Franco Manni
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Una
serie di mie recensioni più o meno brevi di Libri che ritengo interessanti
e che consiglio Ciascun’opera
ha due date: la prima è quella della composizione o della prima edizione;
la seconda è quella di un’edizione più recente accessibile al lettore Antichità
precristiana KAROL
KERENY (a cura di), Gli
dei e gli eroi della Grecia (2
voll., Garzanti, Milano, 1976). Questo
studioso ha raccolto tutta la mitologia greca con fedeltà filologica,
riportando di ogni mito le molteplici e diverse versioni e indicando
chiaramente le fonti (di solito poeti, ma anche storiografi, filosofi,
oratori, grammatici, ecc.). Il primo volume tratta di dei e semidei, il
secondo degli eroi. Questo patrimonio di fantasie ha influenzato
costantemente l’immaginario occidentale dei millenni successivi. VII
sec. a. C. circa OMERO,
Odissea (Garzanti, Milano, 1981). Dante
Alighieri riteneva che il più grande di tutti i poeti fosse Omero. Questo
antico poema (di cui ti consiglio una traduzione in prosa) s’impone certo
per l’originalità e il fascino dell’invenzione narrativa; ma qui
soprattutto te lo ricordo per la pregnanza simbolica dei suoi personaggi e
dei suoi episodi, e anche per le sue «sentenze» di saggezza che il poeta dà,
o direttamente o indirettamente, attraverso i discorsi dei personaggi. VI
sec. a. C. circa - I sec. d.C. La
Bibbia Il
nome di questo libro deriva dal greco e significa "I Libri", in
effetti esso è composto da una serie di scritti molto eterogenei: di genere
letterario, epoche storiche, lingue ed autori diversi. I cristiani cattolici
contano 46 libri dello "Antico Testamento" (scritti in ebraico
prima della nascita di Cristo e che sono quasi tutti libri sacri - cioè
"ispirati da Dio" - anche per gli Ebrei) e 27 libri del
"Nuovo Testamento" (scritti in greco nel primo secolo dopo Cristo
e che sono libri sacri solo per i cristiani, anche se i protestanti ne hanno
qualcuno in meno). Di
questo libro che è il più diffuso, letto, studiato e tradotto al mondo,
non voglio cercare di fare una "recensione". Troppo importante,
troppo profondo, troppo lungo, troppo denso, troppo variegato! Non ne ho
voglia. E qualsiasi cosa scrivessi risulterebbe sia sproporzionatamente
lunga, sia comunque incompleta. Certo, tra tutti i libri che ho letto questo
è stato di gran lunga quello più importante per me. Non è un libro noioso
(come, per esempio, ha bene sottolineato Umberto Eco nella sua scherzosa
"recensione" de La Bibbia presente nel suo Diario Minimo del
1975), ma è un libro troppo eterogeneo e troppo profondo da potere esser
letto di seguito dalla prima pagina fino all'ultima in una lettura continua.
Penso che, forse, come è capitato a me, parti di esso possano esser lette o
rilette da una persona in maniera occasionale secondo le non prevedibili
occasioni della sua vita. Anche se non lo si legge esso può venirti letto
da altri o riassunto o annunciato o pregato o altrimenti trasmesso
direttamente e indirettamente attraverso i molti "oggetti
culturali" che da millenni esso ha prodotto o almeno influenzato. Proprio
questa troppo vasta influenza che questo libro ha avuto ed ha costituisce
un'ulteriore ragione perchè non mi soffermi a parlarne : per gli scopi
della mia Lettera esso risulta una indicazione troppo generica. Voglio dire
che se in questa sezione sui libri parlo di quelli di Tommaso d'Aquino o di
Benedetto Croce o di Melanie Klein, per esempio, ecco che indirizzo chi mi
legge verso una qualche direzione particolare, che si differenzia da altre
direzioni possibili. Mentre se parlo de La Bibbia segnalo una fonte comune a
tante e troppo direzioni di pensiero e di sensibilità. Però,
non potevo omettere di citarlo! IV
sec. a. C. ARISTOTELE,
Etica a Nicomaco (Laterza, Bari, 1979). Tommaso
d’Aquino ed Hegel, così come fecero molti altri, definirono Aristotele il
più grande di tutti i filosofi. Questo suo libro è il più studiato
trattato di etica della storia occidentale. Come tutte le opere di
Aristotele si presenta come una serie di appunti per lezione scolastica e
dunque non brilla per sistematicità d’impianto né per fascino dello
stile. Se dovessi proporzionare questa recensione alle altre che ti propongo
seguendo criteri d’importanza, dovrei scrivere un libro; e ora non mi è
possibile. Comunque spesso nel corpo della mia lettera ho citato
esplicitamente concetti e testi dell’Etica aristotelica. Qui ti ricordo
solo i titoli dei contenuti: rapporto tra etica individuale ed etica
sociale; l’efficacia del discorso etico; l’oggetto dell’etica; il
destinatario del discorso etico; critica dell’etica platonica; la
definizione di felicità; le componenti necessarie della felicità; la virtù
come habitus razionale; la virtù come giusto mezzo qualitativo che la
ragione stabilisce tra due vizi opposti; definizione, distinzione e rapporti
reciproci delle azioni volontarie e di quelle involontarie; il ruolo
dell’ignoranza nella moralità; caratteri della scelta deliberata;
definizione di volontà; analisi delle virtù attive (coraggio; moderazione;
generosità, magnanimità; mitezza, affabilità; sincerità; umorismo;
pudore; giustizia) e dei vizi ad esse contrari; analisi delle virtù
contemplative (scienza; arte; intelletto; sapienza; prudenza ossia saggezza)
e dei vizi ad esse contrari; la definizione di vizio; l’intemperanza e
incontinenza come due gradi della malattia della ragione; la curabilità
dell’intemperante e dell’incontinente; critica della dottrina pessimista
(spiritualista) sul piacere; critica della dottrina ottimista (materialista)
del piacere; definizione e fenomenologia del piacere; lunga ed analitica
trattazione sull’amicizia (definizioni; condizioni; l’a. per utile,
l’a. per il piacere, l’a. per il bene; l’esercizio dell’a.; rapporti
tra le varie forme di a.; l’a. tra diseguali; l’a. e la giustizia;
l’a. è tra buoni o tra parti buone di persone anche cattive; l’a. è
tra simili o tra parti simili di persone anche dissimili; l’a. per il bene
comprende l’a. per il piacere e l’a. della persona buona verso sé
stessa come base dell’a. con le altre persone; la benevolenza o simpatia;
la concordia; diversità dell’amore nel benefattore e nel beneficiato;
l’amore per gli altri come base dell’«egoismo» buono, cioè del sano
amore per sé stessi; la persona buona e felice e la sua capacità di avere
amici e di averli necessariamente; il numero degli amici; discussione su
quali stati siano quelli in cui maggiormente si ha bisogno di amici; la
convivenza e la diuturna intimità come condizione necessaria per lo
sviluppo dell’a.). Aristotele conclude il trattato approfondendo con nuove
considerazioni la discussione critica e la dottrina positiva sul piacere e
sulla felicità. IV
sec. a. C. ARISTOTELE,
Retorica (Laterza, Bari, 1973). Di
quest’opera, divisa in tre parti o libri, ti consiglio di leggere solo i
primi 17 del secondo libro, che arricchisce l’Etica con interessanti
osservazioni sull’ira, sul piacere, sull’amicizia, su gioventù/vecchiaia;
sul timore, la pietà, la vergogna, l’invidia (il resto dell’opera,
invece, riguarda le tecniche del discorso retorico). 44
a. C. MARCO
TULLIO CICERONE, Dialogo sulla vecchiaia. Dialogo sull’amicizia
(Garzanti, Milano, 1990). Tante
osservazioni interessanti sul tema della vecchiaia e sul tema
dell’amicizia rispetto alle quali la communis opinio di tanti psicologi e
sociologi di oggi appare - purtroppo - piena di pregiudizi, ingenua, spesso
lontana dalla realtà. Bello lo stile espositivo. 62
- 65 d. C. LUCIO
ANNEO SENECA, Lettere a Lucilio (Garzanti, Milano, 1990). Anche
Seneca - come, si parva licet, ho fatto io - veicola la sua filosofia in
lettere indirizzate a un amico. Non è un’opera molto profonda, ma è
scritta molto bene, per me, può essere una discreta introduzione alla
filosofia morale. Potrebbe disturbare l’approccio stoico e, dunque,
negativo alle passioni umane: ma lo stoicismo di Seneca - non un greco ma un
romano, e uomo politico - è moderato da un eclettismo che accoglie anche le
altre filosofie ellenistiche (il tardo Peritato, l’Accademia,
l’Epicureismo). Ci sono, in questo libro, molti temi della «perennis
philosophia»: esistenza di Dio, provvidenza; immortalità dell’anima;
apologia della ragione. Ma anche temi più propri dell’etica: le età
dell’uomo; i viaggi e gli spettacoli; gli schiavi; i famigliari; gli
amici; gli studi; le proprietà materiali; i rapporti con i potenti;
l’ordinamento della vita quotidiana; l’esame di coscienza. Soprattutto
interessante, per quanto troppo unilaterale e pessimista, è la sua visione
della vita come un continuo curare chi è malato moralmente e in primo luogo
sé stessi: ogni giorno può servire a migliorarsi. La salute dell’uomo è
la virtù, ed essa è stabile e sicura, solo che non è mai un dato
originario ma è sempre guadagnata dal singolo individuo attraverso una
lunga lotta contro i vizi che appaiono essi sì - in tale visione
pessimistica - come i dati originari. La vita è una milizia. Ma già la
sola schietta volontà di guarire è un grande acquisto verso la guarigione.
397
d. C. AURELIO
AGOSTINO, Le confessioni (Rizzoli, Milano, 1978). È
il racconto più bello letterariamente e profondo filosoficamente di una «conversione»
morale: dall’infanzia fino alle soglie della mezza età attraverso
un’adolescenza e una giovinezza insidiate da una malattia della «carne»
che già nella maturità rivela sempre di più la sua reale natura di
malattia dello «spirito». Dai casi individuali autobiografici spesso
Agostino arriva a discussioni etiche generali, e anche a un metafisica,
quella - famosa - sull’essenza del Tempo. È
uno di quei libri tanto tanto profondi, che se uno non muore giovane e
accumula gli anni come è accaduto a me, può, ad ogni nuova lettura, continuamente capirlo di più... perchè bisogna avere avuto
delle esperienze di vita per capire quelle che lui racconta... Lui lo ha
scritto a 44 anni e il racconto parte dalla piccola infanzia fino ai 33
anni. Per me questa è l'autobiografia perfetta, in cui i vari piani o
strati o “foglie di cipolla” della vita sono collegati tra loro ,
integrati... l'osservazione di un oggetto materiale come una finestra e
ringhiera, ai moti del cuore, ai ricordi vicini e lontani, e poi la ascesa
del pensiero e della fede verso Dio... con (secondo me) grande
bellezza letteraria perchè lui , Agostino, era se mai uno c'è
stato, vero Maestro di Retorica... 1273
TOMMASO
D’AQUINO, Somma Teologica (Salani, Firenze, 1965). Mai
nessun filosofo è stato così sistematico (ordinato, completo, chiaro,
distinto, mai contraddittorio) come lui. Del suo capolavoro ti consiglio la
Pars secunda, dedicata all’etica. Per millenni siamo stati abituati a
predicazione del cristianesimo del tipo dualista-ascetizzante. Stupisce, in
Tommaso, vedere quanto spesso e con quale profondità egli rigetti i luoghi
comuni del dualismo. Egli infatti, oltre alla Bibbia e al pensiero dei padri
della chiesa, ha come fonte primaria l’Etica a Nicomaco di Aristotele. Un
po’ come per l’Etica aristotelica qui, per ragioni di opportunità, devo
contenere la recensione ai soli titoli dei contenuti: la felicità come
ultimo fine unico ed universale per tutti gli uomini; la felicità è
distinta dalla gioia che è solo la sua risonanza soggettiva; la felicità
è un particolare atto conoscitivo della ragione; trattazione degli atti
volontari e di quelli involontari; le circostanze degli atti morali;
definizione di volontà e della sua libertà; valore morale
dell’intenzione; le fasi della scelta deliberata; atti eliciti e atti
imperati; bontà, malizia, merito e demerito degli atti morali (atti
intrinsecamente buoni o cattivi; non esistono atti moralmente indifferenti;
né la sola intenzione né il solo oggetto rendono buono un atto; anche la
coscienza erronea obbliga moralmente); le passioni in generale; le passioni
non sono in sé né buone né cattive; l’amore passione; l’odio; la
concupiscenza; il piacere; la tristezza; bontà e malizia presenti nel
piacere e bontà e malizia presenti nella tristezza; la speranza come
passione e disperazione; il timore; l’audacia; l’ira; virtù e vizi come
habitus morali; abiti e atti; la virtù in generale; la virtù in generale;
virtù attive, contemplative, teologali; il giusto mezzo nella virtù; la
connessione reciproca tra le varie virtù; il vizio in generale; cause del
vizio; connessione reciproca tra i vari vizi; gli effetti del vizio e cioè
la malattia, l’ignoranza, la tristezza cattiva e la morte; la legge morale
e i suoi vari significati; la grazia come aiuto di Dio all’uomo e
nell’uomo; la virtù teologale della fede e le virtù contemplative ad
essa connesse, cioè l’intelletto e la scienza; i peccati contro la fede;
la virtù teologale della speranza; peccati contro la speranza; la virtù
teologale della speranza; peccati contro la speranza; la virtù teologale
della carità (la caritas è ciò che Aristotele chiama jilia cioè
amicizia; la carità verso Dio deve precedere la carità verso sé stesso e
la carità verso sé stesso deve precedere la carità verso il prossimo; il
retto ordine della carità secondo le varie situazioni morali e sociali; la
dilectio quale atto principale della carità, distinto dalla benevolenza);
le virtù attive connesse alla carità, e cioè la pace, la beneficenza, la
misericordia, la correzione fraterna; la virtù contemplativa connessa alla
carità, e cioè la sapienza; i vizi opposti alla carità, e cioè l’odio
cattivo, l’accidia, l’invidia, la discordia, la contesa, la guerra, lo
scandalo; la virtù cardinale - cioè principale - della prudenza e le virtù
secondarie ad essa connesse; i vizi opposti alla prudenza, e cioè
l’imprudenza, la negligenza, l’astuzia fraudolenta; la virtù cardinale
della giustizia e le virtù secondarie ad essa connesse, e cioè la
religiosità, la pietà, l’obbedienza, la gratitudine, la veridicità,
l’affabilità; i vizi opposti alla giustizia, e cioè l’irreligiosità,
la disobbedienza; l’ingratitudine, la vendetta, la menzogna, la iattanza,
l’adulazione, la litigiosità, l’avarizia; la virtù cardinale della
forza e le virtù secondarie ad essa connesse, e cioè il martirio, la
magnanimità, la magnificenza, la pazienza, la perseveranza; i vizi opposti
alla forza, e cioè la viltà, la temerarietà, la presunzione,
l’ambizione, la vanagloria, la grettezza, l’incoerenza o mollezza, la
testardaggine; la virtù cardinale della temperanza e le virtù secondarie
ad essa connesse, e cioè la verecondia, l’onestà, la castità, la
continenza, la clemenza e la mansuetudine, la modestia, l’umiltà, la
laboriosità; i vizi opposti alla temperanza, e cioè la voracità,
l’ebrietà, la lussuria e le sue specie, l’incontinenza, l’iracondia,
la crudeltà, la ferocia, la superbia (il più grave tra tutti i peccati
spirituali così come, in generale, i peccati spirituali sono più gravi di
quelli carnali), la curiosità invadente. 1304
- 1313 DANTE
ALIGHIERI, Inferno e Purgatorio (a cura di U. Bosco, Le Monnier,
Firenze, 1989). Anche
per un italiano il testo poetico dantesco non è di facile comprensione; però
abbiamo molti commenti e parafrasi esplicative che facilitano la lettura. Il
viaggio di redenzione della propria natura umana dalla «selva selvaggia»
della perversione fino alla «selva spessa e viva» della guarigione è da
Dante percorso in due scenari indimenticabili: quello «senza stelle»
dell’imbuto roccioso dell’Inferno, e quello aurorale e rugiadoso della
montagna del Purgatorio. Personaggi provenienti da migliaia di anni di
storia sia reale che letteraria sono dal poeta incontrati, ciascuno segnato
da un suo vizio particolare, il quale pur non cancella la particolare virtù
residua. Dall’inizio drammatico fino alla rasserenata conclusione il
pellegrino è guidato da Virgilio - maestro, amico, madre, padre - allegoria
della Ragione Naturale. 1530
FRANCESCO
GUICCIARDINI, Ricordi (Sansoni, Firenze, 1951). Più
profondo, secondo me, degli altri «moralistes» del XVI-XVII secolo (Machiavelli,
Montaigne, Pascal, Gracian, Mazzarino, La Rochefoucauld, La Bruyere)
Guicciardini - uomo politico del Rinascimento - ci lascia considerazioni
acute sui vizi della generalizzazione, della previsione e
dell’idealizzazione, e sui pregi della distinzione razionale e della
speranza. 1603
WILLIAM
SHAKESPEARE, Macbeth (Rizzoli, Milano, 1981). È
questa la tragedia del rimorso che, direi quasi, incarna poeticamente alcuni
concetti che saranno della psicanalista Melanie Klein. Re Macbeth e sua
moglie, spergiuri ed omicidi, sono tormentati prima che dai nemici esterni
dalla propria coscienza morale, la quale, pur di non essere seppellita e
distrutta dalle loro parti cattive, fa perdere loro la ragione e li dà in
potere ai nemici esterni, in fondo più clementi. Giustamente Freud ha
analizzato il Macbeth (Coloro che soccombono al successo, 1916) mostrando
che è proprio il successo esterno dei loro intrighi a far impazzire i due
coniugi diabolici, perché è tale successo esterno (con la conseguente
cessazione delle critiche correttive da parte del contesto sociale) a far
sentire alla coscienza morale più grande il pericolo di essere sopraffatta.
