Franco Manni
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Elogio della finitezza antropologia, escatologia e filosofia della storia in Tolkien
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Un
amore inconfessato e una latente polemica “I'm not a philosopher, but an experimenter” Tolkien, Notion Club Papers Nelle
sue opere Tolkien non nomina mai[1]
i nomi dei filosofi, né dei classici come Socrate, Platone, Aristotele,
Agostino, Tommaso d'Aquino, Descartes, Kant, Hegel, Schopenauer, Marx, né
dei suoi contemporanei come Freud, Bergson, Croce, Dewey, Wittgenstein,
Husserl, Popper o Ryle. Però: se non cita Kant, eppure cita il neologismo
kantiano “noumeno”[2];
e soprattutto le idee della perennis
philosophia (e cioè del
sincretismo della tradizione antico-medievale) sono ben presenti, ma non
sono citate le fonti. Tom Shippey pensa che
Tolkien non nominò filosofi come Platone, Boezio e altri - che pur
aveva letto e conosceva - a causa dei suoi pregiudizi anti-classicisti, e
inoltre perchè, volendo valorizzare la negletta
nativa produzione letteraria inglese, non trovava filosofi
inglesi nel Medioevo prima di Chaucer[3].
Un
esempio chiaro di questo “scagliare i sasso e ritirare la mano” lo
troviamo nella Nota 8 dell'autocommento che Tolkien fece alla Athrabeth
Finrod ah Andreth (Dibattito tra Finrod ed Andreth); la nota
parla del “desiderio” e ne distingue tre specie: il desiderio
“naturale” e dunque proprio di tutti i membri di una specie, quello
“personale” che concerne la propria situazione individuale, e quello
“illusionale” che non fa riconoscere che le cose non sono come
dovrebbero essere e porta all'inganno di credere che esse siano come uno
vorrebbe che siano[4].
Questa distinzione è la stessa fatta da Tommaso d'Aquino in un articolo[5]
di quella Summa Theologiae
che Carpenter ci dice esser presente negli scaffali di Lewis nelle serate
degli Inklings[6]
e che Claudio Testi mi dice di avere accertato che Tolkien possedesse[7].
Un
altro esempio tomista non dichiarato: la differenza tra le due forme di
Speranza - “Admir” e “Estel” - distinte da Andreth nella Athrabeth[8],
e similmente nella Summa Theologiae viene distinta la “spes” sentimento premorale
presente anche negli ubriachi e negli animali bruti il cui oggetto è “il
bene futuro difficile, ma possibile da raggiungere”[9],
dalla “spes” virtù teologale per la quale viene detto che “ La
speranza si fonda principalmente non
sulla grazia già posseduta, ma sulla divina onnipotenza e misericordia, con
la quale può conseguire la grazia anche chi non la possiede ancora, in modo
da giungere alla vita eterna. Ora, chiunque abbia la fede ha certezza dell'onnipotenza e misericordia di Dio/.../ Il fatto che alcuni, pur
avendo la speranza, mancano di raggiungere la felicità, deriva da
una mancanza del libero arbitrio, che mette l'ostacolo del peccato: non già
da una mancanza della divina onnipotenza, o misericordia, su cui si fonda la
speranza. Perciò questo fatto non pregiudica la certezza della speranza.”[10] Altri
riferimenti alla filosofia antica e medievale sono stati osservati dagli
studiosi tolkieniani: Platone[11],
Plotino e Agostino[12],
Boezio[13]. Però
Tolkien nella sua fiction non usa mai la parola “filosofia” e tra
le opere pubblicate solo tre volte nella
conferenza Sulle Fiabe e tre volte in quella su
Beowulf. Questo ostracismo lessicale - io sono sicuro che sia
stato consapevole – si trasla agli studiosi tolkieniani, come si vede
nelle erudite, voluminose e aggiornate “enciclopedie” tolkieniane curate
da Michael Drout e da Wayne Hammond e Christina Scull, in cui non c'è posto
- tra le mille altre - per una
voce Filosofia[14].
Negli
scritti non intesi per la pubblicazione questa parola compare poche volte
nelle Letters, di solito come sinonimo di “religione”[15]
o generico di “teoria”[16],
ma a volte con un senso più proprio come quando scrive che la parola
“Ent” ha un leggero sentore filosofico, o quando dice di non credere vi
siano filosofi che possano negare la possibilità della reincarnazione[17],
o quando spiega il significato dell'Anello del Potere, o quando parla della
corruzione morale presente nei romanzi di Eddison[18].
Alcune volte – invece - esplicitamente la filosofia è distinta dalla
religione in quanto conoscenza razionale, per es. quando dice che gli Hobbit
potevano fraintendere le guarigioni miracolose di Aragorn perché mancavano
di conoscenze filosofiche e scientifiche, o quando precisa che, se tra i
Fedeli di Nùmenor la religione aveva un piccolo ruolo, così forse non era
per la filosofia e la metafisica, o quando osserva che ne Il Signore
degli Anelli (SdA) il male e il falso vengono rappresentati in
maniera mitica, il bene e la verità invece vengono rappresentati in maniera
più “storica e filosofica” che “religiosa”[19]. La filosofia ha comunque
– secondo lui - “casa”
nella Grecia antica[20]
(e non in Germania, per lui “casa” della filologia[21]),
e questo perchè la mitologia “meridionale” si poggiava su un pensiero
più profondo di quella settentrionale, e perciò doveva portare “o alla
filosofia o all'anarchia”[22]. Nell'abortito The
Notion Club Papers la parola compare due volte: una riferita al
personaggio di Rupert Dolbear (che si interessa anche alla psicanalisi e
spesso durante le discussioni si addormenta), e un'altra riferita al
personaggio Michael Ramer (filologo alter-ego di Tolkien) che dice di non
esser filosofo ma bensì uno “sperimentatore”[23].
Queste
occorrenze o meglio non occorrenze dei nomi dei filosofi[24]
e della parola “filosofia” mi fa pensare
alla ricostruzione fatta da Carpenter di una seduta-tipo degli
Inklings[25]:
riunendosi tra loro gli amici parlano ad ampio raggio: della guerra in
corso, dello SdA, di filosofia della storia, di critica letteraria,
di Shakespeare, di religione, di etica. Ma quando citano nomi di pensatori
lo fanno polemicamente, disprezzando il “pensiero contemporaneo”[26].
Penso anche a Tom Shippey – intellettuale spesso identificato nel suo eroe
Tolkien – che si dichiara del tutto ignorante di filosofia, ma anche,
verso essa mostra una certa qual (latente) polemica, e se chiama “tough
minded” i filologi, definisce “tender minded” i filosofi[27].
