Maurilio Lovatti
Un cinico baratto?
Giovanni Bazoli e le vicende della proprietà del Giornale di Brescia
A novembre dello scorso hanno ho avuto occasione di scrivere un breve saggio sulla storia degli assetti proprietari del Giornale di Brescia, che mi ha causato non poco ostracismo.[1]
Lo scritto è stato pubblicato su internet.
La storia segreta del Giornale di Brescia
Tutti i giornali e gli organi di stampa locale a cui era stato inviato lo hanno censurato, con l'unica lodevole e coraggiosa eccezione di Bresciaoggi, che ha pubblicato il 28 novembre un ampio articolo di Aldo Sorlini, che riassume con chiarezza e precisione le tesi fondamentali del mio scritto e informa correttamente i lettori su una questione centrale della vita politica e culturale locale:
La
carta stampata e l'influenza persa della diocesi
Ora esamino con maggior precisione il ruolo nella vicenda del prof. Giovanni Bazoli, attuale presidente della Banca Intesa Sanpaolo. Nei primi mesi del 1980, quando avvengono i passaggi delle azioni dell'Editoriale Bresciana da Banca S. Paolo di Brescia e Scuola editrice a Gold Line, a sua volta ceduta alla Fondazione Tovini, Bazoli è segretario del CdA della Banca (era consigliere dal 1976 e diverrà vicepresidente l'anno successivo) e vicepresidente anche del CdA della Scuola Editrice (lo era dal 1971). Era quindi uno dei pochi, se non l'unico, a poter comprendere tutte le conseguenze dell'abile operazione orchestrata da Giuseppe Camadini con l'appoggio del sen. Lodovico Montini. Non condivide la soluzione finale (tutto nelle mani della Fondazione Tovini, ente di diritto privato, senza alcun potere di controllo del Vescovo) ma non dice nulla né nei consigli di amministrazione né nelle assemblee della Banca e della casa editrice. Perché?
Per rispondere alla domanda occorre un passo indietro di ben 27 anni.
Aprile 1953. Il comitato provinciale della DC bresciana, eletto nel congresso del 21 ottobre 1951, è chiamato a scegliere i candidati alla Camera per le imminenti elezioni politiche del 7 giugno 1953. Si fronteggiano due opzioni: da un lato c'è chi vuole confermare i 5 deputati uscenti, che hanno ben operato, dall'altro chi auspica un parziale rinnovamento della rappresentanza parlamentare della DC bresciana. La commissione elettorale presieduta da Giuseppe Libretti, nonostante la presenza di autorevoli esponenti come Mario Faini, Fabiano De Zan e Giulio Onofri, non è riuscita a trovare un accordo e ha rimesso la questione al comitato provinciale. Dopo una vivace discussione, Carlo Albini, segretario aggiunto della CISL, propone al comitato provinciale della DC una mozione, ispirata da Lodovico Montini, da votarsi a scrutinio palese, che prevede la conferma di soli tre deputati uscenti su 5. La proposta è approvata ad ampia maggioranza. La maggioranza si forma per il coagulo di interessi convergenti: al posto dei due esclusi i candidati con più possibilità di elezione sono Mario Pedini, segretario provinciale della DC, e Angelo Gitti, segretario generale CISL. L'elezione di Pedini spianerà la strada al ritorno del sindaco Boni alla Segreteria, mentre quella di Gitti, che pur rimarrà formalmente al suo posto alla CISL, di fatto porterà Albini al vertice del sindacato. Subito dopo, a scrutinio segreto, sono scelti i tre deputati da confermare, che risultano essere Lodovico Montini, Enrico Roselli ed Egidio Chiarini. Sono così esclusi dalla lista per la Camera Laura Bianchini e Stefano Bazoli. L'accantonamento della prima, docente di filosofia e dossettiana convinta, non desta sorpresa. Il radicamento della corrente della sinistra DC che faceva capo a Giuseppe Dossetti a Brescia era molto scarso, quasi nullo, per questo l'esclusione della Bianchini, nonostante le sue indubbie capacità e il suo impegno generoso da parlamentare, era nella logica delle cose. Incredibile invece l'esclusione di Stefano Bazoli, uno dei parlamentari più autorevoli che la provincia di Brescia abbia mai espresso fin dai tempi di Zanardelli: colto, profondo, prestigioso, amico di don Primo Mazzolari, stimato da De Gasperi, che gli aveva anche affidato il ruolo delicato ed importante di mantenere il collegamento con Nenni durante la difficile fase di approvazione della legge elettorale. Inoltre ovviamente per lui non valgono le ragioni di scarsa rappresentatività invocate per la Bianchini. Forse Lodovico Montini lo considera troppo aperto e autonomo nel giudizio, gli è inoltre imputato di non aver difeso con forza il principio dell'indissolubilità del matrimonio durante la discussione nell'Assemblea Costituente sull'art. 24 della Costituzione (che corrisponde all'attuale art. 29). Durante la tormentata vicenda dell'approvazione parlamentare della legge elettorale, Bazoli aveva espresso parere contrario ad un premio di maggioranza così alto (65% di seggi alla coalizione di maggioranza) come quello proposto da De Gasperi, per altro criticato anche da Attilio Piccioni ed altri dirigenti democristiani, e poi approvato dal Parlamento. Forse anche questa franchezza e questa autonomia di pensiero non sono apprezzate da Montini.[2]
Bazoli è profondamente amareggiato, sa che Montini e Albini hanno agito con l'approvazione di mons. Almici, delegato vescovile per l'Azione Cattolica, a cui mons. Giacinto Tredici aveva affidato la gestione delle vicende politico sindacali. Tuttavia durante la campagna elettorale non protesta per l'ingiusta esclusione, non dice nulla per non danneggiare la Democrazia Cristiana.
Ad elezioni avvenute, Stefano Bazoli scrive una lettera al Vescovo, da cui traspare tutta la sua amarezza, nella quale afferma che la Curia "si è esposta, senza alcuna ragione imperiosa e perfino prudente […] nelle diatribe politiche di partito."[3] Implicitamente Bazoli si lamenta per le eccessive ingerenze di mons. Almici nelle decisioni politiche della DC, ingerenze che erano quasi un tratto abituale del carattere accentratore e autorevole del sacerdote, ma che secondo Bazoli in qualche modo esponevano inopportunamente la Curia nelle battaglie tra le correnti democristiane, compromettendo indirettamente l'imparzialità e il ruolo del Vescovo.
27
anni dopo…
Nel 1980 avviene la svolta decisiva nel riassetto degli assetti proprietari della Società Editoriale Bresciana, che possiede il Giornale di Brescia. Nella relazione al bilancio consuntivo della Banca S. Paolo del 1979, presentato all'assemblea del 24 giugno 1980, si precisa che per disposizioni del Comitato interministeriale per il Credito e il Risparmio devono essere alienate le partecipazioni bancarie nei quotidiani. Pertanto si comunica che "le azioni di proprietà della Banca S. Paolo attinenti l'Editoriale Bresciana sono state trasferite nei mesi scorsi ad un gruppo di editrici capeggiate da La Scuola di Brescia e al quale appartengono anche l'editrice Morcelliana, pure di Brescia, e la Studium di Roma." (cioè la Gold Line). Ciò per garantire "l'impegno di continuità morale ed operativa che ha caratterizzato il quotidiano in questi anni di attività dalla Liberazione ad oggi". Va osservato che la Banca S. Paolo era caratterizzata da un azionariato numeroso e diffuso, espressione del mondo cattolico locale: nella citata assemblea del 24 giugno 1980 erano presenti personalmente o per delega 1232 azionisti. Nessun socio della Banca solleva perplessità, perché tutti sono convinti di lasciare le azioni in buone mani, cioè alle case editrici cattoliche.
Dal consuntivo della Banca del 1980 si evince che le azioni sono state vendute per £ 874.912.000 (pari a £ 322.852.880, valore iscritto a bilancio, + £ 552.059.120 di plusvalenza, contabilizzata nell'utile da negoziazione titoli), cifra enormemente al di sotto del valore di mercato. Infatti, la SEB al 31 dicembre 78 possedeva immobili iscritti a bilancio per 1.459.510.000£ (pari ad un valore di mercato di almeno il doppio: solo l'edificio dove ha sede il Giornale era iscritto a bilancio nel 1975 per il valore di costruzione di 474.502.854, mentre valeva circa il triplo); possedeva impianti per 852.842.000£, sempre secondo iscrizione a bilancio, e depositi liquidi per 357.000.000£. Inoltre era attiva e possedeva il Giornale di Brescia. Anche in mancanza di stime precise si può affermare che la SEB valeva almeno 6-8 miliardi.
Nel 1980, il Presidente della Banca S. Paolo è l'ing. Adolfo Lombardi, Vittorio Montini è vicepresidente e Giovanni Bazoli Segretario. Gli altri consiglieri sono: Pierluigi Buizza, Giuseppe Camadini, Davide Cancarini, Attilio Franchi, Osvaldo Passerini Glazel, Paolo Peroni ed Enrico Silvioli. Il dott. Giuseppe Camadini era stato presidente della Banca dal 1970 al 1976.