Tema già trattato dall’antico Platone nel Gorgia. 1759
M.
DE VOLTAIRE, Candido ovvero l’ottimismo (Einaudi, Torino, 1983). In
questo breve romanzo «philosophique», l’«ottimismo» che viene preso in
giro è quello astratto di chi - per pigrizia, angoscia, arroganza - dalla
giusta affermazione universale «Tutto è fondamentalmente volto al Bene in
sé» passa subito e senza mediazione all’affermazione particolare «Dunque,
anche questo singolo fatto è per forza un bene per me», confondendo così
il piano della conoscenza col piano della volontà. Ma il «pessimismo» di
Voltaire, in questo senso avvertimento salutare, non può criticare
filosoficamente (anche se può sbeffeggiare salottieramente) l’ottimismo
concreto e realistico che accetta tutte le complesse mediazioni della
storia, sul piano conoscitivo, e, sul piano pratico, tiene ferma
l’intransigenza del giudizio morale. 1776
ADAM
SMITH, Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni
(Mondadori, Milano, 1977). Di
quest’opera, che sta all’origine della scienza economica, leggi solo il
primo libro, sintesi dei seguenti vari argomenti: la natura umanistica ed
immateriale della ricchezza (del Valore); la necessaria divisione e
specializzazione del lavoro (contro le utopie malate di onnipotenza); la
convergenza antidualistica tra interesse individuale («egoistico») e
interesse della società («altruistico»); l’esaltazione della libertà
individuale, nella convinzione che dalle distinzioni certamente si arriva
all’unità, e questo grazie alla volontà dello spirito assoluto (la «mano
invisibile») e non grazie alla velleità di qualche individuo empirico
malato di onnipotenza (governo, istituzione religiosa, ideologia politica). 1788
- 1790 BENJAMIN
FRANKLIN, Autobiografia (Rizzoli, Milano, 1967). Leggendo
la vita di B. Franklin ho provato simpatia e stupore. Un ragazzo e poi un
uomo che gode dei beni della Terra, li ama veramente perché vuole
perfezionarli, moltiplicarli, diffonderli alle altre persone. I cupi ed
ascetizzanti spiritualisti non riusciranno mai ad apprezzare un documento
del genere. Esso è infatti una continua confutazione della loro concezione.
Ed è una conferma della mia simpatia - già espressa in alcune parti della
lettera - per la limitata virtù delle «cose» (la tecnologia, i beni di
consumo) e per la forza catartica del lavoro (lavoro variato, amato,
creativo che permette - assieme alle altre condizioni - di essere
continuamente «giovani»). Colpisce anche il racconto della sua
adolescenza: da subito sotto contratto, avviato al mestiere del tipografo,
appassionato lettore, amabile compagno, infaticabile lavoratore, prudente
consumatore, poeta, giornalista, inventore, viaggiatore, manager. Povero, ma
pieno di arti, diventerà ricco; egli sa imparare e sa sperare. Cerca il
benessere fino nei dettagli: i vestiti, la dieta, gli orari, gli accessori.
Ha fiducia nelle proprie capacità e ha fiducia nel mondo: dunque è capace
di tollerare gli aspetti negativi delle altre persone e di concentrarsi solo
sugli aspetti positivi. Il suo odio non è per le persone ma per costumi e
per le istituzioni irrazionali ed arbitrari, autoritari, inefficienti, o «tirannici»,
come egli dice. La sua lotta per la libertà è essenzialmente lotta contro
l’irrazionalità. (Eppure, se per tanti versi, sentiamo Benjamin Franklin
vicino, per altri lo sentiamo lontano: nei suoi racconti compaiono amici e
compagni meno fortunati e meno «razionali» di lui; lui non li danneggia né
li condanna né li odia, ma, vedendo che la salute e la prosperità non è
in loro, li abbandona alle loro vie oscure e li dimentica, mentre la sua
attenzione è attratta da nuovi progetti, nuove iniziative, nuove
efficienze). 1830
GEORG
WILHELM FRIEDRICH HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in
compendio (Laterza,
Bari, 1983). Di
questo capolavoro del grande filosofo, ti consiglio la lettura dei paragrafi
dal 377 al 412, cioè: l’introduzione alla filosofia dello spirito; lo
spirito in quanto immediatezza e cioè la psiche. È una lettura difficile -
Hegel è un filosofo molto (e volutamente!) difficile nell’espressione, e
questo è un suo grande difetto - ma, diversamente da quei testi che sono
difficili solo per snobismo e per nascondere la propria vuotezza, qui c’è
sostanza. Nei paragrafi consigliati, Hegel critica la psicologia
dell’empirismo; tiene conto del dramma vissuto nei primi rapporti
interpersonali (quelli con la madre); difende la monadicità e
l’irriducibilità dello spirito. 1831
GEORG
WILHELM FRIEDRICH HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia (La
Nuova Italia, Firenze, 1981, vol. 1°). Di
quest’altra opera hegeliana leggi solo l’Introduzione generale (circa
130 pagine, se si esclude il capitolo sullo Stato che è il più confondente
e, per il nostro discorso, il meno pertinente): troverai ancora la
definizione dello spirito concreto; e poi l’idea che la storia è
razionale (è necessaria e non è contingente); lo statuto metafisico
dell’individuo; il concetto di sviluppo e di progresso (che vale sì per
la storia collettiva ma anche per quella dell’individuo). ed
1840 ALESSANDRO
MANZONI, I promessi sposi (La
Nuova Italia, 1990). Vicenda
inventata - un matrimonio contrastato di due contadini oppressi da un
tirannello vizioso: è il secolo XVII - la cui caratteristica principale è
però il realismo. Come scriveva lo stesso autore: «Quanto
allo svolgimento degli avvenimenti, e all’intrigo, credo che il mezzo
migliore per non fare come gli altri stia nel considerare nella sua realtà
il modo di agire degli uomini, e di considerarlo soprattutto in ciò che ha
di opposto allo spirito romanzesco». E
per Edgar Allan Poe il prestigio maggiore del romanzo di Manzoni era «la
cognizione di vera vita vissuta». Colpisce l’amore di Manzoni per
l’idea che gli uomini hanno tutti una eguale dignità: non c’è nessuna
tipizzazione morale e psicologica basata sullo status sociale dei
personaggi. Principi e contadini, dotti e analfabeti, impetuosi e miti,
maschi e femmine, vecchi e giovani: nessuna di queste condizioni determina
il bene o il male degli individui; il loro valore morale è, appunto,
completamente individuale e non afferente a «tipi». E non è «ideale»,
perché in ciascuno il bene è, in varia forma, mescolato al male. Colpisce
anche la fiducia nella bontà dell’essere (la cosiddetta «Provvidenza»
manzoniana): il male, anche nelle sue sfumature ambigue che a volte
oscillano tra commedia e tragedia, è rappresentato con crudezza e senza
pregiudizi bigotti. Eppure c’è il bene, non determinato dai progetti dei
singoli uomini in quanto progetti, ma c’è: una voce amica in mezzo a un
coro ostile; una persona sconosciuta che offre i suoi servigi durante un
pericolo; un contrattempo o un dolore che poi si rivelano occasioni per
scampare il vero male; un desiderio di bontà (di essere amati e di potere
amare) sepolto ma presente anche negli spiriti più pervertiti. Se la trama
delle vicende narrata è attraente (Goethe, a proposito de I promessi sposi,
confidava all’amico Eckermann: «L’impressione che si riceve dalla
lettura è tale che si passa continuamente dalla commozione alla meraviglia
e dalla meraviglia alla commozione, e da questi due grandi affetti non
s’esce mai.»), a me interessano di più le numerose considerazioni di
etica, a volte brevissime e a volte più lunghe, che l’autore fa
riservandosi un «cantuccio» di filosofico commentatore. 1841
RALPHO
EMERSON, Storia (in Natura e altri saggi, Rizzoli, Milano,
1990). È
un breve saggio sul concetto di storia che, valendosi di spunti hegeliani,
anticipa alcune dottrine di Benedetto Croce: tutta la storia passata è
storia contemporanea. Scrive Emerson: «Occorre
che si legga la storia in maniera attiva, non passivamente; tener presente
che è la nostra vita che fa da testo, mentre i libri forniscono solo il
commento. Costretta in tal modo, la Musa della storia pronunzierà allora
oracoli che mai potrebbe offrire a chi non avesse rispetto di sé stesso.
Non m’aspetto che diventi un buon lettore di storia chi pensasse che ciò
che fu compiuto in un’epoca remota da uomini i cui nomi sono poi risuonati
famosi abbia un più profondo significato di quello che egli stesso sta
operando quest’oggi, in questo momento. in senso proprio non esiste la
storia, esiste solo la biografia. Ciò che la mente singola non vede, ciò
che essa non vive, non riuscirà mai a conoscerlo». 1864
ALESSANDRO
MANZONI, Storia incompleta della Rivoluzione Francese (Bompiani,
Milano, 1985). Un
esempio, secondo me convincente, di confutazione della teoria
irrazionalistica per la quale per fare cambiamenti buoni nella società
bisogna essere immorali. Con puntiglio Manzoni osserva come i vari
comportamenti immorali dei rivoluzionari del 1789 ostacolarono e non
favorirono quel miglioramento della società francese cui pure tutti
genericamente aspiravano. Miglioramento che ci fu, ma grazie agli atti
morali, e nonostante quegli altri. 1862
-1871 LEWIS
CARROL, Alice nel Paese delle Meraviglie e attraverso lo specchio
(Mondadori, Milano, 1978). Personaggi
e scenari fantastici tra cui si aggira Alice sono una delle più efficaci
ipotiposi di quell’«inglesità» che ora fa parte dei modelli ideali di
molte altre culture nazionali. La tecnica narrativa riproduce bene il
processo con cui tutti noi, durante il sonno, sogniamo. Il messaggio è il
tentativo dell’autore di mostrare ai bambini anagrafici e soprattutto al
bambino che è dentro ciascuno di noi adulti, che il cosiddetto mondo
adulto, o anzi la realtà tout-court, per quanto molto complessa e
conflittuale, nel suo fondo non è cattiva; in essa è legittimo piangere ma
illegittimo disperarsi. 1866
F.
DOSTOEVSKI, Delitto e castigo (Sansoni, Firenze, 1962). Come
Macbeth è la tragedia del rimorso, così Delitto e castigo ne è il
romanzo: gli esiti sono diversi perché il re di Scozia non si ravvede
mentre lo studente omicida Raskol’nikov pare che possa ravvedersi. Ma in
entrambi i personaggi la verità mostra la sua natura - al di là di tutte
le sceneggiate solamente esterne - irriducibile ed insopprimibile; entrambi
quasi cercano e implorano di essere puniti, per sfuggire al rimorso. Ma non
è, in sé stessa, la punizione esterna a salvare, bensì è una decisione
interiore. Dostoevski suggerisce che questa decisione interiore può essere
presa da Raskol’nikov perché questi incontra Sonja, una persona da cui è
amato e che forse può cominciare ad amare. 1886
LEV
TOLSTOI, La morte di Ivan Illic (Garzanti, Milano, 1988). Racconto
lungo o romanzo breve è comunque un piccolo efficace congegno narrativo. La
vita di un uomo completamente «comune» o «normale» viene vista dal di
dentro e ciò che si scopre è che il cosiddetto «uomo comune» è
un’illusione: ogni e ciascun uomo ha sempre nella sua vita un mistero di
avventura, di tragedia e di gioia. Anche questa è la storia di un progresso
morale. 1888
- 1889 OSCAR
WILDE, Aforismi (a cura di A. Falzon, Mondadori, Milano, 1987). Raccolte
dalle sue varie opere, queste sentenze di Oscar Wilde, così piene di wit,
si rivolgono contro un nemico che è anche il nostro: il luogo comune. 1908
BENEDETTO
CROCE, Filosofia della pratica (Laterza, Bari, 1955) Croce,
secondo me, è l’ultimo grande filosofo in senso stretto. Per me Sigmund
Freud è un pensatore certamente molto più grande di lui, ma Croce ha un
vantaggio su Freud: quello di collegarsi esplicitamente e non solo di fatto,
in tutte le sue opere, alla millenaria precedente storia del pensiero, cosa
che Freud fa solo molto sporadicamente e a volte con incompetenza; e di
presentare ancora un’intera «enciclopedia delle scienze filosofiche»
come risultato della discussione degli altri grandi filosofi. Questo libro
è un sistematico trattato di etica «idealistica» e cioè antidualistica
nel senso spiegatoti nella mia lettera. Esso e l’Introduzione alla
psicanalisi di Freud sono, secondo me, due libri essenziali che un nuovo
filosofo morale - conoscitore dell’Etica di Aristotele e della Seconda
pars di Tommaso - dovrebbe considerare come immediati antecedenti nel suo
tentativo di elaborare una nuova teoria etica. Tra le idee caratteristiche
eccone alcune. Netta distinzione tra teoria e pratica (conoscenza e volontà):
non esiste una teoria meravigliosa e sviluppata che possa sostituire la
pratica, né esiste una pratica meravigliosa e sviluppata che possa
sostituire la teoria; la pretesa di eliminare una delle forme dello spirito
a pro dell’altra filosoficamente è un errore - neologismo, marxismo,
pragmatismo, neopositivismo - ed esistenzialmente è una malattia della
personalità. Una conseguenza è che, se la teoria è condizione della
pratica - non esiste cioè una pratica separata e autarchica, «cieca» -
mai però la determina, altrimenti la pratica sarebbe solo un futile
duplicato della teoria, quando invece essa è un’originale novità.