Forse sia Tolkien sia Shippey hanno avuto in mente da una parte la astrusa e
spesso effettivamente vuota filosofia dell'idealismo tedesco del XIX secolo
e dell'esistenzialismo tedesco e francese del XX, e dall'altra la
diversamente astrusa e diversamente vuota “oxbridge analytical philosophy”
già forte prima della Seconda Guerra Mondiale e dopo di essa imperante
nel mondo accademico anglosassone[28].
Dunque: vediamo in Tolkien un rispetto (anche se non un amore dichiarato)
per la filosofia antica e medievale, ma uno scetticismo o almeno
un disinteresse per quella moderna e contemporanea. E
questo forse - appunto - per
circostanze abbastanza estrinseche e cioè di ambiente e di relazioni, come
ritiene Shippey: Tolkien non menziona la “filosofia” perchè non la
aveva studiata sistematicamente e si sentiva poco equipaggiato, diversamente
dal suo amico Lewis[29].
E anche Ross Smith[30]
scrive che, pur se non troviamo cenni di Tolkien alla filosofia analitica,
egli però era stretto amico di Lewis, il quale avversò essa e specialmente
il suo importante rappresentante A. J. Ayer. Ma,
come già abbiamo visto e vedremo soprattutto poi, troviamo
in Tolkien un'attrazione
per alcuni temi – centrali nella tradizione dei filosofi – dell'etica,
dell'estetica, dell'antropologia, della storia, della religione. Insomma:
un forte interesse per alcuni temi filosofici[31], ma una polemica latente
verso come essi siano trattati dai filosofi recenti e contemporanei! Antropologia Quali
temi, comunque? Verlyn Flieger sottoscrive l'affermazione di Tolkien: il
tema principale è morte; Charles Nelson ritiene che anche altri temi siano
centrali[32];
W. A. Senior pensa che il centro sia il “senso di perdita” di cui la
morte è solo una delle forme[33];
Shippey osserva che se a Tolkien “sembrava che il tema centrale
fosse la morte”[34],
lui invece pensa che il nucleo “ideologico” e “filosofico”
dell'opera tolkieniana sia la
provvidenza[35]. Peraltro
Tolkien è un grande narratore e – per es. sul tema della morte - ci
presenta immagini icastiche come quella di Gildor Inglorion e gli altri Alti
Elfi che nei boschi della Contea osservano di stare incontrando dei
“mortali” (gli hobbit), ma ama anche filosofare pur se “dietro le
quinte” come nelle Lettere e negli scritti non destinati alla
pubblicazione come in Laws and Customs among the Eldar e in Athrabeth
Finrod ah Andreth e nei suoi vari commenti esplicatori a tali scritti di
fiction[36].
E qui discute i tradizionali temi antropologici e teologici dell'anima e del
corpo e del piano di Dio per essi: la morte è per lui sempre
“separazione” dei due “componenti”, e questi però dovrebbero
rimanere uniti. L'Elfo Finrod dice alla Donna Andreth: voi non pensate che
la separazione tra anima e corpo possa essere vissuta come una liberazione,
un ritorno a casa; e Andreth: no, non lo pensiamo perchè questo sarebbe
disprezzo del corpo ed è invece un pensiero dell'Oscurità, perchè negli
incarnati è innaturale.[37]
Come
scrive Ralph C. Wood questa è una “radicale svolta non-platonica”[38]
E anche Claudio Testi che – filosoficamente - questa sembra essere
un’istanza aristotelica entro un contesto platonico[39].
E Damien Casey che - teologicamente
- Tolkien ha presente come il
cuore del cristianesimo sia l'Incarnazione, per quanto la tradizione
platonica abbia atrofizzato tale retaggio[40].
Questo
“svolta non-platonica” - spiega Wood -
è anche una implicita – ma interessante e fondata – spiegazione
delle motivazioni del dualismo platonico: parrebbe che gli Uomini o meglio
le loro “anime” abbiano la memoria di “un'altra vita”, un “altro
mondo” da cui sono stati estraniati e a cui cercano di tornare (l'anima
platonica che tende alla sua originaria patria iperuranica), ma
Andreth nega ciò, per lei anima e corpo sono essenziali l'una
all'altro, per questo la loro separazione è una calamità causata da Melkor.
Dunque quella “nostalgia” che gli Elfi hanno notato negli Uomini non
è il desiderio per un mondo diverso da questo, ma è piuttosto uno sforzo
per tornare all'armonia e unità tra anima e corpo che furono perse dagli
Uomini nella ribellione a Ilùvatar, e perse esse rimangono in Arda
Corrotta. Platone, cioè, confonde il problema morale e teologico con quello
antropologico e metafisico, indica come patria per la “Anima” un
“altro mondo” quando invece dovrebbe indicare allo “Uomo” una
conversione morale[41].
E Casey commenta con simile acutezza che la “salvezza” platonica verso
un “altro mondo” è
solamente una fuga dal male e dal dolore, ma non salva affatto la propria
storia, la propria identità, la propria unica e irripetibile (e voluta da
Dio) realtà umana; per salvare tali cose bisogna includere la salvezza di questo
mondo che altrimenti rimane “Anello di Morgoth”[42].
Se
l'originale messaggio ebraico-cristiano è sia non-platonico sia per certi
aspetti anche anti-platonico, tuttavia per molti secoli esso è stato
abbondantemente veicolato attraverso categorie platoniche. Tolkien però è
un cristiano del XX secolo, secolo in cui la
teologia e la spiritualità cristiane fortemente hanno criticato la
categoria nucleare del
platonismo, cioè il cosiddetto “dualismo” (categoria –
filosoficamente – già contrastata, anche se per vie molto diverse, sia
dall'idealismo hegeliano sia dal materialismo marxista e positivista del XIX
secolo), e segue tale dibattito a lui contemporaneo: osserva esplicitamente,
per es., che il suo amico Lewis come filosofo non è “dualista”, però
ha un'immaginazione “dualista”[43].
E questo perchè, nota Christopher Garbowski, “un generale movimento
filosofico” ha influenzato
Tolkien: in esso la valorizzazione dei fenomeni psicosomatici ha reso
obsoleta una concezione sostanzializzata della “anima”separata e ha
permesso il ritorno all'unitarismo biblico[44]. In
“questo” mondo la Felicità è ardua e - in concreto - si sperimenta
solo come “salvezza”. Shippey ricorda un'antica storia scozzese – che
Tolkien conosceva – in cui un'Elfa chiede a un anziano Uomo se può
esserci salvezza per un essere come lei, e lui risponde no, la salvezza è
solo per i “peccaminosi” figli di Adamo[45].
