave tende verso
il suo luogo naturale, in quelli violenti si allontana dal luogo naturale.
Immaginiamo di lanciare verso l'alto una penna: il moto di salita è violento,
quello di caduta è naturale. Aristotele nota inoltre che i movimenti naturali
sono sempre rettilinei, invece quelli violenti possono essere irregolari.
L'esempio di Aristotele è quello di una foglia che cade: in parte il moto è
naturale, ma il venticello non fa cadere la foglia di moto rettilineo. Questo
tipo di moto si compone di movimento naturale e di movimento violento.
Per 2000 anni la fisica aristotelica è stata ritenuta valida. La nascita della
fisica moderna (quella di Copernico e di Galileo) fu il sovvertire quella
aristotelica. Possiamo quindi avanzare alcune importanti osservazioni di
confronto tra la fisica aristotelica e quella moderna.
1. Nella fisica aristotelica vi è l'assoluta mancanza del vuoto. Se escludiamo
Democrito, tutti i filosofi greci erano convinti dell'inesistenza del vuoto. Ma
anche Cartesio era convinto che il vuoto non potesse esistere (neanche
concettualmente) (nel 1656, 6 anni dopo la sua morte, viene dimostrata la sua
esistenza).
2. Nella fisica moderna manca il luogo naturale. Infatti noi pensiamo che la
fisica debba occuparsi di cause efficienti.
3. Nella fisica aristotelica non era contemplato il principio di inerzia.
Probabilmente Aristotele non avrebbe avuto dubbi o problemi riguardo alla
quiete. Ma se noi avessimo potuto domandargli del principio, avrebbe risposto
che il suo risultato è irrazionale: il fatto che il corpo si muova in maniera
rettilinea all'infinito è contro-intuitivo. Nella realtà non vediamo mai
questo principio in azione. La causa teoretica di questo principio è molto
diversa: è un concetto limite, nella realtà non si presenta mai questa
situazione. Galileo lo utilizzerà nel 1600, e verrà dimostrato
sperimentalmente da Cartesio e Newton.
Nella nostra esperienza e secondo Aristotele, il movimento presuppone una causa
e, quando viene meno la causa, viene mene il movimento. L'esempio degli antichi
era quello della catapulta.
Il moto di caduta dei gravi non è uniforme, ma accelerato. Nel caso della catapulta è il risultato di una componente orizzontale (moto uniforme) e di una componente verticale (caduta del grave: moto accelerato). La traiettoria è quella di un ramo di parabola.
Come spiegava questo moto Aristotele? Secondo Aristotele, siccome il vuoto non esisteva, il proiettile comprimeva le molecole d'aria. Queste, spostandosi, tendevano a distribuirsi in maniera uniforme, tendevano cioè ad andare dietro il proiettile, dove c'era una pressione minore. Veniva a crearsi una sorta di "effetto turbo", che spingeva il proiettile. Quindi, mentre noi pensiamo che l'aria freni (parliamo infatti di "resistenza dell'aria"), Aristotele pensava che l'aria accelerasse. Oggi noi sappiamo che Aristotele era in errore, ma alla fine il risultato è sempre lo stesso (il proiettile cade sempre in quel punto). In fondo ciò che conta in una teoria è che funzioni. In tal senso, entrambe le teorie vanno bene, non sono cioè falsificate dall'esperienza.
Come potremmo convincere
Aristotele riguardo all'inesattezza della sua teoria? Un metodo potrebbe essere
quello di rimpicciolire mille volte la nostra catapulta e di condurre
l'esperimento sotto una campana di vetro, sotto la quale è stata tolta l'aria.
Potremmo quindi provare che i corpi vanno più velocemente, non più lentamente
come avrebbe pensato Aristotele.
Perché per 2000 anni tutti hanno creduto che Aristotele avesse ragione? La
teoria aristotelica, rispetto a quelle antiche, era in grado di dare una
spiegazione razionale della realtà, insomma era la spiegazione più scientifica
possibile.
Analizziamo ora tre concetti
che troviamo nella Fisica di Aristotele. Essi sono:
1) TEMPO
2) LUOGO (spazio)
3) INFINITO
Su questi tre concetti Aristotele fa un'interessante analisi, che ci fa capire
il metodo, lo stile e le finalità del filosofo.
1) Quello di tempo è un concetto familiare a tutti noi. Sant'Agostino qualche
secolo dopo dirà che tutti noi usiamo parole relative al tempo, ma se ci
chiedessero di definirlo, saremmo in difficoltà. Aristotele riprende un tema
affrontato nella scuola platonica. Secondo Platone il tempo implica il divenire,
ma il tempo non si identifica col movimento. Inoltre nel mondo delle idee non vi
è tempo.
Aristotele definisce il tempo come la misura del divenire: "il tempo è la
misura del divenire secondo il prima e il poi". Si tratta di una
definizione non pienamente soddisfacente, perché presenta avverbi temporali. Il
tempo come misura del divenire presuppone il divenire, ma non lo implica.
E' interessante notare una cosa che ritroviamo nella scienza moderna: Aristotele
sottolinea che il tempo non è direttamente osservabile (al contrario dello
spazio, del movimento e della velocità). Nella formula della velocità, , solo
e sono direttamente osservabili, percepibili con i cinque sensi. Il tempo lo
percepisco indirettamente dagli effetti (per esempio vedo ruotare le lancette
dell'orologio). Noi prendiamo un movimento standard: un anno è il tempo che
impiegano le sfere celesti a compiere un certo movimento (oggi un giro attorno
al Sole).
Possiamo ora operare questa distinzione:
· tempo soggettivo (percezione del tempo che ciascuno ha e che dipende da tanti
fattori, ad esempio se mi annoio ad ascoltare una lezione, mi sembra passi più
lentamente)
· tempo oggettivo (misurabile, su cui gli uomini si accordano continuamente:
l'oggettivazione viene dal fatto che tutti gli uomini riconoscono uno stesso
movimento osservabile e condividono uno stesso sistema di misura).
I Greci fra le varie leggende derivanti dalla tradizione del VIII e VII secolo
ne avevano una un po' pittoresca secondo la quale in Sardegna vi erano degli
strani uomini che potevano dormire anche per 10 mila anni. Aristotele ci dice
che se uno di questi uomini non ha sognato è come se fosse passato un secondo.
Aristotele vuol dire che la percezione soggettiva del tempo non coincide con
quella oggettiva. Infatti se una cosa è noiosa il tempo ci sembra più lungo,
al contrario se è piacevole, il tempo vola via veloce.
