Nel
Medio Evo l'Inferno, cioè il massimo male per l'uomo, veniva rappresentato
con le torture delle Malebolge dantesche.
Oggi esso viene rappresentato come "eterno dolore"derivante dalla
"privazione della visione di Dio" (Catechismo CEI per gli adulti,
Signore da chi andremo?, pag. 474), come una "pena consistente nella
separazione eterna da Dio" (Catechismo della chiesa cattolica, n.
1035). In entrambi questi catechismi contemporanei l'Inferno, proprio come
nel Medio Evo, è dunque caratterizzato dalla presenza del dolore. Il
"male di pena" infatti, rispetto al "male di colpa", ha
questo di proprio: ha il dolore (non importa qui se fisico o morale : cfr.
Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, prima secundae, quaestio 39, art.
4, sed contra).
Insomma, una volta la predicazione popolare preferiva mettere in primo piano
il dolore fisico presente nell'Inferno, oggi invece si tende a mettere in
primo piano il dolore morale derivante dalla lontananza da Dio. Il punto
comune è che, sia una volta sia oggi, viene affermata la presenza del
dolore nell'Inferno.
Ora, sembra evidente che, tra il soffrire per la lontananza da Dio e il non
soffrire per tale lontananza, il male più grande è il secondo. Già
Aristotele affermava che tra il vizioso "intemperante" (che fa il
male e non soffre) e il vizioso "incontinente" (che fa il male ma
soffre nel farlo) il peggiore dei due è il primo (cfr. Etica a Nicomaco,
1150b). E Agostino d'Ippona scriveva che "c'è qualcosa di buono in chi
si duole per la perdita di un bene: infatti se non rimanesse qualcosa di
buono nella sua natura, nella pena non ci sarebbe alcun dolore causato dalla
perdita di qualche bene" (Super Genesim ad litteram, VIII). E
Tommaso d'Aquino osservava che "il massimo male per un uomo non può
essere né un dolore fisico (dolor) né un dolore spirituale (tristitia)"
(Summa Theologiae, prima secundae, quaestio 39, art. 4, respondeo).
La mia esperienza di vita mi suggerisce che tra quando sono separato da un
bene senza soffrire per questo e quando sono separato da un bene e per
questo soffro, la condizione moralmente peggiore è la prima, in quanto
nella prima tenderei a rimanere, nella seconda invece no, perchè voglio
fuggirla. E, se a un bene qualsiasi estendiamo il ragionamento a quel bene
che è il Sommo Bene (Dio), arriviamo al problema di cui stiamo trattando.
E cioè da queste considerazioni bisognerebbe, mi sembra, arrivare a dire
che l'Inferno AUT è il massimo male per un uomo (e allora in esso non vi è
il dolore), AUT nell'Inferno vi è il dolore (ma allora l'Inferno non è il
massimo male per un uomo).
Se fosse vera la prima ipotesi, allora nei catechismi bisognerebbe evitare
di dire che nell'Inferno c'è dolore. Se fosse vera la seconda ipotesi,
risulterebbe che la condizione infernale è un minor male rispetto a
qualcosa d'altro e verrebbe allora da chiedersi cosa sia questo qualcosa
d'altro. E da entrambe le conclusioni si potrebbe arrivare all'opinione di
un certo umanesimo acristiano che volentieri dice "L'Enfer c'est moi",
identificando cioè Inferno e vita nel peccato e non facendone due cose
distinte. Vita nel peccato che, almeno nei momenti di peggiore
"indurimento del cuore" è priva di dolore ed è - piuttosto -
costellata da una certa qual varietà di piaceri.
Si potrebbe esprimere la perplessità anche in quest'altra forma dilemmatica:
AUT l'Inferno è il male peggiore per un uomo, e allora esso non è una pena
(come già diceva Platone: il peccatore senza pena è più disgraziato del
peccatore che riceve una pena, perché la pena è una forma di cura, cfr.
Gorgia, 479d), AUT l'Inferno non è il male peggiore e può dunque essere
una pena, avere in sé il dolore.
Allora, la catechesi e la predicazione dovrebbero mutare qualcosa riguardo a
questo punto, sottolineando, magari, che il male peggiore per un uomo è il
"malum culpae", la vita peccaminosa, la quale è tanto più esente
dal dolore quanto più è peccaminosa ed è piuttosto impregnata da una
sorta di piacere malvagio.
Quali effetti pratici, ossia morali, si potrebbero avere da un tale
cambiamento nella predicazione? Premetto che mi rendo conto che oggi,
parlando in generale, l'argomento "Inferno" (inteso come
condizione umana collocata in un tempo futuro e distinto - in quanto
successivo - dal tempo anteriore al decesso) è assai poco presente nella
predicazione. Però, per quanto piccoli, a me sembra che gli effetti pratici
potrebbero essere :
1. in primo luogo una visione meno spaventata e più "simpatetica"
riguardo all'esperienza del dolore: non è la cosa peggiore né per l'uomo
né per Dio. Il dolore "capita" (anche se non capita a caso),
nessuno lo ricerca. Ma nel dolore c'è qualcosa di positivo, in esso non
bisogna disperare, non bisogna "fare di tutto" per evitarlo,
poiché c'è qualcosa di peggiore di esso in cui si potrebbe incorrere.
2. in secondo luogo, "gli spiriti liberi" (cioè quelle persone le
quali possono esser oneste nella riflessione sull'uomo, ma hanno una certa
qual antipatia per la Chiesa) non dovrebbero più trovare - quale
inconveniens al cristianesimo - la visione di un Dio che rimane eternamente
separato da un uomo che soffra per tale separazione, di un uomo dunque che,
almeno in parte, Lo ama.
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