Franco Manni
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Il pensiero del XIX secolo su vizi e virtù
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I. Temi e Problemi ·
buona
azione, virtù, buona salute (mentale) : definizioni di queste
espressioni e loro rapporti. La buona
azione può essere vista come un singolo atto che dia bene agli altri
e/o a sé, di solito accompagnato dall’idea di “merito”. Una virtù è piuttosto una abituale tendenza a comportarsi in maniera
tale da giovare a sé e/o agli altri, con possibilità di fare diventare sé
e/o gli altri felici: essa può essere innata (una “dote”) e dunque
non sempre associata all’idea di “merito”. La
buona salute (mentale, psicologica, di “carattere”) ha le stesse
caratteristiche della virtù ma in essa maggiormente è assente l’idea
di “merito”, e dunque di “volontarietà” e responsabilità;
inoltre in essa è più chiara l’idea di giovare a sé (piuttosto che
agli altri) e di diventare felici. Infine un argomento di riflessione è:
queste tre realtà sono innate, acquisite o sono entrambe le cose? Virtù
(idea di volontarietà e di non fisicità), doti
(idea di non volontarietà, e sia fisiche sia non fisiche, cioè psicologiche) , qualità
(sia volontarie sia non volontarie, sia fisiche sia psicologiche), ·
Peccato,
vizio, malattia (mentale): definizioni di queste espressioni e
loro rapporti. Il peccato può
essere visto come una singola infrazione a un dovere focalizzato su una
persona una autorità, una comunità, di solito infrazione accompagnata
dall’idea di “colpa” (che è l’idea speculare di quella di
“merito”). Il vizio invece è visto come un’abituale tendenza a comportarsi in
maniera tale da nuocere a sé e/o agli altri, con la conseguenza di
rendere dunque infelici sé e/o gli altri. La malattia
(mentale, psicologica, di “carattere”) ha le stesse caratteristiche
del vizio, ma in essa è più chiara l’idea di nuocere a sé (piuttosto
che agli altri) e di diventare infelici. Infine un argomento di
riflessione è: queste tre realtà sono innate, acquisite o sono entrambe
le cose? Vizi (idea di volontarietà e di non fisicità), malattie (idea di non volontarietà, e sia fisiche sia non fisiche,
cioè psicologiche), difetti
(sia volontari sia non volontari, sia fisici sia psicologici) ·
Il problema del “moralismo” cioè dell’atteggiamento che ci fa esprimere spesso
giudizi morali: per quali motivi siamo portati a giudicare sè ma
soprattutto gli altri? Più per cercare di aiutare a migliorarsi o più
per aggredire, accusare? Per quali motivi – all’opposto – siamo
“tolleranti” e non giudichiamo né noi stessi né gli altri? Per
irresponsabilità, per confusione, oppure per tolleranza empatica, per
accogliere? ·
Virtù
e Felicità, Vizio e Infelicità. L’etica – cioè il nostro
comportamento volto ai valori (beni) più importanti - come è collegata con la Felicità (il sommo bene)? È
sufficiente l’etica a raggiungere la felicità? È necessaria ma non è
sufficiente? Non è sufficiente e anche non è necessaria? Detto con altre
parole: esistono i buoni infelici ed esistono i cattivi felici , oppure
no? ·
Il pensiero contemporaneo:
per “contemporaneità” si intendono varie cose, nella convenzione
universitaria di distingue dalla “modernità” e si fa coincidere di
solito con XIX e XX secolo ·
tra gli autori e le correnti di pensiero
di XIX e XX secolo che vorrei trattare in questo corso ci sono: Il
Romanticismo e G.W. F. Hegel, il marxismo, il neoidealismo di Benedetto
Croce, la psicanalisi di Sigmund Freud , l'esistenzialismo di J. P. Sartre,
la teologia protestante di Barth e Bonhoeffer, la teologia cattolica di
De Lubac e Rahner, la
psicanalisi di Melanie Klein e Donald Winnicott, la società aperta di
Karl R. Popper. ·
felicità, ragione, interpersonalità. Per secoli – soprattutto
nell'Età Moderna (XVI-XVIII secolo) - sia le filosofie sia il senso
comune hanno tenuto separati i discorsi su felicità, ragione,
interpersonalità. In tal modo si sono prodotte: a)
visioni della felicità emotivistiche, edonistiche e mistiche: cioè senza
connessione con la ragione o senza connessione col rapporto
interpersonale. b) visioni della ragione intellettualistiche o
matematizzanti: cioè senza connessione col rapporto interpersonale e
senza connessione con la felicità. c) visioni
dell’amore sentimentalistiche (come nel romanticismo) e ascetiche (come
in Kant): cioè senza connessione con la ragione o senza connessione con
la felicità. Dal XIX secolo
in poi, però, l’intrecciarsi delle cause più varie , alcune
categorie di pensatori sono arrivate a convergere in una visione diversa,
in cui i tre elementi costituiscono le parti di un discorso unico. In
tale sviluppo il pensiero contemporaneo
ha visto che per la soluzione del problema antropologico («Cosa è
l’uomo?») e del problema etico («Come l’uomo può essere felice?»),
l’attenzione alla «salute» ossia alla felicità come realizzazione
della natura umana, l’attenzione alla razionalità, e l’attenzione al
rapporto interpersonale devono convergere, non devono separarsi né tanto
meno contrapporsi. II. Romanticismo
Bibliografia Johann
Wolfgang Goethe, I dolori del giovane Werther Friederich
Holderlin, Hyperion Jean
Jacques Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti Friedrich
Schleiermacher, Discorsi di religione Friedrich
Schlegel, Pensieri sulla filosofia Novalis,
Paralipomeni ai Discepoli di Sais Giacomo
Leopardi, Zibaldone di pensieri Francoise
Auguste René Chateaubriand, René Giuseppe
Mazzini, I doveri dell'uomo Joseph
De Maistre, Du Pape I
dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe, 1774 Per
il resto qui mi trovo proprio bene, la solitudine stilla da questi luoghi paradisiaci
un balsamo prezioso nel mio cuore, e la stagione della gioventù lo riscalda
vigorosamente, facile com'è lui ai brividi. Ogni albero, ogni siepe è un
mazzo di fiori, e vorrei trasformarmi in un maggiolino per svolazzare nel mare
dei profumi e suggervi tutto il nutrimento necessario. La
città in sé è brutta, però con tutt'intorno l'indicibile bellezza
della natura.
Il che convinse il fu conte von M... a farsi un giardino su una delle colline
che s'intersecano nella leggiadra mutevolezza dei pendii e dei poggi che si
rincorrono attraverso le valli. Il giardino è semplice, e già
all'entrata si sente
che al progetto non ha posto mano un giardiniere da tavolino, ma un cuore sensibile
che voleva venirci per godervi i propri battiti. Devo dire che ho versato
qualche lacrima alla sua memoria nel piccolo padiglione fatiscente che era
il suo posticino preferito e che ora è diventato il mio. Ci manca poco
che diventi
io il padrone del giardino; ci vengo da un paio di giorni soltanto e il giardiniere
mi si è già affezionato, e non avrà certo di che pentirsene. Come
fai a chiedermi se non dovresti mandarmi i miei libri? Mio caro, per
l'amor di
Dio, non nominarmeli neppure! Non voglio più essere guidato,
incoraggiato, infervorato,
questo cuore è già abbastanza attivo per conto suo; quello di cui ho
bisogno è una ninna-nanna, e l'ho trovata pienamente nel mio Omero.
Quante volte
cullo il mio sangue in ebollizione fino a calmarlo, e non ti capiterà mai
di
trovare qualcosa di più disuguale, di più instabile di questo mio cuore.
Caro,
ma devo propio dirlo a te che così spesso hai dovuto sopportare di
vedermi passare
dalla titubanza all'eccesso e dalla malinconia più dolce alla passione più
sfibrante? E allora tratto il mio cuoricino come un bambino ammalato: ogni
capriccio
gli viene concesso. Ma non dirlo in giro: qualcuno potrebbe disapprovarmi. Che
la vita degli uomini sia soltanto un sogno, l'hanno pensato in molti, e anche
a me capita continuamente di sentirmi attirato da questa sensazione. Quando
vedo la limitatezza in cui sono prigioniere le energie fattive e sperimentali
dell'uomo... quando vedo come ogni azione tenda alla soddisfazione di
bisogni che altro scopo non hanno se non quello di allungare la nostra
misera esistenza,
e per giunta che ogni appagamento riguardo a certi punti della scienza
non è che una sognante rassegnazione, un dipingere le pareti fra le quali
siamo incastrati di figure variopinte e di scorci luminosi, ecco, tutto ciò,
Guglielmo, mi fa restare di sasso. Mi ripiego in me stesso, trovo il mio mondo!
daccapo fatto più di presentimenti e oscure voglie che di realtà e energie
vive. E allora tutto s'annebbia in me e continuo trasognato a sorridere al
mondo così com'è. Che
i bambini, non sappiano che cosa vogliono, è un fatto su cui sapienti pedagoghi
e maestri tutti sono concordi; ma che anche gli adulti, come i bambini,
brancolino su questa terra e come quelli non sappiano né da dove vengono
né dove vanno e che non agiscano per motivi veri e propri e vengano parimenti
governati con leccornie e vergate, nessuno lo vuole credere volentieri,
eppure a me sembra trattarsi di una verità lampante. Non
ho mai trovato
un posticino così intimo e suggestivo, e lì mi faccio portare un tavolino
e una sedia dall'osteria, bevo il mio caffè e mi leggo Omero. Un bel pomeriggio,
la prima volta che per caso arrivai sotto i tigli, la piazzetta era completamente
deserta. Erano tutti nei campi; solo un ragazzino di circa quattro anni
se ne stava seduto per terra e teneva in braccio un bambino di circa sei mesi,
rannicchiato fra le sue gambe, e se lo stringeva al petto con entrambe le braccia,
fungendogli per così dire da sgabello e, malgrado la vivacità con cui ruotava
gli occhioni neri, il marmocchietto se ne stava seduto tutto bello tranquillo.