2) L'analisi del concetto di luogo è emblematica per capire come fa Aristotele
a procedere: egli infatti utilizza fin dove è possibile ciò che viene dal
senso comune, per poi correggerlo razionalmente.
In Grecia era diffusa l'idea di luogo come contenitore. Sembra funzionare
abbastanza bene nel senso comune in un certo senso, mi permette infatti di
individuare il luogo. Aristotele accetta di partire da quest'idea che funziona
nel linguaggio comune. Occorre però correggerla per evitare problemi. Per
comprendere meglio consideriamo un esempio: in una bottiglia è contenuto del
vino. Nel senso comune, il luogo è la faccia interna della bottiglia. Ma se io
sposto la bottiglia, il vino si è mosso e non mosso. Il vino infatti si è
spostato di moto locale (è in luoghi diversi in tempi diversi), ma, non
cambiando contenitore, non si è mosso. Allo stesso modo delle merci nella stiva
di una nave, quando questa va dal porto di Genova a quello di Napoli, si sono
mosse e non mosse. Come possiamo pertanto mantenere il senso comune eliminando
la contraddizione dovuta al fatto che alcuni contenitori si muovono e altri no?
Occorre quindi fornire una definizione che eviti ogni contraddizione: il luogo
può essere considerato come la faccia interna del contenitore, considerando la
faccia interna come immobile.
Da qui si comprende come Aristotele non ripudi mai a priori il senso comune:
egli non lo tratta con disprezzo, non lo considera ovvio o banale, al contrario
di Eraclito e Parmenide che avevano dato l'idea che l'opinione fosse falsa e
ingannevole.
3) Il concetto di infinito formulato da Aristotele ci può aiutare a risolvere i
due paradossi di Zenone. Intuitivamente "infinito" significa
"senza fine". Occorre però distinguere tra:
INFINITO IN POTENZA e INFINITO IN ATTO
Rispetto all'addizione si può
andare avanti senza fine. Con i numeri è possibile formare una serie infinita:
ad un numero aggiungo uno e poi ripeto l'operazione: 0+1=1; 1+1=2; 2+1=3; ecc.
Anche con i segmenti, è sempre possibile aggiungere la stessa lunghezza:
In linea di principio non mi fermo mai.
Rispetto alla divisione, dividendo un segmento, ad esempio per 2, non arriverò mai a zero.
Si dice quindi che l'infinito è potenziale, è un processo che posso condurre all'infinito. Ma in atto non otterrò mai un numero infinito, otterrò sempre un numero finito. Un conto è parlare di possibilità, ma di fatto non si traduce mai in un infinito in atto. Se noi prendiamo in considerazione questa distinzione, possiamo rispondere ai paradossi di Zenone.
Il primo paradosso di Zenone (quello dello stadio) è l'errore che consiste nel confondere l'infinito in potenza e l'infinito in atto: di fatto lo stadio è diviso in un numero finito di passi. Questo vale anche per la composizione delle cose: solo in potenza posso pensare di andare avanti all'infinito. Abbiamo quindi concordato che i primi due paradossi di Zenone non sono validi.
Aristotele afferma che:
· NUMERO: è infinito in potenza.
· TEMPO: (per un ragionamento simile) la materia prima è eterna, il tempo c'è
sempre stato, non c'è mai fine.
· SPAZIO: non è proprio così. Il segmento è sempre infinitamente divisibile,
ma rispetto all'addizione, nonostante si possa sempre aggiungere in linea di
principio, avrò sulla
retta un diametro finito. I Greci pensavano infatti che esistesse un diametro
massimo dell'universo (ovviamente una lunghezza maggiore può esistere nel pensiero, ma non nella
realtà).
FISICA CELESTE
Se da uno stesso punto di osservazione (dal vetro di una finestra) prendiamo
nota del moto di Venere, segnando su un foglio i punti in cui il pianeta si
trova in determinati istanti, noteremo che il movimento di questo pianeta è
simile a quello rappresentato nella figura.
Oggi sappiamo che questo movimento
di retrocessione è dovuto al cambiamento del punto di osservazione.
Ma i Greci erano convinti che la Terra fosse ferma al centro dell'universo e che le sfere ruotassero attorno ad essa. Come si poteva spiegare il fatto che Venere facesse "marcia indietro"?
Serviva una teoria che non inficiasse quella aristotelica (una
teoria funziona quando è in grado di fare previsioni esatte). Bisognava cioè
trovare un meccanismo che spiegasse il moto di Venere attraverso moti circolari
perfetti. Il moto circolare perfetto è l'unico moto che si può pensare vada
avanti per l'eternità: si trattava di una forma di perfezione, di razionalità
estrema. Per risolvere questo problema, Aristotele si rivolge al suo
collega-matematico Eudosso. Questi, attraverso calcoli molto complessi, riesce a
calcolare degli angoli che ottengono questa composizione. L'ipotesi è che
bisogna ricorrere ad almeno tre (o quattro/cinque) sfere omeocentriche. Gli assi
di rotazione di queste sfere sono inclinati secondo angoli molto precisi (1°;
1,5°;…). Venere è incastonata in una sfera, ma, sfregando con le altre
sfere, dà origine ad una composizione di moti.
Per spiegare i sette corpi celesti allora conosciuti (cinque pianeti, più il
Sole e la Luna) non erano necessarie solo sette sfere. Servivano dalle tre alle
cinque sfere per corpo celeste e inoltre bisognava evitare che il movimento di
un pianeta perturbasse quello di un altro. Per questo motivo vi erano delle
"sfere reagenti" tra le sfere. Queste risultavano così "cementificate"
in maniera da rimanere impermeabili, immobili a ogni sollecitazione esterna. Le
sfere reagenti impedivano infatti che i movimenti di un pianeta fossero
influenzati da quelli del pianeta vicino. In totale
le sfere erano 54 più 1 esterna, detta sfere delle stelle fisse (così dette
perché erano sempre nella stessa posizione reciproca). Riassumendo, la fisica celeste di
Aristotele prevedeva la presenza di 55 sfere tutte omeocentriche (il centro delle
sfere omeocentriche era nella Terra) ma con assi di rotazione inclinati in
maniera diversa.
Oggi questa teoria ci sembra essere assurda, per il fatto che le premesse erano
sbagliate. Infatti da tre presupposti falsi, Aristotele aveva formulato una
teoria che funzionava.