Perchè solo per i peccatori? Si potrebbe dire: per definizione, come dice
Gesù (“Non sono venuto a salvare i giusti, ma
i peccatori”, cioè tutti),
e ricordare che per molti secoli il cristianesimo ha messo al centro la
“seconda morte” e non la “prima”(“Chi cerca di salvare la sua vita
la perderà...”): la morte della “anima”, la morte psichica. In
effetti gli uomini possono pensare alla morte solo come quia est, non
come quod est, sappiamo che esiste ma non sappiamo cosa sia, perchè
non possiamo farcene una idea in base alla esperienza, né una idea conscia
né un'idea inconscia. Freud – in tutte le fasi del suo pensiero -
fu convinto di questo. Riassumendo e commentando il pensiero Freud
sulla morte, lo psicanalista Franco De Masi scrive: la “idea” che
abbiamo della morte la possiamo affabulare solo in base alle esperienze
della vita, per es. in base alle nostre esperienze relazionali che – tutte
– sono prima o poi contrassegnate dalla separazione e dal lutto[46]:
questo ci fa immaginare la morte come una specie di vita in cui noi
percepiamo di essere isolati da tutti gli altri esseri umani, cioè la
“idea” che abbiamo della morte è quella della “morte psichica”,
dato che la vita psichica si forma, sviluppa e mantiene attraverso la
relazione interpersonale. Tale “idea” di morte - hanno osservato molti
psicanalisti nei loro casi clinici – assume una concretezza
devastante nei pazienti
psicotici; in queste persone la morte fisica diventa terribile
perchè per loro essa è
quel “limite” che termina la possibilità di “riparare” la morte
psichica, cioè l'idea di esser inconsistenti e privi di significato per gli
altri[47].
E giustamente Vincent Ferré, nella sezione L'Aliénation et la Folie del
suo libro, osserva che in SdA l'Anello o fa diventare pazze le
persone o tenta di farlo (Boromir, Gandalf, Galadriel, Aragorn, Bilbo,
Frodo, Gollum)[48]. Tra
gli psicotici delle storie tolkieniane vi sono i Re Numenoreani tipo
Ar-Pharazon e i Nazgûl (ex-Re)[49],
accomunati sia dalla ricerca del potere sia dalla ricerca della immortalità,
e in entrambi i gruppi di “Re” la seconda ricerca pare connessa alla
prima: il non-morire è ricercato a causa dell'intima e non conscia
idea che la ricerca del potere abbia svuotato la propria vita, le
abbia tolto senso, e la persona – allora – cerca per sé ancora
“tempo” perchè non riesce ad accettare il proprio compimento, non
riesce a “finire”. Infatti, come scriveva Tolkien in una lettera: la
morte non è un nemico, e bisogna denunciare l'odioso pericolo di confusione
tra la “vera immortalità” e la “longevità seriale”, la prima
libera dal Tempo, la seconda ne rende schiavi[50] . La paradossale
implicazione logica di questo passo è che la “vera immortalità”
coincide con la morte. Subito
dopo Tolkien aggiunge: gli Elfi chiamano “morte” il Dono di Dio agli
Uomini, e la loro differente tentazione è quella di una melanconia
appesantita dalla memoria. Essi dunque non cercano
di avere più tempo – come invece fanno Ar-Pharazon e i Nazgûl -
ma piuttosto di fermare il tempo. Ci sono dunque due distinte
“fughe” da quella “Morte” che coincide con la “vera immortalità”:
la “longevità seriale” (quella dei Re umani assetati di potere), e la
“memoria tesoreggiante” (quella degli Elfi)[51].
In effetti, nonostante il pomposo titolo di “Immortali” che da altri
meno longevi popoli della Terra di Mezzo viene attribuito agli Elfi, questi
in realtà non lo sono, la loro è una longevità naturale coestensiva con
la vita di Arda[52].
Queste
due “fughe” - attraverso la longevità “seriale” o “naturale”
che sia - dalla
Morte/Immortalità hanno scopi distinti: per gli Schiavi del Potere un
“volere avere più futuro” (anche se un “futuro” non incognito, non
aperto e nuovo, ma “seriale”) per aumentare il Potere ( e in tal modo
inconsciamente illudersi di riuscire a dare un senso alla propria vita);
per gli Elfi invece si tratta di un “volere non avere più
futuro”, a causa della idealizzazione del passato, perchè per loro il
ricordo del passato non è uno
strumento funzionale al futuro, ma è piuttosto
un tesoreggiamento avido. Gli Schiavi del Potere non hanno memoria
del passato, gli Elfi hanno una memoria “appesantita”, che è zavorra.
L'aspetto comune ai due gruppi è che entrambi non credono e non sperano
in un futuro incognito, aperto e nuovo. Ed entrambi sono attratti dal
potere! Anche gli Elfi infatti cercano un “potere”, quello di arrestare
il “cambiamento”, che poi specificamente è l'invecchiamento, perchè
essi vorrebbero mantenere le cose “fresche e belle”. E questo loro
minore “potere” è legato al maggiore “Potere” di Sauron e degli
Schiavi, quando infatti questo cade, si esaurisce anche il loro [53].
Come a dire che quando crolla la forza che tende sempre più a dominare le
altre “volontà” (e che necessita della longevità per riuscirci), ecco
che crolla anche l'idealizzazione del passato e il rifiuto del
“cambiamento” (dell'invecchiamento)[54].
La
memoria del passato – potremmo allora riassumere - è buona solo se essa
serve a chiarificare l'azione morale futura (“historia magistra vitae”), come già Nietzsche e Croce sottolineavano nella
loro critica alla storiografia antiquaria[55].
E, visto che gli Elfi nella fiction tolkieniana rappresentano un aspetto
dell'Antropologia reale[56],
potremmo dire che Tolkien, attraverso la longevità naturale degli Elfi e
quella seriale degli Schiavi, voglia rappresentare – non unicamente, ma
tra l'altro! - un aspetto patologico (al limite “psicotico”) della
natura umana , e cioè le distorsioni che la vita può avere nel suo
perdurare “troppo” a lungo, evitando così l'incontro con la Morte (che
è l'unica “vera immortalità”)[57].
Tale pensiero sulle distorsioni del “troppo”, credo, può esser stato
motivato da caratteri propri della vita di Tolkien stesso, come poi cercherò
di mostrare. Ora, però, mi soffermo sulle conseguenze filosofiche di tale
antropologia, e per esempio sulla cosiddetta “escatologia”, e cioè la
riflessione sulle “cose ultime”[58],
o – come anche si dice - sullo ”ultimo fine”[59]
della vita umana. Escatologia “Prendere
su serio la vita vuol dire accettare fermamente, rigorosamente,
il più serenamente possibile, la sua finitezza” Norberto
Bobbio, De Senectute Giustamente
osserva Franco De Masi che non è facile discernere quanto il pensiero
della morte ostacoli a vivere e quanto invece aiuti la riflessione sul
valore e sul senso della vita[60].
Più chiaro è il vedere come la negazione della morte porti a una
cecità verso l'esperienza reale del trascorrere del tempo; e però questa
negazione non coincide con la fede religiosa nella “immortalità”,
bisogna infatti vedere cosa si intenda col concetto di “immortalità”[61].