D’altra parte la condizione conoscitiva c’è sempre, non esiste mai una
«vacanza» dell’intelletto: «pulsioni», «istinti», «passioni», non
sono forme di «volontà» (appetito, tendenza pratica) indipendenti dalla
conoscenza; anche questi moti sono preceduti da percezioni, concetti,
giudizi e sillogismi, anche se a livello molto frammentato e apparentemente
disordinato e dunque poco conscio o inconscio (le «petites perceptions» di
Leibniz). La libertà non è l’occamista «arbitrium indifferentiae» e
sottostà, invece, al destino, alla necessità. Ma: il destino e la necessità,
a parte il sapere nudamente che esistono, nessuno sa quali in concreto
siano, cosa dicono. Inoltre nella necessaria serie causale entrano come
cause principali delle azioni e degli stati emotivi del soggetto proprio le
sue volizioni. E infine: essendo ogni serie causale infinitamente complessa,
sconosciuta e - soprattutto - unica ed irripetibile, «libertà» vuol dire
identità con sé stessi, con la propria storia, perché nessuna forza al
mondo può - per dir così - «ripetere» o «manipolare» la serie causale
che porta alla mia persona: può, al massimo, contribuire a un’altra e
nuova serie, al quale è però - appunto - un’altra. Le «passioni» non
sono etimologicamente una «passività» del soggetto rispetto agli stimoli
dell’ambiente o del proprio corpo ma sono volizioni - cioè azioni - in
potenza, che non si realizzano cioè non contribuiscono a costruire la realtà
e dunque lo sviluppo della persona, quali che siano le illusioni degli
accadimenti solamente esterni, fino a quando rimangono in una disordinata
molteplicità. L’azione rimane azione in potenza, e dunque «passione»,
fino a quando è isolata, non integrata secondo il giusto suo ruolo, secondo
il suo giusto contributo costruttivo, con tutte le altre potenzialità della
persona. 1914
- 1915 JAMES
JOYCE, Ritratto dell’artista da giovane (Newton Compton, Roma,
1989). È
la storia di un bambino, di un ragazzo, di un giovane uomo - Stephen Dedalus
- che, in maniera confusa e contraddittoria, faticosa e a volte dolorosa,
sente esplicitamente - come una missione! - la presenza del Valore nella
infinitamente multiforme e caramente amata realtà quotidiana della sua
cittadina, della sua gente. Il fatto di sentire esplicitamente
l’attrazione del Valore gli fa accompagnare le sue varie «conversioni» -
sia dentro che fuori le ideologie correnti, comunque ultimamente di
carattere personale - con atti della volontà e tentativi di teorie. Ma lo
spirito soffia dove vuole e le «conversioni» di Dedalus - sensuale,
religiosa, filosofica, artistica - sono, prima di tutto in lui stesso,
imprevedibili. 1915
SIGMUND
FREUD, Lutto e melanconia (Boringhieri, Torino, 1976). Bisogna
distinguere due dolori (angosce, tristezze, ecc.) assai diversi tra loro: un
dolore sano dovuto alla perdita di un oggetto amato realmente buono e
realmente sentito come buono; e un dolore malato dovuto alla perdita di un
oggetto amato creduto buono ma in realtà cattivo. 1915
- 1922 SIGMUND
FREUD, Introduzione alla psicanalisi (vecchie e nuove lezioni)
(Boringhieri, Torino, 1988). Tanta
capacità di sintesi del pensiero altrui e tanta originalità di creazione
del pensiero proprio non c’era, a mio giudizio, dal tempo di Aristotele.
È questo un compendio preciso e chiaro di quasi tutte le dottrine
freudiane, scritto dal loro stesso autore. Thomas Mann scrisse: «Siamo
certi che, se mai alcuna impresa della nostra specie umana rimarrà
indimenticata, questa sarà proprio l’impresa di Sigmund Freud che ha
penetrato le profondità dell’anima umana.» Forse Mann esagera (e il
Vangelo? e Aristotele?) nei paragoni storici; ma io sono propenso a
concordare con la sua affermazione «noi tutti non potremmo neppure
immaginare il nostro mondo spirituale senza la coraggiosa opera che Freud ha
svolto nell’arco della sua esistenza». Per me uno degli attuali compiti
della filosofia è cercare di integrare i contenuti dell’opera di Freud -
personalmente ancora troppo vincolato alla rozza metafisica del Positivismo
ottocentesco - con l’impianto metafisico e con alcuni risultati
particolari della tradizionale storia della filosofia. 1917
BENEDETTO
CROCE, Teoria e storia della storiografia (Adelphi, Milano, 1989). È
il libro fondamentale per sapere cosa è la storia (nel senso di
storiografia) e per distinguerla sia dalla cronaca filologica sia dalla
retorica politica. S’introduce la confutazione della «filosofia della
storia» di tipo dualistico-teologico, e dunque si raggiunge la visione, più
moderna, dell’immanentismo gnoseologico. Si insegna come le scelte della
materia storiografica e della periodizzazione siano convenzionali, ma non
siano arbitrarie. Soprattutto, si mostra la genesi spirituale (il documento
è interno e non esterno) del processo storiografico, avvicinandosi
all’idea di Freud della contemporaneità dell’inconscio: «qualsiasi
storia passata è storia contemporanea». 1922
BENEDETTO
CROCE, Frammenti di etica (in Etica e politica, Laterza, Bari,
1981, prossimamente in ristampa per le edizioni Adelphi di Milano). Questi
Frammenti sono, secondo me, un notevole esercizio letterario in cui, con
profondità filosofica, si affrontano in 2, 3, 4 pagine al massimo i più
classici problemi della morale, in tutto una cinquantina. Acutezza
d’intuito psicologico, rigore di coerenza logica, splendore dello stile ne
fanno un libretto da consigliare a chi non predilige particolarmente la
maniera di scrivere tipica dei filosofi e il genere letterario del «trattato».
1922
JOHN
DEWEY, Natura e condotta dell’uomo Americano,
Dewey, era il filosofo contemporaneo che Croce più apprezzava. Gli intenti
principali di questo libro sono: integrare etica e nuove psicologie
dinamiche; confutare i due principali esiti dell’errore dualistico, e cioè
l’utilitarismo induttivista e lo spiritualismo deduttivista; mostrare la
convergenza e anzi coincidenza tra vero empirismo e vero idealismo. Come nel
XVII secolo pochissimi pensarono che il fatto più importante e duraturo
nelle conseguenze era la scoperta della nuova scienza naturale di Galilei e
Newton, e non le guerre di religione, così nel XX secolo non è facile
vedere come le guerre nazionalistiche e la lotta di classe economica sono
gli ultimi eventi del passato, mentre il futuro è stato aperto dalle
“nuove scienze” dell’uomo: psicanalisi, antropologia culturale,
sociologia. La psicanalisi ha intuito che esiste un inconscio e che esso
dipende dalle relazioni interpersonali; ma nella psicanalisi rimangono
residui positivistici, come l’idea che esista una forza psichica separata
- le cosiddette pulsioni istintuali - quando invece, per Dewey, le pulsioni
non sono innate, né sono in numero fisso, ma sono infinite e plastiche, in
quanto non sono altro che le risposte individuali all’ambiente che sempre
cambia. Come Croce, Dewey combatte l’idea di una perfezione realizzabile
in situazioni storiche e particolari, di un momento della storia che sia
definitivo ed appagante: l’errore centrale della morale è «la
supposizione che una cosa che venga trovata vera sotto certe condizioni,
debba subito venire affermata tale universalmente o senza limiti e
condizioni.» Il fine morale non è la cessazione dell’attività: «se è
meglio viaggiare che arrivare, cioè avviene perché il viaggiare è un
continuo arrivare, mentre l’arrivo che preclude viaggi ulteriori si
ottiene nel modo più semplice andando a dormire o morendo.» 1925
MAHATMA
GANDHI, Un’autobiografia: la storia dei miei esperimenti con la verità (trad.
it. La mia vita per la libertà, Newton Compton, Roma, 1988). Per
documentare come la forza possa essere non-violenta, ed essere
intransigente, pronta, ferma, audace, questo è il libro migliore. Gandhi è
stato il leader politico che diede impulso e conseguì l’indipendenza
politica dell’India dal più grande impero coloniale del mondo, quello
britannico. Anche oggi, come ai tempi di Pericle o di Nerone o di Dante o di
Machiavelli c’è chi sostiene la falsa e superficiale tesi secondo la
quale i crudeli, i violenti, gli avidi sarebbero i migliori leader politici,
secondo la quale l’aggressione distruttiva sarebbe l’unica forma di
forza e di coraggio, mentre bontà, mitezza, giustizia, pace sarebbero cose
fiacche, deboli, stupide. E anche oggi questa tesi viene sostenuta non solo
dai guerrieri e dai mercanti d’armi e dai politici corrotti dalle lobby
dei guerrieri e dei mercanti, ma anche - e questa è la cosa più dolorosa -
dai cosiddetti intellettuali che credono di aver scoperto una preziosa,
spregiudicata, originalissima e nuova e profonda verità dicendo che «il
fine giustifica i mezzi», che «non si governa coi paternoster», che «quando
ce vo’, ce vo’», e che si estasiano di fronte al «decisionismo», a
Von Clausewitz, a Carl Schmitt, a Nietzche, al nazista Heidegger e al
fiancheggiatore nazista Jünger, eccetera. La vita di Gandhi però - che è
storia e non romanzo o dottrina teorica; che appartiene al nostro secolo e
non a un favoloso passato - mostra coi fatti che tale tesi è falsa. Mostra,
anche, con l’autorità della storia, la verità della filosofia. La forza
è sinonimo di pazienza e non di impulsività. Il coraggio riguarda
essenzialmente la disponibilità a morire per un ideale di verità, mentre
chi distrugge la vita degli altri è spesso, almeno in parte, un vile. La
verità è una forza magari inizialmente sommessa e invisibile, ma
ultimamente invincibile, perché è costante, mai non tace, attrae
continuamente qualcosa che sta all’interno del cuore di tutti gli uomini.
La verità, però, è forza necessaria ma non sufficiente per vincere il
male e muovere verso il bene la storia: ci vuole anche l’amore, perché
solo con l’amore si riesce ad avere la capacità di fare giusti
compromessi, di attendere, di ascoltare, di sperare nel futuro, di
riconoscere anche i minimi segni di bene in mezzo alle reazioni più ostili
e indifferenti degli altri. Gandhi, questo pacifista, non era un apatico o
atarattico saggio stoico o un querulo e vuoto asceta moralista, né un
inconcludente e bambinesco «mistico»: per lui la pace, la non violenza era
testimonianza diretta di coinvolgimento razionale ed emotivo, e non di
ascetico e «saggio» straniamento. Per lui era lotta eroica contro un
nemico pericoloso, e non olimpico distacco. Due virtù risplendevano
tipicamente in Gandhi: l’insofferenza profonda e spontanea, irrefrenabile,
per ogni forma di ingiustizia, nelle grandi come nelle piccole cose. E poi
una crescente compassione universale per le sofferenze umane. Egli inventò
il «Satyagraha», che in italiano, ancor meglio che con «resistenza
passiva», si traduce con «fermezza nella verità». Come Seneca e come
Benjamin Franklin considerava la vita, oltre che come una missione, anche
come un continuo interessante «esperimento»: sperimentava continuamente
nuove cose per trovare le cose migliori: vari tipi di lavoro artigianale
manuale; forme di meditazione e di preghiera; digiuno dimostrativo; forme di
resistenza passiva; medicina naturale e psicosomatica; nuovi rapporti con le
donne; nuovi rapporti con figli naturali e figli adottivi; nuove forme di
castità; nuove forme di povertà; fino ad arrivare a dettagli minori e
forse stravaganti come il vegetarianismo (anche Seneca e B. Franklin furono
vegetariani). Non pensò mai di propagandare una presunta sapienza «mistica»
dell’Oriente aristocraticamente ed astrattamente segregata da quella
dell’Occidente: sempre insistette, anzi, nel dire che egli era riuscito ad
essere quello che fu grazie all’educazione che aveva avuto nel sistema
culturale inglese, grazie al liberalismo e al garantismo giuridico
occidentale in genere e britannico in specie; riuscì anzi a scoprire le
cose buone della tradizione orientale - che altrimenti sarebbero state in
lui morte e addirittura disturbanti - grazie alla filosofia e alla religione
occidentali. In questa autobiografia Gandhi racconta anche come riuscì
lentamente ma realmente e decisamente a guarire dal disastro morale della
sua infanzia e della sua adolescenza: e ci riuscì grazie all’amicizia
delle persone buone, grazie ad alcune esperienze di dolore che riuscì a
interiorizzare e trasformare, grazie al quotidiano sforzo di meditazione ed
introspezione, grazie al lavoro, grazie al coinvolgimento in una lotta
eroica per il bene comune suo e della sua gente. 1931
BENEDETTO
CROCE, Le due scienze mondane: l’estetica e l’economia (in
Ultimi saggi, Laterza, Bari, 1955). In
questo breve scritto, trattando di due categorie del suo sistema filosofico,
Croce ci dà un’efficace critica di alcune tipiche opposizioni
dualistiche: Natura/Spirito; Sensazione/Pensiero; Utile/Buono;
Oggetto/Soggetto. 1932
SANDOR
FERENCZI, Diario Clinico (Cortina, Milano, 1988). Questo
discepolo e collaboratore di Freud ci ha lasciato un diario delle sue ultime
psicanalisi. Notevole è l’urgenza che egli sente di approfondire, assieme
alla comprensione del paziente, la comprensione di sé. Notevole è la
delicata e commossa sensibilità per il dolore e le speranze dei pazienti.
Molto notevole è questo concetto: al di là di ogni narcisismo di ruolo, il
percorso di guarigione avviene attraverso un paritario patto di alleanza tra
guaritore e malato, in cui la libertà è massima, in cui la lotta e il
coinvolgimento emotivo sono comuni. La cura non è solamente una «prestazione
tecnica» da un soggetto A a un soggetto B, ma è anche la reale
condivisione di un periodo della propria vita tra due persone che percorrono
due paralleli, per quanto magari molto differenti, processi di maturazione. 1933
HAN
KELSEN, L’amor platonico (Il Mulino, Bologna, 1985). Kelsen
è considerato il più importante studioso di teoria giuridica del
Novecento. Essendo stato favorevolmente impressionato dalla psicanalisi,
scrisse un libro di filosofia - questo - per le edizioni di Freud. In questo
libro Kelsen analizza il dualismo metafisico, logico ed etico di Platone: in
metafisica il dualismo porta a un escatologismo ingenuo, alla negazione
della storia e a un sostanziale pessimismo; in logica il dualismo porta a un
«panlogismo», cioè a un esasperante intellettualismo che, incapace di
comprendere la realtà attraverso le sue astrattissime categorie, sfocia
necessariamente, per una sorta di «nostalgia della realtà», nella
mistica. In etica il dualismo tra spirito e natura porta a una condotta di
vita distruttiva sia nell’ambito privato sia nell’ambito pubblico.