L'universo era concepito come una sorta di "matriosca": tra le 55
bambolette non vi era però il vuoto. Al contrario, tra le sfere combacianti che
sfregavano tra di loro bisognava supporre che ci fossero sfere reagenti.
De anima
Il concetto di anima può essere inteso da due punti di vista.
1. Le grandi religioni, ma anche Platone, intendevano l'anima come immortale. In questa accezione l'anima è ovviamente
riferita soltanto all'uomo.
2. L'anima può essere considerata come "principio vitale". In questo
senso i viventi sono detti "esseri animati" e i non viventi
"esseri inanimati".
(Ricordiamo inoltre che "psiche" in greco significava fiato, alito,
respiro e quindi anche vita, spirito vitale e anima).
Aristotele nel De anima intende considerare l'anima come principio vitale (il
secondo significato che abbiamo individuato), ovvero come ciò che rende vivo un
corpo. La definizione generale di anima che Aristotele ricava si può estendere
oltre che all'uomo, anche ai vegetali e agli animali (i Greci non conoscevano
batteri o organismi unicellulari e i funghi non erano considerati come un regno
vegetale a parte). Vedremo che l'uomo avrà un particolare tipo di anima,
un'anima dotata di mente.
Quest'opera di Aristotele non è particolarmente lunga: infatti si compone
appena di tre libri.
1. Nel primo libro troviamo la definizione generale di anima.
2. Alla fine del primo libro e nel secondo vengono analizzati vegetali e animali
(si tratta di conoscenze completamente superate oggi e che quindi non
tratteremo).
3. Nel terzo libro si analizza l'anima dell'uomo, ovvero l'anima razionale. E' un
libro importantissimo perché ancora oggi getta luce sui meccanismi psicologici
dell'uomo. Qui si tratta anche la dottrina della conoscenza.
PRIMO LIBRO
Aristotele si domanda che cosa caratterizzi un essere vivente e un non vivente
(per esempio gatto/sasso). Gli esseri animati vegetali (ANIMA VEGETATIVA) sono
caratterizzati da:
· NUTRIZIONE: traggono cioè dall'ambiente ciò che serve loro. Non si può
parlare di nutrizione nel caso del sasso, in quanto esso viene modificato in
maniera passiva dall'ambiente.
· RIPRODUZIONE: oggi sappiamo che è dovuta al DNA.
L'animale ha qualcosa in più rispetto al vegetale (ANIMA ANIMALE o SENSITIVA):
· MOVIMENTO: la teoria di Aristotele aveva come limite il non sapere che anche
le piante si muovevano, volgendosi verso il sole.
· SENSAZIONE: i mammiferi hanno i cinque sensi che abbiamo noi. Ci sono alcuni
animali che non hanno tutti i cinque sensi, ma almeno uno dovrebbero averlo
(quantomeno il tatto, cioè il subire alcune modificazioni per contatto fisico).
L'ANIMA INTELLETTIVA/RAZIONALE/UMANA ha tutte queste più l'INTELLETTO.
Seguendo questo ragionamento, potremmo dire che i vegetali hanno un tipo di
anima, gli animali due e l'uomo tre. Aristotele ci dice ce in realtà l'anima ha
una sola funzione perché le funzioni superiori assorbono quelle inferiori. Per
comprendere meglio, consideriamo il seguente esempio. In una scuola abbiamo
bidelli, insegnanti e il preside. I bidelli sanno fare solo i bidelli, gli
insegnanti oltre a insegnare potrebbero anche fare i bidelli, il preside, oltre
a dirigere l'istituto, sarebbe capace di fare l'insegnante, ma anche il bidello,
pur rimanendo un'unica persona.
Le operazioni superiori implicano di saper fare anche quelle inferiori.
L'anima dell'uomo gli consente anche di ragionare. La funzione superiore ingloba
dentro di sé anche quelle inferiori. Quindi vegetale, animale e uomo hanno un
solo tipo di anima.
La definizione di anima che ci fornisce Aristotele nelle prime pagine del primo
libro del De anima è la seguente: l'anima è la "forma prima di un corpo
avente la vita in potenza. Analizziamo ora la definizione.
"Prima" significa essenziale, fondamentale. L'anima è la forma di un
corpo. Il corpo è lo stesso prima e immediatamente dopo la morte, può vivere ma può anche
non vivere. Finché è vivo, è animato. Quindi si può parlare di quell'essere
vivente finché c'è l'anima, che svolge le funzioni dell'essere vivente. I
viventi non sono un caso a parte, sono sempre sostanza, che include esseri
viventi (la forma è l'anima) e non viventi (la forma è qualcos'altro).
TERZO LIBRO
L'analisi dell'anima dell'uomo è molto interessante perché riguarda la
conoscenza.
Prima di analizzare il processo conoscitivo secondo Aristotele dobbiamo
introdurre la distinzione tra SENSIBILE e INTELLEGIBILE. I colori, gli odori, i
sapori sono dei (dati) sensibili, perché sono oggetti della conoscenza
sensibile. I concetti di triangolo e di giustizia, per esempio, sono degli
intellegibili, perché sono oggetti della conoscenza dell'intelletto.
Il significato dei termini "potenza" (che può) e "atto"
(già avvenuto) resta invariato: non cambia rispetto a quanto visto per la
metafisica.
Nel processo conoscitivo Aristotele distingue quattro momenti. Questi sono:
SENSIBILE IN POTENZA »» SENSIBILE IN ATTO »» INTELLiGIBILE IN POTENZA »»
INTELLIGIBILE IN ATTO
Il bianco del gesso è un
sensibile, ma non sempre è percepibile dai sensi (per esempio quando è dentro
ad un cassetto chiuso). Nell'esempio di Aristotele, se ci fosse un buio
assoluto, non si potrebbero vedere i colori. Il bianco è un sensibile in
potenza: le caratteristiche del gesso sono le stesse, ma il bianco non è
visibile tramite i sensi. Sensibile in potenza nel nostro esempio è quindi la
possibilità data dalla caratteristica del gesso di apparire bianco.
A determinate condizioni (cassetto aperto nell'esempio) conosciamo dati
sensibili. La conoscenza sensibile avviene grazie ad un divenire, ovvero un
passaggio potenza-atto. Il movimento deve avere una causa: nel caso dei colori
è la luce (fenomeno puramente fisico).
Anche la conoscenza animale ha questo passaggio, mentre l'uomo una conoscenza in
più: da puramente sensibile a intellettiva. L'uomo si fa un'idea di bianco
(ricordiamo che l'idea ha la caratteristica di essere universale): la capacità
di universalizzare è proprio una specificità dell'animo umano.