Infatti le stesse grandi religioni storiche hanno almeno due aspetti: uno
profondo ed autentico, e uno superficiale ed escapista. Giustamente
Garbowski osserva che una visione molto semplicistica dell'aldilà nel
comune immaginario religioso fa sì che molti pensino all'immortalità come
ciò che Tolkien chiamava vita seriale, e cioè una continuazione della vita
così come la conosciamo; forse è per questo che, invece di trattare
direttamente il tema dell'aldilà, Tolkien fa vedere artisticamente negli
Elfi l'immortalità come semplice mancanza di morte, e la loro invidia per
la mortalità si capisce come invidia per un riposo da una vita piena di
sofferenza e che non offre piene risposte. [62].
E Shippey osserva che se per es. nel suo
Paradiso Perduto Milton ritiene che
la morte sia una giusta punizione per il peccato,
invece “il Silmarillion sembra volerci persuadere a vedere
la morte potenzialmente come dono o una ricompensa”[63]. Paradosso!
Per Tolkien la “ricompensa” non è una una sorta di “risveglio”
seguito da una sorta di continuazione della vita in mezzo a luci, a musiche
celestiali e all'abbraccio delle persone care, come vuole l'immaginazione
popolare sulla “immortalità”, ma è la morte (la “vera
immortalità”)! Potremmo
qui ricordare che nella tradizione filosofica - anche cristiana come in
Tommaso d'Aquino[64]
- la cosiddetta “eternità” non coincide affatto con un “tempo
infinito”: il tempo riguarda il mutamento, mentre l'eternità riguarda
l'immutabilità, “tota simul existens”, e – dunque – se l'immortalità
si concepisce come “vita eterna”, essa non è una vita che duri
un tempo infinito. Opportunamente Renée Vink osserva:
proprio come la vera immortalità è stata confusa con la longevità
seriale, così l'eternità si confonde col tempo infinito: la Morte può non
esser un nemico, ma il tempo sicuramente lo è [65]. Tolkien
scrive che la morte non è punizione per un peccato, ma è inerente
alla natura umana (biologica e psicologica), e il tentativo di
evitarla è sia malvagio (perchè va contro la natura) sia stupido
“perchè la morte libera dalla stanchezza del tempo”[66]. Queste due cause dell'escapismo,
invero, sembrano più adatte a sorgere nella mente di una persona già di
“una certa età”: infatti un giovane potrebbe facilmente non approvare
nessuna delle due, certamente non la seconda. Eppure muoiono anche i
giovani. John Garth così commenta la poesia Kortirion che Tolkien
ventitreenne scrisse nel 1915: essa possiede la tipica malinconia
tolkieniana per un mondo che scivola via, l'estate cui egli guarda con
nostalgia può esser vista sia come come la sua infanzia sia come il passato
prima della Guerra, e l'inverno può essere visto come l'unico letale futuro
offerto alla generazione dei giovani come lui[67].
Sappiamo
però che il futuro per Tolkien non sarà la morte in guerra ma il
matrimonio con Edith, i figli, la filologia a Oxford, la scrittura dei suoi
romanzi e il successo letterario mondiale. Una cosa dunque è ciò che ci
immaginiamo del futuro, un'altra è ciò che esso è. Due filosofi
contemporanei di Tolkien – Croce nato nel 1866 e Popper nato nel 1902 -
hanno molte volte sottolineato che il futuro è del tutto inconoscibile,
esso non è campo per la conoscenza ma bensì per la volontà, per il
progetto della nostra azione[68]. Shippey commentando i
passi di SdA relativi allo Specchio di Galadriel e ai Palantìri,
osserva che Tolkien vuole avvertirci contro un grande pericolo: “troppo
speculare sul futuro può erodere la volontà di agire nel presente”; non
bisogna “speculare”, ma “fare il proprio lavoro” con decisione e
perseveranza, e “tale attitudine mentale può esser ricompensata oltre
ogni speranza”[69] Le
“cose ultime” sono la Morte (termine della vita), il Giudizio (sul
significato della mia vita), l'Inferno (il non averne avuto), il Paradiso
(l'averne avuto), e riguardano sempre e solo il futuro. E – questo – è
vero sia per un vecchio sia per un giovane. Nella canzone che Frodo (che era
un giovane hobbit, “appena uscito dall'adolescenza”) canta
nella Vecchia Foresta viene detto – per incoraggiare il
viandante non per scoraggiarlo! - che “a est e a ovest ogni bosco
finisce”; e Shippey commenta che in queste parole è difficile fare a meno
di pensare alla vita e alla morte, e che nella morte ( cioè la “fine”
del bosco) i viaggiatori si faranno strada verso la luce del sole[70].
In effetti, ciascuna vita non c'è sempre stata, e non ci sarà per
sempre. Essa è de-finita da “confini”! E perchè secondo Tolkien tale
“finitezza” serve a dare speranza? Se fosse solo perchè con la morte i
mali presenti cesseranno, questa sarebbe appena un'idea di atarassia
epicurea, e non varrebbe per un giovane in buona salute fisica e
psicologica. Più interessante la motivazione che dà Bill Davis: la
finitezza della tua vita può essere un bene perchè ti prospetta un'uscita
dalla ripetizione del già noto, sia che tu tale uscita la veda da lontano
se sei giovane o che la veda da vicino se sei vecchio[71]
. Più
nel profondo, ci potrebbe
essere il messaggio che proprio la non-transitorietà in sé stessa sarebbe
un male, perchè comporterebbe una necessaria fissazione della superbia:
ogni cosa che crediamo di tenere “per sempre” infatti ci rende superbi o
almeno dimentichi dei nostri limiti[72],
dei nostri difetti, e chiusi a guardare altre e nuove cose. Ciò
che è “altro” e “nuovo” capita ogni giorno, e però è difficile da
vedere e - se visto - da accogliere; varie paure e varie superbie ce lo
impediscono. Alla fine del suo libro sui filosofi e la morte (i loro
pensieri sulla morte e le loro morti!) Simon Critchley osserva che la vita
di ciascuno è come chiusa nelle strette di strutture precostituite:
l'evoluzione della specie, la situazione storica, il proprio freudiano
“romanzo famigliare”; e i desideri sollevati in noi da tali strutture
rischiano di soffocarci. Noi non possiamo rifiutare tali non richiesti doni
della natura e della cultura, ma possiamo trasformare la maniera con cui
accettiamo tali doni e possiamo stare più pienamente nella luce che
getta l'ombra della nostra mortalità: “sono convinto che, se noi
accettiamo la nostra finitezza, allora potremo sbarazzarci delle fantasie
infantili onnipotenti; essere una creatura significa accettare la nostra
finitezza in maniera tale da non disaffezionarci né disperarci, ma
piuttosto traendo da essa coraggio e perseveranza ”[73].
