materiali di studio a cura di Franco Manni
Herbert McCabe Il coinvolgimento di Dio
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Herbert
McCabe (1926-2001) era un frate domenicano che ha predicato presso i
Blackfriars di Oxford. Di lui ci rimangono non molti libri – pubblicati
sia in vita sia postumi – di filosofia e teologia, leggendo i quali ci
rendiamo conto di come McCabe avesse
un'acuta intelligenza e una sorprendente
originalità in filosofia, e avesse una vertiginosa profondità in
teologia.
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Ho intitolato questo saggio Il coinvolgimento di Dio perché voglio prendere parte ad una discussione su questioni quali se Dio soffra o meno con la sofferenza delle sue creature, per chiedere fino a che punto Dio è coinvolto col suo mondo. [1] Per
prima cosa proverò a difendere ciò che considero essere la dottrina
classica di Dio derivata da Agostino e dall’Aquinate: che non è nella
natura di Dio l’essere coinvolto nella sofferenza del mondo da
spettatore, simpatizzante o vittima, ma che è nella natura di Dio
l’essere comunque coinvolto con le sue creature più intimamente di
quanto qualsiasi altra creatura potrebbe essere coinvolta con un'altra. In
secondo luogo sosterrò che la cristologia di Calcedonia[2]
dia senso alla nozione di un Dio che soffre e che in effetti è stato
torturato a morte; in effetti, in gran parte è proprio questa la nozione. In
terzo luogo, e un po’ più come un tentativo, la mia ipotesi è che
un’interpretazione sacramentale della cristologia calcedonese produca
l’intera dottrina della Trinità. *** Il
tema della sofferenza di Dio è così popolare tra i teologi oggi che sono
del tutto incapace persino di cominciare a fornire una panoramica
della letteratura recente – questo in parte perché non ho letto
abbastanza e in parte perché non voglio travisare degli autori facendo
citazioni isolate. Farò poche citazioni erudite: sono interessato infatti
a delle idee, a come esse possano congiungersi, e a come esse
posano respingersi. C’è
oggi, naturalmente, una forte e rispettabile tendenza a criticare ciò che
è considerata la nozione tradizionale di Dio, essenzialmente per il fatto
che questa non riuscirebbe rendere conto
della rivelazione biblica di Dio, e non riuscirebbe a causa del
paraocchi di quelle che sono considerate come le “statiche” categorie
filosofiche di pensiero greche. Il
Dio della metafisica è un’intrusione greca nella rivelazione ebraica,
così viene sostenuto oggi. Questa non è, ovviamente, un’idea moderna
– era molto familiare a Lutero – ma le è stata data, a mio avviso,
una nuova vita mediante il rilancio della teologia “del processo” e
soprattutto con l’arrivo della teologia della liberazione. (Per inciso,
non fraintendetemi qui. La prassi della teologia della liberazione, quell’unità di teoria e
pratica che viene svolta in comunità di base e altrove, in particolare in
America Latina, mi sembra chiaramente la cosa più importante di tutto il
movimento cristiano odierno – troppo importante perché rimanga
impigliata in un’incoerente teologia di Dio). A
dispetto di tutte le mie buone intenzioni, inizierò con una citazione da
Moltmann. Egli sta parlando delle Cinque Vie dell’Aquinate: La
prova cosmologica di Dio era stata pensata da Tommaso per rispondere alla
domanda utrum
Deus sit,
ma in realtà egli non dimostrò davvero l’esistenza
di Dio; ciò che dimostrò fu la natura
del divino, […] l’Aquinate ripose alla domanda “Qual è la natura
del divino?”, ma non alla domanda “Chi è Dio?” (The
Trinity and the Kingdom of God, London 1981, p.12; cf. Tommaso
d’Aquino, Summa
Theologiae,
1a, 2, 3). Quest’osservazione
sembrerà molto strana per quelli di noi che ricordano che la seconda
frase scritta da Tommaso appena dopo l'articolo sulle “cinque vie”
comincia così : “Ma poiché riguardo a Dio noi
non possiamo conoscere ciò che egli è, ma solo ciò che egli non è…”,
scire non possumus quid sit.