Per ragionare occorrono
proposizioni (concatenate), ma servono prima concetti. Quindi, ogni ragionamento
implica delle frasi, che a loro volta implicano concetti (nomi comuni e
predicati nominali). Per ottenere i concetti, come vedremo, sarà necessaria la
capacità di astrazione.
SENSIBILE IN ATTO = INTELLiGIBILE IN POTENZA
Secondo Aristotele, il
sensibile in atto e l'intelligibile in potenza sono la stessa cosa vista da due
punti di vista diversi: nel momento in cui un soggetto umano percepisce qualcosa
(sensibile in atto), ha già la possibilità di pensarlo (intelligibile in
potenza). Non essendo una forma di divenire, non c'è bisogno di una causa per
spiegarlo.
Gli animali avvertono suoni, sapori e odori, ma solo l'uomo in particolare può
trasformare il dato sensibile in un concetto universale. L'ultima fase del processo
conoscitivo è l'intelligibile in atto: pensare al concetto generale. Il
passaggio dall'intelligibile in potenza all'intelligibile in atto, essendo una
forma di divenire, richiede una causa.
L'astrazione è ciò che rende
possibile il passaggio dall'intelligibile in potenza all'intelligibile in atto;
a presiedere all'astrazione è l'intelletto agente. Vediamo ora la distinzione
tra intelletto passivo e intelletto agente.
La nostra mente quando conosce
per certi aspetti è passiva, per altri attiva.
· Siamo perfettamente passivi nella funzione di recepire e di memorizzare i
dati sensibili (la nostra mente riceve dati sensibili e li memorizza). Per
esempio siamo passivi quando vediamo un albero: per quanto ci si possa sforzare
non è possibile vedere altro. Il computer, come la lavagna, è puramente
recettivo nell'acquisizione di un dato.
L'intelletto passivo può solo
ricordare i dati sensibili, tutti particolari.
· Nella fase attiva la nostra mente può combinare le idee in un certo modo. Ad
esempio:
CAVALLO + ALI = IPPOGRIFO
Aristotele si domanda se il
nostro intelletto nella fase attiva possa solo limitarsi a fantasticare o possa
anche compiere astrazione. Platone pensava che la nostra mente non fosse in
grado di astrarre e che l'unico modo per ottenere nella mente concetti
universali fosse quello di "ricordarli". Quindi Platone, per ammettere le idee
come universali, doveva ricorrere all'immortalità dell'anima e al mondo delle
idee, che Aristotele considerava un inutile doppione. Aristotele, non volendo
fare ricorso ad un mondo separato, sostiene invece che la causa che permette
questa forma di divenire sia l'intelletto agente (una causa ovviamente interna
all'uomo).
Non sappiamo come operi l'intelletto agente secondo Aristotele. Nei manoscritti
la frase che dovrebbe chiarire questo punto cruciale si interrompe, rimane in
sospeso. Nel terzo libro del De anima si dice che questo intelletto agente è:
· immateriale
· immortale
· separato
poi vi è un'omissione testuale
(non confrontabile con altri manoscritti).
Poiché non possediamo la soluzione di Aristotele, alcuni studiosi hanno
ipotizzato che non fosse niente di importante e che fosse spiegata a voce (i
testi che noi possediamo di Aristotele sono infatti gli appunti che utilizzava
durante le sue lezioni). Per una decina di secoli si cercherà la soluzione a
questo problema, che, soprattutto nel Medioevo, sarà causa di liti spesso
furiose.
Per capire meglio consideriamo un altro esempio non relativo alla dottrina aristotelica della
conoscenza: consideriamo il processo di riscaldamento dell'acqua. La causa
"riscaldante" deve avere già all'inizio almeno altrettanto calore che si
ha alla fine nel corpo riscaldato, altrimenti nell'acqua ritroverei calore che non c'era prima.
Quindi, la causa deve avere in atto ciò che abbiamo nell'effetto. Quando l'intelletto
agente porta in atto concetti che possiede già in potenza, se li avesse già in
atto non vi sarebbe nuova conoscenza.
Consideriamo ora un secondo
esempio. Si vuole insegnare ad un bambino il concetto di pentagono. Prima di
insegnarglielo, la sua mente non poteva avere in atto l'idea di pentagono (non
lo conosceva ancora). All'origine, il primo che ha pensato al concetto di
pentagono come poteva conoscere un intelligibile che non esisteva ancora in atto?
Il problema sta nel fatto che la nozione aristotelica di movimento non è
conciliabile con quella di conoscenza. Questo dubbio non si pone più oggi
perché il movimento non è più definito in termini di potenza e di atto.
Agli inizi del 1200 e nel 1300 questa problematica sarà ancora viva, e Averroè
scriverà cose molto interessanti (Averroè lo troverete nella disputa con Dante riguardo alle macchie
lunari, contenuta nel secondo canto del Paradiso). Per Averroè, esiste una mente
universale che ha già in atto i concetti: si tratta di una mente agente unica. Eppure il problema non finisce qui, ma porta con sé altre domande:
come fanno le singole menti ad entrare in contatto con essa?
Relativamente all'anima, alcuni scolastici nel Medioevo identificheranno
l'intelletto agente con la parte immortale dell'uomo.
A questo punto, è possibile
operare un confronto tra Platone e Aristotele. È importante vedere le
differenze tra i due filosofi, in quanto gran parte della storia della filosofia
sarà occupata dalla lotta tra platonici e aristotelici.
1. Per Aristotele, l'uomo è in grado da solo di ottenere concetti universali
senza bisogno di ricordarli da vite precedenti. Il mondo separato delle idee non
è affatto condiviso da Aristotele, questi ha il merito di aver svincolato il
problema della conoscenza dalle idee e dall'immortalità dell'anima.
2. Per Aristotele, l'astrazione sta alla base di tutta la logica, la capacità
di ragionare.
Il fondamento dell'edificio della conoscenza è l'astrazione, attraverso la
quale giungiamo ad avere i concetti. Unendo più concetti fra di loro formuliamo
dei giudizi; una concatenazione di giudizi dà luogo ad un ragionamento. Come
l'anima vegetale presiede alla nutrizione e alla riproduzione, e quella animale
al movimento e alla sensazione, l'anima umana ha la facoltà di astrazione e di
giudizio.