Un
senso di umiltà dunque ci potrebbe aprire alle “cose ultime” (a vedere
ciò che è altro e nuovo); e la consapevolezza della morte può favorire
tale umiltà, come la tradizione ascetica del cristianesimo e del buddismo
per secoli ha sottolineato. Shippey, a proposito di due episodi di SdA,
osserva: cosa significa che Frodo nelle Paludi Morte veda i visi degli Elfi
e degli Orchi ugualmente pieni di alghe e sporcizia? E cosa significa che
Merry nel Tumulo veda sovrapporsi il viso del Nobile morto a quello dello
Spettro? Forse questo: che tutta la gloria si decompone[74]?
Sembrerebbe di sì, almeno per Tolkien, quando in una lettera egli scrive
che i vincitori non possano godere della vittoria come avevano immaginato, e
tanto più hanno lottato per goderne, tanto più la vittoria li deluderà[75]. Forse
però nella morte non c'è solo l'umiltà (e il sollievo) della finitezza.
Avendo ben presente l'ideologia cristiana di Tolkien, Shippey collega alla
tematica della Resurrezione un momento di SdA: quando Gandalf sta per
esser colpito da Signore degli Schiavi (che chiama sé stesso “Morte”) e
- ecco! - in quel preciso momento un gallo canta e come in risposta si ode
un suono di corni di guerra. È un richiamo al canto del gallo che – nel
racconto evangelico - ode Pietro e subito ricorda le parole di Gesù e
piange amaramente: questo canto significa che c'è stata una Resurrezione e
dopo questo momento la disperazione di Pietro e la sua paura per la morte
sarebbero state sconfitte; questo canto significa il giorno dopo la notte e
la vita dopo la morte, afferma l'esistenza di un ciclo più grande al di
sopra di uno più piccolo; significa che colui che teme per la propria vita
la perderà, e che morire da impavidi non è una sconfitta[76].
Qui
Shippey suggerisce che la Resurrezione coincida – nell'intimo reale, e non
nella fantasia mitica – con la stessa scelta della morte (il futuro
martirio di Pietro) per amore (di Gesù). E Davis osserva che Arwen
preferisce una vita finita ma
con l'amore a una infinita senza di esso, quasi Tolkien dicesse così che è
impossibile avere l'amore senza avere la morte, anche se non si sceglie la
morte per sé stessa, ma si
sceglie l'amore, e si accetta
la morte come prezzo per averlo[77].
Anche Sam - osserva Shippey – torna a casa nella Contea, non per obbligo,
ma forse avendo avuto un'altra opzione
- che però rifiuta - e cioè quella di andare con Frodo nelle Terre
Immortali, ma lui, proprio come Arwen, sceglie la mortalità per amore
(amore per Rosie, Elanor e gli hobbit della Contea); questa scelta
renderebbe – secondo Shippey – così “triste” il finale di SdA
: “ma mentre, da una parte, Sam è venuto alla Morte, per amore, egli,
dall'altra, è tornato alla Vita, perchè ha davanti a sé un'esistenza
lunga e di successo ”[78].
Arwen avrebbe potuto andare nelle Terre Immortali portandovi il ricordo
del suo amore per Aragorn, ma – osserva Richard C. West - sceglie l'amore
vissuto e con esso la morte che la farà fuoriuscire “dai confini del
mondo”[79].
Ma, allora, queste Terre Immortali sembrano sì essere un riposo e una fuga
dal dolore, però esse sono prive della “finitezza”, perchè sono dentro
e non fuori dai “confini del mondo”; la Morte invece sembra essere
legata sia alla finitezza (all'uscire dai “confini del mondo”), sia all'amore. La
parola “amore” ha molti significati, di regola non incompatibili tra
loro, però variegati. Spesso nella tradizione filosofica e religiosa è
stato sottolineato che l'amore non è solo un sentimento ma è anche azione
concreta verso il bene, cioè che l'amore ha un contenuto e uno scopo:
l'amore per la propria famiglia, o l'amor di patria, o l'amore per la
scienza sono collegati all'idea di dovere svolgere un compito, una missione.
Se “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio per esso” (Gv. 3,
16), allora l'idea platonica
della vita come “esilio” è sbagliata, piuttosto la vita è una
“missione”. Osserva Casey che la fuga platonica ha l'inconveniente di
lasciare intatto l'Anello di Morgoth, di non divinizzare il Mondo.[80]
E
Shippey - commentando le “canzoni di via” che appaiono lungo SdA
fino alla fine quando Frodo ne canta una prima di lasciare la Terra di Mezzo – osserva che esse parlano di un dolore
antico anche se sopito dalla bellezza terrena[81].
Ma dolore per cosa? Per un mondo che non muore ? E cosa sarebbe poi tale
mondo? Platonicamente è qualcosa di “altro” rispetto a questo in cui
viviamo. Ma, se ci distanziamo da Platone, potremmo forse veder che il
“mondo che non muore” - per i quale proviamo quel dolore nostalgico –
non è “altro” da questo, ma è qualcosa “in” questo: i valori
morali da perseguire in questo mondo, valori per cui abbiamo nostalgia dato
che ne siamo lontani a causa dei nostri variegati difetti. La nostra
missione è perseguirli per amore verso essi e per amore verso il mondo che
di essi ha bisogno[82].
Quando
morì in guerra Robert Gilson, amico di adolescenza suo e di Tolkien,
Geoffrey Smith scrisse a Tolkien che non gli importava che il loro sodalizio
amicale e intellettuale avesse
successi sociali, riconoscimenti espliciti, esso era di carattere
“spirituale” e come tale trascendeva la mortalità, era
“permanentemente inseparabile come Thor e il suo martello”; l'influenza
da esercitare nel mondo era “una tradizione che per noi tra 40 anni sarà
ancora così forte (se saremo vivi e se non lo saremo) quanto lo è oggi”[83].
D'altra parte – a ben vedere -
una missione la abbiamo
tutti, anche i cosiddetti “cattivi”: Tolkien in una lettera scriveva che
ci sono persone che appaiono”dannabili” ma la loro “dannabilità”
non è misurabile in termini di macrocosmo (infatti può lavorare per il
bene)[84].
E, se c'è una missione anche per coloro che a noi appaiono malvagi, come
possiamo visualizzare, comprendere la nostra missione nella vita? Tolkien in
una lettera a una sua nipotina scrisse: perchè Dio ci ha inclusi nel suo
disegno? Possiamo dire solo che lo ha fatto, e perciò non possiamo
rispondere alla domanda su quale sia lo scopo della vita[85]. Frase
- questa di Tolkien - piena di umiltà, limpidamente socratica ed aperta
riguardo alle “cose ultime”, allo “ultimo fine”. Anna Mathie osserva
che i capitoli finali del SdA sono un ritratto della mortalità, la
Compagnia dell'Anello ha compiuto la sua missione, Gandalf e gli Alti Elfi
hanno vinto la guerra, Frodo ha salvato il mondo, e ora essi se ne vanno
dalla Terra di Mezzo e molte cose belle saranno dimenticate[86].