A quella vista mi rallegrai, mi sedetti sopra un aratro che si trovava
dirimpetto e mi misi a disegnare di slancio quella scenetta fraterna. Vi aggiunsi
la vicina siepe, il portone di un granaio e alcune ruote di carro sfasciate,
tutto così come stava, e dopo un'ora scoprii che avevo messo a punto un
disegno ben proporzionato e molto interessante, senza aggiungervi assolutamente
niente di mio. La cosa mi ha rinforzato nel mio proposito di attenermi
in futuro solo alla natura. Soltanto essa è infinitamente ricca ed essa
soltanto forma il grande artista. Si può dire molto in favore delle
regole, suppergiù
quanto si può dire in lode della società borghese. Un uomo che vi si è conformato,
non produrrà mai qualcosa di insulso o di cattivo, così come chi si lascia
modellare dalle leggi e dalle convenzioni non potrà mai diventare un vicino
insopportabile o un'insigne canaglia; per contro, checché se ne dica, tutte
le regole finiranno per distruggere il vero sentimento della natura e della
sua espressione. Dirai che esagero, che la regola si limita a moderare, pota
i rami ridondanti eccetera. Caro amico, vuoi che ti faccia un paragone? È
la
stessa cosa con l'amore. Un giovane cuore si appunta a quello di una
ragazza, trascorre
tutte le ore della giornata accanto a lei, profonde tutte le sue energie,
tutto il suo patrimonio per poterle esprimere attimo dopo attimo tutta la
sua dedizione. Ed ecco che arriva un filisteo, uno che riveste una carica pubblica,
e gli dice: «Caro il mio giovanotto! amare è umano, a patto che si ami umanamente!
Suddividi le tue ore: tante al lavoro, e quelle per lo svago dedicale
pure alla tua ragazza. Calcola bene il tuo patrimonio e quello che ti rimane
una volta fatto fronte al necessario, io non ti proibisco affatto di farle
un regalo, sempre che non diventi un'abitudine, al suo compleanno, per esempio,
o al suo onomastico eccetera eccetera.» Se il giovanotto è ubbidiente, ecco
che abbiamo un uomo utile, e io stesso sarei il primo a consigliare a ogni
principe
di metterlo in qualche commissione; solo che possiamo mettere una pietra
sopra il suo amore e, se si tratta di un artista, sopra la sua arte. Amici
miei! perché mai la corrente del genio erompe così raramente, così raramente
straripa sì da scuotere le vostre anime attonite? Cari amici, è là che abitano
i pacifici signori, sulle due sponde, e le loro villette e aiuole di tulipani
e orticelli verrebbero devastati, ecco perché provvedono a tempo con dighe
e canali per deviare il pericolo che li minaccia. Caro
Guglielmo, ho fatto ogni genere di riflessioni sulla bramosia dell'uomo di
espandersi,
di fare nuove scoperte, di vagare per il mondo; e poi sul recondito impulso
a limitarsi volontariamente, a procedere nel solco dell'abitudine senza preoccuparsi
di guardare né a destra né a sinistra. È
curioso il fatto che io sia arrivato qui e dalla collina abbia scorto la
bella vallata,
abbia sentito da ogni dove una specie di richiamo... Ecco laggiù il boschetto!
Ah, potersi immergere nella sua ombra! e laggiù ancora la cima della montagna!
Ah, poter contemplare da là la vasta regione! la catena delle colline e
le nostre valli! Oh, se potessi sperdermi in esse! Poi sono corso laggiù
e sono
tornato senza aver trovato ciò che speravo. Oh, la distanza per me è
come il
futuro. Un tutto nebuloso giace davanti all'anima, la nostra sensibilità
vi si
smarrisce, i nostri sensi non bastano più e noi, ahimè, aneliamo a
lasciarci andare
con tutto il nostro essere per lasciarci colmare dalla voluttà di un unico,
grande, splendido sentimento... Ahimè, e quando vi accorriamo, quando il «là»
diventa «qui», tutto è come prima, ci ritroviamo nella nostra miseria
di sempre,
nella nostra limitatezza, e la nostra anima riprende a struggersi per quella
promessa rinviata. Per
questo il vagabondo più inquieto alla fine sospira per la sua patria e
trova nella
sua capanna, accanto alla sua sposa, nella cerchia dei suoi figli, nello strapazzo
per mantenerli, quella voluttà che ha cercato invano nella vastità del mondo. L'altro
ieri il medico è venuto dalla città a visitare l'intendente e mi ha trovato
steso a terra fra i bambini di Lotte che mi saltavano addosso, che mi prendevano
in giro, io che gli facevo il solletico e loro che facevano un gran baccano.
Il dottore, che è una marionetta tutta mossa da dogmi e che quando parla
continua a pizzicarsi le pieghette dei polsini e a lisciarsi una cravatta sterminata,
trovò che ciò è indegno di un uomo dabbene, me ne sono reso conto dalle
smorfie del suo naso. Il che non mi ha fatto né caldo né freddo, l'ho lasciato
continuare nelle sue pedanti tiritere e ho ricostruito ai bambini le case
di carte che avevano buttato giù. Inoltre è andato in giro a lamentarsi
che i
figli dell'intendente sono già abbastanza maleducati per conto loro, ci mancava
solo quel Werther là per rovinarli del tutto. Eh
sì, caro Guglielmo, per me i bambini sono la cosa più preziosa del
mondo. Quando
li sto a guardare e vedo in quei piccoli esseri il germe di tutte le qualità,
di tutte le energie che un giorno gli saranno tanto necessarie... quando
scorgo nell'ostinazione la futura perseveranza e la fermezza di carattere,
e nella loro petulanza il buon umore e la leggerezza per sgusciare fuori
dai pericoli del mondo, e tutto in modo così schietto, integro, ripeto sempre,
sempre le auree parole del Maestro degli uomini: «Se non diverrete come uno
di loro...» E invece, mio caro, loro, i nostri simili, che dovremmo
prendere a
esempio, noi li trattiamo come dei sudditi. Non devono avere una loro
volontà! Ma
noi non ne abbiamo una, forse? E dove sarebbe il privilegio? Nell'essere
più vecchi
e più abili? O buon Dio del cielo, tu non vedi che bambini vecchi e bambini
giovani e nient'altro; e di quali ti compiaci di più, l'ha già espresso tuo
figlio tanto tempo fa. Però essi professano fede in lui senza ascoltarlo
- vecchia
solfa anche questa! - e crescono i loro figli prendendo a modello se stessi
- adieu, Guglielmo! basta con questi vaneggiamenti. dopodiché
il giovane prese di nuovo la parola:
«Lei ha definito vizio il cattivo umore, mi sembra che sia esagerato.» «Niente
affatto,» risposi, «esso merita questo nome quando nuoce a noi stessi e agli
altri. Non è già abbastanza non riuscire a renderci felici, gli uni con
gli altri,
dobbiamo anche derubarci del piacere che ognuno di noi talvolta riesce a procurarsi?
E mi dica chi è quell'individuo che ha la luna di traverso e che è malgrado
tutto capace di nasconderla, di tenersela per sé, cioè, senza turbare ogni
gioia attorno. O piuttosto non si tratta di un rancore represso per la nostra
inferiorità, della consapevolezza della nostra pochezza sempre legata alla
gelosia e aizzata da una sciocca vanità? Vediamo persone felici e non
siamo noi
a farle felici, e questo ci è insopportabile.» Lotte mi sorrise vedendo
con quanto
impeto parlavo, e una lacrima negli occhi di Federica mi spronò a proseguire.
«Guai a coloro,» dissi, «che si servono del potere che hanno su qualcuno
per derubarlo delle semplici gioie che spontaneamente vi germogliano. Tutti
i regali, tutti i favori del mondo non potranno mai sostituire un attimo di
gioia che ci è stato amareggiato dall'invidiosa inquietudine del nostro tiranno.» Eh,
caro mio, quando si dice che la prudenza non è
mai troppa! Non si sa mai dov'è il pericolo! Cioè...» ora tu sai che quell'uomo
mi è molto caro in tutto tranne che per i suoi cioè, dato che va da sé
che ogni principio ammette delle eccezioni. Com'è pignolo quell'uomo!
Quando pensa
di aver detto qualcosa di troppo affrettato, di generico, approssimativo, ecco
che poi non la smette più di riassestare, di modificare aggiungendo, togliendo,
fino a che di una cosa non resta più niente. E in questa occasione esagerò
la dose, io non lo stavo più nemmeno a sentire, fui preso dai miei soliti
ghiribizzi e, con un gesto inconsulto, mi premetti la canna della pistola contro
l'occhio destro. «Ehi,» disse Alberto tirandomi giù la pistola, «che
ti piglia?»
«Tanto non è carica,» dissi io. «E con ciò? che ti piglia?» replicò
spazientito.
«Non riesco a capire come un uomo possa essere così scemo da spararsi,
solo a pensarci vado in bestia.» «Ma
è mai possibile,» esclamai io, «che voi uomini, per poter parlare di
una cosa,
dobbiate sempre dire: questo è stupido, questo è ragionevole, questo va bene,
questo va male? Che significa tutto ciò? Avete forse individuato una
volta per
tutte i rapporti interdipendenti di un'azione? Sapete dunque dipanare con chiarezza
le cause che l'hanno provocata, per le quali doveva accadere? Se fosse così,
non sareste così sbrigativi con i vostri verdetti.» «Mi
concederai,» disse Alberto, «che certe azioni rimangono riprovevoli qualunque
sia il motivo che le ha messe in moto.» Feci
spallucce e gli detti ragione. «Però, caro mio,» continuai, «anche qui
esistono
delle eccezioni. È vero che rubare è un peccato, ma l'individuo che va a
rubare per salvare sé e i suoi da un'imminente morte per fame, si merita
pietà o
castigo? Chi oserà mai scagliare la prima pietra contro un marito che, in
un accesso
di legittima ira, sacrifichi la sua donna adultera e il suo ignobile seduttore?
contro la ragazza che in un momento di smarrimento passionale si perda
negli incontenibili piaceri dell'amore? Persino le nostre stesse leggi, così
insensibili e pedanti, si commuovono e perdonano.» «Ma
questa è una cosa completamente diversa,» replicò Alberto, «perché un
uomo trascinato
dalle sue passioni perde ogni controllo e deve essere considerato come
un ubriaco, un pazzo.» «Ah,
voi, gente così ragionevole!» gridai ridendo. «Passione! Alcolismo!
