Franco Manni

 

 

Un sacerdote: Antonio Landi

 

 

Tratto da Tabor Rivista della società operaia per la vita spirituale e culturale dei laici

anno 39, n. 3, maggio - giugno 1985, pp. 18 - 23

 

 

 

 

 

CENNI BIOGRAFICI
Il 4 maggio 1985, dopo molti mesi di degenza ospedaliera e di grandi sofferenza, è morto a Pisa monsignor Antonio Landi, ucciso da un cancro al fegato. Era nato a Pisa l'8 febbraio 1917, non conobbe il padre che morì subito, la madre fu costretta per molti anni a stare a servizio e così il piccolo Antonio crebbe in una famiglia adottiva, peraltro priva di fede religiosa. Il suo benefattore fu mons. Pio Parenti che gli fu catechista da ragazzino, suscitò in lui la vocazione e, vistane la viva intelligenza, doro gli studi al seminario pisano gli procurò, grazie al cardinale carmelitano Rossi, di andare a Roma ospite del Seminario Francese e studente alla Università Gregoriana. Fatto sacerdote dal vescovo Vettori nel 1939 fu cappellano dal '41 al ‘43 e poi parroco di San Martino a Pisa-sud fino al ‘48. Fatto canonico del Duomo e monsignore nel ‘49 ebbe vari incarichi nell'Azione Cattolica e nell'ufficio catechistico. Intanto, durante l'occupazione tedesca, era stato ispiratore della fondazione della D.C. pisana e in tutto il dopoguerra fu molto attivo nei «comitati civici». Ma la sua attività prevalente fu quella di insegnante, per quarant'anni, al seminario, soprattutto di Sacra Scrittura. Net 1964 fu tra gli organizzatori del Congresso Eucaristico che si tenne a Pisa in concomitanza del Vaticano II; tra gli anni ‘60 e ‘70 partecipò a numerosi congressi nazionali e internazionali di scienze sacre, soprattutto a quelli dall'Associazione Biblica Italiana, Ente che volle ringraziare nel suo «testamento spirituale». L’ultima sua opera fu la creazione di una scuola diocesana di teologia per laici, di corso quadriennale, frequentato da centinaia di allievi.

COSA DICEVA, COME ERA
lo ho avuto occasione — come poi dirò — di ascoltare molto a lungo mons. Landi negli ultimi cinque anni della sua vita e in quella sede di «riepilogo narrativo» e di «insegnamento morale» che nasce dal seguente scenario: un uomo anziano so molte esperienze e meditate opinioni, un uomo giovane curioso e studioso. Uno scenario che impone una comunicazione prevalentemente a senso unico, ameno a livello verbale. Sul «cosa diceva mons. Landi» credo, perciò di poter dare un contributo originale.
«Come e quando ti è sembrata di avere una più diretta e certa esperienza di Dio?».
«Quando ero giovane parroco e assistevo la lunga e dolorosa agonia di un ragazzo, segretario di sezione comunista del quartiere che con crescente devozione si era riaccostato — nei mesi precedenti la morte — ai sacramenti e alla fede cristiana, fino a che affermò di essere contento di essere scarnificato e sofferente come e insieme a Gesù Cristo. Lì, più che in qualsiasi momento della mia vita, vidi la mano di Dio agire con forza ben al di là delle capacità umane di quel ragazzo malato, incolto e corrotto dall'ideologia atea e delle capacità umane di me sacerdote giovane, inesperto e impacciato di fronte alla crudeltà fisica della malattia. Per il resto devo dire che in quarant'anni di sacerdozio non mi è mai capitata un'esperienza “mistica” nella preghiera e nel sacrificio eucaristico o tantomeno nella contemplazione della natura o di un'opera d'arte; mi dispiace, ma purtroppo a me tali incontri mistici con Dio non sono mai stati concessi…»