Sembra improbabile che l’Aquinate abbia dimenticato così in fretta ciò
che aveva appena fatto o che si sia auto-frainteso così radicalmente. I
lettori dell’Aquinate, comunque, inclusi quelli che si riconoscono come
suoi discepoli, fanno la massima fatica a prenderlo sul serio quando egli
dice che, semplicemente, non sappiamo nulla della “natura di Dio”. E
qui, io credo, è dove il fraintendimento della tradizione teologica
comincia. Se
posso davvero riassumere molto brevemente ciò che ho spesso detto
altrove: le Cinque Vie dell’Aquinate, per come le ho lette, sono abbozzi
di cinque argomentazioni per dimostrare che un certo tipo di domanda circa il nostro mondo e noi stessi è valida: «Perché c’è
il mondo, anziché il nulla assoluto?». Questa è una domanda, nel gergo
dell’Aquinate, riguardo all’esse
delle cose, il loro esistere opposto al nulla, non soltanto il loro essere
così e così opposto a
qualche ente diverso, oppure
il loro esistere in atto opposto a qualche potenzialità. L’Aquinate
desidera dire due cose: 1) che qui noi abbiamo una domanda valida e 2) che
noi non sappiamo quale sia la risposta. Detto con altre parole, egli
desidera dire che: 1) Dio
esiste; e 2) Dio è un mistero incomprensibile. Naturalmente,
ci sono parecchie ragioni filosofiche per pensare che la domanda non sia
valida, una di quelle che non possiamo probabilmente chiedere – di cui
magari possiamo pronunciare le parole ma, quando lo facciamo, non stiamo
ponendo una vera domanda dotata di significato. Non
è affatto ovvio che la domanda
sia valida, ed è precisamente questo il motivo per cui le Cinque Vie
tentano di stabilire che questa è
una domanda valida, poiché essa è una di quelle che, per una ragione o
per un’altra, siamo spinti a chiedere. Se qualcuna di quelle critiche
filosofiche, o qualsiasi altra, sia convincente non è la mia attuale
preoccupazione; voglio solo mostrare ciò che l’Aquinate pensava di
stare facendo. Egli
pensava di stare avvalorando una specifica attività giudaico-cristiana
(che da allora è diventata un’attività generale umana abbastanza
comune), quella di chiedere in qualche forma: «Che cosa significa il tutto?»,
o, come si può anche dire, «Perché
c’è qualcosa anziché il
nulla?». Ed egli pensava di avvalorare tale domanda anche se (o forse
proprio perché) egli non fornisce alcuna risposta. Noi non rispondiamo e
non possiamo in questa vita conoscere la risposta ma la possiamo etichettare
come “Dio” – et
hoc omnes dicunt Deum. Dire
che noi abbiamo una domanda valida (una che realmente implica una
risposta) è come dire che Dio esiste; perché ciò che intendiamo con
“Dio” è semplicemente ciò che risponde alla domanda, qualunque
cosa sia. Oltre
a sapere questo, dice l’Aquinate con più insistenza, tutto ciò che
possiamo fare è indicare, il più sistematicamente possibile, i diversi
tipi o categorie di cose che la risposta non
potrebbe essere. Da
un lato, qualunque cosa risponda alla nostra domanda non può essere essa
stessa soggetta alla domanda – altrimenti ci ritroveremmo com’eravamo
prima, con ancora la stessa domanda a cui rispondere. Qualunque cosa
intendiamo per “Dio”, essa non può essere ciò che ci ha fatto porre
inizialmente la domanda. Così Deperibilità, Declino, Dipendenza,
Alterazione, l’Impersonalità che caratterizza le cose materiali e così
via – tutte queste cose devono essere escluse da Dio. Ciò significa che
anche la Sofferenza è esclusa. Ora,
come avevo detto, è estremamente difficile per i lettori dell’Aquinate
prendere sul serio questo suo agnosticismo nei confronti della natura di
Dio. Se lui dice «Qualunque cosa sia Dio, egli non può essere mutevole»,
i lettori saltano alla conclusione che egli intenda dire che Dio è
statico ! Se
lui dice che, qualunque cosa possa essere Dio, egli non può soffrire
assieme (sin-patizzare
con-patire) le sue creature, allora si dovrebbe intendere che Dio per
natura dev’essere insensibile, apatico, indifferente, persino distaccato
! E se l’Aquinate avesse detto che Dio non può essere un sostenitore
dei Glasgow Celtic, allora dovremmo supporre che stava sostenendo che Dio
è un fan dei Rangers ! Si
suppone che debba esserci in agguato qualche
idea di ciò che Dio è – spesso caratterizzata come un’idea ‘greca’.
Non tutti danno una lettura errata dell’Aquinate così sfacciatamente
come Moltmann nel passaggio che ho citato, ma facciamo fatica ad ammettere
che in realtà l'Aquinate intendeva dire proprio ciò che ha detto. Il
popolo noto collettivamente come “i Greci”, in questo contesto, non
aveva, ovviamente, alcuna nozione di creazione. Questo per dire che essi
non fanno la tipica domanda ebraica (e dunque cristiana) riguardo all’esse (esistenza) delle cose, la domanda in ultima analisi radicale
che, per l’Aquinate, ci orienta verso il Dio ignoto. Devo
aggiungere a questo punto, forse, che la rivelazione di Dio in Gesù non
cambia in alcun modo la situazione, per l’Aquinate. Dalla rivelazione
della grazia, egli dice, siamo uniti a Dio come ad uno sconosciuto, ei
quasi ignoto coniungamur
(ST 1a, 12, 13, ad 1). Dio
rimane il mistero che può essere conosciuto solo da Dio stesso, o anche
da noi uomini ma solo se elevati a partecipare della sua stessa natura e
dunque della sua auto-coscienza , una partecipazione che per noi in questo
mondo non
è conoscenza,
ma sono piuttosto le tenebre della fede. Per l’Aquinate la distinzione
che Moltmann gli attribuisce è insensata: non conosceremo e non potremo
conoscere la natura del divino finché non avremo saputo chi
Dio sia. L’uso
cristiano per la parola “Dio”, seguendo la sua tradizione, dipende da
ciò che chiamo la “domanda sulla creazione” e mi sembra che
Schillebeeckx abbia perfettamente ragione quando dice: L’entusiasmo
per Gesù di Nazareth come essere umano stimolante, lo posso apprezzare
– a livello umano non è poco in sé. Ma esso non implica alcun invito
vincolante, non può supportare la caratteristica dell’uomo universale,
a meno che non si possa dimostrare
che il Creatore, il Dio monoteistico di ebrei, musulmani, cristiani e
tanti altri, è personalmente implicato nello 'evento Gesù'. (Jesus: An Experiment in Christology, Londra 1979, p. 12[3]) In
altre parole, la “domanda sulla creazione” dev’essere logicamente
precedente a una più piena comprensione che possiamo avere di Gesù. Il
nostro uso della parola “Dio” non
inizia con la cristologia. Per dirla nel modo più semplice, non si può
porre la domanda «In che senso Gesù è chiamato Figlio di Dio?» se non
ci fosse alcun precedente utilizzo della parola “Dio”. E,
naturalmente, il Nuovo Testamento ha un simile uso
precedente. Il NT è incomprensibile se non come frutto della tradizione
ebraica e della domanda sulla creazione che è diventata centrale per la
Bibbia ebraica. Una
delle mie prime rivendicazioni, comunque, è che il Dio di quella che
abbiamo chiamato “tradizione”, il Dio di Agostino e dell’Aquinate in
Occidente, è precisamente il Dio della Bibbia, il Dio di Abramo, Isacco e
Giacobbe, il Dio che non è un dio, non è un potente abitante
dell’universo, ma è il
Creatore, è cioè la
risposta alla domanda «Che cosa significa il tutto?».