Nel '700 Kant espliciterà la circolarità concetto-giudizio (simile al problema
"uovo-gallina" per intenderci). Sembra ovvio dire che il concetto
viene prima del giudizio, ma c'è un rovescio della medaglia: per conoscere un
nuovo concetto ricerchiamo la definizione, che è un giudizio. In altre parole,
attraverso un giudizio apprendiamo un concetto.
LA LOGICA
La logica non appartiene all'enciclopedia delle scienze, perché è il metodo
comune a tutto il sapere. È l'arte del ben ragionare, la disciplina che ci insegna a ragionare
bene. Come vedremo, un ragionamento si compone di almeno tre proposizioni.
Queste sono costruite su giudizi, che presuppongono il concetto e quindi
l'astrazione.
Prima di intraprendere il vero e proprio studio della logica aristotelica
abbiamo bisogno di due importanti premesse.
1. La logica che Aristotele intende costruire è una logica formale, cioè una
logica che non dipende dal contenuto e che vale quindi in generale.
Per esempio, se e allora .
Quando scrivo qualunque espressione gli e sono indipendenti dai valori che
ottengo. Per applicare la legge esemplifico: se A > B e B > C, allora A
> C, indipendentemente dai valori assegnati ad A B e C.
2. La seconda premessa è la distinzione, spesso trascurata nel linguaggio
comune, tra VERO e VALIDO.
"Questa frase è vera". Significa che la frase corrisponde alla
realtà, ai fatti. Se la frase "Il gesso è bianco" è vera vuol dire
che il predicato "bianco" si predica del gesso. "Vero" si
dice per le frasi, è una loro caratteristica, una loro proprietà.
"Bianco" da solo non è né vero né falso.
"Questo ragionamento è valido". Non si fa riferimento alla verità
delle proposizioni, ma al collegamento logico che vi è tra di esse. Il
ragionamento è valido se la conclusione è già implicitamente contenuta nelle
premesse, se deriva necessariamente da esse. "Ragionamento vero" a rigore non ha senso: si dice valido o non
valido, oppure corretto o non corretto, a seconda della sua validità o
invalidità.
Se le premesse sono vere e il ragionamento è valido, allora la conclusione è
sicuramente vera. Cioè se in un ragionamento valido le premesse sono vere, la
verità delle premesse si trasferisce alla conclusione.
Esempio: se tutti gli insetti hanno 6 zampe e la formica è un insetto, allora
le formiche hanno 6 zampe.
Il ragionamento è valido anche se parto da una falsa premessa e ottengo una
falsa conclusione.
Esempio: se tutti gli uomini sono immortali e Socrate era un uomo, allora
Socrate era immortale.
Posso ottenere una conclusione vera anche da un ragionamento non valido (per
accidens, cioè per puro caso).
Esempio: se 2+2=5 e Parigi è la capitale di Francia, allora Roma è la capitale
d'Italia.
Negli Analitici I e II troviamo il tentativo aristotelico di formulare regole di
ragionamento valide indipendentemente dal contenuto, dal fatto che le premesse
siano vere o false (nonostante noi normalmente cerchiamo premesse vere per avere
conclusioni vere).
Terminata quest'introduzione, dobbiamo ora analizzare le proposizioni che
formano i ragionamenti. Sappiamo che esistono proposizioni di varie forme, ad
esempio vi sono proposizioni lunghe ed altre corte. Nello studio della logica,
per trattare le proposizioni dal punto di vista formale dobbiamo ridurle tutte
al seguente schema fisso (o forma standard):
S è P (soggetto e predicato uniti dalla copula).
Esempio: La frase "Giorgio corre" deve essere ricondotta alla
struttura soggetto-predicato nominale: "Giorgio è corrente"
(nonostante in italiano il participio presente non sia molto usato).
Questa è l'unità minima del linguaggio (e quindi del pensiero) a cui posso
attribuire un valore di verità o di falsità. Quindi, perché un pezzo di
frase, un frammento di pensiero possa essere considerato vero o falso, ho
bisogno di un'unità minima, da ricondurre allo schema standard.
Il sillogismo è la forma più facile, semplice, elementare di ragionamento. È
un tipo di ragionamento composto da tre frasi, delle quali le prime due sono le
premesse e la terza è la conclusione. La prima premessa, più estesa, è detta
premessa maggiore; la seconda premessa è quella minore.
Aristotele, indipendentemente dal significato delle parole, vorrebbe ricavare
delle regole che permettano di capire se un sillogismo è valido oppure non
valido.
Un qualunque sillogismo è fatto di tre proposizioni. Quindi questo tipo di
ragionamento presuppone già di avere chiare le idee sulle proposizioni, che
costituiscono gli "atomi" della "molecola" del sillogismo.
Ancor prima delle proposizioni bisognerebbe parlare dei concetti: secondo
Aristotele nel De anima si conosce per astrazione. Ma una volta che si
possiedono dei concetti, questi non si possono dire veri o falsi. La minima
entità (o unità) del linguaggio che può essere detta vera o falsa è la
proposizione. L'atto della nostra mente per formare le proposizioni si chiama
giudizio.
Esaminiamo ora la natura delle proposizioni. La frase "Questa porta è
aperta" è descrittiva, mi dice come stanno o non stanno le cose, è vera o falsa rispetto alla realtà. Invece la frase: "Mi chiudi la
porta, per favore?" oppure "chiudi la porta!", pur contenendo lo stesso concetto di porta, non
può essere detta
né vera né falsa. Solo il primo tipo frase può essere trattata dalla logica.
Questo tipo di frasi, che possono essere dette propriamente vere o false, sono
dette frasi descrittive, o in modo analogo assertive o apofantiche. Le frasi che
invece esprimono ordini, comandamenti o leggi ("Non rubare" ad
esempio) sono chiamate prescrittive, normative o imperative. Queste non sono né
vere né false, poiché non sono i comportamenti di una persona a rendere una
affermazione di questo tipo vera oppure falsa.
Le frasi, a seconda del soggetto, possono essere universali o particolari
(tutti/alcuni). Vediamo un esempio per ciascun tipo di frase.
Per rendere falsa la frase (universale) "Tutti gli alunni di 3^G hanno meno
di vent'anni" basterebbe un solo ragazzo di età superiore ai vent'anni.
In logica, "alcuni" va inteso come almeno uno: la frase "Alcuni
alunni di 3^G sono sufficienti in educazione fisica" significa che nella
3^G vi è almeno un alunno con una valutazione sufficiente in quella disciplina.