Cioè il missionario va via, ma gli effetti della missione
rimangono nel mondo. E Shippey si sofferma sull'esile ruscelletto che
scorre a Mordor e sembra scorrere inutilmente, ma
invece esso porta la
massima utilità che qualsiasi acqua potrebbe dare (per Frodo, per Sam e per
la Terra di Mezzo): fallimento apparente e successo effettivo[87].
Quella che sembra la morte del ruscelletto diventa invece causa di vita; la
morte di ciascuno di noi – forse qui Tolkien sostiene o allude – sembra
rendere inutile la vita di ciascuno di noi e invece
è quel chicco di grano che se non muore non dà frutto. La nostra
vita individuale in quanto individuale è “finita”, delimitata da tante
cose e soprattutto dalla morte; però essa
- forse! - è inclusa in un Disegno che la comprende ma che va oltre
di essa. Filosofia
della Storia “Io
ho una forma mentis storica,
la Terra di Mezzo non è un mondo immaginario.” Tolkien,
Lettera n. 183 A
proposito del TCBS, il loro club amicale e intellettuale, Smith aveva
scritto al suo amico Tolkien poco prima di morire in guerra: “la morte di
uno dei suoi membri non può, sono convinto, dissolvere il TCBS /.../ la
morte può renderci disgustosi e indifesi come individui, ma non può
mettere fine agli immortali quattro! /.../ Dio ti benedica, mio caro Ronald,
e che tu possa dire le cose che per tanto tempo ho cercato di dire dopo che
io non sarò più qui per
farlo”[88].
E analogamente Christopher Weisman dopo la morte dell'amico Rob Gilson
scrisse a Smith: “io credo che noi ora non stiamo proseguendo senza Rob,
ma anzi che proseguiamo con Rob; non è un'assurdità, anche se non abbiamo
nessun motivo per supporlo, dire che Rob è ancora nel TCBS”[89].
Nelle parole di questi giovani è come
se le aspirazioni ideali e le esperienze di amicizia fossero una
“X” immortale al di là degli individui umani. Questa
idea Tolkien la fa passare nel SdA: col suo senso di “profondità”
dato dal continuo ricordo di persone ed episodi del passato che hanno
impostato e contribuito alla storia che i protagonisti della vicenda
presente stanno vivendo, come osserva Shippey;[90]
e con la sua intenzione di consegnare alle generazioni future (il
'Libro Rosso dei Confini Occidentali'!) il ricordo della vicenda presente
che diverrà passata, come osserva Ferré[91].
E non si tratta solo del ricordo: sia l'intreccio della storia sia i
rapporti interpersonali tra i protagonisti ci comunicano continuamente e in
atto come i destini degli individui siano strettamente e necessariamente
legati, per la vita e per la morte; il rapporto tra Frodo e Sam (e Gollum!)
è in questo senso esemplare[92]. Un'idea, questa
dell'interpersonalità della salvezza, che è tipica della teologia
cristiana novecentesca – non
a caso Weisman nella lettera sopra citata menzionava la “comunione dei
santi” - la quale così
fortemente lungo tutto il XX secolo ha sottolineato il messaggio biblico e
patristico della “escatologia collettiva”[93]. Shippey osserva che
tutta la storia della Terra di Mezzo è stretta da un vincolo di
interpersonalità: essa è come un Limbo in cui i morti non battezzati (perchè
Tolkien pensava che le vicende da lui narrate fossero ambientate in tempi
precristiani) aspettano il giorno del giudizio nel quale raggiungeranno i
loro discendenti salvati e battezzati[94].
Ma
– lungo il XX secolo - al di fuori delle chiese visibili (e forse prima
che in esse) in molti altri campi si è manifestata la generale sensibilità
di questo secolo per la “interpersonalità”: nei movimenti politici,
nella pedagogia, nella psicologia clinica, nelle ricerche storiografiche,
nella filosofia. Un filosofo che, pur non citandolo, Tolkien certamente
conosceva era Robin G. Collingwood[95],
sia per i luoghi e i tempi (erano entrambi colleghi del Pembroke College
negli stessi anni) , sia per la buona fama non solo accademica
dei suoi scritti sulla filosofia della storia, sia per le sue
ricerche storiche specifiche sulla Britannia Romana. Il libro principale di
Collingwood[96]
è The Idea of History del 1946, la cui idea centrale è quella del
“re-enactment”: il pensiero storico (non solo negli storici di
professione, ma in tutti gli uomini) è un rivivere i pensieri delle
persone del passato[97].
Questa idea del “rivivere” ispira quei due romanzi sul “viaggio nel
tempo” che Tolkien lasciò incompiuti: The Lost Road e The
Notion Club Papers[98];
e Flieger ha scoperto che per questi scritti Tolkien direttamente si ispirò
a un libro del 1927, An Experiment with Time del filosofo non
accademico J. W. Dunne[99].
L'idea di “immortalità” che qui si può trovare è quella
- abbandonata però da Tolkien nei suoi romanzi – di persone che,
in stati sognanti o eccitati della mente, rivivono o reincarnano persone e
avvenimenti del passato comunque remoto. L'influenza delle idee di
Collingwood su Tolkien – se mai potesse esser provata – mostrerebbe
rispetto a quella di Dunne
qualcosa di diverso, perchè si riferirebbe non a stati eccitati o sognanti
della mente ma al pensiero pienamente conscio e razionale, anzi al pensiero
“critico”: Aragorn e Arwen “rivivono” le storie di Beren e Luthien
in quanto le ricordano e le pensano ma anche le giudicano, così
integrandole in maniera originale e creativa. Ma,
alla radice della Filosofia della Storia, bisogna decidersi tra alcune
opzioni da base: bisognerebbe decidere per esempio se la storia è ciclica e
allora “nihil sub sole novum” come – più che Qohèlet - pensavano gli
antichi Gentili (per esempio con grande chiarezza l'imperatore e filosofo
Marco Aurelio); oppure decidere, come gli antichi Ebrei, e poi, per la
nostra civiltà cristianizzata dell'Occidente, che la storia procede verso
una qualche direzione, non sapendo magari quale, però senza tornare e
ritornare, e allora qualcosa di nuovo sotto il sole c'è. Questa
seconda opzione accosta il tema della immortalità non tanto al tema della
reincarnazione o del “re-enactment”, ma piuttosto all'idea della
staffetta generazionale: ciascuna persona e ciascuna generazione lascia il
suo unico e irripetibile segno, il quale irreversibilmente cambia ciò che
seguirà, inglobato per sempre nel nuovo che
- come nuovo – purtuttavia emerge. Tolkien
scriveva che ogni evento ha almeno due aspetti: uno riguarda la storia
dell'individuo, l'altro la storia del mondo[100]. E della “storia del
mondo” Tolkien si occupò, almeno nella sua fiction. Con alle spalle le
forti filosofie della storia del XIX secolo (hegeliana, marxista,
positivista), Tolkien si trovava a vivere in un periodo – la prima metà
del XX secolo – in cui la lezione ottocentesca fu replicata e variata con
sovrabbondanza: alcune filosofie della storia classiche e molto influenti[101]
come quelle di Oswald Spengler[102]
e di Arnold Toynbee[103],
ma anche altre intellettualistiche e stravaganti come quella di Edmund
Husserl[104]
o terribili ed oscure come quella di Alfred Rosenberg[105].