Nell’ambito privato l’idealizzare l’oggetto d’amore e il
disprezzarne la concretezza (e cioè sia la multivocità ed imprevedibilità
dei suoi beni, sia la presenza in esso anche dell’imperfezione, del
dolore, della cattiveria, della grettezza, della stupidità, della
debolezza) induce a desiderare oggetti d’amore non-umani, perfettamente
forti, belli, giovani e incantati dal piacere continuo, però
irraggiungibili dall’affetto umano (da quella «jilia» di Aristotele che
Tommaso d’Aquino traduce con «caritas») e raggiungibile solo dall’«erwz»
e cioè da proiezioni eccitate e unilateralmente sensuali. L’iperspiritualismo
teorico si converte dunque, come è caratteristico del dualismo, in
ipermaterialismo pratico. Nell’ambito pubblico il dualismo che separa il
bene assoluto dal male assoluto porta a una concezione della società che,
da una parte, è antidemocratica e divide i cittadini tra i pochissimi «perfetti»
che comandano e i molti «imperfetti» che obbediscono, e, dall’altra, è
una concezione totalitaria la quale, negando la complessità della storia
(Platone, un po’ come Pol Pot in Cambogia, voleva mandare via dalla sua
repubblica ideale tutti gli adulti formatisi in periodo precedente, per
poter plasmare ex novo i fanciulli), vuole imporre a tutti gli infinitamente
diversi ambiti della vita la stessa astratta e semplicistica idea di «Bene».
1934
KARL
POPPER, La logica della scoperta scientifica (Einaudi, Torino, 1970).
Popper
è considerato il più importante filosofo della scienza del Novecento. Di
questo libro, che è il suo fondamentale, ti consiglio la lettura della
Prefazione della prima edizione inglese e dei primi cinque capitoli (anche
del resto se hai una forma mentis di tipo matematico, perché qui spesso è
usata la logica simbolica). L’idea centrale è che una qualsiasi verità
è tale non perché può essere «verificata», cioè osservata in tutti i
casi reali, che sono infiniti e che richiedono dunque un impossibile
processo di osservazione infinita, ma perché può essere «falsificata»,
cioè è aperta alla confutazione da parte di quei singoli casi o di quel
singolo caso in cui essa non può essere osservata. Il progresso della
conoscenza non avviene dunque per un accumulo di osservazioni ma per una
successiva sostituzione di teorie: se una teoria è vera proprio in quanto
può essere falsificata da un’osservazione individuale, e dunque bisogna
elaborare una teoria più complessa che comprenda in sé sia la precedente
teoria sia la nuova osservazione. Diversamente dagli empiristi e dai
positivisti per Popper la conoscenza parte dalla teoria e non
dall’osservazione empirica: egli cita il poeta romantico Novalis: «le
teorie sono reti, solo chi le butta pesca». Come arrivare ad elaborare una
nuova teoria? Con due movimenti. Il primo è confrontarsi spregiudicatamente
con le teorie degli altri pensatori presenti e passati. Il secondo - e
Popper qui cita esplicitamente Einstein - è il cercare un’«immedesimazione»
(Einfühlung) con gli oggetti dell’esperienza. Cerco di traslocare una di
queste idee di Popper dalla filosofia della scienza alla filosofia morale.
Quando è vera una teoria etica («questo tipo di azione è buono»)? Non
quando la si pensa osservabile in tutti i casi singoli, come recitava
l’universalismo della filosofia tradizionale. Ma quando so che, se qui ed
ora l’osservazione singola non falsifica la teoria e dunque la corrobora
(vedo che questa azione è buona), so anche che il mio concetto di «buono»
deve essere fatto in maniera tale da potere accettare che in un qualsiasi
momento successivo un’altra osservazione singola renda falsa la teoria pur
senza rendere falsa la prima osservazione (senza rendere cattiva la singola
azione che, nella mia precedente osservazione, corroborava la mia teoria «questa
classe di azioni è buona»). Il mio concetto di «buono» deve dunque
essere legato all’individualità e alla continua novità della storia,
senza per questo impedirmi di generalizzare quando il generalizzare è
utile, quando cioè ho bisogno di comunicare e agire. 1937
SIGMUND
FREUD, Analisi terminabile e interminabile (Boringhieri, Torino,
1979). Il
compito dello spirito che guarisce e il compito dello spirito che vuole
essere guarito sono lunghi e complessi, richiedono tendenzialmente tutta la
vita: non perché lo spirito sia impotente - il progresso e la guarigione
sono reali: oggi meglio di ieri, domani meglio di oggi - ma perché il
cammino di guarigione è una componente della vita stessa, e chi pensasse di
ritenersi totalmente guarito non farebbe altro che dichiarare di aver smesso
di vivere. 1937
SIGMUND
FREUD, Costruzioni nell’analisi (Boringhieri, Torino, 1979). Il
progresso morale è - tra le altre cose - anche un progresso nella
conoscenza della propria vita passata e presente: eppure questa conoscenza
non è una «registrazione materiale» (cosa vorrebbe poi dire una simile
cosa?) , ma è una ricostruzione di come gli eventi «materiali» sono stati
soggettivamente interpretati e vissuti (o, per meglio dire, «intersoggettivamente»,
perché la ricostruzione implica sia il contributo del soggetto analizzato
sia quello del soggetto analizzante). 1938
BENEDETTO
CROCE, La storia come pensiero e come azione (Laterza, Bari, 1965). Sono
molti brevi saggi che indagano sulla natura della storiografia e della
storia: la verità storica; la «necessità» storica; l’unicità
dell’avvenimento storico e l’unicità ed irripetibilità del giudizio
storiografico; il giudizio morale e quello teoretico sul passato; la
storiografia come liberazione catartica dalla storia; il rapporto tra
narrazione storica e convinzioni filosofiche dello storiografo;
l’efficacia pratica e comunicativa di un’opera storiografica; e tanti
altri (sono 53 saggi). Soprattutto, nel saggio primo e sistematico, Croce
mostra come la verità storiografica sul passato nasca da un bisogno
morale-psicologico della propria individuale ed attuale vita, bene
avvicinandosi alla «regola fondamentale» delle associazioni libere che è
alla base della tecnica analitica freudiana. 1939
JOHN
RONALD REUEL TOLKIEN, Sulle fiabe (in Albero e foglia, Rusconi,
Milano, 1988). Il
più grande filologo novecentesco della mitologia medievale scrive un saggio
teorico sulla narrativa fantastica. Dopo una rapida e netta critica storica
delle singole opere dell’antichità dell’Ottocento, Tolkien passa a
confutare i luoghi comuni condivisi sia dalla paludata critica accademica
sia dalla mentalità popolare, secondo cui il fantasy sarebbe letteratura
solo per bambini, consolatoria e d’evasione. Positivamente poi Tolkien
definisce i concetti di «subcreazione» e di «eucatastrofe» propri
dell’attività della fantasia. Sul Tolkien romanziere, e non sul saggista,
mi soffermerò meno brevemente più sotto. 1939
KAREN
HORNEY, Nuove vie della psicanalisi (Bompiani, Milano, 1959). Questo
libro ci aiuta a comprendere oggi Freud, perché ne prende la parte viva e
preziosa lasciando cadere il positivismo e il meccanicismo ottocentesco. Ciò
che è vivo nella psicanalisi è l’indagine etica; ciò che è morto è
l’apparato anatomico-fisiologico. La malattia non è dovuta a «istinti»
perversi, ma al male morale dell’ambiente e alla decisione interiore dello
spirito individuale. Le fenomenologie più appariscenti delle malattie - per
esempio l’isteria o le perversioni sessuali - sono solo effetti e non sono
cause: le cause non sono né «anatomiche» né «istintuali» né «sessuali»,
ma morali. Freud risente essenzialmente del dualismo filosofico del
Positivismo, e così scinde la realtà in coppie di elementi astrattamente
separati e distruttivamente in conflitto: Io/Es, Conscio/Inconscio,
Maschile/Femminile. La più notevole di queste coppie astratte di Freud è
Amor di Sé/ Amore dell’Oggetto (degli altri): coppia classica di tutto il
platonismo dualistico del pensiero occidentale. Freud non sembra riuscire a
capire le valenze altruistiche del buon amore di sé e le valenze
personalistiche del buon amore per gli altri. Di qui la grande ambiguità
del suo concetto di «narcisismo». Freud, dunque, è in parte materialista:
pensa che, se l’amore viene aggiunto da una parte, deve essere tolto da
un’altra; parla di «investimento di energia libidica», considera lo
spirito come fosse elettricità o massa inerziale o una società
finanziaria. Inoltre è, in parte, meccanicista: per lui la causa «determina»
l’effetto (e non solo lo condiziona); dunque per lui il presente sembra
essere il duplicato delle esperienze passate e non ha originalità. Dunque
non è propriamente presente. Horney invece pensa che, se è verissimo che
il presente contiene tutto il passato, pure lo contiene in quanto presente,
aggiungendo ad esso qualcosa di nuovo che il passato assolutamente non ha.
Cito un esempio di Horney: «In
psicologia l’esempio più elementare che dimostra questa diversità è la
questione dell’età. Il presupposto meccanicista considera l’ambizione
di un uomo quarantenne come la ripetizione della medesima ambizione
esistente in lui all’età di sei anni. La tesi non-meccanicista invece
sostiene che, sebbene gli elementi dell’ambizione infantile siano
sicuramente contenuti nell’ambizione dell’adulto, in quest’ultima sono
implicate caratteristiche assolutamente diverse da quelle che poteva formare
l’ambizione d’un fanciullo, e precisamente a causa del fattore «età».
Il fanciullo, che ha idee grandiose sul suo avvenire, spera di tradurre un
giorno in realtà le sue fantasie. Un uomo quarantenne, invece, avrà il
vago presentimento, se non la completa coscienza, dell’impossibilità di
vedere mai soddisfatte tali ambizioni, sarà conscio delle occasioni
perdute, delle sue personali limitazioni, delle difficoltà esterne. Se
egli, nonostante ciò, persiste nelle sue ambiziose fantasticherie, esse gli
procureranno fatalmente un senso di sgomento e disperazione». Il
pansessualismo freudiano è dovuto al suo meccanicismo riduzionista: come
per i fisici positivisti la vita biologica non è altro che un cozzo casuale
di atomi inorganici, così per Freud scienza, arte, religione, morale non
sono altro che «sublimazioni», e cioè superficiali trasformazioni delle
realtà psichiche vere e proprie, che per lui sono solo le pulsioni
sessuali. Per Freud il desiderio di conoscere non è un’esperienza
psichica originaria e distinta, ma è la «sublimazione» della curiosità
sessuale; l’amore di amicizia (la jilia di Aristotele, la caritas di
Tommaso) non è un’esperienza psichica originaria ma è o la «sublimazione»
di un’eccitazione sessuale o la difesa mistificante di un’originaria
aggressività; la fede in Dio non è un’esperienza originaria ma è solo
lo spostamento di una dipendenza nevrotica per il padre reale verso un padre
«ideale». Questo riduzionismo di Freud è sbagliato anche per quanto
riguarda i «sintomi» patologici: perché bisogna pensare che l’avidità
affettiva sia un effetto dell’avidità alimentare del lattante? È più
giusto, invece, pensare che sia l’una sia l’altra avidità sono
manifestazioni particolari e distinte, secondo i tempi e le occasioni, di
una stessa avidità profonda e interiore. Una prova di quanto sia distorto
ridurre tutto alle attività più materiali è questa: le persone
sessualmente «sane», o «normali» in senso materiale, possono essere per
nulla sane o normali in altri fondamentali e vitali ambiti dell’esperienza
umana: nei rapporti di giustiziai, per esempio, o nella capacità di
imparare e di pensare. E poi, se è vero che, per esempio, esiste una falsa
affabilità che è travestimento reattivo di istinti sadici, ciò non
implica affatto che non esista una vera affabilità primaria che nasce da
una diretta attrazione per gli oggetti buoni. Un’altra precisa correzione
di Horney a Freud riguarda, dunque, il narcisismo: il narcisismo non è una
stima di sé quantitativamente eccessiva; la differenza è qualitativa: «Freud
considera la tendenza all’autodistruzione come originata dall’amore di sé,
e crede che la ragione per la quale l’individuo narcisista non ama gli
altri stia nel fatto che egli ama troppo sé stesso. Freud pensa al
narcisismo come a un serbatoio che si svuota fino al punto in cui
l’individuo ama gli altri (fino a che “dà” libido agli altri).