Questa,
essenzialmente, era la domanda posta dagli Ebrei, almeno nel Secondo Isaia[4],
la domanda che, una volta chiesta, non poteva più rimanere non-chiesta (a
meno di avere una grande inventiva filosofica),
e questa è la domanda che, secondo la principale tradizione
cristiana, ci dà un significato alla
parola “Dio”. Una
delle mie preoccupazioni è che - in contrasto con questo Dio biblico –
invece il Dio di cui parlano coloro che insistono sulla partecipazione di
Dio alla storia del suo popolo, e sulla sua condivisione delle loro
esperienze, sofferenze e trionfi, assomigli pericolosamente ad uno degli déi.
Quest’idea
è particolarmente preoccupante quando la si ritrova tra i teologi della
liberazione, perché egli è il Dio degli Ebrei (che
nell’interpretazione ebraica giunge ad essere visto come creatore), che
è salutato nel decalogo come liberatore; e invece sono gli déi
- i quali sono delle parti della storia -
e l’intera religione degli déi che producono alienazione e
servitù . «Io sono Yahweh tuo Dio che ti ha liberato dalla schiavitù;
non avrai déi». Dio
il creatore - che non
è uno dei partecipanti alla storia bensì il Motore di Ciro e di tutta la
storia - è fondamentalmente
un liberatore perché egli non
è un dio, perché non ci sono déi, o quantomeno non ci sono déi da
adorare. Questo
lascia la storia nelle mani degli umani, sotto il giudizio di Dio. La
miseria umana non può più essere attribuita agli déi ed accettata con
rassegnazione o evasa coi sacrifici. Il lungo, lento processo può
iniziare identificando
le radici umane
di oppressione e sfruttamento, allo stesso modo con cui è ora
aperta la via della comprensione scientifica
e del controllo delle forze della natura. La
dottrina della creazione, che nasce da un’intuizione ebraica, rende
possibile la scienza umana, incluso l’esame della società umana e delle
forze che la governano e che guidano la sua storia. Mi
pare un errore disastroso supporre che, solo perché l’Aquinate e la
scolastica medievale hanno assimilato con piacere gli strumenti del
pensiero greco classico e post-classico ed hanno utilizzato e sviluppato
la loro logica e la loro lingua, pensassero nello stesso modo di - per
esempio - Platone o Aristotele. L’Aquinate, ad esempio, prende parole
come “sostanza” o “accidente” e le usa nella dottrina eucaristica
per dire qualcosa che Aristotele avrebbe concepito come un’assurdità
incomprensibile – la trasformazione di un pezzo di pane non in un altro
tipo di cosa, ma in un altro individuo. La
parola tecnica dell’Aquinate che Aristotele avrebbe trovato
particolarmente aliena è la parola esse
(è l’esse del pane che
diviene l’esse del corpo di
Cristo, mentre i suoi accidenti perdono del tutto il loro ruolo di
accidenti e diventano i simboli con cui Cristo è sacramentalmente
presente). Qui vi è un cambiamento al di sotto del livello di una
modifica sostanziale, dato che la creazione è più profonda di una
modifica sostanziale, un cambiamento che non è affatto una mutatio.
Esse,
nel gergo dell’Aquinate, appartiene alla dottrina della creazione, della
quale Aristotele non aveva alcun concetto. Aristotele
si accontenta di negare, come fa l’Aquinate, che il mondo possa
essere stato prodotto, generato.