E lo diceva con un velo di bonaria ironia (tutto il discorso era nato dalla lettura di un libro di Baget-Bozzo che parlava continuamente di una Voce dello Spirito Santo). Questo su Dio. Sulla vita del cristiano mons. Landi aveva tre massime che mi ripeteva spesso, a commentare a volte i suoi guai e a volte i miei e la tendenza al pessimismo comune a entrambi: 1) il cristiano durante le sofferenze deve ricordare che al di sopra di ogni barriera di nuvole temporalesche c'è, costantemente e in pace, la luce del sole; 2) il cristiano di fronte alle ciclopiche ingiustizie del Mondo e alla smarrita coscienza della propria debolezza, deve ricordare che quando le tenebre sono realmente fitte anche una fiammella molto fioca riesce a farsi vedere e a essere un riferimento certo per gli altri; 3) il cristiano di fronte alle tentazioni del Mondo che spingono a far progetti per il futuro e a scoraggiarsi o a esaltarsi se questi progetti vanno bene o male, deve ricordarsi che a ogni giorno basta la sua croce, senza farvi pesare quelle (presunte) future, e che per seguire Gesù ogni giorno bisogna prendere la croce (Luca, 9, 23).
«Qual è il comandamento mosaico più contravvenuto?».
«Il settimo».
Mons. Landi, per diversi anni «uomo d'azione», sapeva bene la positività della prudenza, del compromesso, della diplomazia. Ma queste cose, diceva, sono buone solo se sono la forma «paziente» della verità, se invece vanno contro la verità sono completamente da respingersi. La verità era per lui un valore primario, al di sopra di ogni calcolo e anche di ogni pia intenzione, a qualsiasi livello di rapporto umano. Più volte, a proposito dei moribondi e dei malati incurabili, mi disse chiaramente che era dovere degli amici, dei familiari, dei medici, del sacerdote porre senza cincischiamenti il malato di fronte alla verità della propria condizione (con amarezza, purtroppo, devo dire che durante i suoi ultimi nove mesi di vita, colpito dal cancro mortale, mons. Landi fu costantemente e solidamente da tutti tenuto all'oscuro sulla natura del proprio male, anche nonostante sue esplicite e ripetute richieste di verità).
Di seguito raccolgo le opinioni di monsignor Landi sulla Chiesa, «semper reformanda»: in generale, più volte amava sottolineare, come argomento apologetico, l'origine divina della Chiesa la cui bimillenaria storia e la cui cattolica espansione ed articolazione risulterebbero altrimenti inspiegabili a causa dei tanti peccati e debolezze dei suoi componenti. Oggi il peccato più tipico della Chiesa è il suo troppo parlare dei poveri rispetto a quanto in effetti essa stessa vive la povertà. Il Papa attuale merita sincero amore per la ponderosa e logorante fatica cui si sottopone per essere maternamente presente vicino al maggior numero di persone. Essendosi rotti i legami solidaristici della società tradizionale, oggi il prete diocesano ha bisogno di immediati provvedimenti dei vescovi per l'assistenza materiale e morale che lo salvi dallo squallore della solitudine. I preti dal canto loro hanno il dovere di continuare ad aggiornarsi e a studiare anche dopo il seminario: la figura, purtroppo ancora prevalente, del prete arretrato e incompetente, deve essere assolutamente eliminata. Data la crisi di vocazioni le circoscrizioni parrocchiali dovrebbero essere ridisegnate eliminando gran parte delle parrocchie dei centri storici urbani che immobilizzano pastori senza gregge mentre altrove sempre più di frequente vi è il gregge ma mancano i pastori. Tra i cristiani, e in primis tra il clero, bisogna smettere di tenere le suore in uno stato di minorità di fatto, anche se non di diritto. Nella Messa la predica non dovrebbe essere più lunga di cinque minuti nei giorni feriali e di dieci in quelli festivi; il suo scopo non è di esporre opinioni del prete — importanti, ma da comunicare in diversa sede — ma di adattare la Parola di Dio all'uditorio speciale che il prete si trova di fronte, proprio lì e proprio in quel momento. Di solito i santi canonizzati sono religiosi e religiose: sarebbe edificante il riconoscimento ecclesiastico anche delle santità laiche (una madre sofferente e generosa, un lavoratore umile, giusto e coraggioso) che certamente sono presenti tra noi. Per i cosiddetti gruppi ecclesiali mons. Landi non aveva una gran simpatia, una settimana prima dimi parlò scandalizzato di un broglio elettorale fatto a Pisa per accrescere artificialmente il proprio potere. Ne lodava il fervore e la generosità, ma notava in essi un grave difetto di settarismo, direttamente in contrasto col concetto di «popolo di Dio» della Lumen gentium. Sul Vaticano II mi sottolineava sempre il ruolo decisivo di Paolo VI rispetto a quello di Giovanni XXIII perché il Concilio fosse realmente un'espressione della base ecclesiale e dei tempi moderni; riteneva che la riforma liturgica avviata dal Concilio fosse ancora molto lontana da essere efficacemente applicata; predicava che un futuro «Vaticano III» si occuperà soprattutto di rinnovare la figura del sacerdote.