Secondo me, l’individuo come tendenze narcisiste si aliena da sé stesso
nel medesimo modo in cui si aliena dagli altri, e perciò è incapace di
amare sia sé sia gli altri nella misura stessa del proprio narcisismo». Più
in generale, Freud confonde spesso lo spirito sano con lo spirito malato:
comprese che essi non sono separati realmente; ma non comprese che essi sono
distinti concettualmente. Dice che il bambino sano è un «perverso
polimorfo» e che l’adulto malato non è altro che un individuo che è
rimasto bambino. Ciò è da respingersi assolutamente: quel bambino «perverso»,
e cioè incestuoso, supernarcisista, feticista, omosessuale, eccetera, non
è il bambino sano, non è l’esponente della Bambinità, ma è
precisamente il nevrotico - ora diventato adulto - quando era ancora bambino
ed era già ammalato. Egli è dunque, piuttosto, l’esponente della
Nevroticità. La stessa metafora freudiana dell’Io - immaginato come un
cavaliere impotente sopra un Es-cavallo che va dove gli pare - non è la
descrizione dello spirito sano, in cui l’apparato sensitivo, così come
l’inconscio, è docile o almeno compatibile con la ragione, ma è la
descrizione dello spirito malato. E infine, nella terapia, l’analisi del
passato deve essere finalizzata alla comprensione del presente, e non
viceversa come a volte Freud mostra di pensare: così è già stigmatizzata
la curiosità di chi in primo luogo vuole ricostruire il passato materiale
della vita (il piano delle cause efficienti) e tralascia di chiedersi a
quale scopo tendono le azioni e i sintomi attuali (il piano delle cause
finali). 1940
BENEDETTO
CROCE, Il carattere della filosofia moderna (Laterza, Bari, 1955). Anche
questo libro è una raccolta di saggi (31) che indagano la natura della
storia e della storiografia; la filosofia in senso pieno è storiografia del
presente; il «mistero» così come inteso dal senso comune, non esiste; la
libertà come motore della storia; la storiografia come esame di coscienza
ed autobiografia; il ruolo degli «orrori» del mondo nella storia del
mondo; l’impossibilità della previsione del futuro; il rapporto tra
contingenza e necessità; la differenza tra l’amore nostalgico per il
passato e l’amore teoretico per la storia; la dialettica tra notizie
attestate ed immaginazioni; il rapporto tra coscienza storica e ricerca (o,
per meglio dire, «produzione») dei documenti. 1940
- 1945 AUTORI
VARI, Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea (Einaudi,
Torino, 1956). Uomini
e donne, soprattutto giovani, nelle carceri del nazifascismo prima di subire
il martirio per la libertà. Scrivono ai genitori - soprattutto - ma anche
ai coniugi, ai cari amici, ai figli. Colpisce fortemente, in queste persone
torturate crudelmente e sul punto di essere uccise, l’urgenza di esprimere
la propria gratitudine verso il bene e la felicità ricevuti in dono durante
la propria, magari molto breve, vita. Qualcuno è cristiano, qualcuno è
agnostico, qualcuno è ateo. Ma in tutti risplende - e questo è, direi,
sorprendente - questa fede, anzi certezza, escatologica: «Sarò sempre con
voi, vivrò in voi». Lo spirito è essenzialmente Bene («grazie, papà e
mamma, per aver destato in me l’amore per il bello e il buono»; «percepisco
con gioia l’Infinito che i tuoi studi e le tue preghiere non possono
ancora farti comprendere»; «anche se fisicamente sono crollato, sono
tuttavia d’umore eccellente»; «a me il lavoro dà alla testa come il
profumo dei lillà»; «ho vissuto la vera vita perché ho aspirato al mondo
intero»). Lo spirito non può non essere («le gemme muoiono, ma l’albero
continua a fiorire»; «maturerò con voi»; «al mattino con l’aurora vi
sorriderò, con l’imbrunire vi saluterò».) 1940
- 1951 RONALD
FAIRBAIN, Studi psicanalitici sulla personalità (Boringhieri,
Torino, 1970). Leggi
di questo libro i primi 7 saggi: grazie anche all’influsso di Melanie
Klein, l’autore riesce a migliorare la teoria dello sviluppo della
personalità criticando il positivismo materialistico di Freud: Freud,
almeno in parte, pensava che lo scopo dei desideri e delle azioni
dell’uomo fosse il conseguimento del piacere e che le relazioni con le
persone (con gli «oggetti», come si dice in psicanalisi) non fossero altro
che «mezzi» per arrivare a tale conseguimento. Fairbain, ricollegandosi
inconsapevolmente all’antica tradizione dell’etica filosofica, riesce a
capire che lo scopo dei desideri e delle azioni dell’uomo è la relazione
con il bene (con gli «oggetti», ossia persone concrete e valori ideali)
mentre il piacere è solo una conseguenza. È proprio come, nel campo della
gnoseologia, ha riscoperto Edmund Husserl: ciò che l’intelletto conosce -
«intende» - sono le cose e non le idee. Non sono le «pulsioni» (le «passioni»
di Aristotele e Tommaso) ad essere buone o cattive in sé; buoni o cattivi
sono gli oggetti (le persone o i valori ideali) a cui queste pulsioni del
soggetto «tendono». 1951
JEROME
DAVID SALINGER, Il giovane Holden (Einaudi, Torino, 1970). Quasi
ad integrare il romanzo di Golding di cui parlerò tra poco, questo di
Salinger descrive bene l’altro errore del dualismo morale: l’idea che la
«legge» (cioè i pensieri astratti e «universali», le convenzioni
sociali, le regole del gruppo, le abitudini cristallizzate, tutte quelle
direttive «esterne» che sono sommerse nel «passato» e non seguono
docilmente il flusso continuo della storia, che non sono docili
all’infinita variazione e novità del caso individuale) possa essere
sufficiente per la vita buona e sana. Holden, il ragazzo protagonista,
sperimenta invece che le varie leggi o convenzioni non scritte della «società»
- come comportarsi a scuola, come con i compagni maschi, come con le
ragazze, come con i genitori, come con i bambini - non lo aiutano e anzi
spesso lo ostacolano nel risolvere i problemi individuali ed irripetibili
della propria vita individuale ed irripetibile. Holden, allora, espelle da sé
mondo adulto e società e si rifugia in un rapporto autistico con sé stesso
(attraverso i fantasmi proiettivi della sorellina Phoebe e del fratellino
Bill). Forse Salinger approva come «buona» questa condotta reattiva del
suo personaggio, e cade allora nell’altro errore dualista, il
romanticismo. Ma noi, lettori di questo romanzo, non riabbiamo trarne
suggestioni erronee: Holden ci si mostra chiaramente non come un eroe ma
come un malato che non ha potuto essere guarito dalla società, perché
sfortunatamente gli è capitato di appigliarsi a quelle produzioni
ideologiche e pratiche della società che sono anch’esse - nella forma
loro propria - malate (ricordiamo anche, però, che la «sfortuna» di
Holden è quella di un personaggio fantastico e non di una persona reale,
per la quale, invece, non pare chiaramente credibile che possa esistere la
«sfortuna»). 1954
WILLIAM
GOLDING, Il Signore delle Mosche (Mondadori, Milano, 1986). Il
dualismo morale, come abbiamo già visto, o dice che la legge scritta e
fissa, che le virtù ufficiali (gli abiti di condotta passati e standard),
che la scienza morale come sistema teorico rigido e sedicente concluso nelle
sue massime generali, sono base e motore sufficienti per il comportamento
buono; oppure dice lo sono istinto, passione, pulsione, «natura». Sono due
errori: la reazione al primo, quello del legalismo, fa cadere nel secondo,
il quale ha avuto espressione teorica nel mito rousseauiano del «buon
selvaggio», nel romanticismo volgare, nel decadentismo nieztchiano,
nell’esistenzialismo, nel neomarxismo della contestazione studentesca
nutrita di Marcuse, Reich e terzomondismo. A proposito di questo errore
romantico, Dewey scriveva: «Nella
condotta morale l’elemento acquisito (l’abitudine, l’educazione) è ciò
che è primario. Le pulsioni istintuali, sebbene prime nel tempo, non sono
mai di fatto primarie: sono secondarie e dipendenti. L’apparente paradosso
di tal asserzione nasconde un fatto comune: nella vita dell’individuo
l’attività istintiva compare per prima, ma un individuo comincia la vita
come bambino, e i bambini sono esseri dipendenti. Le loro attività
potrebbero continuare al massimo per qualche ora se non fosse per la
presenza e l’aiuto degli adulti con le loro abitudini già formate. E i
bambini devono agli adulti - assai più che la procreazione, il cibo e la
protezione - la possibilità di esprimere le loro attività native in modo
che abbiano significato. Il significato delle attività native non è
nativo: è acquisito. Dipende dall’interazione con un medium sociale
maturo». William
Golding, nel suo romanzo, con vivace realismo mostra un gruppo di ragazzini
sperduti in un’isola deserta, senza adulti: nessuna retorica da Robinson
Crusoe o da Ragazzi della Via Pal: i ragazzini mettono in atto esternamente
le fantasie interne tanto analizzate dalla psicanalista dell’infanzia
Melanie Klein: mutilare, divorare, bruciare i propri compagni. 1955
ROGER
MONEY KYRLE, Il concetto antropologico e psicanalitico di norma (in
Scritti 1927-1977, Loescher, Torino, 1985). Lo
psicanalista kleiniano Money Kyrle mostra, in questo breve saggio, come sia
possibile dare una credibile giustificazione dell’oggettività della norma
morale anche - e soprattutto - nel Novecento, secolo che è, sì,
postnietzschiano, ma è anche postfreudiano. Chiara, inoltre, la distinzione
proposta tra «normalità» nel senso di «normatività» e «normalità»
nel senso di «media statistica dei comportamenti di fatto». Saggio molto
utile per la riflessione su quello che si dice essere un problema oggi di
attualità, quello del “relativismo”. 1955
JOHN
RONALD REUEL TOLKIEN, Il Signore degli Anelli (Rusconi, Milano,
1989). Un
mondo immaginario - la Terra di Mezzo - è minacciato di distruzione e
schiavitù da un oscuro demone , Sauron, che ha però necessità di
recuperare l’Unico Anello per avere la forza necessaria per compiere i
suoi piani. L’Unico Anello finisce invece, casualmente, nelle mani di un
nanerottolo (un “hobbit”), Frodo Baggins. Questo Anello è ingestibile
da chiunque perché corrompe, volge al male chi lo usa. Dunque Frodo,
aiutato da alcuni amici tra i quali altri hobbit e il vecchio mago Gandalf,
deve cercare di distruggere l’Anello, fondendolo nelle viscere del vulcano
Monte Fato. Molte avventure e molti incontri con personaggi e popoli ora
favorevoli ora ostili aspettano Frodo e i suoi amici - la Compagnia
dell’Anello - prima che le sorti della Terra di Mezzo giungano al punctum
crucis. Dunque una “quest” (ricerca) al contrario, perché qui
l’Oggetto Meraviglioso non deve essere trovato ma è presente sin
dall’inizio e deve essere distrutto. È un romanzo che, pur cercando di
reinventare una mitologia nordica altomedievale, fa parte del nostro mondo
contemporaneo: infatti, se leggiamo le gesta del ciclo bretone o del ciclo
nibelungico, queste ci lasciano piuttosto freddi. Guerrieri, maghi, draghi
di Tolkien, invece, sono figure del nostro spirito. Tolkien, come noi,
infatti, viene dopo l’esperienza romantica. In che senso, però, Tolkien
è uno scrittore romantico? Per spiegarlo devo rifarmi a Benedetto Croce:
egli distingueva un romanticismo teoretico da un romanticismo pratico o
morale; il primo buono, il secondo cattivo. Il romanticismo teoretico è
quello della filosofia e della vera poesia a cavallo tra Settecento e
Ottocento, che si esprimevano in Hegel e in Goethe: la Ragione è qualcosa
di molto più profondo dell’intelletto astratto illuminista; l’uomo non
può fare a meno della religione e della metafisica (anche se intese in
maniera diverse che nel passato); ogni casa del cosmo è collegata a tutte
le altre (anche se qui ed ora possiamo non vedere questo o quel
collegamento); le forze irrazionali esistono ma possono essere penetrate
dalla ragione. Il romanticismo pratico o morale, invece, è quello della
pubblicistica popolare, della poesia di consumo, del costume sociale, delle
«anime belle» tra sturm und drang, bohème, superomismo, dandismo,
superstizione neomedievale, nazionalismo, nostalgie reazionarie: esaltazione
cioè irrazionalistica del sentimento privo di logos, accettazione inerte
della contraddizione tra amore e odio e tra vita e morte, senza ricerca
della mediazione razionale; sensualismo estetizzante ed erotico;
aristocraticismo; esotismo; esaltazione dello straordinario e disprezzo del
quotidiano; estasi mistica; prometeismo e pessimismo. Tolkien è romantico
nel senso teoretico - cioè idealistico, razionalistico, hegeliano,
goethiano - del termine. E non lo è nel secondo senso. L’uomo Tolkien,
del resto, non fu né dandy né superuomo, ma fu sposo fedele, padre di
famiglia, cittadino liberale, buon cattolico, laborioso e preciso professore
universitario, ad Oxford, di filologia anglosassone medievale. E dunque, per
quanto la sua opera superficialmente sia ascritta a quel genere letterario
di consumo chiamato «fantasy», in realtà, come tutti i classici, nasce su
un ricchissimo humus culturale. Il lettore accorto, nel Signore degli
Anelli, discerne, a vari livelli di consapevolezza, l’Anello di Gige della
Repubblica platonica e quello nibelungico di Wagner; l’Edda poetica e
quella di Snorri; la missione edificatrice del «pius Aeneas» (Frodo); il
ciclo arturiano; le leggende celtiche del Mabinogion; la Navigatio Sancti
Brandani; il soprannaturale shakespeariano; Swift; la letteratura fantastica
ottocentesca inglese e americana e i marchen tedeschi del primo e del
secondo romanticismo. Ma il nostro lettore accorto discerne anche i libri
cosiddetti «storici» dell’Antico Testamento e le parabole del Nuovo; le
teologie della storia dei Padri della chiesa; la filosofia metafisica di
Tommaso d’Aquino; la dialettica del cardinal Newman. La prima cosa, però,
che colpisce il lettore di questo libro non è la cultura, ma è l’arte
narrativa; la complessa vicenda della trama è organizzata con un ritmo tale
da avvincere lungo tutte le 1300 pagine dell’opera. La varietas degli
argomenti, degli scenari, delle situazioni psicologiche dei personaggi è
molto grande ed è associata, in ciascun caso, a uno stile che adeguatamente
varia. Ammirevoli, inoltre, l’ampiezza lessicale, il ritmo interno di
ciascun capitolo, la miscela tra discorso del narratore e discorsi dei
personaggi, l’incarnazione in azioni e dialoghi del messaggio «filosofico»
dell’autore. Colpisce poi specialmente la coerenza, in un romanzo così
lungo e articolato, tra tutti gli elementi, sin nei minimi dettagli, sia
all’interno della vicenda vera e propria, sia nello sfondo
storico-mitologico di quelle tre «ere» della Terra di Mezzo di cui il
Signore degli Anelli narra solo l’ultimo anno: un vastissimo passato,
evidentemente pensato con concretezza dall’autore, dà concretezza e
profondità al presente che è messo in scena. Di questa coerenza narrativa
episodio singolare è l’universo linguistico creato ad hoc per le varie
razze della Terra di Mezzo - Hobbit, Uomini, Elfi, Nani, Orchi - dal Tolkien
filologo dell’antico anglosassone, del gotico, delle rune nordiche, del
celta-gaelico. Su molte tematiche del libro qui non mi diffondo perché
altrimenti mi farei prendere la mano e sarei troppo lungo. Rimando comunque
a due ottime introduzioni all’opera di Tolkien: sono La via per la Terra
di Mezzo e Tolkien autore del secolo, entrambi libri di Tom Shippey, secondo
me il migliore studioso di Tolkien. Qui mi limito a selezionati accenni.
Monismo metafisico e secolarizzazione: il bene e il male sono assolutamente
distinti (diversamente che in tristi aree novecentesche di tipo
esistenzialistico e nichilistico) ma non sono mai separati (e questo
diversamente dal dualismo moralistico della letteratura di consumo). Frodo,
Gollum, Saruman hanno all’interno della propria anima (e dunque non
separati) il principio del bene e il principio del male, coi loro diversi
messaggi, i loro diversi punti di forza, le loro diverse volizioni (e dunque
distinti). Anche Gandalf e Galadriel sanno che possono essere tentati e
corrotti dall’Anello del Potere. L’unico personaggio totalmente deciso,
e deciso per il male, è Sauron: ma egli è un Occhio, un’Ombra, un
Pensiero malvagio, un fumo che si alza sui campi di Cormallen, non è una
persona chiaramente concreta; in tutto il romanzo non pronuncia neanche una
parola (il Male assoluto, essendo totale privazione di bene e quindi di
essere, non è un ens realitatis, una persona storica, ma è un ens rationis,
un’idea). Il dolore ha il male dentro di sé e fuori di sé, ma non
coincide con esso: le sofferenze, non scelte eppure accettate, di Frodo e di
Sam, di Gandalf, Aragorn, Faramir, Theoden, Eomer, Pipino, Merry ultimamente
hanno una funzione salvifica: ciascuno di loro, in forma diversa secondo il
suo personale destino, cresce nella libertà e matura la propria identità
individuale. Alla fine della Guerra dell’Anello il male viene sconfitto,
almeno per quell’Era. Ma sparisce anche la bellezza elfica e i Primi Nati
migrano tristemente verso i Rifugi Oscuri e abbandonano la Terra di Mezzo.
Con essi spariscono le care individualità che abbiamo imparato ad amare
durante la vicenda: Frodo, Gandalf, Bilbo e poi anche Sam, Granpasso,
Legolas, Gimli. Secondo me Tolkien ha ragione a raccontarci la morte delle
care individualità, comunicandocene, come fa, la tristezza secondo una
tonalità non disperata ma elegiaca. Ma, secondo me, Tolkien ha torto nel
dire che, col passare delle Ere, la bellezza elfica tenderebbe a sparire: è
questo un residuo di dualismo di tipo nostalgico-conservatore che,
all’uomo Tolkien, faceva disprezzare orripilato la civiltà industriale «inquinata,
rumorosa, alienata, ecc.», e vagheggiare nostalgicamente una «sana» - ma
in realtà mai esistita - Età dell’Oro dell’ancien régime agreste,
patriarcale, quando le piccole comunità campagnole vivevano presuntivamente
«d’amore e d’accordo» immerse in una vegetazione incontaminata, ecc.