Egli non pone, come l’Aquinate fa, la domanda ebraica, la domanda
sull’esse,
cioè sull’esistenza
delle cose, non come cose
“attuali” in opposizione ad altre cose “potenziali” (che “non
esistono ancora ma possono
cominciare ad esistere”) , bensì in opposizione al nulla. L’idea
che l’adozione delle categorie, dei concetti, dei linguaggi, degli
argomenti e delle intuizioni aristoteliche significhi che non si possa
dire nulla che Aristotele non avrebbe approvato è esattamente sullo
stesso livello dell’idea che l’adozione di categorie, argomenti e
intuizioni marxiste significhi che i teologi della liberazione non possano
dire nulla che non verrebbe approvato da Marx. Lutero
- che condannò in blocco il tomismo a causa
delle categorie aristoteliche presenti in esso - fu, probabilmente,
il Ratzinger della sua epoca, che oggi condanna in blocco la teologia
della liberazione a causa delle categorie marxiste presenti in essa. Le
Cinque Vie dell’Aquinate, poi, che sono, ovviamente, una parte della sua
teologia, sono un tentativo di convalidare quella che ho chiamato la
domanda ebraica, la domanda sulla creazione, usando categorie del pensiero
aristotelico e, almeno fino a un certo punto, platonico. Che
tali tentativi siano di grande utilità per le persone che stanno
intraprendendo vie diverse per osservare il mondo oppure non siano di
grande utilità, il problema
sembra a me comunque rimanere, insieme alla sfida di convalidarlo davanti
alle rivendicazioni di chi, ad esempio, sostiene che un tale discorso
metafisico non possa essere pensato. Ma
in ogni caso questa metafisica dell’essere deriva dalla nozione di un
Dio creatore che è una scoperta ebraica e non greca. Perdere
di vista la domanda ebraica sulla creazione è, a me sembra, come
accontentarsi di adorare un abitante del mondo, tradire l’eredità
biblica e regredire ad un culto degli déi; è una forma di idolatria. Se,
d’altro canto, accettiamo un Dio creatore, allora egli non può essere
in alcun modo passivo rispetto al mondo e ciò sta a significare che Dio
non impara dal mondo, che non fa esperienza del mondo e, in generale, non
può essere influenzato da esso. È questo che preoccupa la gente. Se il
creatore è davvero incapace di fare esperienza della sofferenza, che cosa
ne dobbiamo fare della compassione di Dio, o della sua ira? Non corriamo
il pericolo di renderlo indifferente? Se anche riconoscessimo che parole
come “compassione” e “ira” sono usate metaforicamente (poiché le
passioni animali non possono essere attribuite a ciò che non è
materiale), esse sembrano comunque implicare una qualche sorta di reazione
a ciò che sta avendo luogo. Dobbiamo negare questo di Dio? Come
per i Celtic e i Rangers, dal fatto che Dio non è influenzato da, ad
esempio, la sofferenza umana, non ne consegue il fatto che sia
indifferente ad essa. Certo, per noi esseri umani ci sono solo due
soluzioni possibili: o noi proviamo, simpatizziamo con, abbiamo
compassione della sofferenza, oppure non possiamo partecipare della
sofferenza, e allora siamo insensibili, indifferenti. Dovremmo notare che,
tuttavia, che anche per noi esseri umani
non è un attuale “soffrire con” ad essere necessario per la
compassione, ma soltanto la capacità/potenzialità di “soffrire con”. La condivisione del
dolore reale non è né necessaria né sufficiente alla compassione, i cui
componenti essenziali sono – invece - consapevolezza, sentimento di pietà
e preoccupazione. Posso avere tutte e tre queste componenti senza soffrire
anch’io per il dolore o la tragedia che affliggono i miei compagni e, al
contrario, posso essere colpito dallo stesso esatto tipo di dolore senza
fare alcuna esperienza di compassione. La
compassione è chiaramente un sentimento (e non semplicemente la coscienza
intellettuale del dolore altrui) ma anche per noi esseri umani non è quel
sentimento che è il sentimento del dolore . D'altra parte, del Dio
creatore non si può dire che egli provi letteralmente questo sentimento
di compassione. Il
nostro unico modo di partecipare alla sofferenza di qualcun’altro è
quello di essere colpiti da essa, poiché noi siamo al di fuori
dell’altra persona. Noi parliamo di “simpatia”
o “compassione” poiché
vogliamo dire che è quasi come se non fossimo fuori dall’altro, ma come
se vivessimo la sua vita, facendo esperienza della sua sofferenza. Un
componente della pietà che io provo per una persona è – infatti - la
frustrazione di dovere, alla fine, rimanere al di fuori di quella persona. Ora,
il creatore non può mai essere al di fuori della sua creatura in questo
senso; l’atto dell’esistere di una persona, così come ogni azione
fatta da lei, dev’essere un atto del creatore. Se il creatore è la
ragione per tutto ciò che esiste, non ci può essere alcuna creatura
reale che non abbia il creatore come quel suo centro che la
mantiene nell'esistenza. Nella nostra umana compassione noi esseri umani,
in modo flebile, stiamo cercando di essere ciò che Dio è per tutto il
tempo: uniti con e nella vita del nostro amico. Possiamo dire nel salmo «Dio
è compassione» ma un segnale che questo è un linguaggio metaforico è
che si può anche dire che il Signore non ha bisogno di avere compassione;
egli possiede qualcosa di ancor più meraviglioso, egli ha il suo atto
creativo nel quale è «più vicino al sofferente di quanto questi lo sia
a sé stesso». Quel
che è vero per la compassione dev’essere più genericamente vero per
tutta l’esperienza e l’apprendimento. Se noi
esseri umani non impariamo, allora siamo
ignoranti, ma questo non si può dire di Dio: egli non è ignorante se non
impara. E il nostro apprendimento e la nostra esperienza sono solo una
flebile ombra della comprensione che Dio ha del mondo, che egli crea sia
nella sua esistenza sia nella sua intelligibilità. Qualunque
possa essere la coscienza del creatore, essa non può essere come quella
di uno sperimentatore di fronte a ciò che sperimenta. Penso che James
Mackey non scelga con abbastanza cura le sue parole quando dice
dell’Aquinate: Egli
si distanzia maggiormente dal nostro mondo per quanto riguarda le
discussioni sulle vere relazioni divine, affermando senza mezzi termini
che «non vi è una reale relazione tra Dio e la creatura».
Le creature, questo sì, possono fare esperienza di una vera relazione di
dipendenza e di bisogno di Dio, ma Dio non ha simili relazioni con le sue
creature (The Christian Experience
of God as Trinity, Londra 1983, p. 182) Per
l’Aquinate, ovviamente, non si tratta di una questione di esperienza.
Dio semplicemente non ha alcuna relazione di dipendenza con le sue
creature, ma egli comprende, con una comprensione assai più intima di
quella che può dare l’esperienza, la verità della dipendenza delle
creature dalla sua conoscenza e dal suo amore. Il
punto circa la mancanza di un rapporto reale da parte di Dio riguarda
semplicemente il fatto che l’essere creatore non aggiunge nulla a Dio,
mentre il fatto che egli lo sia significa tutto per la creatura.