Questa frase è vera anche se tutti quelli della 3^G sono sufficienti in
educazione fisica; nel linguaggio comune, nessuno userebbe quest'espressione per
buon senso, anche se di per sé è vera.
In matematica vengono utilizzati i quantificatori: quello universale,
"per ogni", e quello esistenziale, "esiste almeno un".
Nel quadrato logico, nel quale posso sussumere ogni proposizione, le lettere A,
E, I, O non sono state introdotte da Aristotele, ma dagli studiosi medievali (A
e I sono le prime vocali di "adfirmo"; E e O sono le vocali di
"nego"). Il PNC risulta particolarmente utile, perché se per esempio
A è assurda, allora O è giusta.
Un'idea fondativa in Aristotele è quella secondo cui la verità è nel
pensiero. Prima viene la realtà e il vero che sta nel linguaggio è tale
perché è adeguato alla realtà. I medievali parleranno di adaequatio tra res
(cosa) e intellectus (intelletto), sostenendo che il sapere umano ha come scopo
quello di rispecchiare la realtà. Forzare la realtà consiste nel congiungere
ciò che non è realmente congiunto e nel disgiungere ciò che non è realmente
congiunto. Per oltre 2000 anni questo resterà un presupposto sostanzialmente
accettato da tutti, finché Kant nel '700 farà notare come il soggetto metta
qualcosa che non dipende dalla realtà.
Linguaggio, pensiero ed essere
Il linguaggio è in parte convenzionale e in parte naturale. La parte
convenzionale fa riferimento ai suoni verbali e ai segni grafici su cui ci si
accorda: non vi è motivo per cui una lingua rispecchi il vocabolario meglio di
un'altra. La parte naturale è connessa alla sintassi, nella quale vi è una
sorta di rispecchiamento della realtà (sostanze e accidenti): soggetto e
predicato rispecchiano la natura delle cose. Il pensiero permette di capire la
realtà, il linguaggio di trasmettere la comprensione della realtà.
Il sillogismo
Sappiamo già che il sillogismo è il più breve dei ragionamenti. È una
concatenazione di tre frasi, le prime due sono premesse, la terza è la
conclusione. Non è necessario che abbia solamente tre frasi, ma deve avere
anche solo tre concetti oltre ai funtori logici (ogni, nessuno). Nel seguente
esempio i tre concetti sono quelli di animale, di mortale e di uomo.
La quaterna terminorum, dicevano i medievali, rende scorretto il ragionamento.
È importante sottolineare come le regole elaborate da Aristotele siano formali,
cioè indipendenti dal contenuto, dal significato dei termini: sono una
connessione necessaria tra premesse e conclusione. Se si invertono le due
premesse il sillogismo sarebbe valido comunque, ma è importante che ci sia un
ordine, determinato dall'estensione del concetto. Il concetto più esteso è
quello di animale, mentre il concetto meno esteso è quello di uomo. Nelle due
premesse solo un termine si ripete due volte: è il termine "animale".
Il termine che si ripete due volte è detto termine medio "M". La
lettera "S" indica il soggetto, la "P" il predicato.
Soggetto e predicato sono sempre determinati in riferimento alla conclusione.
Aristotele introduce otto regole del sillogismo e le applica a tutti i modi del
sillogismo (indipendentemente dal contenuto, dal significato dei termini).
Ogni frase nel sillogismo può essere affermativa o negativa, universale o
particolare (A, E, I, O). Poiché nel sillogismo vi sono tre frasi in linea di
principio si hanno 4 alla terza =64 modi. Siccome il termine medio può assumere posizioni
diverse, vi sono anche le figure da considerare. Aristotele considerava solo tre
figure, mentre i medievali hanno introdotto la quarta figura ("prima
invertita" per Aristotele). Pertanto si hanno 64 · 4 = 256 modi possibili di
sillogismo. Aristotele deve scoprire quali sono quelli validi (per ottenere la
verità devo partire da premesse vere): sono solo 19, tutti gli altri non vanno
bene.
A ogni modo valido del sillogismo i filosofi medievali, che utilizzavano
tantissimo la memoria, hanno attribuito un nome. I nomi hanno vocali e
consonanti: nelle prime tre figure in particolare i nomi hanno solo tre vocali
(per premessa maggiore, premessa minore e conclusione) che alludono al tipo di
proposizione.
Vediamo ora qualche esempio.
SECONDA FIGURA: BAROCO
La seconda figura ha questo schema
Esempio 1
Esempio 2
Esempio 3
TERZA FIGURA: FELAPTON
La terza figura ha questo schema
Esempio 4
Le consonanti dei nomi dei modi
indicavano la procedura per convertire le figure tra di loro. Fra tutte le
figure, la prima è quella più conforme al senso comune.
Per due millenni la logica aristotelica è stata considerata la logica perfetta,
la forma per eccellenza del ragionamento. Anche Dante credeva che il metodo
sillogistico fosse quello perfetto, il paradigma, il modello del buon
ragionamento. Sono importanti in questo senso una disputa sull'acqua e sulla
terra, scritta pochi mesi prima di morire, e alcuni canti del Paradiso con
riferimenti filosofici.
Con la nascita della scienza moderna, il sillogismo si dimostrerà inadeguato a
trattare argomenti non più espressi da frasi, ma da formule. Nell' '800
nascerà quindi, assieme alla teoria degli insiemi, anche una nuova logica.
Il problema delle premesse
Se partiamo da premesse false, attraverso il sillogismo non otteniamo nulla di
certo. Ma ciò che rincuorava Aristotele era che, se partiamo da premesse vere,
siamo sicuri di ottenere una conclusione necessariamente e incontrovertibilmente
vera. Ma come possiamo prendere premesse vere?
Si potrebbero utilizzare come premesse gli assiomi, ovvero i presupposti comuni
a più scienze (come il PNC), oppure i postulati, più specifici perché valgono
solo per una determinata scienza (uno dei postulati della geometria è, per
esempio, "esistono infiniti punti").
Ma se si utilizzassero solo assiomi e postulati come premesse maggiori non
conosceremmo molto, avremmo un campo molto limitato. Quindi per conoscere la
realtà con atteggiamento teoretico non basta avere postulati e assiomi come
premesse.
Una prima ulteriore fonte potrebbe essere rappresentata dalle affermazioni
derivanti dalle definizioni, ma come facciamo a sapere che queste siano vere? Allora potremmo utilizzare come
premesse le affermazioni già accettate, ma anche qui vi sono dei problemi. Infatti
come arrivo per esempio a dire che tutti i gatti sono mammiferi? Apparentemente
si tratta di una verità ovvia, ma è un problema molto importante.