D’altra parte, qui ci interessa in primo luogo il Tolkien poeta e non il
Tolkien uomo; e, in quanto poeta, egli legittimamente descrive questa
struggente nostalgia dualistico-reazionaria per il disparire progressivo
della Bellezza Elfica. È questo un simbolo: perché realmente, in misura
varia e variamente secondo i momenti della vita, in ciascuno di noi si
manifesta una parte debole dello spirito, parte che, in effetti, coltiva e
si compiace di tale struggente nostalgia e tenderebbe a mitizzare o
l’infanzia e la gioventù proprie, o il «buon tempo antico» agreste o
eroico o religioso o aristocratico o guerriero, secondo le sfumature
ideologiche personali. Comunque questo è un dettaglio secondario: Tolkien
sa bene - e questo è invece primario nel romanzo - che ciascuna Epoca o Era
(ciascun anno, ciascun giorno) così come ha il proprio bene, ha anche il
proprio male: quindi ciascuna generazione ha la propria responsabilità
nella lotta contro il male, non può però pretendere di sconfiggerlo per
sempre per il futuro, perché questa sarebbe una pretesa frivola: le nuove
generazioni avranno la responsabilità di combattere i mali del futuro. Per
noi tutto è compiuto - ed è compiuto bene - quando con coraggio, pazienza
e speranza accettiamo la lotta contro i mali del nostro tempo. Un altro
importante messaggio è che la Via (“the Road that goes ever on”) - cioè
il destino di responsabilità e di amore di ciascuno di noi - parte
dall’uscio, magari quello di servizio, della propria casetta: confluirà
essa poi, assieme ad altre innumerevoli e impreviste Vie, nella Via più
grande, e la nostra responsabilità di discernere il bene dal male certo
potrà avere teatri vasti o vastissimi, in moti collettivi coinvolgenti
forze magari mondiali. Ma il suo punto di partenza non è in un
meraviglioso, esotico, aristocratico paese in cui arrivare attraverso
difficilissime mappe (attraverso superiori doti di intelligenza, santità,
forza o fortuna); parte invece proprio dal mio uscio di casa, parte dalla
vita quotidiana. E alla vita quotidiana ritorna: i quattro hobbit
protagonisti sono stati a Moria, Rivendell, Lorien, Rohan, Gondor, Fangorn,
Mordor, partecipando, con ruoli vari ma tutti preziosi, alla guerra decisiva
per la sopravvivenza della Terra di Mezzo in quell’Era, e acquisendo un
tesoro di esperienze e di conoscenze. Ma poi tornano a casa, nella Contea, e
la rivedono con occhi nuovi: prima, ingenuamente - e falsamente - la
pensavano idilliaca e aproblematica, ora riescono a vedere come il male
planetario abbia le sue ramificazioni anche lì, anche in Via Saccoforino. E
vedono come il male planetario d’un colpo avrebbe potuto distruggere
l’amata Contea, avrebbe potuto annichilire il giardino di casa Baggins. Ma
la cognizione del dolore e la contemplazione dei valori, la maturità
conquistata durante la Guerra dell’Anello nei lontani paesi della
conoscenza e dell’esperienza, nel mentre permettono agli hobbit di
riconoscere il male operante anche nella Contea, insieme anche offrono loro
le risorse sufficienti per fronteggiarlo. Con ciò che è stato acquisito a
Lorien, a Gondor, a Mordor ma che è ora operante qui, nello Shire, cioè
nella vita quotidiana. Tutto passa, la Compagnia dell’Anello - così
bella, così buona e amata - si scioglie e mai più, in quella forma e nella
Terra di Mezzo, potrà ricostituirsi. Eppure tutto, in quanto è fatto nel
momento in cui è giusto che sia fatto, ogni cosa, in quanto è amata nel
momento in cui è giusto amarla, è Valore ed è eterno. Paolo di Tarso era
convinto - e forse implicitamente Tolkien pensava anche a lui - che esiste
una dimensione o prospettiva della realtà, e cioè del nostro spirito, in
cui la Compagnia - quella filia di Aristotele che Tommaso traduceva con
caritas - rimane, ed è, anzi, la sola cosa che rimarrà. 1955 NORBERTO
BOBBIO, Politica e cultura (Einaudi, Torino, 2005) Norberto
Bobbio (1909-2004) ha avuto un lungo magistero diretto come insegnante prima
di Filosofia del Diritto e poi di Filosofia della Politica. Ed ebbe a dire :
"se volgo lo sguardo al passato non ho dubbi su quale sia stata la mia
principale attività : l'insegnamento". Ma Bobbio ha avuto un ancor più
lungo magistero indiretto come scrittore di libri, saggi per riviste,
articoli e interviste per quotidiani. Le sue molte opere sono state tradotte
in molte lingue, soprattutto sono conosciute e studiate nell'area ispanofona. Il
suo primo libro influente e di successo, rivolto a un pubblico colto ma non
specialista, è stato "Politica e cultura" del 1955 : la data
stessa del libro segna come una volontà di riprendere il discorso dalle
mani di Benedetto Croce, morto nel 1952. Il contenuto, oltre a intitolare
esplicitamente a Croce due dei capitoli, riprende le tematiche crociane del
liberalismo e del non asservimento della cultura alla politica dei partiti.
E le riprende non dal penultimo momento (1925-1943), cioè da quello in cui
Croce polemizzava soprattutto contro il fascismo, ma dall'ultimo
(1944-1952), cioè da quello in cui Croce polemizzava soprattutto contro il
comunismo. La
maggior parte dei capitoli che compongono il libro sono stati scritti da
Bobbio tra il 1951 e il 1954 : sono gli anni del maccartismo e assieme sono
anche gli ultimi anni dello stalinismo! Se questa era l'atmosfera per gli
ideali del liberalismo all'interno delle due superpotenze vincitrici della
seconda guerra mondiale - guerra fatta da esse contro Hitler nel nome della
libertà - possiamo capire l'urgenza militante che allora aveva Bobbio nel
polemizzare con quegli intellettuali e politici italiani che attaccavano il
liberalismo. Costoro erano poi i comunisti, e in specifico i comunisti
italiani (ed europei) così come essi erano prima della morte di Stalin e
delle denuncie fatte da Nikita Kruschev al XX congresso del partito
comunista dell'Unione Sovietica 1957
MELANIE
KLEIN, Invidia e gratitudine (Martinelli,
Firenze, 1969). È
la mente più profonda ed originale della psicanalisi dopo Freud. Nel
leggere gli scritti di Klein bisogna avere pazienza: sono ripetitivi, sono
scritti «male», legnosamente, senza una chiara architettura argomentativi
sono pieni - a livello di contenuto ideologico - di residui dualistici e
biologistici provenienti dall’impostazione positivistici freudiana. Però
l’intuito psicologico di Klein è incomparabile: lei «vede» cose che
nessun altro è riuscito a vedere. A causa delle difficoltà letterarie,
comunque, solo in sede di approfondimento successivo ti consiglio la lettura
della loro massa (Scritti 1921 - 1958, Boringhieri, Torino, 1978; La
psicanalisi dei bambini, Martinelli, Firenze, 1984). Subito, invece, ti
consiglio la lettura di questo piccolo opuscolo che, nella mente
dell’autrice, vuole essere un concentrato compendio di tutto il suo
pensiero. Per me, tre sono i principali contributi caratteristici di Klein.
Il primo è che madre/padre, narcisismo/erotismo, pulsione/sublimazione e
tutte le altre coppie freudiane sono meno importanti della coppia Oggetto
Buono e Oggetto Cattivo: non sono i contenuti empirici (maschile, femminile,
sensuale, intellettuale, ecc.) a essere o buoni o cattivi, ma tutti i
contenuti possono essere sia buoni sia cattivi, a seconda dei casi esterni e
dell’interpretazione interna del soggetto, e, per la salute mentale, è
l’esser-buono e l’esser-cattivo dell’oggetto e non il suo contenuto a
essere determinante. Il secondo contributo - anche questo in un’implicita
consonanza con la tradizione della filosofia morale - è che malattia e
salute sono caratteristiche più proprie del soggetto che dell’ambiente:
date certe condizioni del soggetto anche l’ambiente più sfavorevole non
lo distrugge, date certe altre condizioni del soggetto anche l’ambiente più
favorevole non è sufficiente a garantirgli la salute. L’ambiente - che,
per Klein, nei primi mesi di vita coincide con la madre - certamente in
primo luogo crea le diverse condizioni del soggetto, favorevoli o
sfavorevoli, ma è poi il soggetto in quanto soggetto che le rende buone o
cattive. Solo il soggetto può decidere di isolarsi dalla realtà
rifugiandosi nella malattia o, viceversa, di amare ed entrare in contatto
con la realtà. Certamente un ambiente distruttivo porterà il soggetto ad
isolarsi e un ambiente accogliente porterà il soggetto ad amare. Eppure la
decisione di isolarsi o di amare non è presa dall’ambiente; è nel
soggetto e non è nell’oggetto. Un ambiente ostile è male ma non è
malattia; un ambiente accogliente è bene ma non è salute. Questa idea è
simile a quella di Tommaso d’Aquino quando dice che, certamente, quanto è
conosciuto dall’intelletto, quanto è appetito dai sensi, quanto è mosso
da Dio, quanto è proposto dal diavolo sono tutte condizioni da cui la
volontà dell’uomo non può prescindere e, dunque, ciascuna di queste cose
è «causa» della volontà. Eppure né un concetto dell’intelletto, né
un moto appetitivo, né un dono d’amore, né una tentazione sono un atto
di volontà, e l’atto di volontà, pur condizionato da tutte quelle cose,
è però sé stesso, e le trasforma in un’azione determinata, che è
decisa dal soggetto per un fine - giusto o sbagliato che sia - proprio e non
per un fine altrui. Questa idea ha una conseguenza importante nella
psicoterapia: il terapeuta non si concentrerà sulla ricostruzione «esterna»
o «oggettiva» dell’ambiente passato e presente in cui ha vissuto e vive
il malato, ma su quella dell’interpretazione - soggettiva, interna - che
il malato ha dato e dà dei vari ambienti in cui ha vissuto, o avrebbe
voluto vivere, in cui vive o vorrebbe vivere. Kantianamente: l’analista
non ricostruisce «cose-in-sé», ma ricostruisce «fenomeni», cioè
produzioni del soggetto. Un altro importante contributo di Klein è la
cosiddetta «posizione depressiva»: per Klein ci sono due dolori
fondamentali che rappresentano due fondamentali posizioni relazionali
rispetto al mondo e cioè rispetto alle altre persone: il dolore «schizoparanoide»
o di persecuzione, che si ha quando si aggredisce per distruggere e si è o
ci si sente aggrediti e distrutti, e il dolore «depressivo» o di
riparazione, che si ha quando si teme e si soffre a causa delle sofferenze e
dei pericoli, veri o presunti, dell’oggetto amato. Il dolore depressivo
considera sempre oggetti «interi», cioè persone e non parti del corpo o
altre astrazioni; tende a «riparare» cioè a restituire benefici, a
proteggere, a nutrire, a conservare, a liberare; è un dolore che intende
una responsabilità verso il destino di un altro. Tanto meno un individuo
arriva a poter soffrire di questo dolore, tanto più sarà malato: la
capacità di godere nel mangiare, di aver desiderio e gusto nel conoscere e
nell’imparare, di avere potenza sessuale e gioia di un figlio, di provare
gratitudine nelle relazioni interpersonali in genere, sono tutti fenomeni
possibili e permessi se e solo se l’individuo ha raggiunto
sufficientemente la «posizione depressiva» (si tratta, come vedi, di uno
sviluppo della teoria freudiana su «lutto e malinconia»: alla aggressività
rancorosa della malinconia corrisponde il dolore schizoparanoide, al lutto
quello depressivo. Tanto più un individuo è sano quanto più riesce a
provare «lutto» anche quando le persone amate «intenzionalmente» lo
tradiscono; tanto più un individuo è malato quanto più prova «malinconia»
anche quando le persone amate «involontariamente» muoiono o sono
altrimenti allontanate da lui dal corso del destino. Ma si tratta anche di
un arricchimento - per quanto senza un legame così diretto - delle
tradizionali speculazioni della filosofia morale greco-romana prima e
medievale-cristiana poi su alcune virtù fondamentali nei rapporti
interpersonali: la pietà verso i genitori e altre persone congiunte da
vincoli psicologici, la clemenza verso gli offensori e i peccatori, la carità
per tutti i tipi di benefattori verso cui si riesce a sentire, per un motivo
o per l’altro, gratitudine). Oltre a questi tre contributi fondamentali,
Klein ci ha dato altre idee interessanti. In generale, il riconoscimento del
ruolo importante svolto dalla fantasia. Un caso particolare della fantasia
è l’idealizzazione, la quale spesso si manifesta come fenomeno negativo
(dice Klein: «gli individui che hanno una grande capacità di amare non
sentono il bisogno di idealizzare quanto quelli che hanno un’enorme
quantità di impulsi distruttivi e di angosce persecutorie.
L’idealizzazione sta a indicare che la spinta prevalente proviene dalla
persecuzione»), ma ha anche una funzione positiva («Ho potuto constatare
che l’idealizzazione deriva dalla sensazione innata che debba esistere un
oggetto estremamente buono, il che porta all’intenso desiderio di questo
oggetto buono e del desiderio di poterlo amare»). Le altre operazioni
fondamentali della fantasia, per Klein, sono: la scissione,
l’introiezione, la proiezione. Il mondo «obiettivo» è un’astrazione;
quello che interessa la salute e la malattia di un essere umano è il mondo
come è vissuto concretamente da lui, cosa del mondo viene frammentato e
introiettato come parte di sé, cosa del mondo rappresenta, nella proiezione
fuori di sé, parti buone o cattive di sé. Anche questo è eredità di
Kant. Questi meccanismi ci fanno capire - sulla scorta de L’Io e l’Es di
Freud - che la personalità individuale è frammentata in «parti», e che
queste parti perlomeno in quanto l’individuo è malato, sono senza
comunicazione tra loro. Un’altra idea tipica di Klein è la «legge del
taglione»: tanto uno odia, tanto egli si sente perseguitato; tanto uno
desidera e seduce, tanto egli si sente desiderato e sedotto; tanto uno
falsifica narcisisticamente la propria immagine, tanto egli si disprezza e
si odia perché si sente falso, gonfiato, vuoto; e così via. Tra gli
impulsi distruttivi, Klein dà il primato all’invidia: questa è sentita
indipendentemente dalla frustrazione: anche il bambino ben nutrito da sua
madre può invidiarle il senso nutritore: il bambino può vivere la
gratificazione senza provare gratitudine, perché è angosciato dall’idea
che la madre possieda un’inesauribile creatività che lui non possiede e
che lei amministrerebbe capricciosamente e in realtà terrebbe
essenzialmente per sé stessa al fine di appagarsi continuamente. Per quanto
Klein utilizzi ancora molti termini e concetti freudiano-biologistici, ella
ha già portato avanti la comprensione che salute e malattia della persona
non dipendono da «pulsioni» fisiche o da conflitti o abusi di «organi»,
ma da atti di volontà e dai conflitti o abusi nei rapporti interpersonali.