(Infatti, il dono dell’esistere
è troppo radicale per essere chiamato una “differenza”, dato che
chiaramente la creatura non viene “modificata” col
pervenire dal nulla all’esistenza). Ma ciò non fa alcuna
differenza per Dio non perché, ovviamente, Dio è indifferente o annoiato
dalla creazione, ma perché egli non ha guadagnato nulla dalla creazione.
Potremmo definirlo puramente altruistico, salvo che la bontà di Dio per
le sue creature non è una forma di bontà separata e distinta dalla sua
specifica bontà. Il punto essenziale che l’Aquinate - sicuramente a
ragione - vuole raggiungere
è che la creazione non soddisfa alcun bisogno di Dio. Dio non ha bisogni. Sto
ripetendo da lungo tempo il solito punto che il Dio di Agostino e Tommaso
d’Aquino, proprio per il suo essere del tutto trascendente, extra
ordinem omnium entium existens[5]
(In Peri Hermenias I, lect. 14,
197), è più intimamente coinvolto con ciascuna creatura più di quanto
ogni altra creatura possa essere. Dio non può essere altro
(o “trascendente”) rispetto alle creature nel modo in cui esse lo sono
le une con le altre. Al centro di ogni creatura c’è lui come la
sorgente dell’esse, che fa sì
che esse siano e agiscano (ST
Ia, 8, 1, c). Com’è risaputo, l’Aquinate porta quest’idea fino alla
sua logica conclusione e insiste sul fatto che ciò dev’essere
altrettanto vero nei miei atti liberi come in qualsiasi altra cosa. Essere
libero per noi esseri umani è essere indipendente dagli “altri”. Dio
non è, in senso rilevante, “altro”. Quindi
penso che abbia perfettamente senso dire al contempo che non è nella
natura di Dio soffrire e che non è nella natura di Dio venir meno al più
intimo coinvolgimento possibile con la sofferenza delle sue creature. Per
salvaguardare la compassione di Dio non c’è bisogno di ricorrere
all’idea che Dio, mentre sorveglia la storia del genere umano, soffra
con noi in senso letterale – per quanto in maniera “spirituale”. *** Ed
eccomi giungere al mio secondo ragionamento. Penso che la tentazione di
sostenere che è nella natura di Dio soffrire nasca da un indebolimento
della dottrina tradizionale dell’Incarnazione. Se,
in accordo con la dottrina di Calcedonia, diciamo che un’unica persona,
Gesù, è vero Uomo e vero Dio, noi possiamo dire abbastanza letteralmente
che Dio soffrì fame e sete e torture e morte. Possiamo dire queste cose
poiché il Figlio di Dio ha assunto una natura umana nella quale viene
dato un senso al predicare queste cose di lui. In altre parole, la
dottrina tradizionale, mentre rigetta l’idea che sia nella natura di Dio
l’essere capace di soffrire, afferma letteralmente che Dio soffrì in un
senso perfettamente ordinario, quel senso nel quale io o voi soffriamo. Se,
secondo certa teologia, si fa un passo indietro rispetto a Calcedonia e si
afferma che Gesù non è letteralmente divino, si blocca la via la quale
dal dire che Gesù ha sofferto ed è morto porta al dire che Dio ha sofferto ed è morto. Ciò nonostante, poiché c’è un
profondo istinto cristiano che ci dice che il Vangelo ha a che fare con la
sofferenza di Dio, questi teologi sono costretti a dire che siccome Dio
non ha letteralmente sofferto in Gesù, Dio deve soffrire in qualche altro
modo; ad esempio, mentre osserva la sofferenza di Gesù e del
genere umano. Una conseguenza di ciò, ovviamente, è che mentre un
cristiano tradizionale direbbe che Dio ha sofferto un dolore orribile alle
mani quando è stato inchiodato alla croce, questi teologi devono
“accontentarsi” di una specie di angoscia mentale per le follie ed i
peccati delle creature. Mi
si permetta di riassumere il groviglio interpretativo dell'Aquinate sul
dogma di Calcedonia. Sarò
breve. Prima una parola o due sul linguaggio. Le
frasi dell’indicativo sono comunemente composte da due parti che
chiamiamo soggetto e predicato. Le parole che compongono il gruppo del
soggetto sono usate per spiegare di cosa vogliamo parlare e le parole che
compongono il gruppo del predicato sono usate per dire qualcosa di esso.
Quali parole compongano l’uno o l’altro non dev’essere deciso
cercando nella frase, ma da più ampie considerazioni. (Così, ad esempio,
Raymond Brown sostiene in modo convincente che in 1 Giovanni 2:22, «colui
che nega che Gesù è il Cristo», dobbiamo renderci conto che “il
Cristo” è il soggetto della proposizione, e non il predicato). Possiamo
variare assai spesso il gruppo del soggetto, usandone un altro di diverso
significato, ma fintanto che entrambi si riferiscono allo stesso soggetto
la verità della dichiarazione resa con la frase non verrà influenzata.