Tutte piuttosto pessimistiche,
cosa invero non sorprendente dato quello che stava succedendo e quello che
stava per succedere in Europa e nel Mondo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale
questa superfetazione di filosofie della storia si sgonfiò e sparì. Per la
selezione e lo sviluppo delle eredità del XIX secolo, l'immane dramma
costituì infatti un discrimine: questa eredità (come tante altre) non fu
più seguita, e le cose presero un altro corso. Ma
Tolkien fu un uomo pienamente d'anteguerra e
i suoi Silmarillion e SdA sono - tra l'altro – dei
racconti di filosofia della storia. E nelle sue lettere
ha esplicitato alcuni dei rapporti tra questa e la reale storia del
mondo[106].
Shippey scrive che si potrebbe pensare che Tolkien coi genitori e gli amici
morti e in mezzo alla Grande Guerra, egli
volesse elaborare un mito per giustificare un suo sogno di fuga dalla
morte, ma lui aveva “motivi molto più che personali” per fare questo e
cioè elaborare una mitologia dell’Inghilterra (per
l’Inghilterra)[107].
Come a dire – penso io - che questa mitologia doveva dare nobiltà (come a
Roma l’Eneide nel critico momento della fine della Repubblica)
all'Inghilterra dei suoi tempi, quella della “ora più bella”
churchilliana; in cui il problema della morte e vita personali si innestano
e cercano un senso nella funzione dei popoli nella Storia[108].
La “filosofia della storia”
tolkieniana non è pessimista come quelle di moda ai suoi tempi[109]
e che ho citato sopra: nell'Età degli Uomini Tolkien prospetta sì
malinconia per lo svanire della Bellezza Elfica, ma non un'idea di decadenza
morale o d'altro tipo! Quando parla dello svanire della Bellezza Elfica (o
degli Ent) e del sopravvenire dell'Età degli Uomini, Tolkien –
diversamente da Spengler, Rosemberg, Husserl – non ci dà un messaggio di
“decadenza” ma un messaggio di “finitezza”: questo suo rifiuto di
accodarsi ai tanti “tramonti dell'Occidente” di moda ai suoi tempi
è per esempio esplicitato nel dialogo tra Gimli e Legolas a Minas
Tirith. Come
qualcuno ha osservato, la morte di un individuo per preservare il suo popolo
è sentita da molti come tollerabile e anche giusta, e come giovane soldato
Tolkien vide l'incerto fato delle nazioni europee in guerra attraverso lo
specchio dell'Alto Medioevo, quando la sorte dei piccoli popoli barbarici
– come i Geti del Beowulf - era appesa a un filo, e cominciò a
pensare che l'estinzione dei popoli nella storia è la normalità e non
l'eccezione, e nella sua Terra di Mezzo, come nella Grande Guerra europea,
il tema principale non è la mortalità (e il desiderio di immortalità)
degli individui – diversamente che nel Faust di Goethe – ma
quella dei popoli; nella prima metà del XX secolo le Nazioni Europee,
dimenticandosi l'idea dell'impero universale cristiano, con nazionalismo
wagneriano cercarono “l'immortalità nel reame della mortalità” proprio
come Feanor, Galadriel e gli Eldar ribelli nella Prima Età[110].
E
io commenterei così tale opinione: questo lo fecero tutte le Nazioni nella
Prima Guerra Mondiale, mentre nella Seconda solo alcune: per esempio
l'Inghilterra non lo fece : si difese, e difendendo sé stessa difese il
Mondo e - poi - accettò di buon grado di perdere, nel Mondo oramai mutato,
il suo Impero mondano. Così anche pensa W. A. Senior: nella tolkieniana
“storia del mondo” assistiamo alla distruzione del Beleriand, Gondolin,
Nargothrond, Doriath; la macelleria che Morgoth fa dei Noldor lasciando viva
solo Galadriel richiama la strage di due generazioni di uomini britannici
nelle due guerre mondiali, una perdita che ha
dissanguato il British Empire e lo ha portato alla sua graduale
dissoluzione[111].
Una dissoluzione che Tolkien ( e molti inglesi con lui) non guardava certo
con sfavore![112] La finitezza delle
storie dei popoli così come la finitezza delle vite degli individui è
vista con tristezza ma non con sfavore: la “vera immortalità”,
ricordiamo!, coincide con la finitezza, con la morte. Questo
significato di “immortalità” come inserzione del contributo proprio e
unico – e finito! - che sia i popoli sia le persone danno alla storia del
mondo si applica – nella fiction tolkieniana – sia agli Elfi sia agli
Uomini. Ma c'è un altro significato di “immortalità” che riguarda solo
gli Elfi. Come altrove ho cercato di dimostrare in dettaglio[113]
nel Mondo tolkieniano accadono
molti “avvenimenti” ( guerre, cadute di regni, tradimenti, etc.) ma non
si producono “cambiamenti”: permane per migliaia di anni un “Medioevo
Generico”, privo di quelle dinamiche profonde (cristianizzazione,
rinascimento, rivoluzione scientifica, nascita degli stati nazionali,
illuminismo, rivoluzioni politiche e industriali, etc.) che rendono la
nostra storia reale un vero sviluppo. Ma questo Mondo tolkieniano è quello
delle tre Età dominate dagli “immortali” ( rectius:
longevi) Elfi: infatti delle Età degli Uomini la fiction tolkieniana non ci
dice nulla. Perchè
questa immobilità storica?, mi sono chiesto.
L'immobilità storica - credo - ha un senso perchè riferita al Tempo
degli Elfi. Una storia degli Uomini senza mutamenti culturali e sociali
risulterebbe senza senso e porterebbe allo scetticismo teologico e alla
disperazione: perchè innumerevoli generazioni di individui nascerebbero e
morirebbero, se ciò non servisse in nulla alle generazioni successive, se
non facesse procedere in nessun cammino, se non adempisse nessuna
“missione”? L'Antichità reale ha certamente avuto mutamenti storici, ma
la storiografia antica (nei Gentili, non negli Ebrei) ) di essi non era
cosciente; per essa la natura umana era immutabile e il tempo era ciclico;
da qui il profondo scetticismo verso gli Dei della tradizione e il penoso
senso di disperazione che - come un fiume carsico – riemergono, nonostante
le intenzioni, in un Polibio o in un Tacito.