Pazzia! Come
ve ne state comodamente rilassati, voi, così senza essere coinvolti, voi uomini
morali! Strapazzate l'ubriacone, disprezzate colui che ha perduto la ragione,
passate via come il prete e come il fariseo, ringraziate Dio che non vi ha
fatto come uno di loro. Io mi sono ubriacato più di una volta, le mie passioni
non sono state molto lontane dalla pazzia e non me ne rincresce, perché nel
mio piccolo sono riuscito a capire che tutti gli uomini straordinari, che hanno
fatto qualcosa di grande, qualcosa che apparentemente sembrava impossibile,
sono stati da sempre tacciati da ubriachi e da pazzi. «E
anche nella vita di tutti i giorni non se ne può più di sentir gridare
dietro a
qualcuno che abbia fatto anche solo qualcosa di appena libero, nobile, inatteso:
quello è ubriaco, è matto! Vergognatevi, voi sobri! Vergognatevi, voi sapienti!» «Ecco
che ci risiamo con i tuoi soliti grilli,» disse Alberto, «tu la fai
sempre più
grossa di quel che è, e in questo almeno hai torto marcio, nel paragonare
il suicidio,
che è questo di cui si sta parlando ora, a grandi imprese. Non si può considerare
nient'altro che una debolezza, ecco. È certo più facile morire che sopportare
con fermezza una vita tormentosa.» Stavo
per troncare la discussione, perché non c'è niente che riesca a mandarmi
fuori
dai gangheri come quando uno arriva lì e ti spiattella un insignificante luogo
comune quando io invece sto parlando con il cuore in mano. Tuttavia sono riuscito
a contenermi, perché quell'argomento l'avevo sentito spesso di già e ancor
più spesso me ne ero indignato, e ho ribattuto con una certa animosità:
«E tu
la chiami debolezza? Ti prego, non lasciarti ingannare dalle appare Spesso
invidio Alberto, che vedo immerso fino alle orecchie
nelle sue pratiche e mi immagino che al suo posto starei bene! Più di una
volta mi è venuta l'idea di scrivere a te e al ministro per chiedere quel
posto
all'ambasciata che, come tu mi assicuri, non mi sarebbe negato. Lo credo anch'io.
Il ministro mi vuole bene da molto tempo e da altrettanto mi esorta a dedicarmi
a una qualche attività; e mi sembra anche che per un po' lo farei volentieri.
Però, a ripensarci, mi viene in mente la storia del cavallo che, insofferente
della sua libertà, si lascia mettere sella e morso e viene cavalcato
sino a esserne sfiancato L'ambasciatore
è proprio seccante, come avevo previsto. È lo scemo più pedante che
si possa immaginare: tutto ordinatino e pignolino come una comare; un uomo
mai
contento con sé e che perciò è incontentabile. A me piace sbrigare il
lavoro alla
svelta, senza tanti gingilli, mentre lui è capace di restituirmi una relazione
e di dirmi: «Va bene, ma controlli ancora una volta, si trova sempre una
parola migliore, una particella più appropriata.» Mi sento sprofondare
sino all'inferno
dalla rabbia. Guai se mi resta nella penna una e, una congiunzione piccola
piccola, ed è nemico giurato di tutte le inversioni che a volte mi scappano;
se non gli si sgranano giù i periodi nella solita tiritera tradizionale,
lui non ci capisce niente. Che strazio aver a che fare con un uomo simile Siete
voi i colpevoli, voi che a forza di ciarle mi avete messo sotto il giogo decantandomi
tanto l'essere attivi. Attivi! Se chi pianta patate e poi va con la carretta
a vendere il suo grano non è più utile di me, sono disposto a rompermi la
schiena altri dieci anni su questa galera dove oramai sono incatenato. E
questa dorata miseria, la noia di questa gentaglia in perpetua mostra di sé!
L'ossessione
della precedenza fra di loro, come stanno sempre lì all'erta per poter
scattare di un passettino più avanti, le passioni più meschine e miserabili
messe in mostra nude e crude, senza straccetti di sorta. C'è una donna
per esempio che parla a tutti del suo lignaggio e dei suoi possedimenti, tanto
che ogni forestiero deve pensare che sia una matta alla quale abbia dato di
volta il cervello per quel po' di nobiltà e per la fama di questi suoi possedimenti...
ma c'è ancor di peggio: questa disgraziata è di qui, è figlia di uno
scribacchino... Vedi, non riesco a capire come mai la gente abbia così
poco cervello
da prostituirsi così scopertamente. E
a ogni giorno che passa, mio caro, noto quanto sia da stolti riportare gli
altri
a noi stessi. E poiché sono così occupato con me stesso e il mio cuore
è così
burrascoso... ah, lascio volentieri che ognuno vada per la sua strada, a patto
che lascino andare anche me per la mia. Quel
che maggiormente mi irrita, sono queste imbarazzanti convenzioni borghesi.
Certo
so benissimo come chiunque altro quanto siano necessarie le distinzioni di
classe
e quanti vantaggi ne ricavi io stesso, ma che non vengano a sbarrarmi il passo
quando potrei godermi un po' di piacere, un balenio di felicità su questa
terra ti
sto davanti con l'anima completamente aperta; altrimenti preferirei
non aver detto niente, di solito non mi piace perdere parole su cose di
cui sia io che gli altri sappiamo così poco. Cos'altro è il destino
degli uomini
se non quello di portare il proprio fardello e bere il proprio calice sino
all'ultima goccia? e se questo calice fu troppo amaro per le labbra
terrene del
Dio del cielo, perché mai dovrei posare e fingere di trovarlo dolce io? e
perché
mai dovrei vergognarmi in quel terribile istante in cui tutto il mio essere
trema fra essere e non essere, quando il passato brilla come un lampo sul tenebroso
abisso del futuro e tutt'intorno a me e insieme a me il mondo sprofonda?...
non si tratta forse della voce della creatura avviluppata su se stessa,
privata a se stessa e irrefrenabilmente lanciata verso il fondo che, dal lavorio
inane delle sue energie che si ribellano senza poter risalire, grida: «Dio
mio! Dio mio! perché mi hai abbandonato?» E perché dovrei vergognarmi
di questa
espressione, perché dovrei aver paura di quell'istante al quale non poté
sottrarsi
Colui che avvolge i cieli come un sudario? Tutto
ciò è fugace; ma nessuna eternità potrà spegnere il soffio ardente che
ieri
inspirai dalle tue labbra, che ho sentito entrare in me! Tu mi ami! questo
braccio
ti ha stretta, queste labbra hanno tremato sulle tue labbra, questa bocca
ha balbettato sulla tua. Tu sei mia! sì, Lotte, per l'eternità! E
che importa se Alberto è tuo marito? Marito! E dunque per questo mondo
sarebbe peccato
che io ti ami, che io voglia strapparti dalle sue braccia per averti fra le
mie? Peccato? Bene, e allora io mi punisco; io l'ho goduto in tutta la sua
celestiale
voluttà questo peccato, ho succhiato elisir di vita e forza nel mio cuore.
Da questo istante tu sei mia! mia, o Lotte! Ti precedo! vado da mio Padre,
da tuo Padre. Sfogherò con lui i miei dolori e lui mi consolerà sino a che
non arrivi tu, e io ti volerò incontro e ti stringerò e rimarrò con te
al cospetto
dell'Infinito in un abbraccio eterno. Ecco,
Lotte! Non tremo impugnando il freddo, orribile calice, dal quale berrò
la vertigine
della morte! Tu me l'hai porto e io non esito. Tutto! Tutto! Così vengono
esauditi tutti i desideri e le speranze della mia vita! per battere, così
freddo, così rigido, alla porta di bronzo della morte. Avessi
avuto la fortuna di morire per te! Lotte, di immolarmi per te! Morirei a testa
alta, morirei lieto se potessi ridarti la serenità, la gioia di vivere.
Ma ahimè!
fu concesso solo a pochi eletti di versare il proprio sangue per i loro cari
e di centuplicare con la propria morte la fiamma di una vita nuova per i loro
amici. Voglio
essere sepolto con questi abiti, Lotte. Tu li hai sfiorati, consacrati; anche
di questo ho pregato tuo padre. La mia anima aleggia sopra la bara. Non frugate
nelle mie tasche. Questo fiocco rosso pallido lo portavi sul petto la prima
volta che ti vidi fra i tuoi bambini... Oh, baciali mille volte e raccontagli
il destino del loro infelice amico. Cari! ecco che mi fanno ressa intorno.
Ah, come mi sono legato a te! dal primo istante non sono più riuscito a fare
a meno di te!... Questo fiocco deve essere sepolto con me. Me lo regalasti
tu
il giorno del mio compleanno! Come ho divorato tutto!... Ah, non
immaginavo che
la mia strada mi avrebbe portato qui!... Sii calma, ti prego, sii
calma!... Sono
cariche... Battono le dodici! E così sia!... Lotte! Lotte! Addio! Addio! Un
vicino vide la fiammata della polvere e udì lo sparo; ma, poiché tutto
rimase tranquillo,
non ci pensò più. Il
vecchio intendente, alla notizia, accorse al galoppo, baciò il morente piangendo
lacrime cocenti. I suoi figli più grandi arrivarono a piedi subito dopo
di lui, caddero in ginocchio accanto al letto in preda al dolore più irrefrenabile,
gli baciarono le mani e la bocca, e il maggiore, che egli aveva amato
più di tutti, si attaccò alle sue labbra finché non emise l'ultimo respiro,
e si dovette portarlo via a viva forza. Morì verso mezzogiorno. La presenza
dell'intendente e le sue disposizioni impedirono che si formasse un assembramento.