Quanto alla politica: riferendosi al dopoguerra e agli anni dei Comitati Civici, più volte mi disse che erano quelle cose che andavano fatte allora e che lui era molto contento di avervi contribuito, ma ormai da parecchio tempo aveva cessato ogni contatto con la politica. Mi narrava quanti uomini disinteressati lavoravano alla nascita della D.C., uomini che poi non ebbero né cercarono alcuna fettina di potere e mi raccontava anche di un pisano fuggito durante l'occupazione e la resistenza che tornò dopo la liberazione, si guardò un po' in giro e poi disse: «La D.C. è il partito che dominerà», ci si iscrisse e ne diventò anche deputato… A me, completamente demotivato di fronte al voto elettorale per partiti che mi parevano tutti identici, convinse a votare D.C. alle politiche con questa argomentazione: la D.C. è… clientelare, lottizzatrice come e più degli altri partiti, è vero, ma a causa della componente storica cattolica che ancora la sopporta elettoralmente essa è «costretta» a combattere divorzio e aborto e lo sarà in futuro contro l'eutanasia, quindi è da preferirsi. So che chi lo conosceva solo di vista riteneva mons. Landi un «conservatore», e non ne capisco il perché, forse solo perché era riservato e colto; so comunque che l'unico vescovo con cui avesse un'amicizia veramente fraterna era mons. Luigi Bettazzi di Ivrea, il che, mi pare, dice tutto sul «conservatorismo» di mons. Landi…
Ma… lux sancta nos illuminet ex libris, come recitava il timbretto che mons. Landi apponeva sui propri libri: la sua attività principale era diventata lo studio della Sacra Scrittura. Per la Bibbia e il mondo geo-antropologico dell'Antico Vicino Oriente provava nello studio prima ancora che rispetto e venerazione un genuino «godimento», forse per lui insegnare era anche un mestiere, ma studiare la Bibbia era un reale piacere. Comprava dalle case editrici di tutte le nazionalità le opere più aggiornate sull’argomento; era una spesa impegnativa per le sue strette finanze ma non voleva né sapeva rinunciarci. Prese a studiare l'ebraico, che non aveva imparato a scuola. Non scriveva mai né tantomeno pubblicava: aveva solo dei brogliacci promemoria alle lezioni, in magmatica evoluzione secondo l'aggiornarsi dei suoi studi. Quasi «ipnotizzato» dalla storia di Israele, aveva una certa insofferenza — e questo per me era un suo difetto — per le teorizzazioni della filosofia e della teologia, per tutto ciò che non fosse monumento storico o congettura testuale. Diceva sempre che in Israele si vede chiara la mano di Dio perché quel popolo, nel contesto etnico-giuridico-religioso di quelle regioni, era meravigliosamente singolare; notava come «la promessa fatta ad Abramo» fosse stata perfettamente adempiuta e come oggi quell'«arameo errante» sia ricordato da centinaia di milioni di ebrei, cristiani, musulmani e sia l'uomo più «nominato» (la discendenza!) tra quanti mai nacquero; tra i profeti sentiva più vicino a sé Geremia; del Nuovo Testamento diceva che certamente esso contiene il vangelo di Gesù perché, oltre alla sublimità del messaggio, vi è l’accanita e unica preoccupazione di conservare e tramandare i testi, segno di una venerazione per essi delle prime comunità cristiane. L'ultima parola del «testamento spirituale» di mons. Landi non è «Dio» ma è «Jahvè».
Antonio Landi amava molto l'autonomia, diceva che non sarebbe mai e poi mai potuto essere un frate, e della vita comunitaria preferiva mettere in luce i rischi più che i vantaggi: tra i religiosi stimava sinceramente, però, i gesuiti. Egli non fu fatto vescovo: il cardinal Caprio, suo ex compagno al Seminario Francese, cui chiesi direttamente il motivo, mi disse che fu a causa della salute malferma; padre Ferdinando, per tanti anni a Pisa e ora priore carmelitano a Arcetri, mi disse che a causa della particolarità del clero pisano, poco propenso a solidarizzare e lodare una dei propri membri e che infatti da molti anni non «produce» più vescovi. Egli fu perciò — per quarant'anni — soprattutto un insegnante: negli ultimi tempi era anche diventato come un'«agenzia di collocamento» per chi aveva bisogno del lavoro e un «centro di assistenza» per chi aveva bisogno di soldi, di consigli, di incoraggiamento; molti amici chierici e laici morivano e lui, che aveva come il carisma specifico, andava a confortare le loro ultime ore. Era poi cappellano delle Suore immacolatine facendo per esso e per i loro assistiti bambini e anziani una quotidiana pastorale d'ambiente. Era una persona spiritosa, il suo humor era raffinato ma sapeva adattarsi all'interlocutore. Era contemporaneamente vivace e riservato: un esempio di questo contrasto era il cinema che lui amava vedere ma mai «in diocesi», perciò lo faceva durante i suoi viaggi per convegni biblici o altro. Avrebbe voluto vedere il film Gandhi, ma non ci riuscì.
Vorrei racchiudere in una frase l'esempio che mi ha dato mons. Landi, e che non ho avuto da altri: si può essere idealisti senza essere retorici e si può essere realizzatori senza essere potenti.