Così le frasi «Il papa che succedette a Paolo VI» e «Il papa che
precedette Giovanni Paolo II» hanno significati piuttosto diversi, ma
ambedue possono essere usate per riferirsi alla stessa persona, così,
qualunque sia quella a cui attaccheremo il predicato «regnò per un
periodo molto breve», ne risulta un’affermazione equivalente. Se,
tuttavia, aggiungiamo tra il soggetto originale e il gruppo del predicato
le parole «come ci si aspettava» avremo un’affermazione piuttosto
differente: «Il papa che precedette Giovanni Paolo II, come ci si
aspettava, regnò per un tempo molto breve» esprime un’insinuazione
alquanto diversa dall’altra. Simili cambiamenti avvengono se mettiamo le
parole «in quanto tale» nella stessa posizione. Come dice l’Aquinate,
il significato particolare del gruppo del soggetto è coinvolto con il
predicato e rende l’intera frase diversa. Quindi una cosa è dire «Dio
fu inchiodato alla croce» ma una cosa piuttosto diversa è dire «Dio,
come ci si aspettava (o in quanto tale), fu inchiodato alla croce». Così,
dal momento che sia «Figlio di Dio» che «figlio di Maria» possono
essere usati per riferirsi a Gesù (poiché egli era per
ipotesi - dato il dogma di Calcedonia -
sia divino che umano), facciamo affermazioni equivalenti quando
diciamo «Il Figlio di Dio morì in croce» e quando diciamo «Il figlio
di Maria morì in croce». Ma non facciamo un'affermazione equivalente se
apponiamo nella prima di esse il
frasema “in quanto tale”. Inoltre
– dato il dogma di Nicea[6]
- se possiamo dire con verità “Il Figlio di Dio morì sulla croce”
possiamo anche dire con verità “Dio morì sulla croce”. Benché
“Dio” stia a significare la natura divina, qui, nel gruppo del
soggetto, non si riferisce a quella natura, cioè il soggetto non è la
natura divina ma è qualcosa o qualcuno che possiede
quella natura; in questo caso l’uomo Gesù di Nazareth. Il
fatto che Gesù fosse anche umano significa che c’è un’intera
gamma di predicati come «era affamato» o «si divertiva» o «fu
torturato» che noi possiamo ragionevolmente agganciare al soggetto “Gesù”
per creare proposizioni ordinarie letterali che possono essere vere o
false. Intendo dire che possiamo ragionevolmente applicare questi
predicati a Gesù in un modo in cui non potremmo applicarli invece ad un
butterscotch[7]
o ad una stella. Similarmente,
il fatto che Gesù sia anche divino ci autorizza ad agganciargli
un’altra gamma di predicati come «è creatore», «è l’eterno Figlio
di Dio», «è onnipotente» e così via. La dottrina tradizionale
dell’Incarnazione dice semplicemente che entrambe le gamme di predicati
applicate alla stessa persona si riferiscono al soggetto “Gesù”. È,
naturalmente, profondamente misterioso che ciò sia così, ma almeno non
è una aperta contraddizione, poiché l'Umano e il Divino – in quanto
non occupano lo stesso universo (il Divino infatti
non occupa alcun universo) - non
si escludono l’un l’altro nel modo in cui due nature entrambe create
farebbero. L’onniscienza divina di Gesù, per esempio, non entra in
conflitto con la sua ignoranza umana, poiché la conoscenza divina non è
nello stesso universo di discorso della conoscenza umana; tale
“onniscienza” non è un essere meglio informati di una creatura
non-onnisciente [argomenterò questo punto particolare in modo più
completo più avanti nel mio libro, nel Capitolo 5, Il
mito di Dio incarnato]. Calcedonia,
poi, ci permette di dire che Dio ha sofferto e che ha sofferto alquanto
letteralmente (e non solo analogicamente) proprio come avremmo fatto noi.
È la dottrina che dice che Dio è coinvolto interamente nella condizione
umana non semplicemente come creatore ma come se avesse la natura di una
creatura. Significa anche che ci sono certe cose che noi abbiamo
sperimentato e che invece Dio (cioè Gesù, che possiede la natura divina)
non ha sperimentato, come ascoltare una radio a transistor o bere una
Coca. Come
ho detto, penso che sia stata la dimenticanza di questa dottrina - da
parte di coloro che temono che confessare la divinità di Gesù implichi
una diminuzione della sua umanità - che ha portato poi
alcuni di loro ad attribuire la sofferenza a Dio “in quanto
tale”. *** Ma
c’è di più, molto di più, che si può dire a riguardo e sono
spiacente che il tempo non mi permetta di dirlo così chiaramente e
pienamente come vorrei. Posso soltanto riassumerlo, forse in modo
enigmatico, forse in modo poco convincente. Voglio suggerire che la
dottrina dell’Incarnazione è tale che la storia di Gesù non è
soltanto la storia del coinvolgimento di Dio con le sue creature, ma è
precisamente la “storia” di Dio. C’è - naturalmente – un senso
per cui dobbiamo affermare che Dio non ha una “storia di vita”, ed è
essenziale alla mia tesi insistere su questo senso, come vedremo . Ma c’è
anche un senso, l’unico possibile, per il quale Dio possiede o è una
“storia di vita”, e questa è la storia rivelata nell’Incarnazione,
cioè quella storia che noi cristiani chiamiamo anche Trinità. La
storia di Gesù non è altro che la vita trina ed unica di Dio, proiettata
sulla nostra storia umana, o incarnata sacramentalmente nella nostra
storia umana, in modo che diventasse storia. Uso
la parola “proiettare” nel senso in cui noi proiettiamo un film su uno