Verso le undici di sera lo fece seppellire nel posto da lui prescelto.
Il vecchio seguì la salma, e i figli; Alberto non ne ebbe la forza. Si
temeva per la vita di Lotte. Lo portarono a spalla degli artigiani. Nessun
prete
lo accompagnò. Doveri dell'uomo di mazzini Or perché lo avrebbero fatto? Non era il benessere
lo scopo supremo della vita? Non erano i beni materiali le cose
desiderabili innanzi a tutte? Perché diminuirsene il godimento a
vantaggio altrui? S'aiuti adunque chi può. Quando la società assicura ad
ognuno che possa lo esercizio libero dei diritti spettanti alla umana
natura, fa quanto è richiesto di fare. Se v'è chi, per fatalità della
propria condizione, non può esercitarne alcuno, si rassegni e non incolpi
nessuno. Era naturale che così dicessero infatti. E questo pensiero delle
classi privilegiate di fortuna, riguardo alle classi povere, diventò
rapidamente pensiero di ogni individuo verso ogni individuo. Ciascun uomo
prese cura dei propri diritti e del miglioramento della propria
condizione, senza cercare di provvedere all'altrui; e quando i proprii
diritti si trovarono in urto con quelli degli altri, fu guerra: guerra non
di sangue, ma d'oro e di insidie: guerra meno virile dell'altra, ma
egualmente rovinosa: guerra accanita, nella quale i forti per mezzi
schiacciano inesorabilmente i deboli o gli inesperti. In questa guerra
continua, gli uomini si educarono all'egoismo e alla avidità dei beni
materiali esclusivamente. La libertà di credenza ruppe ogni comunione di
fede. La libertà di educazione generò l'anarchia morale. Gli uomini
senza vincolo comune, senza unità di credenza religiosa e di scopo,
chiamati a godere e non altro, tentarono ognuno la propria via, non
badando se camminando su quella non calpestassero le teste dei loro
fratelli, fratelli di nome ma nemici nel fatto. A questo siamo oggi,
grazie alla teoria dei diritti. Certo esistono diritti; ma dove i diritti di un
individuo vengono a contrasto con quelli di un altro, come sperare di
conciliarli, di metterli in armonia, senza ricorrere a qualche cosa
superiore a tutti i diritti. E dove i diritti di un individuo, di molti
individui, vengono a contrasto coi diritti del paese, a che tribunale
ricorrere? Se il diritto al benessere, al più gran benessere possibile,
spetta a tutti i viventi, chi scioglierà la questione tra l'operaio e il
capo manifatturiere? Se il diritto alla esistenza è il primo inviolabile
diritto di ogni uomo, chi può comandare il sacrificio dell'esistenza pel
miglioramento d'altri uomini? Lo comanderete in nome della Patria, della
Società, della moltitudine dei vostri fratelli! Cos'è la Patria, per
l'opinione della quale io parlo, se non quel luogo in cui i nostri diritti
individuali sono più sicuri? Cos'è la Società, se non un convegno
d'uomini i quali hanno pattuito di mettere la forza di molti in
appoggio dei diritti di ciascuno? E voi, dopo avere
insegnato per cinquanta anni all'individuo che la Società è costituita
per assicurargli l'esercizio dei suoi diritti, vorrete dimandargli
di sacrificarli tutti alla Società, di sottomettersi, occorrendo, a
continue fatiche, alla prigione, all'esilio, per migliorarla? Dopo avergli
predicato per tutte le vie che lo scopo della vita è il benessere,
vorrete a un tratto ordinargli di perder il benessere e la vita
stessa per liberare il proprio paese dallo straniero, o per procacciare
condizioni migliori a una classe che non è la sua? Dopo avergli parlato
per anni in nome degli interessi materiali, pretendere che egli,
trovando davanti a sé ricchezza e potenza, non stenda la mano ad
afferrarle, anche a scapito dei suoi fratelli? Operai italiani, questa non è opinione venuta
senza appoggio di fatti nella nostra mente; è storia, storia dei nostri
tempi, storia le cui pagine grondano sangue del popolo. Interrogate tutti
gli uomini che cangiarono la rivoluzione del 1830([1])
in una sostituzione di persone ad altre persone, e, a modo d'esempio,
fecero dei cadaveri dei vostri compagni di Francia, morti combattendo
nelle tre giornate, uno sgabello alla propria potenza: tutte le loro
dottrine, prima del 1830, erano fondate sulla vecchia idea dei diritti([2])
non sulla credenza nei doveri dell'uomo. Voi li chiamate in oggi
traditori ed apostati, e non furono che conseguenti alla loro dottrina.
Combattevano con sincerità il governo di Carlo X, perché quel governo
era direttamente nemico alla classe d'onde essi uscivano, e violava e
tendeva a sopprimere i loro diritti. Combattevano in nome di quel benessere,
ch'essi non possedevano quanto pareva loro di meritare. Alcuni erano perseguitati nella libertà del
pensiero; altri, ingegni potenti, si vedevano negletti, allontanati dagli
impieghi, che occupavano uomini di capacità inferiore alla loro. Allora
anche i mali del popolo li irritavano. Allora scrivevano arditamente e di
buona fede intorno ai diritti che appartengono a ogni uomo. Poi, quando i loro
diritti politici e intellettuali si trovarono assicurati, quando la
via agli impieghi fu loro aperta, quando ebbero conquistato il benessere
che cercavano, dimenticarono il popolo, dimenticarono che i milioni,
inferiori ad essi per educazione e per desideri, cercavano l'esercizio
d'altri diritti e la conquista di un'altro benessere, posero
l'animo in pace e non si curarono d'altro che di sé stessi. Perché li
chiamate traditori? Perché non chiamate invece traditrice la loro
dottrina? A forza d'esagerare un principio contenuto nel
Protestantesimo, e che oggi il Protestantesimo, pur sente il bisogno di
abbandonare ‑ a forza di dedurre tutte le vostre idee unicamente
dall'indipendenza dell'individuo ‑ voi siete giunti, a che?
all'anarchia, cioè all'oppressione del debole, che non ha mezzi, né
tempo, né istruzione per esercitare i propri diritti, nell'ordinamento
politico; all'egoismo, cioè all'isolamento e alla rovina del debole che
non può aiutarsi da sé nella morale. Ma noi vogliamo Associazione: come
ottenerla sicura se non da fratelli che credono negli stessi principii
regolatori, che s'uniscono nella stessa fede, che giurino nell'istesso
nome? Vogliamo educazione: come darla o riceverla, se non in virtù d'un
principio che contenga l'espressione delle nostre credenze sull'origine,
sul fine, sulla legge di vita dell'uomo su questa terra? Vogliamo
educazione comune: come darla o riceverla, senza una fede comune? Vogliamo
formare Nazione: come riescirvi, se non credendo in uno scopo comune, in
un dovere comune? E donde possiamo noi dedurre un dovere comune?
se non dall'idea che ci formiamo di Dio e della sua relazione con noi?
Certo: il suffragio universale è cosa eccellente; è il solo mezzo legale
col quale un paese possa, senza crisi violente ogni tanto, governarsi; ma
il suffragio universale in un paese dominato da una fede darà
l'espressione della tendenza, della volontà nazionale; in
un paese privo di credenze comuni, cosa mai potrà esprimere se non
l'interesse numericamente più forte e l'oppressione di tutti gli altri?
Tutte le riforme politiche in ogni paese irreligioso, o non curante di
religione, dureranno quanto il capriccio o l'interesse degli individui
vorranno e non più. Or Dio non punisce chi la pensa così? Non degrada
egli lo schiavo? Non sommerge egli negli appetiti sensuali, negli istinti
ciechi di quella che voi chiamate materia, metà dell'anima del
povero giornaliero costretto a consumare, senza lume d'educazione, in una
serie d'atti fisici, la vita divina? Trovate fede religiosa più viva nel servo
Russo che non nel Polacco combattente le battaglie della patria e
della Libertà? Trovate amore più fervente di Dio nel suddito avvilito
d'un Papa e d'un Re tiranno, che non nel repubblicano Lombardo del
dodicesimo secolo e nel repubblicano Fiorentino del decimoquarto? Dov'è
lo spirito di Dio ivi è la libertà, ha detto uno dei più potenti
Apostoli che noi conosciamo; e la religione ch'ei predicava decretò
l'abolizione della schiavitù; chi può intendere e adorare
convenientemente Dio strisciandosi ai piedi della sua creatura? La vostra
non è religione, è setta d'uomini che hanno dimenticato la loro origine,
le battaglie che i loro padri sostennero contro una società incadaverita,
e le vittorie che riportarono trasformando quel mondo terrestre ch'oggi
voi, o contemplatori, sprezzate. Qualunque forte credenza sorga fra le
rovine delle vecchie esaurite, trasformerà l'ordinamento sociale
esistente, perché ogni forte credenza cerca applicarsi a tutti i rami
dell'attività umana Dio lo vuole, Dio lo vuole! È
grido di popolo, o fratelli; è grido del vostro popolo, grido
nazionale Italiano. Non vi lasciate ingannare, o voi che lavorate con
sincerità d'amore per la vostra Nazione, da chi vi dirà forse che la
tendenza Italiana non è che tentazione politica, e che lo spirito
religioso s'è dipartito da essa. Lo spirito religioso non si dipartì mai
dall'Italia finché l'Italia, comunque divisa, fu grande ed attiva; si
dipartì, quando nel secolo decimosesto, caduta Firenze, caduta sotto le
armi straniere di Carlo V, e sotto i raggiri dei Papi ogni libertà di
vita Italiana, noi cominciammo a perdere tendenze nazionali e a vivere
spagnuoli, tedeschi e francesi. Allora i nostri letterati incominciarono a
far da buffoni ai principi e ad accarezzare la svogliatezza dei padroni,
ridendo di tutti e di tutto. Allora i nostri preti, vedendo impossibile
ogni applicazione di verità religiosa, incominciarono a far bottega del
culto, e a pensare a se stessi, non al popolo ch'essi dovevano illuminare
e proteggere. E allora il popolo, sprezzato dai letterati, tradito e
spolpato dai preti, esiliato da ogni influenza nelle cose pubbliche,
cominciò a vendicarsi ridendo dei letterati, diffidando dei preti,
ribellandosi a tutte le credenze, poi che vedeva corrotta l'antica e non
poteva presentire più in là. Da quel tempo in poi, noi ci trasciniamo
tra le superstizioni comandate dall'abitudine o dai governi e la
incredulità, abietti e impotenti. Ma noi vogliamo risorgere grandi ed
onorati. E ricorderemo la tradizione Nazionale. Ricorderemo che col nome
di Dio sulla bocca e colle insegne della loro fede nel centro della
battaglia, i nostri fratelli lombardi vincevano, nel dodicesimo secolo,
gl'invasori tedeschi, e riconquistavano le loro libertà manomesse.