Gli abusi e le distruzioni pulsionali organiche certamente - e
drammaticamente - esistono, ma sono effetti e non cause. 1963 SOFIA
VANNI-ROVIGHI, Elementi di filosofia (La Scuola Editrice, Brescia,
1976) I
filosofi tardo-medievali dicevano "Aristotele è muto se Tommaso non
parla", intendendo con questa frase riconoscere il loro debito di
gratitudine verso l'opera di interpretazione, commento e contestualizzazione
che l'Aquinate fece del pensiero dello Stagirita. Applicando
tale frase al mio apprendistato filosofico, vorrei dire allora una frase
analoga: "Tommaso è silente se la Vanni non spiega". Quest'opera
di introduzione generale alla filosofia sistematica, scritta da Sofia
Vanni-Rovighi (neotomista italiana del XX secolo) è stata per me infatti il
libro fondamentale per lo studio
delle discipline filosofiche: gnoseologia, logica, metafisica, filosofia
naturale, etica, estetica. Tommaso d'Aquino è qui la stella polare, ma
Platone, Agostino, Cartesio, Kant, Hume, Hegel, Husserl e tanti altri sono
citati e discussi, e - tutti - contestualizzati e criticati con grande
chiarezza espositiva e grande rigore logico, riconoscendone gli apporti dati
al pensiero, ma avendo sempre in mente che il pensiero (e la sua verità, la
sua chiarezza, la sua sistematicità) e non i pensatori sono la cosa più
importante: questo è lo spirito della “perennis philosophia” ...
cioè di chi mostra che la filosofia non
è una “gabbia di matti” (ciascun filosofo ha ribaltato tutto quanto
detto da tutti gli altri, per spirito di superbia, bizzarria ed anarchia),
ma è invece il lungo, faticoso e drammatico percorso di una scoperta
collettiva della Verità. Verità
mai definitiva, eppure
sempre più esente da errori e con sempre maggiore fecondità più
integrante i temi , i punti di vista apparentemente tra loro eterogenei e
irrelati. In
mezzo alla selva selvaggia di libri di filosofia o di storia della filosofia
che io giovane cercavo di attraversare ora timoroso ora inorridito ora
stremato e confuso, questo libro della Vanni è stato una mappa di
orientamento decisiva ed affidabile. Intellettualismi narcisistici,
latinorum impossibili, sbrodolamenti retorici, collassi logici, erudizioni
gratuite, frammentarismi anarchici potrebbero rendere "misologo"
ben più di un giovane (o non giovane) neofita negli studi filosofici. La
lettura di questi Elementi, invece, può incoraggiarlo a persistere e a
sperare che alfine "rivedrà le stelle". Un
esempio particolare dei contenuti: la teoria gnoseologica medievale e
tomista del "realismo moderato" viene dalla Vanni interpretata e
presentata alla luce degli a priori kantiani, del pragmatismo ottocentesco,
dell'empirocriticismo di Mach e dell'epistemologia popperiana, realizzando
così in concreto ciò che sempre dovrebbero fare un vero storico della
filosofia e un vero filosofo: collegare nella propria mente - con acutezza e
originalità - il pensiero dei vari autori, mostrando (sul piano storico) lo
sviluppo dall'uno all'altro, e (sul piano teoretico) la reciproca
contraddizione e la reciproca integrazione delle idee. 1965
DONALD
WINNICOTT, Sviluppo affettivo e ambiente (Armando, Roma, 1970). Psicanalista
inglese influenzato da Melanie Klein, Winnicott non è uno scrittore molto
sistematico; a volte il tono scanzonato e le incoerenze possono irritare il
lettore. Ma egli amava molto il suo lavoro di terapeuta e i suoi pazienti,
era dotato di grande sensibilità psicologica e ci ha lasciato dei
contributi originali. Ne ricordo due. Il «falso Sé», cioè il Sé
sottomesso e apparentemente sano (agli occhi di una comunità distratta) che
nasconde il Sé spontaneo e reale rinchiuso in un mondo segreto e solitario.
L’identificazione: una mamma o uno psicanalista sono sufficientemente
buoni non in ragione della scientificità delle proprie interpretazioni del
bambino o del malato, ma in ragione della propria capacità di identificarsi
nel bambino o nel malato, rimanendo però sé stessi, cioè un passo più
avanti di lui sulla strada della maturità e della salute. 1960
- 1971 DONALD
WINNICOTT, Dal luogo delle origini (Cortina, Milano, 1990). Interpretazioni,
sempre intelligentemente superatrici dei luoghi comuni, di vari fenomeni
della psicologia individuale e collettiva: il concetto di salute e il
concetto di malattia; tipologia delle psicoterapie; il ruolo sociale della
madre; l’apprendimento infantile; la psicologia dell’adolescente; il
femminismo; la monarchia; la democrazia. 1970
JACQUES
MONOD, Il caso e la necessità (Mondadori, Milano, 1988). Non
ti consiglio, per ora, la lettura della principale fonte originale, e cioè
dell’Origine della specie di Charles Darwin, perché questa è appesantita
da troppe dimostrazioni particolari. Ti consiglio, invece, questo breve
libretto, molto più recente, che cerca di divulgare - con competenza: Monod
è premio Nobel per la medicina - le tesi essenziali di quell’opera
capitale. L’idea fondamentale di Darwin, in anticipo rispetto a tutti gli
altri scienziati e filosofi, è che l’evoluzione della vita avviene non
per un «progetto» o «tendenza», ma per il combinarsi di una ferrea
casualità e di una ferrea necessità: mutazione puntiforme e selezione
naturale. Platone, Hegel e tutti gli altri pensavano che l’«Idea»
progressivamente scendesse dal suo iperuranio e creasse la Storia,
sospingendola a realizzare i suoi fini. Dopo Darwin, invece, cominciamo a
intravedere un’altra realtà, come dice Monod: «Il destino viene scritto
nel momento in cui si compie e non prima». E solo nel Novecento Croce e
Popper avrebbero difeso, da un punto di vista più generale rispetto a
quello darwiniano delle scienze biologiche, l’imprevedibilità e
l’assoluta novità del futuro. La teoria dell’evoluzione darwiniana è
un pilastro portante di ogni filosofia antidualistica o, come anche si dice,
«immanentistica» o «desacralizzata» o «secolarizzata». 1970
HENRI
F. ELLENBERGER, La scoperta dell’inconscio (2 voll., Boringhieri,
Torino, 1986). Il
filosofo Schopenhauer scrisse che «il magnetismo [ciò che ora chiamiamo,
nelle psicoterapie, il “transfert”], dal punto di vista filosofico, è
la scoperta più gravida di contenuto che sia mai avvenuta». Questo libro
di Ellemberger costituisce un’importante integrazione ai manuali
professionali-accademici di storia della filosofia (che ingigantiscono
alcune dispute verbalistiche di professori quali Fichte o Schelling o
Husserl o Heidegger, e ignorano le ricchezze di pensiero presenti nella
storia della scienza, nella teologia, nelle opere dei poeti e dei
romanzieri, nella storia delle mentalità. Qui l’autore narra la storia
della psicoterapia dagli sciamani preistorici e dai santi cristiani, a
Mesmer e ai magnetizzatori, alla natur-philosophie idealistica, a Charcot,
Janet, Freud, Adler, Jung e ai postfreudiani. Emerge una linea di sviluppo:
la sempre più esplicita coscienza che la forza fondamentale che guarisce le
malattie psichiche è il rapporto interpersonale buono (transfert,
traslazione), mentre il resto - cioè l’apparato conoscitivo delle
interpretazioni singole, della caratteristica psicologica, della
metapsicologia - pur se fondamentale, è però secondario e costituisce più
che altro il veicolo simbolico, cioè comunicativo, in cui s’incarna, in
maniera varia secondo la varietà dei tempi e degli ambienti culturali, ciò
che è primario. Non è un libro teoreticamente molto originale, né scritto
molto bene; è però pieno di informazioni altrimenti difficilmente
collezionabili e di stimoli per il pensiero. Un esempio è il rapporto,
documentato, tra la natur-philosophie idealistica e Freud attraverso la
mediazione di G.T.Fechner. Questo è un contributo storiografico veramente
originale, ed è molto importante perché permette di capire - anche se lo
spunto deve essere ancora lungamente sviluppato - come il nucleo realmente
filosofico e nuovo del pensiero di Freud sia figlio della storia della
filosofia e, dunque, erede dell’ultima importante filosofia a lui
precedente, l’idealismo tedesco: «Tutto è Spirito, anche la Natura»,
cioè: la «natura» umana (sensazioni, sentimenti, pulsioni, istinti,
passioni) dipende, nel bene e nel male, dalla «ragione» umana (percezioni,
concetti, pensieri, giudizi, ragionamenti, teorie, atti di volontà,
progetti), dai vizi e dalle virtù di questa, e non è una realtà separata
ed autonoma. 1971
FRED
UHLMAN, L’amico ritrovato (Feltrinelli, Milano, 1990). Breve
e commovente romanzo ambientato agli esordi del Terzo Reich; in cui si
mostra che, se è valida l’opinione degli antichi (la verità e la virtù
permettono l’esistenza dell’amicizia), è valida anche l’opinione dei
moderni (l’amicizia permette l’esistenza della verità e della virtù). 1977
STEPHEN
JAY GOULD, Ontogeny and Philogeny (Harvard University Press,
Cambridge Mass., 1977). Paleontologo
ad Harvard, Gould è secondo me il più importante biologo del XX secolo
(migliore di Jacob, di Monod, di Mayr, per non parlare di Lorenz). Ha
vissuto poco ma scritto molto e ti consiglio tutti i suoi libri, che sono
intelligenti, molto colti e quasi tutti godibili alla lettura. Questo,
invece, è un libro tecnico e pesante da leggere. Però stimola molto il
pensiero presentando una biologia veramente darwiniana, veramente non
lamarkiana, da cui rampollano molte analogie per la psicologia, la
sociologia, la morale. Gould discute la cosiddetta «legge biogenetica» o
anche detta «legge di Haeckel», che recita: «l’ontogenesi ricapitola la
filogenesi» (cioè: lo sviluppo individuale, prima di raggiungere la sua
forma matura, passa attraverso tutte le forme mature degli antenati
evolutivi). Appoggiandosi al grande embriologo Van Baer, Gould mostra che
questa legge non è vera: in realtà ciò che appare nell’embriogenesi
sono i caratteri generici, precedenti nel tempo quelli specifici. Siccome i
caratteri generici sono comuni con gli antenati evolutivi, ciò dà
l’illusione della «ricapitolazione»: ma in realtà le fasi embrionali di
un individuo più evoluto somigliano solo alle fasi parimenti embrionali
degli individui meno evoluti e non alle fasi adulte di essi. La visione di
Haeckel è chiaramente pessimista: in campo morale ciascuno di noi dovrebbe
ripetere le scelte dei propri antenati, e il nostro bagaglio storico sarebbe
solo un «eterno ritorno» del passato (nihil sub sole novum). Ciò che
accade veramente è invece che in ciascuno di noi si ripresentano le
possibilità di scelta degli antenati, ma la scelta in sé è nuova, ed è
nostra. Inoltre, la legge di Haeckel pretende di universalizzare il modello
dell’«accelerazione ed addizione terminale» (l’individuo più evoluto
vivrebbe più velocemente le fasi di maturazione degli antenati meno evoluti
e poi aggiungerebbe - avendo disponibile un tempo residuo - qualcosa in più,
che porta avanti l’evoluzione). La genetica, invece, ha mostrato che
l’addizione dei caratteri è improbabile, l’addizione terminale poi è
statisticamente quasi impossibile, e quello che accade ordinariamente è
invece una sostituzione casuale dei caratteri. E l’osservazione
macroevolutiva ha mostrato che il ritardo è un fenomeno tanto diffuso
quanto l’accelerazione. Il ritardo dello sviluppo - per cui l’individuo
discendente ha come caratteri adulti quelli che per l’antenato erano
caratteri giovanili - si chiama «neotenìa». Gould mostra come oggi vi sia
quasi unanimità tra i biologi: quella specie animale che è homo sapiens si
è evoluta culturalmente grazie al fenomeno biologico della neotenia; e
ripete con Bolk: «Cosa è essenziale all’uomo in quanto organismo? Il
lento procedere del corso della sua vita». 1980
ALICE
MILLER, La persecuzione del bambino Tre
storie di tre infanzie, narrate con ricchezza documentaria: una
tossicodipendente terminale; un maniaco sessuale; Adolf Hitler. È un libro
che aiuta a simpatizzare col precetto evangelico «Non giudicare!» ed ad
adottare la massima «Tout comprendre est tout pardonner». Miller non
pretende di spiegare l’origine del male, ma ci informa su come tre
individui «cattivi» avessero qualche ragione per essere tali. 1985 NORBERTO
BOBBIO, Liberalismo e democrazia Quasi
tutti, quando - poniamo alla televisione - sentono pronunciare da qualche
politico o qualche giornalista le parole "liberale",
"democratico", "liberaldemocratico", non riescono a
distinguerne i significati e magari neanche ci provano. E così li
confondono. Questo
volume di Norberto Bobbio vuole essere un antidoto contro tale confusione,
perchè esso differenzia con grande chiarezza i vecchi, venerabili e ancora
attuali concetti di Liberalismo e Democrazia. Essendo
il liberalismo e la democrazia due risposte a due problematiche politiche di
genere essenzialmente diverso, lungo la storia si comportano come variabili
indipendenti : sono esistiti ed esistono Stati n´ liberali né democratici,
liberali ma non democratici, sia liberali sia democratici. Più inquietante
- anche perché più direttamente confligge col Luogo Comune che confonde
liberalismo e democrazia - è il fatto che sono esistiti ed esistono Stati
democratici ma non liberali. Questo ultimo fenomeno era stato previsto dal
pensatore liberale Alexis de Tocqueville già nel 1840 e lo aveva chiamato
"tirannia della maggioranza". 1986
PRIMO
LEVI, I sommersi e i salvati L’autore,
ebreo, internato ad Auschwitz, sopravvissuto, dopo la guerra lavorò come
chimico, si sposò, scrisse vari libri sulla propria esperienza nei lager,
fece un’attiva propaganda educativa nelle scuole per far ricordare cosa fu
il nazismo. Questo libro, l’ultimo prima della morte, è un riepilogo dei
suoi messaggi. Il nazismo fu essenzialmente menzogna: la menzogna distrugge,
infine, anche chi la fabbrica credendo di padroneggiarla: infatti i nazisti
e Hitler, dopo averla riversata sul popolo tedesco, ne furono dominati essi
stessi e non riuscirono più a discernere da essa i fatti della realtà; e
si gettarono a capofitto in una sanguinosa e degradante sconfitta. Il
nazismo fu un totalitarismo: con questa parola si indica un potere che cerca
di penetrare in tutti gli ambiti della vita senza rispettarne la complessità,
il pluralismo, la divisione dei poteri singoli, il cono d’ombra del
privato, il mistero dell’ignoto o del non ancora noto. Il lager
rappresenta la forma pura del totalitarismo: «Una
qualche forma di retroazione, un correttivo all’arbitrio totale, non è
mai mancato neppure nel Terzo Reich, né nell’Unione Sovietica di Stalin;
nell’uno e nell’altra hanno fatto da freno, in maggior o minor misura,
l’opinione pubblica, la magistratura, la stampa estera, la chiesa, il
sentimento di umanità che 10 o 20 anni di tirannide non bastano a
sradicare. Solo dentro il lager il controllo dal basso era nullo, ed il
potere dei piccoli satrapi era assoluto. Il potere è come la droga: il
bisogno dell’uno e dell’altra è ignoto a chi non li ha mai provati, ma
dopo l’iniziazione, che può essere fortuita, nasce la dipendenza e la
necessità di dosi sempre più alte, nasce anche il rifiuto della realtà e
il ritorno ai sogni infantili di onnipotenza». Questa
forma di potere, senza freni, rende necessariamente molto malvagio chi lo
usa: l’uomo - e Levi non prova ad indagare i perché, ma è fermissimo a
testimoniare il fatto - diversamente da Dio non è capace di gestire per il
bene un potere onnipotente. L’autore confuta molti luoghi comuni
dell’etica popolare. Non è vero che nella comune disgrazia nasca la
solidarietà: Levi parla di una «zona grigia» che si creava nel lager e
cioè di una crescente difficoltà a discernere il bene dal male: era facile
confondersi perché ovunque il potere onnipotente suscitava il privilegio; e
così il proprio compagno, destinato alla comune morte, per ritardarla di un
giorno o per sperarla un po’ meno atroce, era disposto a ignorare
l’altrui bisogno, a tradire, a infierire anche, in quanto identificato
nella ferocia dei potenti carnefici. Non è vero che la vergogna sia
l’emozione propria del criminale: erano le vittime a vergognarsi molto più
dei carnefici. Come Tommaso d’Aquino, Levi parla di un motivo di questo
paradosso: il luogo comune - e noi tutti abbiamo al nostro interno una parte
che è schiava dei luoghi comuni - ritiene buoni i materialmente forti e
cattivi i materialmente deboli, e dunque narcisisticamente si vergogna di
essere tormentato da un ingiusto persecutore, in quanto il subire un
tormento è una forma di debolezza materiale-esterna. Il luogo comune contro
cui principalmente polemizza Levi è quello delle ideologie di tipo
radicaleggiante-utopistico (come per esempio il marxismo) secondo le quali i
gruppi sociali più poveri e oppressi saranno loro a trovare la motivazione
per combattere l’ingiustizia e a trainare l’intera società verso una
migliore vita civile morale. Invece: «Quanto
più dura è l’oppressione, tanto più diffusa tra gli oppressi è la
disponibilità a collaborare col potere. In ogni caso, si osserva che alla
testa del movimento non figurano mai gli individui più oppressi: di solito,
anzi, le rivoluzioni sono guidate da capi audaci e spregiudicati, che si
gettano nella mischia per generosità (o magari per ambizione) pur avendo la
possibilità di vivere personalmente una vita sicura e tranquilla, magari
addirittura privilegiata. L’immagine, tanto spesso replicata nei
monumenti, dello schiavo che spezza le sue pesanti catene, è retorica: le
sue catene vengono spezzate dai compagni i cui vincoli sono più leggeri e
più lenti». È
l’idea che dà il titolo al libro: i testimoni più completi dell’orrore
dei lager sarebbero coloro che ne hanno toccato il fondo di violenza e di
degradazione, ma costoro non possono testimoniare, perché non ci sono più,
sono stati «sommersi». A testimoniare c’è invece chi, come Levi (che
era un chimico e fu usato dai nazisti come tecnico di laboratorio), ha
potuto godere di qualche privilegio e risulta essere nel numero dei «salvati».