Già nell'anno successivo, il 1981, tutte le azioni SEB e Gold Line sono rivendute allo stesso prezzo (non sono dichiarate plusvalenze) dalla Scuola Editrice alla Fondazione Tovini amministrata dal dott. Giuseppe Camadini: a tutt'oggi la Tovini possiede il 91,6% della Gold Line, che possiede il 74,3% della SEB che controlla il Giornale di Brescia. In pratica la diocesi è completamente estromessa. Fino al 1980 la SEB, e quindi il Giornale di Brescia, appartenevano alla Banca S. Paolo (i cui 1232 azionisti erano espressione di tutte le realtà del mondo cattolico bresciano, compresi vari ordini religiosi locali, maschili e femminili) e per l'8% del Vescovo, cioè erano un patrimonio comune dei cattolici bresciani. Adesso sono, di fatto, proprietà di una Fondazione civile privata, autoreferenziale e chiusa, che risponde del suo operato solo a sé stessa e non al Vescovo. Va ricordato che gli azionisti della Banca S. Paolo approvarono in buona fede il trasferimento delle azioni alla Gold Line di Roma, perché in quel momento era espressione delle editrici cattoliche bresciane. Non potevano certo sapere che pochi mesi dopo la Scuola Editrice avrebbe venduto tutte le azioni (sempre a un prezzo enormemente inferiore al valore di mercato) alla Fondazione Tovini.
E infatti nel 1980 la Gold Line ottiene a prestito da una banca romana i soldi per acquistare le azioni della SEB dalla Banca S. Paolo, poiché in quel tempo la Gold Line era ancora della Scuola. Subito dopo, nel 1981, però la Scuola Editrice le rivende alla Tovini, senza nulla comunicare all'assemblea, se non mezza riga in cui si dice "vendute azioni per £ 594.610.000". La Scuola era già controllata dall'Opera per l'Educazione Cristiana, amministrata da Giuseppe Camadini e tutto avviene sotto silenzio. Nessun socio si lamenta, perché nessuno che non faccia parte del CdA sa o capisce cosa sta avvenendo.
La Tovini restituisce il prestito alla banca in pochi anni con i profitti della SEB e si ritrova a possederla praticamente gratis! Nel giro di poco più di due anni, Curia, Scuola e Banca S. Paolo perdono ogni influenza sul Giornale di Brescia. Da notare che all'epoca Camadini era nel Consiglio d'Amministrazione della Banca S. Paolo e della Scuola, inoltre faceva parte della Gold Line, della Tovini e dell'OEC.
Di fatto, pertanto dal 1980 ad oggi, Il Giornale di Brescia non è in alcun modo dipendente dalla diocesi o espressione dell'intero mondo cattolico bresciano, ma solo di una parte di esso, quella che faceva capo al dott. Camadini, che negli anni '60 e '70 costituiva politicamente l'area dorotea della DC, che negli anni '80 era legata alla destra DC e che dopo la dissoluzione del partito cattolico, rappresenta l'ala conservatrice e tradizionalista del mondo cattolico bresciano.
Se questo è in sintesi il riassunto di ciò che è successo (per un'analisi più dettagliata e per i riferimenti ai documenti consultati si veda la citata Storia segreta del Giornale di Brescia), si pone ora la questione: perché il prof. Giovanni Bazoli, l'unico che poteva capire cosa effettivamente stava succedendo, non manifesta alcuna opposizione o riserva, né pubblicamente, né negli organi societari? Come si è visto, nel 1980 egli era segretario del CdA della Banca (era consigliere dal 1976 e diverrà vicepresidente l'anno successivo) e vicepresidente anche del CdA della Scuola Editrice (lo era dal 1971). Era quindi uno dei pochi, se non l'unico, a poter comprendere tutte le conseguenze dell'abile operazione orchestrata da Giuseppe Camadini con l'appoggio del sen. Lodovico Montini.
Inoltre non poteva ignorare che il sen. Montini era il capofila di quel gruppo moderato-conservatore che nel 1953 aveva orchestrato in un modo così subdolo, sotto l'abile regia di mons. Almici, l'allontanamento di suo padre dal Parlamento nel 1953. Né poteva ignorare che Giuseppe Camadini, pupillo di mons. Almici e uomo dell'AC, era un fido esecutore dell'ormai ottantaquattrenne senatore democristiano (molto meno aperto e più conservatore del fratello, l'indimenticabile papa Paolo VI, scomparso due anni prima). Era inoltre consapevole di una certa diffidenza del gruppo Montini-Camadini nei confronti del cattolicesimo democratico, e anche dell'apprensione che gli stessi mostravano per l'ormai imminente successione al vescovo di Brescia, mons. Luigi Morstabilini, ormai prossimo ai 75 anni (era nato nel 1907). Sapeva infine benissimo che nella DC bresciana la corrente dorotea guidata da Mario Pedini, di cui avevano fatto parte negli anni '60 Montini e Camadini, aveva duramente contrastato l'azione politica del fratello Luigi Bazoli, almeno a partire dal XV congresso provinciale della DC, nel novembre del 1965, quando si era formata una maggioranza interna composta dai fanfaniani di Boni, Fada e De Zan e dalla sinistra DC, escludendo i morodorotei. L'avv. Luigi Bazoli, tragicamente scomparso il 10 ottobre 1996, era stato eletto nel consiglio comunale di Brescia il 22 novembre del 1964, e il mese successivo era diventato assessore della prima giunta di centrosinistra a Brescia, carica che manterrà fino alle elezioni amministrative del giugno 1980. Ha scritto Paolo Corsini: «Luigi Bazoli, responsabile dell'Urbanistica in anni di straordinaria crescita, fu protagonista illuminato della programmazione dello sviluppo di Brescia, così che al suo nome e a quello di Leonardo Benevolo resteranno indissolubilmente legate le scelte che hanno profondamente inciso nella città del secondo Novecento».[4]
Tenendo presente tutto ciò, il silenzio del prof. Giovanni Bazoli appare a prima vista incomprensibile. Perché permettere che il Giornale di Brescia, che dagli anni dell'immediato dopoguerra apparteneva alla Banca S. Paolo e alla Curia, cioè al mondo cattolico nella sua interezza, sia consegnato a quel gruppo di potere montiniano - camadiniano, gruppo di potere conservatore e tradizionalista, lo stesso che aveva ingiustamente escluso il padre dalla Camera e apertamente osteggiato l'illuminata e coraggiosa politica urbanistica del fratello Luigi? Perché tacere? Per opportunismo, per interessi economici, per legami professionali e parentali,[5] per mancanza di coraggio?
C'è forse un'ipotesi verosimile che può spiegare questo comportamento, ipotesi che cercherò di esporre e di giustificare. Ma innanzi tutto devo precisare che un'ipotesi è e rimane un'ipotesi, per diventare una tesi storicamente attendibile dovrebbe basarsi su documenti incontrovertibili, che in vicende di questo genere raramente sono disponibili. Nell'ambito dell'economia gli accordi importanti raramente sono verbalizzati! Tre o quattro indizi convergenti non fanno mai una prova! A dire il vero, nemmeno 10 indizi… Tuttavia ritengo che un'ipotesi plausibile, che sia compatibile con tutti i dati e i documenti a disposizione, debba esser presa in seria considerazione, almeno fino a quando qualcuno sia in grado di proporre una spiegazione verosimile di comportamenti che altrimenti sembrerebbero incomprensibili e inesplicabili.
L'ipotesi
che intendo sostenere è questa: l'ascesa di Giovanni Bazoli alla
presidenza del Nuovo Banco Ambrosiano è strettamente correlata
alle vicende bresciane, ad una sorta di spartizione dei ruoli tra
Camadini e Bazoli, il primo destinato a divenire il controllore supremo
e incontrastato del blocco di potere economico-culturale d'area
cattolica (Banca S. Paolo, Fondazione Tovini, Opera per l'Educazione
Cristiana, La Scuola Editrice, Giornale di Brescia) il secondo destinato
a rappresentare la Banca a livello nazionale. A prima vista appare un
anacronismo macroscopico: la nomina di Bazoli alla Presidenza del NBA è
dell'agosto 1982, mentre la modifica degli assetti societari della SEB
si conclude, come si è visto, nel 1980. Per comprendere i nessi è
necessario qualche passo indietro.
Il
Banco Ambrosiano
La filiale milanese della Banca S. Paolo di Brescia, pur essendo formalmente una delle tante filiali, aveva in realtà un ruolo importante perché tramite essa la Banca compiva tutte le operazioni di Borsa e intratteneva i rapporti con le altre banche. Negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta la filiale aveva circa 40 dipendenti.
Da un rapporto della Guardia di Finanza di Milano del 12 giugno 1980, sappiamo che nel 1973 la filiale milanese della Banca S. Paolo aveva provveduto a vendere 25550 azioni della Toro Assicurazioni, di proprietà della Centrale Finanziaria Generale[6] (detta comunemente Centrale) controllata interamente del Banco Ambrosiano di Calvi, alla Banque Lambert del Lussemburgo. La Banca lussemburghese, finanziata allo scopo dalla Centrale Finance di Nassau (Bahamas) controllata sempre dalla Centrale, a sua volta rivendeva le Azioni alla Konzentra di Vaduz (Liechtestein), il tutto nell'ambito di un'operazione finalizzata a trasferire circa 600 mila azioni della Toro, per costituire una riserva in nero che servirà a Roberto Calvi per acquisire il pieno controllo dell'Ambrosiano, tra il 1974 e il 1975, tramite la Suprafin spa.[7] Calvi aveva iniziato a rastrellare azioni della banca milanese nel 1973, tramite la Radowall Financial Holding di Vaduz; nel 1974 ne diviene Amministratore delegato. Sempre nel 1980, Nilo Gacci, funzionario della filiale milanese della Banca S. Paolo, viene a lungo interrogato dagli inquirenti, che cercano di comprendere il meccanismo con cui Calvi aveva costituito queste provviste estere che gli avevano consentito la scalata dell'Ambrosiano. Negli anni in cui Calvi acquisisce il controllo dell'Ambrosiano, Camadini era presidente della Banca S. Paolo (si dimetterà dalla carica per incompatibilità con la professione di notaio[8]) e verosimilmente non ignorava il senso delle operazioni di Calvi per acquisire il controllo della banca cattolica milanese. All'epoca, d'altronde Calvi godeva la piena fiducia del mondo cattolico, al punto che nel 1972 lo IOR di mons. Marcinkus vende alla Centrale Finanziaria dell'Ambrosiano, il pacchetto azionario di controllo della Banca Cattolica del Veneto (circa il 37% delle azioni), nonostante la fermissima ed esplicita contrarietà di mons. Albino Luciani, il futuro papa Giovanni Paolo I.