Ricorderemo che i repubblicani delle città toscane si radunavano al
parlamento nei templi. Ricorderemo gli Artigiani Fiorentini che,
respingendo il partito di sottomettere all'impero della famiglia Medici la
loro libertà democratica, elessero, per voto solenne, Cristo capo della
Repubblica ‑ e il frate Savonarola predicante a un tempo il dogma di
Dio e quello del popolo ‑ e i Genovesi del 1746 liberatori, a furia
di sassate, e del nome di Maria protettrice, della loro città
dall'esercito tedesco che la occupava, e una catena d'altri fatti simili a
questi, ne' quali il pensiero religioso protesse e fecondò il pensiero
popolare Italiano. L'individuo è troppo debole e l'Umanità
troppo vasta. Mio Dio, ‑ prega, salpando il marinaio della
Bretagna ‑ proteggetemi: il mio battello è sì piccolo e il
nostro Oceano così grande! E quella preghiera riassume la condizione
di ciascun di voi, se non si trova un mezzo di moltiplicare
indefinitivamente le vostre forze, la vostra potenza d'azione: Questo
mezzo Dio lo trovava per voi, quando vi dava una Patria, quando, come un
saggio direttore di lavori distribuisce le parti diverse a seconda delle
capacità, ripartiva in gruppi, in nuclei distinti l'Umanità sulla faccia
del nostro globo e cacciava il germe delle nazioni. I tristi governi hanno
guastato il disegno di Dio che voi potete vedere segnato chiaramente, per
quello almeno che riguarda la nostra Europa, dai corsi dei grandi fiumi,
dalle curve degli alti monti e dalle altre condizioni geografiche: l'hanno
guastato colla conquista, coll'avidità, colla gelosia dell'altrui giusta
potenza; guastato di tanto che oggi, dall'Inghilterra e dalla Francia in
fuori, non v'è forse Nazione i cui confini corrispondano a quel disegno.
Essi non conoscevano e non conoscono Patria, fuorché la loro famiglia, la
dinastia, l'egoismo di casta. Ma il disegno divino si compirà senza
fallo. Le divisioni naturali, le innate spontanee tendenze dei popoli, si
sostituiranno alle divisioni arbitrarie sancite dai tristi governi. La
Carta d'Europa sarà rifatta. La Patria del Popolo risorgerà delimita dal
voto dei liberi, sulle rovine della Patria dei re, delle caste
privilegiate. Tra quelle patrie sarà armonia, affratellamento. E allora,
il lavoro dell'umanità verso il miglioramento comune, verso la scoperta e
l'applicazione della propria legge di vita, ripartito a seconda delle
capacità locali e associato, potrà compirsi per via di sviluppo
progressivo, pacifico: allora, ciascuno di voi, forte degli effetti e dei
mezzi di molti milioni d'uomini parlanti la stessa lingua, dotati di
tendenze uniformi, educati dalla stessa tradizione storica, potrà sperare
di giovare coll'opera propria a tutta quanta l'Umanità. Oggi, l'egoismo regna spesso pur troppo e
forzatamente nella Famiglia. Le tristi istituzioni sociali lo generano. In
una società fondata su spie, birri, prigioni e patiboli, la povera madre,
tremante ad ogni nobile aspirazione del figlio, è sospinta ad insegnargli
la diffidenza, a dirgli: bada! l'uomo che ti parla di Patria di Libertà
d'Avvenire, e che tu vorresti stringerti al petto non è forse che un
traditore! In una società nella quale il merito è pericoloso, e la
ricchezza è la sola base della potenza, della sicurezza, della difesa
contro la persecuzione e il sopruso, il padre è trascinato dall'affetto a
dire al giovane anelante la Verità: bada! la ricchezza è la tua
tutela: la Verità sola non può esserti scudo contro l'altrui forza,
contro l'altrui corruttela. Ma io vi parlo d'un tempo in cui, col
vostro sudore e col vostro sangue, avrete fondato ai figli una Patria di
liberi, costituita sul merito, sul bene che ciascuno di voi avrà fatto ai
suoi fratelli. Fino a quel tempo, voi pur troppo non avete innanzi che una
sola via di miglioramento, un solo supremo dovere da compiere: ordinarvi,
prepararvi, scegliere l'ora opportuna e combattere a conquistarvi
coll'insurrezione la vostra Italia. Allora soltanto potrete soddisfare
senza gravi e continui ostacoli agli altri vostri doveri. E allora,
mentr'io sarò probabilmente sotterra, rileggete queste mie pagine: i
pochi consigli fraterni ch'esse contengono vengono da un core che v'ama e
sono scritti colla coscienza del vero. Senza libertà voi non potete compiere alcuno dei
vostri doveri. Voi dunque avete diritto alla Libertà, e Dovere di
conquistarla ad ogni modo contro qualunque Potere la neghi. Senza libertà non esiste Morale, perché
non esistendo libera scelta tra il bene ed il male, tra la devozione al
progresso comune e lo spirito d'egoismo, non esiste società vera, perché
tra liberi e schiavi non può esistere associazione; ma solamente dominio
degli uni sugli altri. La libertà è sacra come l'individuo, del
quale essa rappresenta la vita. Dove non è libertà, la vita è ridotta
ad una pura funzione organica. Lasciando che la sua libertà sia violata,
l'uomo tradisce la propria natura e si ribella contro i decreti di Dio. Non v'è libertà dove una casta, una famiglia, un
uomo s'assuma dominio sugli altri in virtù d'un preteso diritto divino,
in virtù d'un privilegio derivato dalla nascita, o in virtù di
ricchezza. La libertà dev'essere per tutti e davanti a tutti Ma vi son cose che costituiscono il vostro individuo
e sono essenziali alla vita umana. E su queste neppure il popolo ha
signoria. Nessuna maggioranza, nessuna forza collettiva può rapirvi ciò
che vi fa essere uomini. Nessuna maggioranza può decretar la
tirannide e spegnere o alienare la propria libertà. Contro il popolo
suicida che ciò facesse, voi non potete usar la forza, ma vive e vivrà
eterno in ciascun di voi il diritto di protesta nei modi che le
circostanze vi suggeriranno. Voi dovete avere libertà in tutto ciò ch'è
indispensabile ad alimentare, moralmente e materialmente, la vita. Libertà personale: libertà di locomozione: libertà
di credenza religiosa: libertà d'opinione su tutte le cose: libertà
d'esprimere colla stampa o in ogni altro modo pacifico il vostro pensiero:
libertà di associazione per poterlo fecondare col contatto nel pensiero
altrui: libertà di traffico pei suoi prodotti son tutte cose che nessuno
può togliervi, salvo alcune rare eccezioni, ch'or non importa il dire,
senza grave ingiustizia, senza che sorga in voi il dovere di protestare. Leopardi, zibaldone Cercava Longino (nel fine del trattato del Sublime)
perchè al suo tempo ci fosse tanta scarsezza di anime grandi e portava
per ragione parte la fine delle repubbliche e della libertà, parte
l'avarizia, la lussuria e l'ignavia. Ora queste non sono madri ma sorelle
di quell'effetto di cui parliamo. E questo e quelle derivano dai progressi
della ragione e della civiltà, e dalla mancanza o indebolimento delle
illusioni, senza le quali non ci sarà quasi mai grandezza di pensieri nè
forza e impeto e ardore d'animo, nè grandi azioni che per lo più sono
pazzie. Quando ognuno è bene illuminato in vece dei diletti e dei beni
vani come sono la gloria l'amor della patria la libertà ec. ec. cerca i
solidi cioè i piaceri carnali osceni [22]ec. in somma terrestri,
cerca l'utile suo proprio sia consistente nel danaro o altro, diventa
egoista necessariamente, nè si vuol sacrificare per sostanze immaginarie
nè comprometter se per gli altri nè mettere a ripentaglio un bene
maggiore come la vita le sostanze ec. per un minore, come la lode ec.
(lasciamo stare che la civiltà fa gli uomini tutti simili gli uni agli
altri, togliendo e perseguitando la singolarità, e distribuendo i lumi e
le qualità buone non accresce la massa, ma la sparte, sì che ridotta in
piccole porzioni fa piccoli effetti.) Quindi l'avarizia, la lussuria e
l'ignavia, e da queste la barbarie che vien dopo l'eccesso
dell'incivilimento. E però non c'è dubbio che i progressi della ragione
e lo spegnimento delle illusioni producono la barbarie, e un popolo
oltremodo illuminato non diventa mica civilissimo, come sognano i filosofi
del nostro tempo, la Staël ec. ma barbaro; al che noi c'incamminiamo a
gran passi e quasi siamo arrivati. La più gran nemica della barbarie non
è la ragione ma la natura: (seguìta però a dovere) essa ci somministra
le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente
civile, e certo nessuno chiamerà barbari i Romani combattenti i
Cartaginesi, nè i Greci alle Termopile, quantunque quel tempo fosse pieno
di ardentissime illusioni, e pochissimo filosofico presso ambedue i
popoli. Le illusioni sono in natura, inerenti al sistema del mondo, tolte
via affatto o quasi affatto, l'uomo è snaturato; ogni popolo snaturato è
barbaro, non potendo più correre le cose come vuole il sistema del mondo. L'incivilimento ha posto
in uso le fatiche fine ec. che consumano e logorano ed estinguono le
facoltà umane, come la memoria, la vista, le forze in genere ec. le quali
non erano richieste dalla natura, e tolte quelle che le conservano e le
accrescono, come quelle dell'agricoltore del cacciatore ec. e della vita
primitiva, le quali erano volute dalla natura e rese necessarie alla detta
vita. III.