schermo. Se esso è uno schermo liscio argenteo è possibile vedere il
film per quello che è. Se lo schermo è in qualche modo attorcigliato,
avrete un’immagine sistematicamente distorta del film. Ora immaginate un
film proiettato non su di uno schermo, ma su un mucchio di rifiuti. La
storia di Gesù – che nella sua completa estensione è l’intera Bibbia
– è la proiezione della vita trinitaria di Dio su quel mucchio di
rifiuti che abbiamo fatto del mondo. La missione storica di Gesù
non è altro che l’eterna missione del Figlio mandato dal Padre;
la storica effusione dello Spirito in virtù della passione, morte e
ascensione di Gesù non è altro che l’eterna effusione dello Spirito
mandato dal Padre attraverso il Figlio. Guardando, per così dire, la
storia di Gesù, noi guardiamo la processione della Trinità. Che
le “missioni nel tempo” del Figlio e dello Spirito Santo riflettano le
“relazioni eterne” fa, ovviamente, parte dell’insegnamento ordinario
tradizionale. Quello che sto provando a suggerire è che esse non siano
semplici riflessi ma sacramenti – che esse cioè contengono la realtà
che esprimono. Voglio dire che la “missione di Gesù” non è null’altro
che la “eterna generazione del Figlio”. La Trinità appare come la
storia di (è la storia di)
rifiuti, torture ed assassinii ma anche di riconciliazioni poiché essa
viene proiettata su, è vissuta attraverso, una discarica; e ciò a causa
del peccato del mondo. C’è
molto da dire a riguardo di questa mia posizione, sia nel tentarla e nel
giustificarla, sia nel ricavarne implicazioni, ma solo per il momento
voglio guardare al suo rapporto con la questione del “Cristo
preesistente”. Il
Cristo preesistente è stato inventato, per quanto ne so, nel
diciannovesimo secolo, come un modo per distinguere l’eterna Processione
del Figlio dalla sua Incarnazione. Venne affermato da coloro che volevano
dire che Gesù non è divenuto Figlio di Dio in virtù
dell’Incarnazione. Egli era già Figlio di Dio prima di
questa. Il Cristo preesistente segna lo sviluppo dalla “bassa”
cristologia dell’immacolata concezione - che si ha in Matteo e Luca
- alla “alta” cristologia di Giovanni, con il Verbo
preesistente che era con Dio “in principio”. La brillante discussione
di Raymond Brown su questi argomenti in The
Community of the Beloved Disciple (Londra 1979)[8]
e nei suoi commentari a Giovanni (The
Anchor Bible[9], vol. 29, 29A, 30) è,
temo, condotta completamente nei termini di un Cristo preesistente. Desidero
rigettare quest’idea della “preesistenza” da due punti di vista. In
primo luogo parlare di un Cristo preesistente implica che Dio abbia una
“storia di vita”, una storia divina, al di fuori della storia
dell’Incarnazione. Significa supporre che in un certo senso ci sia stato
un Figlio di Dio esistente fin dalle ere eterne che, ad un certo punto
della sua “carriera” eterna, ha assunto una natura umana e s’è
fatto uomo. Prima di ciò, il
figlio di Dio preesisteva in qualità di Figlio di Dio e poi,
più tardi, è divenuto il Figlio di Dio fatto uomo. Credo
che tutto ciò abbia solo bisogno di essere dichiarato incompatibile,
quantomeno con la dottrina tradizionale di Dio che ci viene da Agostino e
dall’Aquinate. Non
vi possono essere successioni nel Dio eterno, né cambiamenti.
L’eternità non è, ovviamente, un tempo assai lungo: essa non è
affatto tempo! L’eternità non è senza tempo nel modo con cui un
istante è senza tempo, perché un istante è senza tempo semplicemente
essendo il limite di un tratto di tempo, proprio come un punto non ha
alcuna lunghezza non perché è molto molto piccolo, ma perché esso è il
limite della lunghezza. No: l’eternità è senza tempo perché essa
trascende completamente il tempo. Essere eterni vuol dire essere Dio. La
vita di Dio non è né passato né presente e neppure simultanea ad ogni
evento, orologio, storia. L’immagine del Figlio di Dio “che
diviene”, ad un certo punto della durata divina, l’incarnato Figlio di
Dio, “discendendo dal cielo”, è una metafora perfetta,
ma non può essere letteralmente vera. Non c’è stato, dal punto di
vista della vita di Dio, qualcosa di simile ad un istante in cui
l’eterno Figlio di Dio non era Gesù di Nazareth. Non possono esserci
“istanti” (o periodi di tempo) nella vita di Dio. La vita eterna di
Gesù in quanto tale non precede, segue o è simultanea alla sua vita
umana. Non vi è alcuna storia di Dio “prima” della storia di
Gesù. Questo punto non può – naturalmente – esser compreso da coloro
per i quali Dio è un abitante dell'universo, soggetto all'esperienza e
alla storia. Non sto suggerendo, devo dire, che ciò possa essere
comprensibile per chiunque - ma
nella visione tradizionale agostiniana e tomista - questo è il mistero che noi affermiamo quando parliamo di
Dio. Dal
punto di vista di Dio, poi, sub specie
eternitatis[10],
non può essere dato alcun senso all’idea che, ad un certo punto
della storia della vita di Dio, il Figlio si sia incarnato. Ma voglio
anche porre la questione dell’idea di un Cristo preesistente da un altro
punto di vista. Dal
punto di vista del tempo, della nostra storia umana (il quale, ovviamente,
è l’unico punto di vista che possiamo attualmente avere) c’è stato
sicuramente un tempo in cui Gesù non era ancora nato. Mosè avrebbe
potuto dire, con perfetta sincerità, «Gesù di Nazareth non è ancora»