Inizialmente Calvi agiva di concerto con lo IOR di Marcinkus, ma quando nel 1978 la Banca d'Italia inizia ad indagare sulle irregolarità della gestione dell'Ambrosiano,[9] il rapporto tra Calvi e il Vaticano, già scottato per il caso Sindona,[10] inizia ad incrinarsi. Non è un caso che, proprio in quell'anno, Camadini propone e ottiene che la Banca S. Paolo venda circa 10.500 azioni dell'Ambrosiano, come atto conclusivo di una serie di operazioni che portano la quota della banca bresciana nell'Ambrosiano ai minimi storici, cioè a circa lo 0,30%, dal 2% iniziale, che era la quota massima prevista dallo Statuto dell'istituto milanese.[11] Può essere significativo tener presente che nello stesso anno 1978, l'industriale bresciano "laico" Luigi Lucchini, uomo forte del CAB, possedeva invece ancora interamente la sua quota del 2% delle azioni dell'Ambrosiano. Evidentemente Camadini era meglio informato, grazie ai contatti con gli ambienti vaticani. Il tramite tra Camadini e gli ambienti vaticani è mons. Giovanni Battista Re, anch'egli camuno e amico fraterno del banchiere bresciano, che negli anni che qui ci interessano (1977-82) è alla Segreteria di Stato.[12]
Agli inizi del 1980, quando sono prese le decisioni rilevanti per la vicenda del Giornale di Brescia, non si è ancora definitivamente compiuta la rottura tra Calvi e il Vaticano. Si può ragionevolmente presumere che nei primi mesi del 1980, allo IOR si ipotizzasse di affiancare a Calvi altri manager cattolici, e ancora non si avesse la piena consapevolezza del buco che si era creato all'Ambrosiano. In vicende così complesse e ancora in parte oscure, è molto difficile stabilire date certe. Tuttavia dall'analisi delle carte mi sono convinto che il punto di svolta che ha portato ad un'insanabile sfiducia del Vaticano nei confronti di Calvi sia il 3 luglio 1981, quando Pellegrino De Strobel, ragioniere capo dello IOR, nell'esaminare i conti del Banco del Gottardo (banca di proprietà dell'Ambrosiano) a Lugano, scopre un buco di oltre un miliardo di dollari, prima sconosciuto. Si tratta di circa la metà dell'ammanco complessivo creato dalla gestione di Calvi. Negli stessi mesi Roberto Calvi era in carcere,[13] e 5 giorni dopo, l'8 luglio, tenta il suicidio. Già in questo periodo, il Vaticano pensa ad una soluzione per sostituire Calvi, promuovendo una cordata di cui anche la Banca S. Paolo avrebbe avuto un ruolo significativo.[14] Non se ne fece più nulla quando, il 18 novembre dello stesso anno, De Benedetti compra il 2% dell'Ambrosiano, con un investimento di circa 50 miliardi, lasciando sperare in un suo diretto intervento per il salvataggio della banca milanese, anche perché gli era stato dato il via libera dal governatore Ciampi.[15]
Le
cose precipitano l'anno successivo: il 7 giugno del 1982 Calvi è messo
in minoranza nel CdA dell'Ambrosiano, il 9 giugno fugge dall'Italia e il
18 giugno muore appeso
all’impalcatura sotto il Blackfriars Bridge, a Londra, intorno
alle due di notte.
Nel corso del mese di luglio Beniamino Andreatta, ministro del Tesoro del governo Forlani, si impegna in prima persona a formare una cordata per il salvataggio dell'Ambrosiano, escludendo l'erogazione di fondi pubblici per ricapitalizzare la banca milanese al fine di evitarne la liquidazione. La cordata risulterà formata da 7 banche, tre pubbliche (IMI, BNL e S. Paolo di Torino) e 4 private (Banca Popolare di Milano, S. Paolo di Brescia, Credito Romagnolo e Banca Agricola Commerciale di Reggio Emilia[16]). Il 6 agosto 1982, il Comitato interministeriale per il Credito ed il risparmio, presieduto da Andreatta, con la presenza del governatore della Banca d'Italia Ciampi, pone in liquidazione coatta l'Ambrosiano, e contestualmente è nominato il CdA del Nuovo Banco Ambrosiano, che vi subentra a garanzia degli impegni (esclusi quelli delle controllate estere) dell'istituto milanese. Il 50% del capitale del Nuovo Banco Ambrosiano (NBA) è posseduto dalle banche private, ma non in parti uguali: la Popolare di Milano ha il 20%, mentre le altre tre, inclusa la Banca S. Paolo di Brescia, solo il 10% ciascuna.[17] Secondo Pierdomenico Gallo, primo direttore del NBA, la Banca S. Paolo di Brescia è tra le sette banche fondatrici "la più fragile"[18] (era allora la 36° banca italiana in ordine d'importanza).
A detta dello stesso Bazoli,[19] l'altro autorevole candidato alla presidenza del NBA era Piero Schlesinger, presidente della Banca popolare di Milano. Perché è scelto Bazoli e non Schlesinger? Tutti i parametri oggettivi avrebbero indotto a pensare che il presidente della Banca milanese fosse il prescelto. In particolare:
a) la Banca Popolare di Milano aveva investito nell'Ambrosiano il doppio della S. Paolo di Brescia e inoltre, secondo gli accordi costitutivi della cordata, alla Popolare di Milano spettavano tre consiglieri nel CdA, mentre alla altre banche private solo due;[20]
b) Schlesinger era il presidente e leader incontrastato della sua banca, mentre Bazoli era solo il n. 4 della banca bresciana (oltre a Camadini, precedevano Bazoli sia il presidente Adolfo Lombardi, sia il primo vicepresidente Vittorio Montini: quest'ultimo, infatti, ricopriva la carica dal 1979, mentre Bazoli lo era dal 1981, quindi dopo le vicende relative alla proprietà del Giornale di Brescia);
c) Schlesinger era professore ordinario di diritto privato all'Università Cattolica, e quindi aveva un incarico accademico più prestigioso di Bazoli;
d) il ministro Andreatta non aveva nascosto inizialmente il suo appoggio a Schlesinger, anche se conosceva personalmente e stimava entrambi i candidati;
e) Bazoli era talmente sconosciuto negli ambienti romani della Banca d'Italia e del ministero del Tesoro, che in una delle prime riunioni preliminari alla costituzione della cordata delle banche, fu costretto ad alzarsi in piedi per dire "Bazoli sono io",[21] perché nessuno lo conosceva. Lo stesso Carlo Azeglio Ciampi non ricordava chi fosse, tanto che nel suo diario, nell'annotare i nomi dei partecipanti per le varie banche, scrive: "S. Paolo di Brescia (Gradi e …)"[22], non ricordando né il cognome di Bazoli, né quello di Masetti Zannini.
f) Al contrario, tra la scomparsa di Calvi e l'istituzione del NBA, Ciampi aveva avuto vari contatti (personali e telefonici) con Schlesinger e Gradi, ma non con Bazoli.[23]
Insomma logica, buon senso e rispetto delle gerarchie avrebbero condotto naturalmente alla presidenza Schlesinger. Invece è scelto Bazoli. Perché? Nessuno ha mai fornito una spiegazione plausibile. A partire dallo stesso Bazoli che in un'intervista a Repubblica dichiara incredibilmente: "Mi sono molto adoperato perché nascesse il NBA, ma era lontano da me il pensiero che la responsabilità massima cadesse sulle mie spalle […] C'è stata una gara al rifiuto di questa presidenza, fra me e Schlesinger. Ho perso io. Tuttavia non è che mi manchi il coraggio…"[24] E anche nel verbale n.1 del NBA, risulta che Bazoli ha dichiarato che l'elezione a presidente è stata da lui "profondamente sofferta" ed è stata accettata avvertendo il "dovere civile" di prestare la propria collaborazione nei limiti delle proprie forze in un'iniziativa così delicata.[25] Commenta Giancarlo Galli: "La personalità di Giovanni Bazoli resta da decifrare. Su un versante l'assoluta onestà personale, sull'altro inconfessabili ambizioni dietro la cortina fumogena dell'umiltà, del disinteresse per la cariche."[26]
La spiegazione proposta da Bazoli appare inverosimile. Viste le ricadute economiche, di prestigio e di potere che la carica ha determinato negli anni seguenti,[27] non riusciamo proprio ad immaginare una gara al rifiuto: "prendila tu la presidenza…"; no, io no…"; "io nemmeno"; "va be, se proprio insisti…".