Idealismo e neoidealismo Con “idealismo” ci si riferisce alla filosofia
della prima metà del XIX secolo e soprattutto a Georg Wilhelm Fiederich
Hegel (1770-1831), il quale, se da una parte si era formato pienamente
nella cultura del Romanticismo, dall'altra di esso fece un forte critica:
accettava di esso il rifiuto della ragione illuministica (il cosiddetto
“intelletto astratto”), ma non in nome del “sentimento”, bensì
invece di una Ragione più profonda e comprensiva, avendo come modello di
metodo conoscitivo la Storia e non le Scienze. Con “neoidealismo” ci
si riferisce a una corrente filosofica della prima metà del XX secolo
diffusasi nel mondo anglosassone (Bernard
Bosanquet, F.H. Bradley, J.E. McTaggart, Josiah Royce, Robin E.
Collingwood) e in Italia (Benedetto Croce e Giovanni Gentile): tutti
questi filosofi si richiamarono esplicitamente a Hegel e furono chiamati
anche “neohegeliani”: come Hegel aveva combattuto su due fronti ( il
Romanticismo e l'Illuminismo), così questi filosofi di un secolo dopo
combatterono su due fronti, contro il Decadentismo e
contro il Positivismo. Ma anche su un terzo fronte, e cioè Hegel
stesso, che essi criticarono in vari punti importanti. G.
W. F. Hegel
Benedetto
Croce Virtù: la “democraticità” dello spirito Virtù:
liberalismo ed elogio dell'imperfezione Virtù: la mentalità storica Virtù: il “lavoro” e la “opera” come senso della
vita o felicità Virtù: la religione senza al di là Virtù: la interpersonalità fuori dalle idealizzazioni Vizio: il disinteresse per la politica Vizio: il desiderio di fusione Vizio: l'irrazionalismo Vizio:il narcisismo materiale Vizio: il narcisismo morale Vizio: il dualismo Vizio: l'indistinzione tra teoria e pratica Bibliografia
·
Franco Manni, La critica di Benedetto Croce al
sistema romantico, in “Humanitas”, n.1 1990, pp. 33.58 IV
– Marxismo Con “marxismo” si intende una corrente di
pensiero filosofico che deriva da Karl Marx (1818-1883) e che ha avuto
molti seguaci nella seconda metà del XIX secolo e nella prima del XX :
Engels, Kautsky, Bernstein, Lenin, Trotsky, Lukacs, Gramsci, Stalin. È
notevole osservare che la maggior parte di tali seguaci intellettuali
furono anche uomini politici influenti; il marxismo è stata anche
“filosofia ufficiale” per i Partiti politici socialisti e comunisti
del XIX e XX secolo e per gli Stati comunisti del XX. Karl
Marx (Treviri 1818 – London 1883)
Bibliografia Marx, Critica della filosofia hegeliana del
diritto Marx, Per la critica della filosofia del diritto
di Hegel Marx, Ideologia tedesca Marx, Tesi su Feuerbach Marx, Manoscritti economico-filosofici Marx, Il Capitale Marx e Engels, Manifesto del partito comunista Friederich Engels, La situazione della classe
operaia in Inghilterra V – Marxismo-leninismo Valdimir
Ilich Ulianov soprannonimato Lenin ( 1870-1924)
Bibliografia
VI – Marx sulla divisione del lavoro La
divisione del lavoro, che abbiamo già visto come una delle forze principali
della storia finora trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante
come divisione del lavoro intellettuale e manuale; cosicché all'interno
di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe
(i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell'elaborazione dell'illusione
di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli
altri, nei confronti di queste idee e di queste illusioni, hanno un
atteggiamento piú passivo e piú ricettivo, giacché in realtà sono i
membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e
delle illusioni su se stessi. (K.
Marx, L'ideologia tedesca) KARL MARX - FRIEDRICH
ENGELS Manoscritti economico-filosofici del '44 In Marx il tema della divisione del lavoro inizia
ad essere svolto con i "Manoscritti del '44". Nel primo
manoscritto vengono messi in luce i rapporti tra accumulazione del capitale,
divisione del lavoro e condizione della classe operaia. "L'accumulazione del capitale aumenta la
divisione del lavoro, la divisione del lavoro aumenta il numero degli
operai, e reciprocamente, il numero degli operai aumenta l'accumulazione dei
capitali Con questa divisione del lavoro da un lato e con l'accumulazione
dei capitali dall'altro, l'operaio dipende in modo sempre più netto dal
lavoro, e da un lavoro determinato, molto unilaterale e meccanico. E quindi,
come egli viene abbassato spiritualmente e fisicamente al livello
della macchina e trasformato da un uomo in una attività astratta e in un
ventre, così si trova in condizioni di sempre maggior dipendenza da
tutte le oscillazioni del prezzo del mercato, dell'impiego dei capitali e
del capriccio dei ricchi". Ulteriori problemi sorgono per il lavoratore dalla
introduzione delle macchine. "La divisione del lavoro rende l'operaio
sempre più unilaterale, così come introduce la concorrenza, non solo degli
uomini ma anche delle macchine. Essendo l'operaio degradato a
macchina, la macchina può presentarglisi innanzi come una
concorrente". [1844, Karl Marx] L'introduzione delle macchine, contribuendo alla
creazione di una quantità maggiore di prodotti, genera una situazione di
eccedenza di produzione "e ciò va a finire o nel licenziamento di una
gran parte degli operai oppure nella riduzione del loro salario al minimo più
miserabile". Inoltre "ad onta del risparmio di tempo dovuto al
perfezionamento delle macchine la durata del lavoro degli schiavi delle
fabbriche non ha fatto che aumentare per un gran numero di individui" [Schulz
in, 1844, Karl Marx] Appaiono quindi chiare alcune irrazionalità della
società industriale alla metà dell'ottocento: una produzione crescente
porta, all'interno della classe operaia, ad una crescente disoccupazione per
alcuni ed ad un crescente sfruttamento per altri; questo perché vengono
soppresse tutte le potenzialità liberatrici insite nella introduzione delle
macchine. "Un popolo, per educarsi in forma
spiritualmente più libera, non può più restare schiavo dei propri bisogni
materiali, non può più essere il servo del proprio corpo. Gli deve quindi
rimanere anzi tutto del tempo per poter anche produrre e godere
spiritualmente. I progressi dell'organizzazione del lavoro creano questa
possibilità di tempo libero". [Schulz in, 1844, Karl Marx] "Si è calcolato in Francia che nell'attuale fase della produzione
una durata di lavoro media di cinque ore al giorno da parte di ogni uomo
capace di lavoro basterebbe a soddisfare tutti gli interessi materiali della
società" [Schulz in, 1844, Karl Marx] Si può dunque dire che
"mentre la divisione del lavoro aumenta
la forza produttiva del lavoro, la ricchezza e il raffinamento della società,
impoverisce l'operaio sino a ridurlo ad una macchina. Mentre il
lavoro provoca l'accumulazione dei capitali e con esso il benessere
crescente della società, rende l'operaio sempre più dipendente dal
capitalista, lo espone ad una concorrenze maggiore, lo spinge nella caccia
senza quartiere della superproduzione a cui segue un rilassamento
altrettanto grande". [1844, Karl Marx]
"Certamente il lavoro produce per i ricchi
cose meravigliose; ma per gli operai produce soltanto privazioni. Produce
palazzi ma per l'operaio spelonche. Produce bellezza ma per l'operaio
deformità. Sostituisce il lavoro con macchine, ma ricaccia una parte degli
operai in un lavoro barbarico e trasforma l'altra parte in macchine. Produce
cose dello spirito, ma per l'operaio idiotaggine e cretinismo".