o «Gesù non esiste» poiché, ovviamente, il futuro non esiste, il che
è ciò che lo rende futuro. (Ci sono persone che immaginano che il futuro
esista in qualche modo, forse nel modo in cui il passato ha una qual certa
esistenza – nel senso che nel passato ci sono proposizioni vere che sono
fissate e definite. Ma queste persone sono, dal mio punto di vista, in
errore. Si sbagliano poi più in particolare quando dicono, come talvolta
fanno, «il futuro esiste già per Dio», poiché dire così
è come attribuire un errore a Dio, ed un errore di tipo
filosofico! ) Così, sì, Mosè avrebbe potuto dire con verità «Gesù
non esiste», e avrebbe potuto anche dire con verità «Il Figlio di Dio
esiste» ed avrebbe potuto fare entrambe queste affermazioni allo stesso
tempo. Ora,
questo fatto potrebbe essere
chiamato la “preesistenza di Dio”, intendendo con ciò che in un tempo
precedente della nostra storia (e non vi è alcun tempo al di fuori
di quello della nostra storia) entrambe queste proposizioni sono state
vere: «Gesù non esiste» e «Il Figlio di Dio esiste», facendo così
apparentemente una distinzione tra l’esistenza di Gesù e l’esistenza
del Figlio di Dio. Ma la frase “Cristo preesistente” sembra implicare
che non solo al tempo di Mosè «Il Figlio di Dio esiste» sarebbe stato
vero, ma anche che la proposizione «Il Figlio di Dio esiste
ora» sarebbe vera. E questo sarebbe un errore. Mosè
avrebbe certo potuto dire «è vero ora dire che il Figlio di Dio
esiste» ma non avrebbe potuto dire con verità «Il Figlio di Dio esiste
ora». Quella proposizione,
che attribuisce un’esistenza temporale
(“ora”) al Figlio di Dio, è divenuta vera quando Gesù fu concepito
nel grembo di Maria. La semplice verità è che, al di fuori
dell’incarnazione, il Figlio di Dio non esiste in alcun altro tempo, in
nessun “ora”, bensì nell’eternità, in cui lui agisce per tutto il
tempo, ma non è egli stesso “misurato da essa”. «Prima che Abramo
fosse, io sono» Così,
come coloro che parlano in quello che considero un modo confuso di
“Cristo preesistente”, anche io vorrei adottare l’alta cristologia
di Giovanni e affermare assieme a lui che non è l’Incarnazione che
determina la Filiazione divina di Gesù; ma suggerisco che l'Incarnazione
e l'intera vita di Gesù sono il sacramento della Filiazione divina; non
sono altro che la Filiazione divina come una storia che si
manifesta nella Storia Generale. Sarei
assai più felice, in modo bizzarro, con l’idea di un Gesù preesistente
nel senso innocuo, che già ho detto: che cioè la Bibbia intera, che
copre tutta la storia, sia, tutta quanta, la storia di Gesù di Nazareth («Mosè
ha scritto di me»). Ma questo ci dice solo come leggere la Bibbia, non ha
alcuna pretesa riguardo alla relazione tra divino ed umano in Gesù. Dunque,
concludendo: ho sostenuto tre cose. In
primo luogo, che l’idea tradizionale di Dio, lungi dall’essere
un’idea presumibilmente “greca” di un Dio lontano e indifferente, è
la dottrina del coinvolgimento sempre presente ed attivo del creatore
nelle sue creature; riguardo a questo punto ho rivendicato il fatto che
quella di creatore è un’idea metafisica di Dio e che dobbiamo
quest’idea metafisica non ai Greci ma agli Ebrei e alla loro Bibbia. In
secondo luogo, ho suggerito che la tentazione di attribuire la sofferenza
a Dio in quanto Dio, e cioè
alla sua natura divina, è -
paradossalmente - connessa al mancato riconoscimento che è realmente
Dio che soffre in Gesù di Nazareth. In
terzo luogo, ho suggerito che la dottrina tradizionale di Dio,
specialmente dell’eternità di Dio e dell’Incarnazione, è quantomeno
in grado di svilupparsi nell’idea che l’intera serie di storie narrate
dalla Bibbia non è nient’altro che la vita interiore del Dio trino ed
uno visibile (con gli occhi della fede) nella nostra storia. Non credo che si possa avere un Dio più coinvolto di così.
[1] Traduzione di Adriano Bernasconi di The Involvement of God, scritto nel 1985, ed ora quarto capitolo del libro di McCabe God Matters, Continuum, London-New York, 2005 (terza edizione). [2] Il Concilio di Calcedonia è il quarto concilio ecumenico della cristianità, tenutosi nel 451, e nel quale vennero discussi argomenti cristologici. (ndt) [3] In italiano col titolo Gesù, la storia di un vivente, ed. Queriniana, Brescia 1980. (ndt) [4] Profeta anonimo del ritorno degli ebrei dall’esilio babilonese (fine VI sec. a.C.), autore dei capitoli 40-55 del Libro di Isaia e definito “Secondo Isaia” per distinguerlo dal Primo Isaia (cap. 1-39) e dal Terzo Isaia (cap. 56-66). (ndt) [5] Gli enti esistono al di fuori dell'ordine di ogni cosa (ndt) [6] Convocato da Costantino il Grande, quando egli non era ancora battezzato, a Nicea nel 325 d. C. si tenne il primo Concilio ecumenico, il quale si occupò di confutare l'eresia ariana (che sosteneva che Gesù era solo un uomo) e che definì il dogma della “consustanzialità” tra padre e Figlio. [7] caramella a base di zucchero e burro (ndt) [8] In italiano col titolo La comunità del discepolo prediletto, Cittadella, 1982. (ndt) [9] In italiano col titolo Il vangelo e le lettere di Giovanni. Breve commentario, Queriniana, 1994. (ndt) [10] Secondo la categoria dell’eternità (ndt)
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