Anche Camadini sul punto preferisce non rispondere. Intervistato da Giancarlo Galli, il 10 febbraio 2010, nella sede della Fondazione Paolo VI, a Concesio (BS), Giuseppe Camadini racconta di una riunione dell'estate del 1982 (deduciamo in luglio, perché dopo la morte di Calvi) a casa sua, presenti Lodovico Montini e Giorgio Zanotto, allora vicepresidente della veronese Cattolica Assicurazioni. L'intervistatore commenta: "I cattolici erano dunque chiamati a reagire, facendo squadra…" e Camadini replica: "urgeva un impegno primario, una tensione unitaria tra i cattolici. Guardare in Alto e in avanti…" Ma alla domanda più precisa di Galli: "Si parlò anche delle candidature di Giovanni Bazoli e del milanese Piero Schlesinger per la rinascita del Banco Ambrosiano, interpretando gli auspici del potente ministro del Tesoro Nino Andreatta?" Camadini non risponde perché, sottolinea il giornalista, "preferisce volare alto."[28]
In effetti anche i giornali del tempo non forniscono spiegazioni illuminanti su questa nomina sorprendente, a parte la colta osservazione che sia la Banca S. Paolo di Brescia sia l'Ambrosiano erano state fondate da Giuseppe Tovini (nel 1888 la prima, nel 1896 la seconda) da cui si deduce che la nomina di Bazoli ha un indubbio valore simbolico. Il Sole-24ore, uno tra i pochi quotidiani che si spinge a qualche commento su questa nomina, non sembra però cogliere nel segno. Infatti scrive: "Rispetto alle indiscrezioni dei giorni scorsi sono cadute quindi le candidature di Florio Gradi e di Francesco Cesarini per la presidenza e quella di Enrico Filippi per la vicepresidenza."[29] Non sappiamo ovviamente dove il solerte giornalista abbia raccolto tali fantasiose indiscrezioni: Florio Gradi era semplicemente il direttore della Banca S. Paolo, funzionario a suo tempo scelto da Camadini e Lombardi perché proveniente dalla Banca d'Italia;[30] Francesco Cesarini era un consigliere della Banca Popolare di Milano, di cui Schlesinger era presidente. La candidatura di Enrico Filippi, invece, non era per nulla caduta! Pochi giorni dopo sarà nominato vicepresidente, insieme a Ruggero Ravenna, che rappresentava non solo la Banca Nazionale del Lavoro, ma anche le altre due banche pubbliche.
Anche il quotidiano Il Giornale riferisce sui contrasti inerenti alla nomina del presidente del NBA: il giorno stesso della nomina, cita tra i possibili candidati in primo luogo Schlesinger e poi Gaetano Lazzati, presidente del disciolto consiglio di sorveglianza, Roberto Ruozi, docente della Bocconi e Francesco Cesarini, docente di tecnica bancaria all'Università Cattolica di Milano, e quindi collega sia di Schlesinger sia di Bazoli e, come si è visto, consigliere della Banca popolare di Milano.[31]
Molto più preciso e documentato è Massimo Mucchetti, che dalle colonne di Bresciaoggi,[32] informa che Bazoli faceva parte di una terna di candidati, che oltre a Schlesinger comprendeva anche Francesco Cesarini. Mucchetti individua con lucidità i punti di forza di Bazoli ("…l'operazione SETA a S. Zeno e Roncadelle attraverso l'Intesa di cui Bazoli è presidente. Quindi la vicepresidenza della Banca. Poi l'ingresso dell'Intesa nella più antica finanziaria italiana quotata in borsa, la fiorentina Mittel, che rinsalda definitivamente il legame tra Bazoli e la nuova leva dei finanzieri cattolici bresciani Gherardo Masetti Zannini, Giuseppe Tampalini, i fratelli Palazzani."
Mucchetti sottolinea poi il fondamentale ruolo decisionale di Andreatta (ruolo che è confermato anche da altri testimoni[33]) che era vicino politicamente ai bresciani Mino Martinazzoli e Franco Salvi. Ma anche con tutti questi elementi che aiutano a comprendere, nemmeno Mucchetti riesce a spiegare ciò che rimane inspiegabile. Perché non Schlesinger? Perché, supposto che da parte vaticana ci siano state pressioni verso Andreatta per un presidente proveniente dalla S. Paolo di Brescia (considerata forse più affidabile) perché non Camadini, non il presidente Adolfo Lombardi, perché non il vicepresidente Vittorio Montini?
Riguardo a Camadini, Giancarlo Galli osserva: "In quell'estate del 1982 […] sarebbe stato gioco facile per il notaio Giuseppe Camadini, mai tirato in ballo dai media che sparano ad alzo zero sullo IOR, ma apprezzatissimo nella curia romana, ottenere la presidenza del Banco Ambrosiano. Per risuscitarlo, come accadde miracolosamente a Lazzaro. Ha titoli, legittimità, e invece nemmeno ci prova. Promuovendo invece, al tavolo del ministro del Tesoro Andreatta, la candidatura di Bazoli. Circostanza che, lustri dopo, Andreatta non volle né confermare, né smentire."[34]
Che quindi Bazoli sia asceso alla carica col determinante appoggio di Camadini e della curia romana pare assodato. Perfino Ciriaco De Mita, "sorseggiando il tè a sopracciglia aggrottate, nel bar Principe e Savoia di Milano" avrebbe affermato: "Il bravo Bazoli è uno strumento, a tirar le fila sono altri." E a domanda più precisa risponde: "Andreatta e Camadini, sotto la protezione di Paolo VI."[35] Poiché Paolo VI era morto nel 1978, con questa locuzione De Mita allude alla curia romana.
Che Schlesinger aspirasse alla carica e non abbia gradito l'imprevisto (per lui) sorpasso nel rush finale da parte di Bazoli mi sembra fuori discussione. Ne è conferma il fatto che qualche anno dopo, nel 1989, tenta di infliggere un colpo micidiale allo stesso Bazoli. I fatti sono noti, e mi limito a richiamarli brevemente, senza aggiungere su questo niente di nuovo. Il 22 settembre 1989, la Popolare di Milano[36] annuncia l'intenzione di vendere alle Generali per 340 miliardi il proprio pacchetto di azioni BNA, 51,5 milioni d'azioni, pari a circa il 14% (che corrispondono a circa il 10.5% delle azioni dell'Ambroveneto, che nascerà dalla fusione tra NBA e la Banca Cattolica del Veneto, inizialmente prevista per metà ottobre, poi realizzata a dicembre). Schlesinger, con l'appoggio di Cuccia e di Mediobanca, manifesta l'intenzione di vendere il pacchetto alle Generali, forse "in disarmonia con il Nanni [Giovanni Bazoli Nda] che giorno dopo giorno lo andava silenziosamente emarginando."[37] Lo scopo evidente è quello di ridimensionare Bazoli nel suo ruolo dominante nell'Ambroveneto. Commenta Galli: "L'Ambroveneto, perdendo ogni autonomia, con il passaggio della «quota Schlesinger» alle Generali, unita a rastrellamenti del titolo in Borsa, finirebbe nel calderone, riducendo Bazoli a presidente-travicello."[38] Pur di agevolare il piano di Cuccia e colpire Bazoli, Schlesinger viola il patto sindacale degli azionisti BNA, che si era formato il 3 marzo 1988 e di cui faceva parte la Popolare di Milano.[39] Come è altrettanto noto, Bazoli para brillantemente il colpo, riuscendo, tramite l'amico Romain Zaleski,[40] a far entrare la banca francese Credit Agricole nell'Ambroveneto, come sua alleata, rafforzando così la sua posizione dominante nella banca e vanificando il complesso disegno di Cuccia, che prevedeva di creare "una galassia del Nord, guidata da Generali, Gemina e Comit."[41] Bazoli non registra opposizioni a questa mossa, né da Ciampi (che lo appoggia pienamente) né da Forlani e Craxi.[42] Tra l'altro il nuovo patto sindacale che si forma per l'Ambroveneto in seguito all'ingresso di Credit Agricole, prevede una quota minima per i partecipanti del 10%. Poiché la quota della Banca S. Paolo di Brescia era allora pari al 5,3%, ciò rende necessario un aumento di capitale della banca bresciana, che pare inizialmente avesse incontrato delle riserve da parte di Camadini.[43]
Se questa è la vicenda fondamentale, in cui lo scontro Bazoli – Schlesinger assume aspetti drammatici e decisivi per il futuro della banca, non erano comunque mancate anche in passato le divergenze tra i due banchieri, a partire dall'autunno del 1982.[44]
Sicuramente il ruolo, l'importanza e l'influenza di Bazoli sono negli anni notevolmente cresciuti, rispetto a quanto si poteva prevedere all'inizio degli anni ottanta (al tempo dell'ipotizzato patto di spartizione dei ruoli con Camadini), anche per merito della dedizione, delle competenze, dell'impegno e serietà che il banchiere bresciano ha profuso nella sua molteplice attività. Ma non si può certo dimenticare che l'ascesa di Bazoli, e il suo stesso riconoscimento da parte del mondo politico e dei cosiddetti poteri forti, è strettamente legata alla cessione delle azioni Rizzoli – Corriere della Sera (RCS), che erano detenute dalla Centrale, controllata dal Banco Ambrosiano.
Come è noto, al momento della formazione del Nuovo Banco Ambrosiano, la Centrale deteneva in pegno circa il 41% delle azioni di RCS di proprietà di Angelo Rizzoli, direttamente o attraverso la Finriz (8%), mentre RCS doveva al gruppo Ambrosiano circa 70 miliardi.[45] Secondo Rizzoli quei 70 miliardi erano ampiamente compensati dai circa 150 miliardi che la precedente gestione dell'Ambrosiano avrebbe dovuto versare alla RCS per l'aumento di capitale deciso il 29 aprile 1981 e che invece erano stati dirottati sui conti esteri di Gelli, Ortolani e Tassan Din.[46] Ovviamente il NBA non intendeva farsi carico delle distrazioni illecite di fondi che risalivano alla gestione di Roberto Calvi e dei piduisti. Non potendo Rizzoli far fronte ai debiti tutte le sue azioni RCS, sia il 41% in pegno alla Centrale, sia il rimanente 10,2% di sua proprietà sono poste sotto sequestro e Rizzoli denunciato e arrestato (sarà poi pienamente assolto dopo anni). La Centrale inoltre possedeva un altro 41% di azioni RCS, acquistate nell'aprile del 1981 (il resto, meno del 10%, era di Rothschild e, in minima parte, di piccoli azionisti).