[1844, Karl Marx] L'ideologia tedesca L'ideologia tedesca segna un punto di passaggio
molto importante nell'analisi sulla divisione del lavoro. Marx ed Engels
passano in rassegna le diverse forme storiche in cui si è presentata la
proprietà, in quanto a queste forme sono correlati i diversi stadi di
sviluppo della divisione del lavoro. "Durante il fiorire del feudalesimo la
divisione del lavoro era assai limitata. Ogni paese portava in sé
l'antagonismo di città e campagna; l'organizzazione in ordini era
fortemente marcata ma al di fuori della separazione fra principi, nobiltà,
clero e contadini nelle campagne, e fra maestri, garzoni e apprendisti e ben
presto anche plebei a giornata nelle città, non esisteva alcuna divisione
di rilievo. Nell'agricoltura vi si opponeva la coltivazione parcellare,
accanto alla quale sorgeva l'industria domestica degli stessi contadini;
nell'industria il lavoro non era affatto diviso all'interno dei singoli
mestieri, pochissimo diviso tra un mestiere e l'altro. La divisione fra
industria e commercio preesisteva nelle città più antiche, mentre nelle
nuove si sviluppava lentamente quando fra esse si stabilivano
rapporti". [1845, Karl
Marx - Friedrich Engels] "La divisione del lavoro diventa una divisione
reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale
e il lavoro intellettuale. Da questo momento in poi la coscienza può
realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della
prassi esistente, concepire realmente qualche cosa, senza concepire alcunché
di reale". [1845, Karl Marx - Friedrich
Engels] "D'altronde è del tutto indifferente quel che
la coscienza si mette a fare per conto suo;
da tutta questa porcheria ricaviamo, come unico risultato, che
questi tre momenti, la forza produttiva, la situazione sociale e la
coscienza, possono e debbono entrare in contraddizione fra
loro perché con la divisione del lavoro si da la possibilità anzi la
realtà, che l'attività spirituale e attività materiale, il godimento e il
lavoro, la produzione e il consumo, tocchino a individui diversi, e la
possibilità, che essi non entrino in contraddizione sta solo nel tornare ad abolire
la divisione del lavoro". [1845, Karl Marx - Friedrich Engels]
"La divisione del lavoro, che implica
tutte queste contraddizioni e che a sua volta è fondata sulla divisione
naturale del lavoro nella famiglia e sulla separazione della società in
singole famiglie opposte l'una all'altra, implica in pari tempo anche la
ripartizione, e precisamente la ripartizione ineguale, sia per
quantità che per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la
proprietà che ha già il suo germe, la sua prima forma, nella
famiglia dove la donna e i figli sono gli schiavi dell'uomo". [1845,
Karl Marx - Friedrich Engels] Emerge man mano l'importanza della divisione del
lavoro quale base su cui si reggono la proprietà privata, l'alienazione, la
contrapposizione fra interessi personali, in una parola, diseguali rapporti
di potere. "sono espressioni identiche:
con la prima si esprime in riferimento all'attività esattamente ciò che
con l'altra si esprime in riferimento al prodotto dell'attività". [1845, Karl Marx - Friedrich Engels] Inoltre "con la divisione del lavoro è data
immediatamente la contraddizione fra l'interesse del singolo individuo o
della singola famiglia e l'interesse collettivo di tutti gli individui che
hanno rapporti reciproci; e questo interesse collettivo non esiste
puramente nell'immaginazione come universale ma esiste innanzi tutto nella
realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è
diviso". [1845, Karl Marx - Friedrich Engels] Per cui, "appena il lavoro
comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed
esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è
cacciatore, pescatore o pastore o critico critico [allusione alla critica
pura di Bruno Bauer] e tale deve restare se non vuole perdere i mezzi per
vivere". [1845, Karl Marx - Friedrich
Engels] E con un volo
dell'immaginazione, Marx ed Engels concepiscono la società comunista come
quella società in cui "ciascuno non ha una
sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a
piacere", e in cui "la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende
possibile di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a
caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo
criticare, così come mi vien voglia, senza diventare né cacciatore, né
pescatore, né pastore, né critico". Come si ricava da quest'ultima affermazione, la divisione del
lavoro è il prius che determina anche la differenziazione in classi. Tra
queste
"la classe che dispone dei mezzi della
produzione materiale, dispone con ciò in pari tempo dei mezzi della
produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate
le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione
intellettuale". [1845, Karl Marx - Friedrich Engels] Allora, per uscire da una situazione di
subordinazione è necessario che tutti gli individui si approprino delle
conoscenze materiali e intellettuali. "Gli individui devono appropriarsi la
totalità delle forze produttive esistenti". Miseria della filosofia Nella critica a Proudhon, che è il motivo
immediato per la stesura della "Miseria della filosofia", emergono
alcuni aspetti interessanti sul tema della divisione del lavoro. Al di là
della affermazione consueta che "la caratteristica peculiare della
divisione del lavoro all'interno della società moderna sta nel fatto di
generare le specializzazioni, i tipi e, con esse, l'idiotismo del mestiere",
[1847, Karl Marx] Il Capitale "La manifattura in senso proprio non solo assoggetta l'operaio,
prima indipendente, al comando e alla disciplina del capitale, ma crea
inoltre una graduazione gerarchica fra gli operai stessi. Mentre la
cooperazione semplice lascia inalterato nel complesso il modo di lavorare
del singolo, la manifattura rivoluziona questo modo di lavorare da cima a
fondo, e prende alla radice la forza-lavoro individuale. Storpia
l'operaio e ne fa una mostruosità favorendone, come in una serra, la abilità
di dettaglio, mediante la, soppressione di un mondo intero di impulsi e di
disposizioni produttive". "Le cognizioni, l'intelligenza e la
volontà che il contadino indipendente o il maestro artigiano sviluppano
anche se su piccola scala ... ormai sono richieste soltanto per il complesso
dell'officina. Le potenze intellettuali della produzione allargano la
loro scala da una parte perché scompaiono da molte parti. Quel che gli
operai parziali perdono si concentra nel capitale di contro a loro. Questa
contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di
produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li
domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero.
“ "Il lavoro alla macchina intacca in misura estrema il sistema
nervoso, sopprime l'azione molteplice dei muscoli e confisca ogni libera
attività fisica e mentale. La stessa facilità del lavoro diventa un
mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro l'operaio, ma
toglie il contenuto al suo lavoro. È fenomeno comune a tutta la
produzione capitalistica ... che non è l'operaio ad operare le condizioni
del lavoro ma, viceversa, la condizione del lavoro ad operare l'operaio; ma
questo capovolgimento viene ad avere soltanto con le macchine una realtà
teoricamente evidente". [1867, Karl Marx] Antidühring Nell' "Antidühring" di Engels si ripresentano tutti i temi
sulla divisione del lavoro precedentemente posti in luce: "La società, impadronendosi di tutti i mezzi
di produzione per usarli socialmente e secondo un piano, distrugge il
precedente asservimento degli uomini ai loro propri mezzi di produzione. Evidentemente
la società non si può emancipare senza che ogni singolo sia emancipato.
Il vecchio modo di produzione deve quindi essere rivoluzionato fin dalle
fondamenta e specialmente deve sparire la vecchia divisione del lavoro.
Al suo posto deve subentrare una organizzazione della produzione in cui da
una parte nessun singolo può scaricare sulle spalle degli altri la propria
partecipazione al lavoro produttivo, fondamento naturale dell'umana
esistenza, in cui dall'altra il lavoro produttivo, anziché mezzo per
l'asservimento, diventa mezzo per l'emancipazione degli uomini, poiché
fornisce ad ogni singolo l'occasione di sviluppare e di mettere in azione
tutte quante le sue facoltà sia fisiche che spirituali in tutte le
direzioni: in cui così il lavoro, da peso diverrà gioia". [1878,
Friedrich Engels] VII – Marxisti sulla divisione del lavoroDivisione
del lavoro (La
concezione materialistica della storia, per Marx ed , il
su basi Paul
Mattick 1971)
Quindi
la realtà strutturale condiziona inevitabilmente la : , , ,
ecc... La divisione del lavoro tra lavoro manuale e lavoro
intellettuale, secondo Marx, ha senz'altro contribuito a sviluppare una
fittizia autonomia della sovrastruttura, cioè l'ideologia.
L'ideologia non indica più, come per gli , lo studio delle sensazioni e
l'origine delle , essa per Marx indica la funzione che religione, filosofia
e produzioni culturali in genere possono avere nel giustificare la
situazione esistente. Per comprendere il processo storico, non serve
prestare attenzione alle idee, alla cultura ma serve prestare attenzione ai
modi in cui si produce la vita materiale. (Il ragionamento ricorda quello
compiuto sulla religione: eliminare la religione è inutile, si deve agire
sulle cause materiali che la rendono possibile).
invece rifiuterà ogni interpretazione deterministica del rapporto
struttura-sovrastruttura ritenendo il fattore economico importante per
l'analisi storica ma non l'unico attraverso cui leggere la realtà. Divisione del lavoro e coscienza di classe 1. Lavoro produttivo e lavoro improduttivo Recentemente
il problema della coscienza di classe ha ricevuto una nuova formulazione in
rapporto ai concetti marxiani di lavoro produttivo e di lavoro improduttivo,
e rimesso così in discussione[1]. Benché Marx abbia trattato ampiamente
tale problema[2], sollevato dai fisiocratici e dagli economisti classici, si
può facilmente sintetizzare il suo pensiero in proposito. Al fine di
distinguere il primo dal secondo, Marx rivolge la sua attenzione al modo di
produzione capitalistico. "Nella sua cecità", egli afferma,
"il borghese attribuisce un carattere assoluto al modo di produzione
capitalistico, considerandolo come la forma eterna della produzione. Egli
confonde il problema del lavoro produttivo, quale viene posto dal punto di
vista del capitale, con il problema generale riguardante l'essenza e la
qualità del lavoro produttivo. A tale proposito egli si limita a fare lo
spiritoso rispondendo che ogni lavoro che produce qualche cosa e che mette
capo a un risultato qualsiasi è per ciò stesso un lavoro
produttivo"[3]. Secondo
Marx è produttivo solo il lavoro che produce capitale, mentre è
improduttivo il lavoro che viene scambiato direttamente con un profitto o un
salario. "Il risultato del processo di produzione capitalistico",
egli sostiene, "non è quindi né un semplice prodotto (valore d'uso) né
una merce, cioè un valore d'uso avente un valore di scambio determinato.
Risultato e prodotto di esso è la creazione di plusvalore per il capitale e
quindi l'effettiva conversione di denaro o di merci in capitale, cosa elle
anteriormente al processo di produzione essi non erano se non a livello di
intenzione di destinazione. Il
processo di produzione assorbe più lavoro di quanto sia pagato e tale
assorbimento, questa appropriazione del lavoro non pagato che avviene nel
processo di produzione capitalistica ne costituisce lo scopo immediato.
Infatti ciò che il capitale (e quindi il capitalista in quanto tale) vuole
produrre, non è nè un valore d'uso immediato ai fini di autoconsumo, ne
una merce destinata a essere trasformata prima in denaro e poi in valore
d'uso. Esso ha come scopo l'arricchimento, la valorizzazione del capitale,
il suo accrescimento, e quindi la conservazione dell'antico valore e la
creazione del plusvalore. E questo prodotto specifico del processo di
produzione capitalistico viene ottenuto proprio grazie allo scambio con il
lavoro che, per questa ragione, è detto produttivo"[4]. Infatti
all'interno del sistema capitalistico, processo di produzione e processo di
circolazione costituiscono una totalità. Bisogna quindi distinguere la
creazione del plusvalore dalla sua distribuzione, poiché la distinzione tra
lavoro produttivo e lavoro improduttivo è attenuata dal fatto che sia nella
sfera della produzione sia in quella della circolazione sono pagati dei
salari e realizzati dei profitti. La divisione del lavoro, considerata come
un prodotto storico dello sviluppo capitalistico e soggetta come tale a
continui mutamenti, fa sì che il capitale si suddivida tra i diversi
settori dell'economia di mercato e, quindi, che i capitali impiegati
improduttivamente ricevano una parte dal plusvalore sociale globale.