IL MIO INCONTRO CON LUI
La finestra del suo studio sulla Piazza del Duomo è per me l'immagine più dolce e indimenticabile di Pisa, così come il suo volto è veramente per me la sola «cara è buona immagine paterna» che nella mia mente «è fitta». Lo incontrai a diciannove anni nel 1979 per iscrivermi alla scuola teologica per laici che aveva costituito. lo allora, studente di filosofia alla Scuola Normale, ero stato lasciato dalla mia famiglia di origine in uno stato di devastazione psichica pietosa e avevo bisogno estremo di quel vero amore che coincide con la verità e coi sani principi della morale. Mons. Landi lo capi subito, subito mi compassionò, subito mi amò. Da allora fino alla sua morte mi ha continuamente aiutato materialmente e spiritualmente. A un certo punto insorse un'insonnia nevrotica e paura della solitudine; egli mi accolse a casa sua per nove mesi e grazie a lui riuscii a fare la tesi e laurearmi: studiavo alla Normale durante il giorno ma alla sera andava a casa sua e prima di dormire chiacchieravamo per tre, quattro ore su tutto. Io più che altro ascoltavo. Ricordo di quel periodo una sensazione di pace che non avevo provato da quando ero bambino piccolo e forse anzi non avevo provato mai. Grazie a lui riebbi la fede, che era diventata per me solo un retaggio culturale sempre più contraddittorio, e che avevo perso per la sfiducia che provavo verso la Chiesa da cui mi sentivo «tradito» e imbrogliato come da tutti gli altri adulti. Avendo fiducia in mons. Landi mi rinacque fiducia anche verso gli altri. Questa «conversione» che vissi fu vissuta attraverso me dal mio più caro coetaneo, Antonio Cannistrà, anche lui normalista e anche lui senza più la fede; ora egli è postulante carmelitano. Devo concludere affermando che mons. Landi fu per me il principale evento di salvezza che mi ha tratto alla vita e mantenuto in essa.

 

 

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