Il 4 ottobre 1984 le azioni RCS sono vendute ad una cordata formata inizialmente da Gemina (della quale Mediobanca deteneva il 34% e la Fiat il 16,7%), dall'industriale cremonese dell'acciaio Giovanni Arvedi e dalla finanziaria Mittel, a cui successivamente si era aggiunta la Meta del gruppo Montedison.[47] Il prezzo della cessione delle azioni Rizzoli era tale che esse sono vendute per complessivi 9 miliardi di lire circa.[48] Contro questa "svendita" in svariate interviste Angelo Rizzoli ha incolpato Giovanni Bazoli con accuse gravissime e insulti ingiustificati.
La Corte d'Appello Civile di Milano, nel gennaio 1996, ha giustamente condannato Angelo Rizzoli per diffamazione, avvenuta nel 1984, nei confronti di Giovanni Bazoli. Tale giudizio si è concluso con la condanna dello stesso Angelo Rizzoli a risarcire il danno stabilito dal Tribunale di Brescia, con sentenza del 28 ottobre 1998.
Le affermazioni di Rizzoli quindi devono essere attentamente vagliate nella loro attendibilità. Infatti il prezzo di cessione delle azioni era influenzato al ribasso dal fatto che le disposizioni del Comitato interministeriale per il Credito e il Risparmio e della stessa Banca d'Italia vietavano alla banche di possedere azioni dei giornali e ne imponevano l'alienazione. Tuttavia, anche considerando quest'aspetto, il prezzo di cessione appare sorprendentemente basso. Come riferisce lo stesso Angelo Rizzoli, "una perizia contabile eseguita per conto del tribunale di Milano dal professor Luigi Guatri, già rettore della Bocconi, valutava il solo patrimonio attivo, senza valori di testata e di avviamento, almeno 270 miliardi di lire."[49]
Ancora più attendibile è l'attenta analisi di Massimo Mucchetti: "non di meno il lucro cessante, o meglio mancante, per il venditore [la Centrale che apparteneva al Nuovo Banco Ambrosiano, Nda] risulta chiaro dal confronto tra la somma (90 miliardi di lire) che gli industriali acquirenti versano nel 1984 e nel 1986 come aumenti di capitale di RCS, dunque senza alcun beneficio per il Nuovo Banco, e la valutazione (893 miliardi) che solo tre anni dopo, nel 1987, la RCS farà di se stessa in occasione dell’ingresso, al 10 per cento, del gruppo editoriale francese Hachette."[50] In sostanza, per Mucchetti, le cifre dei bilanci mostrano che Mediobanca di Cuccia, la Fiat e le altre società della cordata acquirente fanno un incredibile affare d'oro: tra prezzo d'acquisto e aumenti di capitale spendono un ammontare grosso modo 6-7 volte inferiore al valore di RCS, di cui acquisiscono il controllo a spese della Centrale e quindi del NBA.
Che la cordata Fiat – Mediobanca abbia fatto un affare d'oro lo conferma anche il direttore dell'Ambrosiano, Domenico Gallo, che però imputa il prezzo irrisorio di cessione ai vincoli normativi. Riferisce Mucchetti: "A più di vent’anni di distanza, una sera di giugno del 2005, al termine di una cena alla Società del Giardino di Milano, il suo club, il banchiere Pier Domenico Gallo ancora sospira: «Ah, se Ciampi ce l’avesse lasciato in mano un paio d’anni, il Corriere. L’avremmo ceduto, certo: ma per mille miliardi e non a zero lire. Ma la legge è legge». Gallo sa di che cosa parla: era lui il direttore generale dell’Ambrosiano dopo Calvi e perciò ben conosceva i conti della RCS Editori. Le sue parole confermano quanto emerge dai confronti numerici. Giovanni Agnelli, insomma, diceva la verità, quando raccontava di essere entrato nel “Corriere” perché glielo avevano chiesto, quasi per rendere un servizio al paese. Ma non tutta la verità. Investendo in RCS, Agnelli fece un affare d’oro in quell’ottobre del 1984."[51]
Anche
il prof. Gaetano Pecorella, che conosceva direttamente le carte, in
qualità di difensore di Tassan Din, conferma l'inadeguatezza del presso
di cessione alla cordata delle azioni RCS: "la
voragine nei conti […] consentì alla cordata dei «salvatori della
patria fra virgolette», come l’ha definita Cesare Romiti che pure ne
faceva parte come Fiat, di impossessarsi per appena 9 miliardi di lire
di un’azienda che ne valeva, a seconda delle stime, tra i 270 e i
440."[52]
Prima della vendita delle azioni RCS erano giunte alla Centrale tre proposte di acquisto: quella della cordata Gemina, presentata da Guido Rossi, quella di Victor Uckmar e quella dell'imprenditore Giorgio Borletti. Carlo Bellavite Pellegrini riporta un'affermazione di Bazoli, secondo cui la valutazione delle offerte non doveva basarsi solo sull'entità del prezzo, ma anche sul requisito rappresentato "dalla capacità del gruppo d'intervento di presentare uno standing qualitativo adatto al gruppo Rizzoli – Corriere della Sera, oltre alle caratteristiche finanziarie necessarie per sostenere la ristrutturazione."[53] Lo stesso autore ricorda anche un editoriale di Eugenio Scalfari, che "richiamò l'attenzione dei lettori sul fatto che tra gli azionisti della Mittel figurava anche una società posseduta dalla Curia di Brescia, traendo spunto da ciò per sostenere la tesi di una presunta caratterizzazione clericale del nuovo azionariato."[54]
Per spiegare il prezzo di vendita così sproporzionatamente basso rispetto al valore dell'azienda ceduta, lo storico dell'Ambrosiano scrive:
"… ai tempi dell'amministrazione controllata le prospettive economiche di un'azienda come la Rizzoli erano considerate dal mercato incerte, se non prevalentemente negative, come è altresì vero che nel corso di due anni nessun acquirente mostrò un serio interesse per l'azienda, nonostante i ripetuti pubblici solleciti."[55]
Afferma anche che "le condizioni economiche dell'offerta alternativa avanzata in extremis dalla cordata facente capo a Uckmar erano allineate a quella di Gemina (come anche quella della fragilissima terza offerta di Borletti)."[56]
Pur con queste attenuanti, Bellavite Pellegrini non può comunque negare l'affare d'oro dei compratori, anche se cerca di minimizzare. Scrive infatti: "Resta comunque il fatto che il gruppo d'intervento nella Rizzoli fece un'operazione che si rivelò nel primo periodo un ottimo affare, soprattutto per i soci forti di Gemina uniti in patto di sindacato che, con un investimento modesto si trovarono nella condizione di esercitare un potere di controllo su una società quotata di rilevanza nazionale."[57]
Non c'è quindi da stupirsi se Bazoli, che in precedenza era considerato da Cuccia "un signor nessuno", un presidente transitorio destinato a tornare presto nell'anonimato, a partire dalla vendita di RCS abbia iniziato una straordinaria ascesa che lo ha portato a divenire uno degli uomini più influenti in Italia.
Mi
rimane un dubbio. Stefano Bazoli morì il 1 settembre 1981. Il sen.
Fabiano De Zan lo ricorda sempre molto lucido, anche nell'ultimo anno di
vita. Scrive: "Una sera dell'ultimo gennaio, quando lo vidi
affondato nella poltrona della sua casa avita di piazza del Foro, mi
parve un patriarca giunto al culmine della saggezza."[58]
Non vide quindi il figlio al vertice del Nuovo Banco Ambrosiano e poi
della finanza cattolica italiana. Fece però in tempo a conoscere la
vicenda della proprietà del Giornale di Brescia, che si concluse nei
primi mesi del 1980. Che reazioni avrà avuto? Nella sua magnanimità e
saggezza avrà perdonato coloro che 27 anni prima lo avevano tanto
subdolamente, meschinamente e ingiustamente escluso dal Parlamento?
Oppure avrà manifestato qualche riserva sulla cessione delle azioni del
quotidiano locale ad una fondazione di fatto privata? Oppure ancora,
pensando a quanto di positivo per il Paese e per il mondo cattolico suo
figlio Giovanni avrebbe potuto compiere (anche se allora il suo ruolo
preciso non era ancor ben definito) avrà subito il cinico baratto?
Domande destinate forse a rimanere per sempre senza risposta. Ma si sa,
le ricerche storiche non svelano mai tutta la realtà.
Maurilio Lovatti
Brescia, 2 giugno 2013
[1] Se ho continuato in queste ricerche storiche lo devo in gran parte all'amico prof. Franco Manni, che mi ha sempre incoraggiato, oltre a fornirmi suggerimenti e indicazioni.
[2] Da segnalare sulla vicenda un crudo commento (un quarto di secolo dopo) del quotidiano La Repubblica: "Stefano, anch' egli avvocato, deputato alla Costituente per la DC, mandato a casa senza tanti complimenti dal partito quando, fatta la patria, si voleva incominciare a fare affari." (27 ottobre 1989, p. 3).
[3] Lettera dell'on. avv. Stefano Bazoli a mons. Giacinto Tredici, vescovo di Brescia, del 16 giugno 1953, in Archivio storico diocesano di Brescia, Fondo Tredici, b. 98.
[4] P. Corsini, Biografie della città. Civitas, ricordo, memoria, Grafo, Brescia 2003, p. 48.
[5] Stefano Bazoli era stato per anni socio dello studio legale Bazoli-Montini, nel quale oltre al fratello Ercoliano Bazoli, si era aggiunto Lodovico Montini. Inoltre la moglie di Stefano, Beatrice Folonari, era parente della moglie di Lodovico.
[6] La Centrale, fondata nel 1925 con lo scopo di finanziare imprese elettriche e telefoniche, mutò la sua natura dopo la nazionalizzazione dell'energia elettrica (1962). Dal 1971 era controllata dall'Ambrosiano tramite la lussemburghese Compendium.