Analogamente al capitale creatore di plusvalore, il capitale improduttivo
assume la forma d'imprese che forniscono un profitto medio al capitale che
vi e investito. L'unità dei due tipi di lavoro si può cogliere anche al di
fuori del processo capitalistico di produzione considerato nel suo insieme.
Se si analizzano le imprese che generano plusvalore, si assiste ugualmente a
una divisione del lavoro, in funzione della quale una parte della manodopera
crea direttamente del plusvalore, mentre l'altra lo crea indirettamente. Secondo
Marx, ''il modo di produzione capitalistico ha come suo tratto distintivo
quello di separare i diversi tipi di lavoro - e quindi anche il lavoro
intellettuale dal lavoro manuale - o i lavori appartenenti all'una o
all'altra di queste categorie, e di suddividerlo tra persone differenti.
Tuttavia, ciò non toglie che il risultato materiale sia un prodotto
collettivo di queste persone o che il loro prodotto collettivo si oggettivi
nella ricchezza materiale, il che, a sua volta, non esclude o non cambia
assolutamente niente al fatto che il rapporto di ciascuna di queste persone
con il capitale rimanga quello di lavoratori salariati e, in questo senso
principalissimo, quello, di lavoratori produttivi. Tutte queste persone sono
non solo adibite immediatamente per produrre una ricchezza materiale, ma per
soprappiù esse scambiano immediatamente il loro lavoro con denaro in quanto
capitale e riproducono così immediatamente, oltre al loro salario, un
plusvalore per i capitalisti"[5]. Oltre
alle occupazioni legate alla produzione di merci e alla loro circolazione,
esistono molte professioni che, senza partecipare all'una o all'altra di
queste sfere, producono servizi e non merci. I loro membri attingono il loro
salario dai lavoratori o dai capitalisti, oppure da entrambi. Dal punto di
vista capitalistico il loro lavoro, per quanto utile o necessario possa
essere, è da considerarsi improduttivo; sia che i loro servizi siano
comprati in quanto merci o remunerati con il denaro proveniente dalle
imposte, tutto ciò che essi percepiscono proviene dal reddito dei
capitalisti o dal salario dei lavoratori. A questo punto sembra insorgere
una difficoltà. Infatti, tra queste professioni, ce ne sono molte i cui
membri (insegnanti, medici, ricercatori scientifici, attori, artisti e
altri), pur producendo soltanto dei servizi, non sono nè più nè meno che
dei dipendenti e portano un profitto all'imprenditore che dà loro lavoro.
Questo è il motivo per cui quest'ultimo considera produttivo il lavoro che
egli ha pagato e che gli ha permesso di realizzare un profitto, di
valorizzare il suo capitale. Per la società invece, questo lavoro è
improduttivo poiché il capitale così valorizzato costituisce una parte del
valore e del plusvalore creato nella produzione. Lo stesso si può dire sia
per il capitale commerciale e il capitale bancario che per gli impiegati di
questi due settori; anche in questo caso viene prodotto pluslavoro e
valorizzato del capitale, anche se i salari e i profitti riguardanti questi
settori sono di necessità prelevati dal valore e dal plusvalore creati
nella produzione. Inoltre, esistono tuttora degli artigiani e dei contadini
indipendenti che non occupano operai e che non producono quindi in qualità
di capitalisti. "Essi si presentano unicamente come venditori di merci,
non come venditori di lavoro; questo lavoro quindi non ha niente a che
vedere con lo scambio del capitale e del lavoro, né tantomeno con la
distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, che poggia sul
fatto che il lavoro è scambiato con denaro sia in quanto tale sia in quanto
capitale. Pur essendo produttori di merci, essi non appartengono nè alla
categoria dei lavoratori produttivi nè a quella dei lavoratori
improduttivi. Ma la loro produzione non è subordinata al modo di produzione
capitalistico"[6]. Note 1.
Cfr. la serie di articoli su "Lavoro produttivo e lavoro improduttivo
nel sistema capitalistico" in Sozialislische Polititik (Berlino) n.6-7
e 8, giugno e settembre 1970, con i contributi di Joachtm Birchoff, Iictner
Gansmann, Gudrun Kiimmel, Gerhard Lóhtetn; Christoph Iliibner, Ingrid Pitch,
Lothar Riehn; Elmar Altvater, Frecrk lluisken. 2.
Cfr. Theorien, pp. 368-369 [Questo frammento non figura nella traduzione di
Molitor, poichè mancava nella prima versione dell'opera; se ne troverà una
traduzione in Karl Marx, Oeuures Econontiques, ed. Rubel, Il, Partgi 1968,
p. 388. (N.d.T.)]. 3.
Cfr. Theorien, pp. 368-369 [Questo frammento non figura nella traduzione di
Molitor, poichè mancava nella prima versione dell'opera; se ne troverà una
traduzione in Karl Marx, Oeuures Econontiques, ed. Rubel, Il, Partgi 1968,
p. 388. (N.d.T.)]. 4. Cfr. Theorien, p. 387. 5. Cfr. Theorien, p. 387. 6. Cfr. Theorien, p. 382 (Cfr, anche K. Marx,
Ocuvres Il, op. cif., p. 401). Lavoro
manuale e lavoro intellettuale La divisione del lavoro e le classi sociali Il problema della divisione del
lavoro, nei suoi innumerevoli aspetti e conseguenze, è da qualche tempo
oggetto di interesse all'interno dell'universo marxista e progressista,
dall'economia alla sociologia, dalla psicologia alla pedagogia, dalla storia
all'antropologia. Socializzazione dei
beni e socializzazione del sapere si trovano indissolubilmente unite nel
processo rivoluzionario dell'abolizione delle classi. Queste ritornano
ancora una volta sotto il segno delle funzioni sociali e delle divisioni e
"suddivisioni" interne ad esse: "Così minute, realmente, che
l'ideale moderno di un lavoratore sembra di essere un uomo o una donna, od
anche un fanciullo o una ragazza, prive delle conoscenze proprie a qualsiasi
artigiano; senza nessuna concezione riguardo all'industria in cui sono
impiegati; capaci unicamente di produrre durante tutto il giorno e per tutta
la vita la stessa infinitesima parte di qualche cosa: di spingere, dall'età
di tredici a quella di sessant'anni, il carro del carbone ad un posto nella
mina, o fabbricare la molla di un temperino, o "la diciottesima parte
di una spilla". Semplici servi di qualche macchina d'un dato modello;
semplici parti di carname di un immenso meccanismo, senza idea alcuna del
come e del perché quel meccanismo compie i suoi ritmici movimenti"
(14). Mirko
Roberti 1) Dalla presentazione di "Socialisme ou Barbarie", Guanda,
1969. 2) M. Salvati
e B. Beccalli, Divisione del lavoro. Capitalismo, Socialismo, Utopia,
in "Quaderni Piacentini" n.40, Aprile 1970. 3) "Il Manifesto", Anno II, Settembre 1970, pag.24. 4) AA.VV. Educazione
e divisione del lavoro, La Nuova Italia, 1873. 5) Proudhon, De la Création de l'Ordre dans l'humanitè,
Marcel Revière, Paris, 1927, pag.289 e sgg. 6) Proudhon, op. cit. 7)
Proudhon, op. cit. 8) Documento
approvato al congresso di Bruxelles del 1868. Si trova in, Tullio Martello, Storia
dell'Internazionale, Padova 1873. 9)
Bakunin, Società rivoluzionaria internazionale o Fratellanza
internazionale, 1866. Cfr. Stato e Anarchia e altri scritti,
Feltrinelli, 1968, pag.324. 10)
Bakunin, L'istruzione integrale, 1869, Cfr. op. cit. 267 e sgg. 11) Bakunin, op. cit. 12)
Bakunin, op. cit. 13) P. Kropotkin, Fields, Factories and Workshops,
1898. Le
industrie nazionali,
1910, New York, pag. 19 e sgg. 14) Kropotkin, op. cit.
VIII - Conclusioni ·
felicità, ragione, interpersonalità. Per
secoli – soprattutto nell'Età Moderna (XVI-XVIII secolo) - sia le
filosofie sia il senso comune hanno tenuto separati i discorsi su felicità,
ragione, interpersonalità. In tal modo si sono prodotte: a)
visioni della felicità emotivistiche, edonistiche e mistiche: cioè senza
connessione con la ragione o senza connessione col rapporto interpersonale. b)
visioni della ragione intellettualistiche o matematizzanti: cioè senza
connessione col rapporto interpersonale e senza connessione con la felicità.
c) visioni dell’amore
sentimentalistiche (come nel romanticismo) e ascetiche (come in Kant): cioè
senza connessione con la ragione o senza connessione con la felicità. Dal
XIX secolo in poi, però,
l’intrecciarsi delle cause più varie , alcune categorie di pensatori sono
arrivate a convergere in una visione diversa, in cui i tre elementi
costituiscono le parti di un discorso unico. In
tale sviluppo il pensiero contemporaneo
ha visto che per la soluzione del problema antropologico («Cosa è
l’uomo?») e del problema etico («Come l’uomo può essere felice?»),
l’attenzione alla «salute» ossia alla felicità come realizzazione della
natura umana, l’attenzione alla razionalità, e l’attenzione al rapporto
interpersonale devono convergere, non devono separarsi né tanto meno
contrapporsi.
· Di queste due altre filosofie intenderei parlare nel prossimo corso. Grazie per la vostra attenzione e arrivederci! [1] () Le tre giornate del 29 al 31 luglio 1830 segnarono il decadimento in Francia della Monarchia assoluta di Carlo X e l'avvento al trono di Luigi Filippo d'Orleans. [2] () Infatti, quelle dottrine erano diffuse dalla Società che s'intitolava appunto dei “Diritti dell'uomo.”
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Franco Manni indice degli scritti
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Maurilio Lovatti main list of online papers
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