Nelle definizioni invece si coglie l'essenza di ciò che si sta definendo. Per esempio,
la razionalità è l'essenza dell'uomo; se e solo se un essere è razionale
posso dire che è uomo. Per questo motivo l'essere non può propriamente essere
definito.
Per ottenere le definizioni si potrebbe utilizzare l'induzione, un procedimento
che da tanti dati osservati ci permette di arrivare ad una conclusione
universale. L' induzione costituisce una generalizzazione inattaccabile solo se
condotta in un insieme finito: è vera in un insieme finito, negli altri casi è
dubbia poiché vi è sempre possibilità di errore.
In un'inferenza deduttiva si ricavano casi particolari da premesse generali, e
quindi è sempre valida. Nell'inferenza induttiva, se l'insieme di riferimento
è potenzialmente infinito (come ad es. tutti gli atomi di idrogeno...) la
conclusione che si ricava è al massimo probabile, ma è solo un'ipotesi, una congettura. La deduzione funziona in
matematica, ma se si vuole estendere il metodo deduttivo alla conoscenza della
natura (e a questi tipi di conoscenze) avremmo problemi nel trovare le premesse.
La scienza avanza con procedimento dimostrativo. Per ottenere le definizioni che
costituiscono le premesse per i sillogismi bisognerebbe usare, secondo
Aristotele, l'intuizione. Questa individua le definizioni nel carattere della
percezione, una percezione immediata. In filosofia (e in
matematica) "intuizione" non si usa nel senso vago che viene usato in
maniera molto elastica nel linguaggio comune, ma indica una conoscenza
immediata, che non implica ragionamento. Al contrario, la dimostrazione è
mediata perché implica passaggi intermedi.
Certamente l'induzione e l'esperienza servono: sono ciò che permettono di
derivare dalla frase "Questo gatto è un mammifero" che tutti i gatti
essenzialmente sono mammiferi. Induttivamente è possibile raccogliere
informazioni, dati (nel nostro esempio relativi alla respirazione, alla
circolazione, alla riproduzione…) che se non fossero stati esaminati non ci
avrebbero portato all'affermazione universale. L'esperienza e l'induzione rappresentano
la "scintilla" che mette in moto l'intuizione, che è l'atto di
"apprensione intuitiva delle essenze delle cose" secondo la
definizione di Karl R. Popper (filosofo della scienza del '900).
Il problema rimane perché questa "scintilla" non è molto chiara:
l'uomo non raggiunge un'assoluta certezza, ma certezze relative solo ad alcuni
ambiti.
Le nostre conoscenze scientifiche non sono mai assolutamente certe, ma sono
sempre soggette a rivoluzioni scientifiche. Anticamente la geometria euclidea
era considerata come il modello di conoscenza assoluta, il mezzo attraverso il
quale l'uomo poteva raggiungere certezze assolute. Persino Newton nel 1687
(circa 2000 anni dopo Aristotele) esporrà la sua fisica con un meccanismo
simile a quello di Euclide, rifacendosi al modello espositivo degli Elementi.
Con Einstein (circa 100 anni fa) alcune teorie sono state messe in discussione
dal dibattito scientifico. In fisica non ci sono certezze come quelle della matematica.
L'ETICA
Tra le scienze pratiche Aristotele inserisce l'etica, che ha per oggetto il bene
per l'uomo; queste scienze non servono a produrre delle cose, ma guidano le
scelte: questo perchè tutte le attività umane sono svolte in vista di un fine.
Secondo Aristotele esiste un fine ultimo (o sommo bene) da cui tutti gli altri
beni dipendono e che non è mezzo per nessun altro fine, che egli identifica con
la felicità. Bisogna però ricordare la visione greca di felicità, intesa in
senso oggettivo come realizzazione delle proprie potenzialità; questo punto di
vista, invece, secondo cui le norme morali hanno come scopo la felicità è
detto etica finalistica o teologica o ancora eudemonistica.
Di etica Aristotele scrive due opere: l'etica Nicomachea (per il figlio Nicomaco)
e l'etica Eudemia (per il discepolo Eudemo).
ETICA NICOMACHEA
Aristotele sostiene che tutti gli uomini desiderino essere felici, ma hanno idee
diverse di felicità; esistono quindi almeno quattro posizioni:
1)la felicità sta nel piacere
2)la felicità sta nel denaro
3)la felicità sta nell'onore
4)la felicità sta nel sapere
Quella sicuramente errata è la seconda: il denaro, infatti, è per sua natura
un mezzo, mentre tutte e tre le altre possibilità sono in qualche modo conformi
alla natura umana. A parità di condizioni, sia il piacere che l'onore che il
sapere sono buoni criteri per scegliere, perchè l'uomo tende naturalmente ad
allontanarsi dal dolore e ad avvicinarsi al piacere, a desiderare la stima degli
altri, a voler soddisfare le proprie curiosità; il problema è che insieme
questi tre valori a volte sono in contrapposizione o fanno male. Ne è un
esempio la condizione dell'alcolista: egli prova piacere nel bere, ma perde la
stima delle altre persone e non ha la possibilità di accrescere il suo sapere;
serve quindi un criterio di scelta. Il piacere non può essere il fine ultimo,
in quanto frammisto al dolore e instabile, frammentario; la stessa cosa vale per
l'onore, che dipende più dalle altre persone che da noi stessi: questo è
l'esempio di Socrate, condannato a morte come corruttore di giovani nonostante
il comportamento sempre corretto. L'unico che può essere perseguito sempre è
il sapere, perchè conoscere tante cose è sempre un bene e non ci sono
controindicazioni.
Potremmo dunque vedere la felicità in questo modo: come un sapere pieno, in cui
vanno poi perseguiti onore e piacere secondo un ordine gerarchico; il denaro è
sempre e solo un mezzo.
Concetto di virtù
La virtù è un'inclinazione, non una necessità: è un abito positivo, che ci
avvicina alla felicità; il vizio è l'inverso. Essere virtuosi, secondo
Aristotele, è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere felici:
ad un uomo virtuoso, infatti, potrebbero capitare diverse sfortunate situazioni
(come perdere la moglie o la casa, non avere figli maschi...), per le quali egli
non può essere definito felice.
Le virtù non sono innate: esse vanno coltivate e dipendono molto dall'ambiente
in cui si cresce, dalle abitudini prese fin da piccoli; Aristotele ne introduce
un'importante suddivisione, in etiche e dianoetiche.