[7] Le azioni della Toro saranno ricomprate dalla Centrale nel 1975, a 35.000 lire per azione, contro un prezzo di mercato di 13.775, per una plusvalenza complessiva di oltre 23 miliardi: da qui si era originata una disponibilità illecita di capitali da parte di Calvi, usati per scalare l'Ambrosiano, e da qui era nata anche l'accusa a Calvi di esportazione illegale di valuta. La milanese Suprafin spa era controllata da due finanziarie estere, Inparfin s.a. e Teclefin a.g., che agivano su disposizioni della Cisalpine Overseas Bank di Nassau, controllata dall'Ambrosiano.
[8] Il 18 settembre 1975, Camadini era stato iscritto all'albo dei notai di Brescia, proveniente da Vittoria (RG), dove si era stabilito fittiziamente per esercitare la professione. Camadini aveva partecipato la prima volta al concorso nazionale indetto il 31.12.58, e si era classificato al 159° posto, mentre l'abilitazione era prevista per i primi 150 posti. Ancora nel 1964 scriveva all'on. Franco Salvi perché sostenesse la proposta di legge n. 1565 del 23 luglio 1964, di Montanti, Orlandi e altri, per consentire il ripescaggio dei primi 28 idonei non vincitori del concorso del 1958. Fallito anche questo tentativo, nel 1974 vince finalmente il concorso, ma si classifica nelle ultime posizioni e quindi è assegnato alla città siciliana.
[9] Il 17 aprile 1978, 50 ispettori e funzionari della Banca d’Italia e dell’Ufficio Cambi s'installano in via Clerici, nei locali della banca milanese. Vi restano 7 mesi. Il 17 novembre l'ispettore capo Giulio Padalino firma un rapporto di 500 pagine, che contiene un giudizio complessivo «non del tutto favorevole» sulla gestione di Calvi. Il 14 dicembre 1978 lo stesso Padalino inoltra un esposto alla Procura della Repubblica di Milano, da cui si originerà il processo a Calvi. Il banchiere sarà condannato in primo grado, il 20 luglio 1981, a 4 anni di reclusione e 15 miliardi di multa.
[10] Il 27 settembre 1974 la magistratura milanese aveva sentenziato la liquidazione coatta della Banca Privata Italiana di Sindona. L'avvocato milanese Giorgio Ambrosoli era stato nominato liquidatore. Il 3 ottobre la Franklin National Bank, capofila americano delle attività finanziarie di Sindona, era stata dichiarata insolvente: era il più grave crac bancario della storia degli Stati Uniti. Infine, il 4 ottobre la Procura della Repubblica di Milano aveva spiccato due mandati di cattura a carico di Sindona per «falsità in scritture contabili, false comunicazioni e illegale ripartizione degli utili».
[11] Circa 23.000 azioni dell'Ambrosiano erano già state vendute dalla banca bresciana nel 1976.
[12] Mons. Giovanni Battista Re, nato a Borno nel 1934, ordinato sacerdote da mons. Tredici nel 1957, il 12 settembre 1979 è formalmente nominato assessore per gli Affari Generali della Segreteria di Stato della Santa Sede. Tuttavia già negli anni precedenti egli era informato delle vicende dello IOR, poiché dal 1971 rivestiva il ruolo di segretario particolare dell'allora Sostituto della Segreteria di Stato della Santa Sede, mons. Giovanni Benelli.
[13] Era stato arrestato il 20 maggio 1981; sarà rilasciato il 22 luglio, dopo la condanna in primo grado.
[14] L'unica fonte pubblica che ho reperito che accenna a quest'intenzione è M. Mucchetti, Curia e S. Paolo dettero l'alto là alla banca di Calvi e ora governano, in Bresciaoggi, 8 agosto 1982, p. 11.
[15] P. Gallo, Intesa S. Paolo. C'era una volta un fantasma inesistente, Baldini, Castoldi e Dalai, Milano 2007, p. 46.
[16] Il 5 dicembre 1982 la Banca di Reggio Emilia assumerà la denominazione di Credito emiliano.
[17] All'atto di costituzione del Nuovo Banco Ambrosiano, il 6 agosto 1982, il capitale sociale è di L. 1.800.000.000 (C. Bellavite Pellegrini, Storia del Banco Ambrosiano. Fondazione, ascesa e declino, Laterza, Roma-Bari 2001, App. 9, p. 915). La Banca S. Paolo versa dunque 180 milioni, ma investe complessivamente nella banca milanese ben 60 miliardi con gli aumenti di capitale rapidamente attuati (Giornale di Brescia, 7 agosto 1982, p. 1-2; Bresciaoggi, 7 agosto 1982, p. 11; La Repubblica, 7 agosto 1982, p. 27). Per dare un'idea delle dimensioni di questa cifra, basterà ricordare che nel 1980, la banca bresciana aveva registrato un utile netto di circa 10 miliardi.
[18] P. Gallo, Intesa S. Paolo. C'era una volta un fantasma inesistente, cit., p. 177.
[19] Bazoli, il capitano bianco, La Repubblica, 2 ottobre 1982.
[20] C. Bellavite Pellegrini, Una Storia italiana. Dal Banco Ambrosiano a Intesa Sanpaolo, Il Mulino, Bologna 2013, p. 41. Gli accordi prevedevano inoltre che il presidente fosse espresso dalle banche private, mentre il direttore generale da quelle pubbliche.
[21] P. Gallo, Intesa S. Paolo…, cit., p. 178. Alle riunioni romane, per la Banca S. Paolo, con Bazoli partecipavano anche Florio Gradi, direttore della Banca, e Gherardo Masetti Zannini, allora segretario del CdA. Gran parte degli studi e della documentazione preliminare fu predisposta da Giovanni Coppolino Perfumi, dal 1968 capo dell'ufficio studi e relazioni esterne della banca.
[22] Diari di Carlo Azeglio Ciampi (1982-1999), in C. Bellavite Pellegrini, Una Storia italiana…, cit., p. 433.
[23] Idem, pp. 432-435. Gradi era stato ricevuto da Ciampi il 5 luglio 1982, alle ore 10. Bazoli è ricevuto la prima volta da Ciampi il 20 agosto, alle 10.30 (p. 435).
[24] Intervista di Gianpaolo Pansa a Bazoli, in La Repubblica, 2 ottobre 1982, cit. in G. Galli, Nella giungla degli gnomi, Garzanti, Milano 2008, p. 121. Bazoli ha anche dichiarato, intervistato da Gianni Bonfadini: " «Ma la storia vera è tutta da scrivere. Quel che si è scritto è solo la punta dell’iceberg». E alla domanda: "Ma si arriverà mai ad avere una storia compiuta, una storia vera e completa?" risponde: «Io penso proprio di sì. È un impegno che ho preso con l’allora presidente della Repubblica Ciampi secondo il quale il salvataggio del Banco costò allo Stato una cifra relativamente modesta, certo inferiore ad altri salvataggi di altre banche straniere ad esempio, grazie anche al buon lavoro dei liquidatori che recuperarono somme importanti. La storia la scriveremo. Sono indeciso - confessa il professore - a chi affidare l’incarico». Un economista potrebbe essere la figura giusta... «Non vorrei un libro per specialisti. Mi piacerebbe uno storico con capacità di scrittura, oppure un giornalista. Vorrei che ne venisse un libro da leggere nelle scuole, non che stia negli scaffali accademici.» (Giornale di Brescia, 8 agosto 2007). Il libro a cui allude è forse quello che uscirà pochi mesi dopo: P. Gallo, Intesa S. Paolo. C'era una volta un fantasma inesistente, cit., ma che non fornisce alcuna spiegazione sulla nomina di Bazoli alla presidenza. Pierdomenico Gallo, direttore del NBA, era stato direttore centrale della Cassa di Risparmio di Torino e poi e amministratore delegato della Subalpina, controllata dalla stessa Cassa. Nella logica degli accordi, ad un presidente espressione delle banche private, si affianca un direttore designato dalle banche pubbliche, e cioè Gallo, proposto dall'Istituto S. Paolo di Torino. Improbabile, ma non impossibile, che nel 2007 Bazoli avesse già in mente di affidare a Bellavite Pellegrini un ulteriore libro, cioè quello uscito nel maggio 2013.
[25] Verbale n. 1 del 6 agosto 1982, cit. in C. Bellavite Pellegrini, Storia del Banco Ambrosiano…, cit., p. 378-379.
[26] G. Galli, Nella giungla degli gnomi, cit., p. 121.
[27] Per dare un'idea dei guadagni dei banchieri, basterà ricordare che in un sol giorno, Bazoli guadagnerà 20 milioni di euro per la fusione Intesa - S. Paolo (G. Galli, Nella giungla degli gnomi, cit., p. 329). Per correttezza va precisato che il gettone per la presidenza BNA era inizialmente, nel 1982, di solo 200 milioni di lire annui, più basso del compenso di allora di un presidente di banca. Sempre per correttezza va ricordato che Bazoli, in modo molto discreto, ha devoluto in beneficenza un quarto del compenso per la fusione, destinandolo a strutture sanitarie in Mali.
[28] G. Galli, Il banchiere innamorato. La straordinaria vita di Giorgio Zanotto tra la sua famiglia, la sua Verona e la sua banca, Marsilio, Venezia 2011, pp. 200-201.
[29] Giovanni Bazoli da oggi presidente del Nuovo Banco Ambrosiano SpA, in Il Sole-24ore, 7 agosto 1982, p. 6.
[30] Florio Gradi era stato direttore della filiale di New York della Banca d'Italia.
[31] Il Giornale, 6 agosto 1982. Secondo Bellavite Pellegrini, Francesco Paolo Beato gli avrebbe riferito che Bazoli avrebbe ipotizzato un suo avvicendamento alla presidenza con Cesarini. (C. Bellavite Pellegrini, Storia del Banco Ambrosiano…, cit., p. 42, n. 48).