Una conseguenza specifica di questa situazione è il dolore: nel lager il
dolore era più forte nei primi giorni, poi diminuiva perché l’individuo
diventava sempre più malato - più corrotto, più disperato - e dunque
sempre meno ospitava dentro di sé quella parte sana e vitale che è la sola
a potere provare dolore. Così, anche, il dolore ricominciò lancinante a
farsi sentire dai «salvati» quando questi videro entrare i liberatori:
infatti allora si riprospettava loro la vita con le sue responsabilità
verso sé e verso gli altri. Vita, cioè il bene, ma con la coscienza della
distruzione operata: da cui il dolore. Levi cita il poeta Leopardi per
confutarlo: non è vero che il piacere sia generato dalla fine di un male («passata
è la tempesta»): la fine o l’attenuarsi di un male, pur portando
naturalmente motivi di gioia, non può essere senza dolore (lo psicanalista
Winnicott era dello stesso parere: secondo lui le persone sane soffrono
molto di più delle persone malate - per esempio gli internati in un
ospedale psichiatrico - le quali hanno perso molta della loro capacità di
sopportare il dolore). 1989 SIMON
SCHAMA, Cittadini. Cronaca della Rivoluzione Francese A
duecento anni dalla Révolution, questo libro sembra esser l'inveramento del
progetto incompiuto di Manzoni : raccontare la rivoluzione francese evitando
sia le secche dei Reazionari (e oggi dei neoreazionari e revisionisti che
vorrebbero presentare la Révolution e addirittura l'Illuminismo come
"i presupposti del totalitarismo comunista e ateo"), sia le paludi
dei Giacobini (e fino a ieri dei marxisti). Con
tutta la vasta erudizione documentaria e tutta la variegata strumentazione
di scienze umane proprie di uno storico liberale di Harvard dei nostri
giorni, Schama si disincaglia dal riduttivismo economicistico degli storici
marxisti e ripristina - contro i machiavellismi sia comunisti sia reazionari
- un punto di vista etico. Egli scrive : "Il
libro tenta di affrontare da vicino il doloroso problema della violenza
rivoluzionaria. Gli storici, temendo di dar adito a sensazionalismi o di
venir presi per biechi controrivoluzionari, si sono dimostrati restii ad
affrontare questo problema ; io l'ho posto al centro della mia
argomentazione proprio perché non credo che si trattò di un infelice
sottoprodotto della politica, o di uno sgradevole mezzo grazie al quale
furono conseguiti fini più virtuosi o furono sventate mire abiette. Tocqueville
intuì gli effetti destabilizzanti della modernizzazione prima della
Rivoluzione. Seguendo questa intuizione è possibile oggi riconoscere nel
regno di Luigi XVI una cultura e una società afflitte più
dall'inclinazione al cambiamento che alla resistenza ad esso. Per converso
ritengo che la violenza rivoluzionaria fu originata in misura maggiore
dall'avversione alla modernizzazione che dall'insofferenza per la velocità
del suo corso." Approfonditi
e appassionanti sono i ritratti di singole personalità come Re Luigi, Maria
Antonietta, Hérault, Linguet, David, Malesherbes, Talleyrand, Robespierre,
Danton, Marat, Desmoulins e tanti altri. Schama,
secondo me, è tra i migliori storici di oggi; per le tematiche
"anglofile" che percorrono questa mia lettera potresti far
riferimento a un altro suo libro : A History of Britain. 1992 SEBASTIANO
VASSALLI, Marco e Mattio Vassalli
è un autore che - sulla scia manzoniana - scrive romanzi storici : La
Chimera tratta l'Inquisizione del XVI secolo, Marco e Mattio la
vita contadina e l'avventura napoleonica alla fine del XVIII; Il Cigno
la collusione tra mafia e politici corrotti nel XIX secolo crispino ; Cuore
di pietra il fascismo del XX secolo; Archeologia del presente il
movimento sessantottino e i decenni successivi fino ad oggi. Tra
questi romanzi prediligo Marco e Mattio, in cui uno dei due protagonisti
(don Marco) è un personaggio mitico e non realistico: con vari nomi e vari
volti e ruoli è l'Ebreo Errante (forse, l'incarnazione del Diavolo), mito
europeo plurinazionale e plurisecolare che proprio con l'Età Napoleonica si
esaurisce. L'altro (Mattio Lovàt) è invece un personaggio realistico e in
parte anche reale (Vassalli usa documenti storici del Morocomio di San
Servolo): un carbonaio e poi ciabattino in un villaggio di montagna dove
nella povertà trascorse le dolorose vicende della sua vita, ma fu anche
marginalmente coinvolto da quelle della Storia con la maiuscola, e poi
sviluppò via via una malattia mentale che - tra le altre cose - lo convinse
di esser una sorta di messia e tentò, da solo, di crocefiggersi e anche ci
riuscì, ma sopravvisse e finì internato come matto a Venezia. È il
racconto della vita unica ed irripetibile di un Individuo povero e debole e
come sopraffatto dalle enormi Forze delle Mentalità, delle Ideologie, dei
Pregiudizi, delle Ignoranze, degli Interessi, presenti sia nel mondo a lui
esterno sia nel suo mondo interiore. Era un "sommerso" dalla
Storia e candidato ad essere - come centinaia di milioni di altri Individui
- un sommerso ignoto, se non fosse stato per il referto clinico di uno
psichiatra del Morocomio veneziano che ci ha lasciato notizie di lui. Di
Napoleone è giusto chiederci, con Manzoni : "Fu vera gloria?". Di
Mattio Lovàt verrebbe da chiedersi: "Che significato ha avuto per il
mondo la vita di questo umile?". Scrive Vassalli: "Mattio
credeva di dovere salvare il mondo e morì per salvarlo: lo salvò? Chissà.
Il senso pratico - il è buon senso', a cui la maggior parte delle persone
crede di ispirare le proprie azioni - ci induce a sorridere di une simile
ipotesi; ma nel mondo governato dal buon senso, per nostra fortuna, di tanto
in tanto affiorano degli uomini che ci passano vicino e che poi scompaiono
portandosi appresso universi di domande, a cui sarebbe troppo facile, o
troppo stupido, rispondere...Uomini che ci salvano : ma sì! Anche se il
nostro mondo non meritava il sacrificio di Mattio Lovàt, lui non aveva
altri mondi per cui sacrificarsi: e ci ha salvati, o, quanto meno, ha
creduto di salvarci... La
passione di Mattio fu molto lunga, le circostanze della sua morte possono
apparire banali: non altrettanto può dirsi degli effetti, che furono
grandiosi. A partire dall'8 aprile 1806 incominciò il declino di quel
Bonaparte in cui Mattio, e moltissimi altri come lui, avevano visto
l'incarnazione stessa delle forze del male. Le cose del mondo, rimescolate a
lungo e con molto vigore tra di loro, si fermarono a poco a poco e si
riassestarono, non più secondo l'ordine antico ma secondo un ordine nuovo,
che si sarebbe venuto disvelando nei decenni e nei secoli successivi. Tutto
accadde apparentemente da sè.... Insomma
e per farla breve, da quel lontano giorno d'aprile del 1806 tutto nel mondo
incominciò a volgere al meglio, cioè al presente: a questo nostro presente
pieno di cibo, di soldi, di automobili e d'ogni altro genere d'abbondanza,
che non sarebbe com'è, o, forse, non esisterebbe nemmeno, se Mattio Lovàt
non avesse patito, e non fosse morto, per liberarci dal passato. Addio,
Mattio!". L'autore,
cioè, in maniera poetica vuole suggerire che, al di là delle apparenze, la
Storia è fatta non solo dai Napoleoni, ma da tutti, e che ciascuna
individualità è preziosa e insostituibile per lo strutturarsi dinamico
(storico) del nostro unico Mondo. Non abbiamo una mente capace di vedere in
concreto come questo avvenga, se una tale mente esistesse potrebbe esser
solo quella divina. Ma anche se non "vediamo" (non
"conosciamo", direbbe Kant) come è fatta in concreto questa rete
di rapporti reciproci e necessari tra tutti gli enti, però
"crediamo" ("pensiamo", direbbe Kant) che essa esista. 1996 LUCIO
RUSSO, La rivoluzione dimenticata I
Greci nel III secolo avanti C. (la cosiddetta età ellenistica) avevano
sviluppato le varie scienze matematiche e naturali a un livello che fu prima
perduto poi recuperato pienamente solo con la fine del XVII secolo dopo C.
L'autore, che oltre a esser e un fisico e un matematico è anche un filologo
classico, con abbondanza di esempi mostra questo fatto storico sconosciuto
quasi a tutti. La
causa della dimenticanza della scienza ellenistica fu la conquista romana,
nel II secolo a. C. : la civiltà di Roma era assai diversa da quella
ellenistica e non interessata alle scienze. Plinio il Vecchio (I secolo d.
C.) fu considerato il maggiore scienziato di Roma, ed era incapace di
comprendere i trattati scientifici ellenistici. Scrive Russo: "La
difficoltà che si prova nel tentare di inquadrare storicamente fatti e
personaggi del III secolo a. C. è strettamente connessa alla nostra
profonda ignoranza di questo periodo, che è stato quasi cancellato dalla
storia. In
primo luogo, infatti, non coi è rimasto alcun resoconto storico continuato
tra il 301 a. C. e i 221 a. C.. Non solo non abbiamo le opere storiche
ellenistiche, ma anche dell'opera del romano Tito Livio ci manca la seconda
parte, che riguardava il periodo dal 292 al 219 a. C. Forse non è un caso.
La tradizione ci ha conservato la storia della Grecia classica e quella
dell'ascesa di Roma. La storia del secolo della rivoluzione scientifica è
stata dimenticata con il ritorno della civiltà a uno stadio prescientifico. Quasi
tutti gli scritti dell'epoca ellenistica si sono perduti. La civiltà che
tra le tante conquiste intellettuali ci ha lasciato anche l'idea stessa
delle biblioteche e della gelosa conservazione del pensiero del passato è
stata cancellata con le sue opere. Le poche opere scientifiche rimaste ci
sono state trasmesse da Bizantini e Arabi. L'Europa non aveva conservato
nulla.. La
gravità della distruzione della distruzione delle opere ellenistiche è
stata spesso sottovalutata, in base all'ottimistica teoria che quelle
sopravvissute fossero le opere migliori. Purtroppo questa visione
ottimistica è priva di fondamento. Infatti le opere migliori non possono
salvarsi grazie a un meccanismo automatico di selezione naturale in presenza
di una generale regressione del livello di civiltà. Il fatto che la stessa
tradizione che ci ha conservato integralmente i 37 libri della Naturalis
Historia di Plinio avesse trascurato di tramandarci le poche
fondamentali pagine del trattato di Archimede Sul Metodo è da solo una
prova che questo sia proprio il nostro caso. La selezione dei posteri ha
privilegiato le compilazioni o comunque le opere scritte in un linguaggio
ancora comprensibile nella tarda Antichità e nel Medio Evo.” Non
fu dunque il cosiddetto "oscurantismo della chiesa cristiana" la
causa (contro il diffuso luogo comune) , ma l'imperialismo di una civiltà
culturalmente arretrata quale quella di Roma. Scrive un recensore del libro
di Russo : "Il
lentissimo recupero della scienza Greca cominciò nel tardo Medio Evo e
continuò per tutto il Rinascimento fino al XVII secolo (incluso). Molte
delle invenzioni "originali" di questo periodo (l'idraulica, la
costruzione dei fari, l'ottica...) non sono altro che l'effetto di una nuova
capacità di comprendere i testi greci. Lo stesso Galileo, spesso presentato
come colui che rompe con la tradizione aristotelica, riprende temi e
argomenti ellenistici. La sua formulazione del principio d'inerzia ricalca
quella di Erone, vecchia di quasi duemila anni: 'Dimostreremo che i pesi che
hanno una tale posizione [cioè su un piano orizzontale privo di attrito]
possono essere mossi da una forza minore di qualsiasi forza data'." All'epoca
i protagonisti della rivoluzione scientifica Rinascimentale avevano ben
presente questo loro debito di gratitudine verso la scienza greca. Nel XVIII
secolo invece, "la
scienza europea, convinta di poter finalmente camminare con le proprie
gambe, visse, attraverso l'ideologia illuministica, un violento fenomeno di
rigetto dall'antica cultura da cui era nata e di rimozione del suo ricordo.
Fu allora che ci si convinse che la pneumatica fosse nata con Torricelli,
seppellendo le opere pneumatiche di Erone e di Filone di Bisanzio nell'oblio
in cui sono sostanzialmente rimaste fino ad ora; l'idea eliocentrica, che da
sempre era stata legata al nome del suo ideatore, Aristarco, divenne l'idea
copernicana e Aristarco fu relegato nel ruolo di prematuro è precursore.
Tutti i ritrovati tecnologici ellenistici furono considerati dei precursori'
delle loro imitazioni moderne. La storia millenaria di riflessioni sulla
gravitazione fu cancellata anch'essa dalla conoscenza collettiva, che accettò
che si fosse trattato di un parto improvviso del genio di Newton." Per
gli scopi della mia lettera il libro di Russo ci suggerisce alcune cose:
come l'idea di un progresso lineare sia semplicistica ; quanto possa essere
distruttiva la brama del potere ; quale possa essere - in certe circostanze
- l'impotenza a ricordare nella mente umana ; come il narcisismo (in questo
caso quello della cultura europea dal XVIII secolo
in poi) possa deformare la conoscenza dei fatti storici.
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Franco Manni indice degli scritti Maurilio Lovatti main list of online papers
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