Le virtù etiche o attive orientano il comportamento dell'uomo e hanno una
particolarità: possono essere viste come il giusto mezzo tra due vizi opposti;
il coraggio, ad esempio, è a metà tra viltà e temerarietà, la liberalità
tra avarizia e prodigalità, la temperanza tra intemperanza e insensibilità; la
virtù etica più importante è la giustizia, che può essere distributiva
(distribuisce onori e vantaggi in base ai meriti) o commutativa (presiede ai
contratti, pareggiando vantaggi e svantaggi)
Per le virtù dianoetiche, invece, non vale la stessa regola: meglio averne il
più possibile. Aristotele ne individua 5: l'intelligenza, che coglie i principi
primi; la scienza, cioè la capacità dimostrativa; la sapienza, dall'unione
delle prime due; l'arte, che produce oggetti; la saggezza (phronesis), ovvero la
capacità di scegliere i mezzi adeguati al fine, acquisibile solo con
l'esperienza e quindi non insegnabile.
Se consideriamo i possibili atteggiamenti dell'uomo rispetto alla virtù, secondo Aristotele possiamo distinguere 4 casi:
TEMPERANTE INTEMPERANTE
CONTINENTE INCONTINENTE
Noi abbiamo desideri: proviamo
piacere se li realizziamo, altrimenti dispiacere. Non sempre però questi
portano alla felicità.
Aristotele chiama continente colui che, sapendo che un certo desiderio, in una
determinata situazione, non gli fa bene, si trattiene a fatica, pur desiderando. Colui che
sa che il desiderio non lo porta alla felicità, ma lo persegue comunque, è
invece incontinente.
Queste prime due situazioni presuppongono una conoscenza di come stanno le cose
e di ciò che può far male, le altre no. Temperante è colui che si accontenta
del bene che ha ricevuto e, soddisfatto, si ferma; gli viene naturale fare il
bene, non c'è un sacrificio come nel continente. L'intemperante, al contrario,
non si ferma assolutamente, non sapendo o non tenendo conto che quel desiderio
lo allontana dalla felicità.
Aristotele fa una sorta di classifica di questi comportamenti: migliore il
temperante, seguito dal continente, incontinente e intemperante Nel cristianesimo
e in alcune visioni mistiche, invece, risulta al primo posto il continente,
ovvero colui che riesce a trattenere con la ragione i propri piaceri, con una
lotta interiore (es: santi).
Il problema della libertà
Il fine ultimo è per tutti la felicità: la libertà sta nella scelta dei mezzi
per raggiungere il fine, anche se fin da subito subentrano le abitudini a
condizionarci.
Aristotele però non ha tenuto conto del problema del libero arbitrio: secondo
lui, infatti,la scelta risulta condizionata dalle caratteristiche e dalla natura
dell'oggetto preso in considerazione. Tale visione, portata alle estreme
conseguenze come nel Medioevo con l'esempio dell'asino di Buridano risulta
contraddittoria: ecco che se un asino si trovasse in mezzo a due mangiatoie
uguali, alla stessa distanza, come dovrebbe agire? Se fosse vero
l'intellettualismo etico di Socrate l'asino non sceglierebbe mai, morirebbe di
fame; entra invece in gioco un atto di volontà: perchè l'uomo ragiona prima di
compiere una scelta, ma vi è necessariamente una certa autonomia della volontà. In Aristotele, come
in tutta la cultura greca, manca la categoria della volontà, uno dei punti da
cui si distinguerà poi la scolastica medievale.
La dottrina dell'amicizia
Nell'ottavo e nel nono libro dell'Etica nicomachea troviamo un'analisi
dell'amicizia. Per Aristotele l'amicizia è indispensabile alla vita, non solo
è na cosa necessaria ma anche bella. Aristotele afferma che esistono tre specie
di amicizia:
·L'amicizia di utilità
·L'amicizia di piacere
·L'amicizia di virtù
Le prime due amicizie sono accidentali e facili a rompersi, mentre l'amicizia di
virtù è stabile e ferma in quanto fondata sul bene.
Dopo aver distinto le diverse specie di amicizia, Aristotele individua le
condizioni in cui si realizza l'amicizia. Innanzitutto solo vive in intimità di
rapporti può esercitare effettivamente l'amicizia. Inoltre ci deve essere una
sostanziale uguaglianza tra gli individui.
LA POLITICA
La politica è un'opera che fa parte delle scienze pratiche e ha come oggetto il
bene per la città. Aristotele credeva che l'uomo per realizzarsi non solo
doveva essere virtuoso, ma doveva anche vivere in una città giusta. Questa idea
era condivisa anche da Platone, tuttavia i due filosofi avevano due atteggiamento completamente diversi: Platone aveva un atteggiamento normativo,
mentre Aristotele descrittivo. Quest'ultimo infatti si era fatto arrivare le
costituzioni di molte città e le aveva analizzate con lo scopo di individuare
ciò che appartiene per natura a tutte le città. Attraverso questa analisi
Aristotele notò che in tutte le sociètà è possibile fare una distinzione tra
2 momenti: la decisione (potere legislativo) e l'esecuzione (potere esecutivo).
Con questo metodo Aristotele però ha compiuto anche alcuni errori: - Questione
della schiavitù: Aristotele aveva notato che in tutte le città greche e in
tutte le civiltà antiche era
presente la schiavitù, per questo credeva che gli schiavi fossero un elemento
naturale e costitutivo della società. - Questione delle donne: Aristotele si
era accorto che in tutte le città greche la donna era meno importante, quindi
credeva che l'inferiorità giuridica della donna fosse una cosa naturale.
Aristotele nella Politica distingue 3 tipi fondamentali di costituzione:
MONARCHIA = governo di uno solo ARISTOCRAZIA = governo dei migliori POLITIA =
governo della moltitudine A questi tre tipi di governo aggiunge altrettante
degenerazioni: TIRANNIDE = monarchia degenerata che ha per fine il vantaggio del
monarca OLIGARCHIA = aristocrazia degenerata in cui ai migliori si sostituiscono
i più ricchi DEMOCRAZIA = politia degenerata in cui al vantaggio di tutti si è
sostituito il vantaggio dei meno ricchi.
N. B. Gli appunti sono stati presi durante le lezioni e non sono stati rivisti, ne integrati con le spiegazioni del manuale di filosofia in adozione
risorse internet su Aristotele Maurilio Lovatti main list of papers
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