[32] M. Mucchetti, Curia e S. Paolo…, cit., p. 11.
[33] Tesi questa confermata anche dal sen. prof. Fabiano De Zan (colloquio con l'autore, 13 maggio 2013).
[34] G. Galli, Nella giungla degli gnomi ,cit., p. 117. Da notare che Bellavite Pellegrini in 562 pagine della monumentale Una storia italiana. Dal Banco ambrosiano a intesa Sanpaolo, cit., non cita nemmeno una volta Camadini, indubbio protagonista della vicenda! E questo nonostante la "preziosa testimonianza" di Giovanni Bazoli, raccolta "nel corso di numerosi incontri" (p. 8). Evidentemente, nonostante le centinaia di pagine, le verità scomode o non gradite devono essere ignorate.
[35] G. Galli, Nella giungla degli gnomi, cit., pp. 106-107.
[36] La Repubblica, 23 settembre 1989, p. 40; C. Bellavite Pellegrini, Una Storia italiana…, cit., p. 172. Tutta la complessa vicenda è riferita da p. 167 a p. 188.
[37] G. Galli, Nella giungla degli gnomi ,cit., p. 132.
[38] Ivi, p. 133.
[39] Il patto sindacale comprendeva complessivamente il 56,9% delle azioni, così distribuito: la Popolare il 13,3%, Gemina e Crediop il 12,9 ciascuna, le banche venete il 16,8 e la S. Paolo di Brescia il 6,7%. L'art. 4 del patto prevedeva che l'eventuale venditore doveva cedere le sue azioni ad un acquirente scelto dal sindacato stesso entro 30 giorni. (C. Bellavite Pellegrini, Una Storia italiana…, cit., p. 170-171, n. 9).
[40] Romain Zaleski (nato a Parigi nel 1933, ma di origini polacche, ingegnere) nel 1984 scala la Tassara di Breno e la fa diventare il trampolino per brillanti operazioni finanziarie e di Borsa. Sorprendentemente il libro di Bellavite Pellegrini, che dedica ben 22 pagine alla vicenda, non cita Zaleski nemmeno di sfuggita in relazione all'ingresso del Credit in Ambroveneto. Evidentemente l'essere troppo ligi ai potenti può anche provocare amnesie, forse inconsce…
[41] Il possibile intervento della Banca francese è reso noto dai quotidiani nella seconda metà di ottobre. La Repubblica, 22 ottobre 1989, p. 41; 24 ottobre 1989, p. 43. La banca francese interverrà con un cospicuo impegno di ben 283 miliardi (La Repubblica, 17 dicembre 1989, p. 46). Sul piano di Cuccia si veda La Repubblica, 30 dicembre 1989, p. 36.
[42] Diari di Carlo Azeglio Ciampi, cit., p. 449-453.
[43] La Repubblica, 24 novembre 1989, p. 44.
[44] Ad esempio, il 1 settembre 1982 Ciampi invita Schlesinger "a collaborare con Bazoli" in particolare sulla cessione della Rizzoli (Diari di Carlo Azeglio Ciampi, cit., p. 436); il 9 novembre sulla partecipazione dell'Ambrosiano all'assemblea degli azionisti Rizzoli, a cui Schlesinger era favorevole, ma non Bazoli (C. Bellavite Pellegrini, Una Storia italiana…, cit., p. 74); il 4 luglio 1984 viene fatta pervenire a Ciampi attraverso Francesco Cingano una proposta di acquisto della Banca Cattolica da parte della Popolare di Milano, a cui Bazoli era contrario (Diari di Carlo Azeglio Ciampi, cit., p. 442). Sulle vicende del 1989, Bazoli "critica amareggiato la condotta di Schlesinger" (Diari di Carlo Azeglio Ciampi, cit., 25 settembre 1989, p. 450).
[45] Il 10 settembre 1982 la Rizzoli avrebbe dovuto restituire al NBA 20 miliardi di prestiti in scadenza, ma riuscì a versarne solo 5 (C. Bellavite Pellegrini, Una Storia italiana…, cit., p. 63).
[46] 95 milioni di dollari (pari a circa 108 miliardi di lire) versati dall'Ambrosiano il 30 aprile 1981, furono trasferiti sui conti Recioto, Zirka e Telada presso la Rothschild Bank di Zurigo e di lì occultati in paradisi fiscali, come hanno riconosciuto le sentenze favorevoli a Rizzoli pronunciate dalla Cassazione, dalla Suprema Corte d’Irlanda e dalla giustizia elvetica. Secondo la relazione del collegio sindacale della Rizzoli del 31 dicembre 1981, i 150 miliardi dell'aumento di capitale furono interamente versati dall'Ambrosiano alla Rizzoli.
[47] L'aggiunta della Meta sembra essere un tentativo di Bazoli di placare l'ira di Craxi, che si opponeva alla vendita RCS a Gemina. Bazoli, inoltre, tramite la Intesa Finanziaria, possedeva una quota rilevante di Mittel; tuttavia nel settembre dello stesso anno si era dimesso da consigliere della Mittel, per rimuovere, almeno formalmente, l'incompatibilità di essere al tempo venditore (come NBA e anche come presidente della Centrale, carica assunta pochi mesi prima dell'operazione, il 26 giugno 1984) e acquirente (come Mittel) delle azioni RCS.
[48] Questa cifra non comprende ovviamente l'aumento di capitale della Rizzoli della primavera del 1985, né quelli successivi. Informazioni più dettagliate sugli aumenti di capitale e il susseguente patto sindacale sono in C. Bellavite Pellegrini, Una Storia italiana…, cit., p. 118.
[49] Intervista di Stefano Lorenzetto a Angelo Rizzoli, in Il Giornale, 21 febbraio 2010.
[50] M. Mucchetti, Il baco del Corriere, Feltrinelli, Milano 2006, p. 59.
[51]
Idem
[52] Intervista rilasciata a Stefano Lorenzetto, in Il Giornale, 15 maggio 2010.
[53] C. Bellavite Pellegrini, Una Storia italiana…, cit., p. 117, n. 18.
[54] Ivi, p. 118.
[55] Ivi, p. 120. Le varie perizie sul valore dell'impresa ceduta non sono nemmeno citate.
[56] Ivi, p. 121. Questa affermazione non è suffragata da alcuna cifra, né documentata in alcun modo, nemmeno in nota. Va quindi accettata sulla fiducia.
[57] Ivi, p. 121.
[58] AA. VV. Stefano Bazoli. Ricordi e testimonianze, CeDoc, Brescia 1982, p. 45.
Quando ho terminato lo scritto su Giovanni Bazoli (2 giugno 2013) non avevo ancora letto né la sentenza del 14 marzo 1996 dell'ottava sezione del Tribunale penale di Milano (presieduta dalla dott.sa Caterina Lo Curto) né il capitolo 7 del libro di Franco Stefanoni.[1]
Da queste fonti emerge un quadro di Piero Schlesinger come banchiere molto più negativo di quel che mi ero immaginato, al punto di farmi considerare la nomina di Bazoli alla presidenza del Nuovo Banco Ambrosiano al posto di Schlesinger come provvidenziale, frutto di una sorta di hegeliana eterogenesi dei fini.
Nel
1987 la Banca Popolare di Milano (su proposta di Schlesinger e del
condirettore generale Paolo Brasca, e col suo voto favorevole) acquista
per 27 miliardi il 57% dell'Istituto Milanese Leasing di Aldo Selvaggi,
Cristiano Mancini e Roberto De Gaetano, che saranno poi condannati con la
citata sentenza per bancarotta fraudolenta e falso in bilancio (che era
ancora reato perseguibile d'ufficio) rispettivamente a 12 anni, 8 anni e
sette anni. I reati saranno confermati in Appello
nel 2000, ma con riduzione delle pene (Selvaggi
da 12 a 8 anni, De Gaetano da 8 anni a 5 anni e 4 mesi, Mancini da 7 anni
a 4 anni e 8 mesi, semplicemente perché gli imputati, accettando il rito
abbreviato hanno ottenuto lo sconto di un terzo della pena).[2]
Nel 1989 la Banca Popolare concede all'Istituto Fiduciario milanese,
sempre dei finanzieri Selvaggi, Mancini e De Gaetano, affidamenti per 138
miliardi e di ben 176 nell'anno successivo, e questo "proprio quando
Selvaggi e compagni non hanno più l'attività di leasing, la
commissionaria di borsa […] e il fondo comune di investimento, fino ad
allora le uniche realtà capaci di produrre reddito".[3]
Va notato che gli stessi finanzieri avevano acquistato, tramite la loro
società commissionaria Finanza e Comunicazione, l'1% di BPM, in un
contesto che lascia sospettare un non provato scambio di favori.
Schlesinger, rinviato a giudizio per falso in
bilancio, è stato pienamente assolto il 2 luglio 2003 ("perché il
fatto non sussiste"). Questi fatti però gettano una pesante ombra
sull'abilità del Presidente della BPM e anche sulla sua correttezza
morale. Sul primo aspetto è lo stesso banchiere ad autogiudicarsi.
Nell'assemblea annuale degli azionisti della BPM del 28 aprile 1990
afferma: "Abbiamo voluto costituire un polo, contare su una società
satellite [l'Istituto Milanese Leasing]: purtroppo abbiamo sbagliato
obiettivo. Francamente, se dovessi darmi un voto, quest'anno non sarebbe
un trenta". Nemmeno un 18, verrebbe d'aggiungere…
Riguardo alla correttezza va ricordato che nel 1996 il consiglio dell'Eni ha bocciato la proposta di transazione presentata dalla controllata Enichem per saldare le pendenze con Sergio Cragnotti, l'ex amministratore delegato promosso al vertice di Enimont da Raul Gardini e dai Ferruzzi. La transazione è stata giudicata troppo favorevole a Cragnotti. La proposta era stata messa a punto con la mediazione dell'avvocato di Enichem, che guarda caso era proprio Piero Schlesinger. Tra i consiglieri dell'Eni ciò ha destato qualche perplessità, in quanto l'avvocato milanese era stato a lungo, dal 1971 al 1980 e dal 1981 al 1993, presidente della Banca Popolare di Milano, istituto di credito che ha concesso finanziamenti rilevanti al gruppo Gardini-Ferruzzi, entrata in seguito nella Cragnotti & partners. Poi è risultato che lo stesso Schlesinger era titolare di "un mandato incondizionato e irrevocabile" a gestire per conto dei Ferruzzi "le partecipazioni sociali ad essi intestate nelle società".[4] Secondo il PM Riccardo Targetti, Schlesinger "ometteva di astenersi dal voto in occasione delle ripetute delibere relative al rapporto creditorio intrattenuto da BPM con le società del gruppo Ferruzzi-Montedison, pur avendo egli un interesse in conflitto con quello della banca, poiché egli era legale di fiducia di Raul Gardini, dominus di tale primario cliente dell'istituto. Con ciò cagionando a BPM un pregiudizio patrimoniale di rilevante entità."[5]
Il libro di Stefanoni mi ha inoltre suggerito un'ulteriore ipotesi, resa verosimile da una stretta connessione di date. Il 27 settembre 1989, a seguito delle ispezioni iniziate a giugno dello stesso anno, il ministro dell'industria Adolfo Battaglia, insieme al collega Giuliano Vassalli, ministro della giustizia, emette un provvedimento di revoca all'esercizio dell'attività fiduciaria nei confronti dell'IFM dei finanzieri Selvaggi, Mancini e De Gaetano: da quel periodo vengono alla luce le assurde esposizioni della BPM verso le società di Selvaggi e soci. Sarà un caso che proprio nel settembre 1989 la Banca Popolare manifesta l'intenzione di cedere in tempi brevi le azioni BNA in suo possesso?
[1] F. Stefanoni, Finanza in crac. Dai cavalieri neri ai Cirio Bond, trent'anni di grandi truffe e risparmio tradito, Editori Riuniti, Roma 2004, in particolare le pp. 258-283.
[2]
L.
Ferrarella, Crac Ifm, 163 miliardi di risarcimenti, in Corriere
della Sera, 14 ottobre 2000, p. 47.
[3] F. Stefanoni, Finanza in crac, cit., p. 264.
[4] La Repubblica, 15 marzo 1996, p. 33.
[5] Richiesta di rinvio a giudizio del PM Riccardo Targetti del 1 aprile 1997, cit. in F. Stefanoni, Finanza in crac, cit., p. 282.
Poscritto n. 2 (31 dicembre 2013)
Pietro Schlesinger
nel 1981 era il legale di Angelo Rizzoli e ha partecipato alle trattative
per il riassetto azionario del Corriere della Sera con Calvi, Tassan Din,
Ortolani e Gelli, secondo quanto risulta nel diario dell'on. Tina Anselmi,
presidente della commissione parlamentare sulla loggia P2, alla data del
26 giugno 1982 [A. Vinci, a cura di, La P2 nei diari segreti di
Tina Anselmi, Chiarelettere, Milano 2011, p. 161]. Nel settembre del
1981, Angelo Rizzoli si incontra con Pazienza nello studio dell'avv. Schlesinger,
che riferisce sull'atteggiamento di Andreatta nella vicenda [Diario
Anselmi, cit., 23 marzo 1983, p. 349-350].
Qualche anno prima, l'11 settembre 1974, nel pomeriggio, come legale e
consulente di Michele Sindona, Schlesinger
partecipa all'incontro tra il Banco di Roma e il gruppo Sindona per
l'ultimo tentativo di salvataggio della Banca Privata Italiana di Sindona.
Per il Banco di Roma sono presenti gli ad Mario Barone e Giovanni Guidi;
con Sindona, oltre a Schlesinger, c'è Silvano
Pontello. [P. Panerai, M. De Luca, Il crack Sindona, la Dc, il Vaticano
e gli altri amici, Mondadori, Milano 1975, pp. 235-236].
Poscritto n. 3 (agosto 2015)
Nel giugno 2013 il prof. Giovanni Bazoli mi ha
telefonato più volte per sostenere che la mia interpretazione dei fatti
non risponde a verità.
In sintesi il prof. Bazoli afferma:
1) non c'è alcuna relazione tra la vicenda della proprietà del Giornale
di Brescia e la sua successiva ascesa alla presidenza del Nuovo Banco Ambrosiano;
2) il prof. Piero Schlesinger non aspirava alla presidenza del NBA;
3) la scelta del presidente del NBA si deve esclusivamente al ministro
Andreatta;
4) quando il CdA della Banca S. Paolo decise la partecipazione al
salvataggio dell'Ambrosiano il dott. Camadini era assente per malattia;
5) in precedenza, il dott. Camadini aveva scritto una lettera all'ing.
Lombardi nella quale si affermava che non sarebbe stato prudente un
investimento della Banca S. Paolo superiore a 30 miliardi nel NBA (mentre
il progetto di salvataggio richiedeva un impegno di 60, tra acquisto delle
azioni e ricapitalizzazioni concordate all'interno della cordata di
salvataggio); il dott. Camadini si è successivamente lamentato che la
sua lettera non sia stata letta al CdA al momento di deliberare la
partecipazione al salvataggio;
6) l'ing. Romain Zaleski non ha avuto alcun ruolo nell'ingresso del Credit
Agricole nell'Ambroveneto nel 1989.
Sui punti 1, 2 e 3 non mi rimane che prendere atto della ricostruzione del prof. Bazoli. Non ho motivi documentabili per dubitare delle sue affermazioni, tuttavia penso che alla luce della sua ricostruzione, il suo silenzio nei confronti dell'operazione sulla proprietà del Giornale di Brescia risulti ancor più inesplicabile.
Poiché tutti i possibili testimoni sono ormai defunti, ho cercato per oltre 2 anni di trovare elementi o indizi che potessero confermare, o eventualmente smentire la ricostruzione del prof. Bazoli. Tra l'altro ho chiesto al dott. Costantino Vitali, presidente del Banco di Brescia, di poter consultare i verbali del Consiglio di Amministrazione della Banca S. Paolo di Brescia. Mi è pervenuta la seguente risposta:
Lettera del dott. Costantino Vitali del 4 settembre 2014
Sulla base delle motivazioni addotte per negarmi la consultazione dei verbali, ho inoltrato la seguente nuova richiesta:
Gent. mo dott. Costantino Vitali,
ho
ricevuto la sua pregiata nota del 4 settembre u. s., di cui la ringrazio,
che mi ha permesso di capire esattamente perché non mi sia possibile
consultare i verbali delle adunanze del Consiglio di Amministrazione della
Banca S. Paolo.
Le sottopongo allora una richiesta molto più limitata e compatibile con i
vincoli di riserbo da Lei prospettati.
Le chiedo di poter conoscere le date di tutte le adunanze del 1982, con i
nomi dei consiglieri assenti e presenti. In tal modo non ci sarà
"divulgazione" di dati di "operazioni finanziarie e
creditizie della clientela".
Per quanto riguarda i consiglieri di allora, solo il prof. Giovanni Bazoli
è vivente ed attivo, e penso non avrebbe alcuna difficoltà a permettere
la comunicazione delle sue presenze, poiché Egli stesso mi ha suggerito
una delle piste di ricerca che sto attualmente seguendo. In ogni caso, se
lo ritenete necessario, potreste chiedergli una preventiva esplicita
autorizzazione.
Nel ringraziarla per l'attenzione, ed anche per la pazienza con cui ha
esaminato le mie richieste, le porgo i miei più cordiali saluti.
Brescia,
24 settembre 2014
Maurilio Lovatti
Anche questa più limitata e ragionevole richiesta viene respinta. Il testo della lettera è comunque interessante per le motivazioni:
Lettera del dott. Costantino Vitali del 6 novembre 2014
Trovando
chiusa questa pista di ricerca, ho provato ad individuare indizi
indiretti. Il 9 giugno 1982 si è svolto a Brescia un colloquio di studio
sull'impegno religioso e civile di padre Giulio Bevilacqua, presieduto da
Carlo Albini, che introducendo i lavori, prima di leggere una lettera del
dott. Giuseppe Camadini, afferma che questi "è impedito di
partecipare per ragioni di salute (e a lui inviamo fervidi auguri di pronto
ristabilimento)". [ AA. VV., L'impegno politico e civile di padre
Bevilacqua, CeDoc, Brescia 1983, p. 9; la lettera di Camadini è alle
p. 10 e 11]. Da un controllo sul Giornale di Brescia risulta che Giuseppe
Camadini non ha partecipato ad alcuna iniziativa pubblica o altro evento
nel periodo giugno - settembre 1982.
L'affermazione del prof. Bazoli sulla malattia di Camadini nel periodo
considerato sembrerebbe quindi avvallata da questi indizi. La lettera di
Camadini all'ing. Lombardi, che Bazoli ha potuto vedere perché lo stesso
destinatario lo ha consentito, non risulta certamente agli atti, anche se
forse potrebbe essere stata conservata nella carte dell'allora presidente
della Banca S. Paolo di Brescia.
La tesi sostenuta dal prof. Bazoli relativamente alla contrarietà del dott. Camadini all'intervento della S. Paolo nel salvataggio dell'Ambrosiano risulta verosimile, ma allo stato attuale non può essere confermata sulla base dei documenti.
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