Invece gli Elfi di Tolkien vivono migliaia
di anni, ed ecco allora che un senso del passare del tempo lo possono
trovare nelle loro esperienze individuali
: esperienze di persone che, nel corso
della propria vita, a fatica e lentamente imparano, lasciano gli errori
passati, hanno una maturazione morale. Tolkien attraverso la “immortalità”
degli Elfi vuole parlare di un aspetto dell'esperienza umana[114].
Non l'esperienza collettiva dell'umanità, ciò che propriamente
chiamiamo Storia, ma l'esperienza singola dell'individuo, ciò che
chiamiamo Vita. Infatti proprio come per gli Elfi nel loro insieme durante
le Tre Età non vi sono mutamenti culturali e sociali, così accade nella
vita di ciascun singolo uomo : il carattere non cambia, perchè non possono
cambiare i dati culturali e sociali del mondo che lo ha formato : un uomo
del XIII secolo - che sia Dante Alighieri o il più umile servo della gleba
- non potrà mai pensare e sentire e agire come un uomo del XVIII o del XX
secolo, come sanno bene gli storici delle "mentalità"[115].
Se
però il carattere non cambia, la vita di un individuo ha senso perchè
cambia la risposta che egli dà al suo carattere. Il “libero arbitrio”
non sta nel cercare di essere un'altra persona e di vivere una realtà
esterna/interna diversa da quella che il Destino ha dato; ma sta nel cercare
di comprenderla ("conosci te stesso") e così fare una critica
- quali gli aspetti buoni, quali quelli cattivi? - e nel comportarsi di
conseguenza. L'esempio chiaro è in Galadriel: nella Prima Età è
un'orgogliosa principessa dei Noldor che va nella Terra di Mezzo contro il
volere dei Valar, non per recuperare i Silmaril come Feanor, ma neanche per
moderarne la leadership sul popolo come Fingolfin. Ella nella Terra di Mezzo
cerca "un dominio suo"[116].
Galadriel alla fine della Terza Età è la donna che più non si allontana
dal suo sposo Celeborn[117],
che conserva in segreto l'anello Nenya, che sorveglia i movimenti del
Nemico, che ospita e incoraggia la Compagnia dell'Anello, che rifiuta -
nella memorabile scena con Frodo - ogni prospettiva di dominio, che va con
Elrond e con Gandalf ai Rifugi Oscuri e lascia per sempre la Terra di Mezzo.
E
questa è la maturazione morale, che per Tolkien è l'unico mutamento nella
storia degli Elfi, in quanto - ritengo - tale "storia" non vuol
parlare (almeno non in primo luogo) della Storia, ma della Vita. E,
siccome la vita degli Uomini è tanto più breve di quella degli Elfi, essi
sono assai maggiormente “inquieti”, perchè più urgentemente appellati
dalla conscia e inconscia
richiesta di una maturazione morale da compiere prima di morire. Garbowski
sottolinea come, nella Athrabeth, Andreth interpreti negativamente la
inquietudine umana: diversamente dalla Ainulindale, per la donna la
morte è la causa di tale inquietudine e non è un dono di Iluvatar, tutte
le risorse umane compresa la ragione non possono penetrare la morte e rimane
solo oscurità[118].
Ma – secondo Tolkien - Andreth ha torto! Come osserva Matthew Dickerson,[119]
gli Uomini in qualche modo hanno una libertà più significativa
degli Elfi, per i quali la musica degli Ainur è Fato, mentre gli Uomini
hanno il potere di “dar forma alla propria vita” oltre la musica.
Infatti per Tolkien la libera
volontà è associata alla mortalità: “il dono della libertà va di
conserva col fatto che gli Uomini dimorino nel mondo solo per breve
tempo”.[120] Anche
qui dunque troviamo il tema della “finitezza”: è finito il tempo della
vita degli individui, è finito il tempo della vita dei popoli, ed è finita
(pur se non è nulla) anche la capacità di una persona di trattare col
proprio destino (o “carattere”). Un
momento della vita di Tolkien “I
giorni sembrano vuoti, e non riesco a concentrarmi su niente. Trovo
la vita così noiosa in questo imprigionamento” Tolkien
(in pensione) “Qual
è il momento di uscire dal mondo? Essere filosofi è imparare a morire” Marco
Aurelio, A sé stesso Fonti
e temi ispirativi di uno scrittore possono – giustamente – essere
studiati per sé stessi, ma Tolkien – che pur antivedeva quanto a lungo
gli accademici lo avrebbero fatto riguardo alle sue opere - pensava che “è
l'uso particolare in una situazione particolare quale che sia, o inventata o
presa volutamente in prestito, o ricordata inconsciamente, che è la cosa più
importante da considerare”[121].
Proviamo dunque a guardare più da vicino la “situazione particolare” in
cui Tolkien trattò maggiormente il tema della morte e dell'immortalità. Testi
chiama gli anni 1956-1960 “l'apice della riflessione tolkieniana”[122],
e in effetti sia negli scritti di fiction allora inediti (e ora pubblicati
nel volume The Morgoth's Ring) sia nelle sue lettere
- specificamente del 1957-58 - vediamo
un Tolkien “filosofo” come non mai. Gli scritti “di fiction” di
questo periodo sono in realtà in buona parte discussioni e analisi
filosofiche su temi come la natura del male, l'amore e la speranza, la
sessualità e la fedeltà, la morte e l'immortalità. Su questo ultimo tema
il culmine è la Athrabeth che
è del 1959, anno in cui Tolkien andò in pensione. Humphrey Carpenter nella
sua biografia scrive che dalla metà
degli Anni Cinquanta egli smise di incontrare gli amici regolarmente: gli
ultimi anni degli Inklings erano ruotati soprattutto attorno alla lettura di
SdA che però adesso era finito, pubblicato e stava riscuotendo un
crescente successo internazionale. Ora egli passava la sua vita soprattutto
da solo a casa, desiderava dedicarsi al suo amato Silmarillion. Però
era depresso, e trovava la sua vita noiosa, quasi una prigione[123]. Quando
in guerra era morto il suo giovane amico Rob Gilson, Tolkien aveva scritto
all'altro amico Smith che il “destino”del loro TCBS era la
“grandezza”, quella di esser uno strumento nelle mani di Dio, di potere
promuovere, fare e anche ottenere “grandi cose”; ora che Rob è morto la
sua “grandezza” si è rivelata esser specificamente quella di un amico
verso i suoi amici, ma Tolkien per sé stesso ritiene di avere ancora quelle
speranze ed ambizioni; però ora si sente un individuo e non più membro di
quel gruppo, che ritiene finito[124].
In questa lettera nel Tolkien 24enne vediamo una persona sensibile ed
affettiva, ma non nostalgica, egli si volge al futuro e non al passato della
propria adolescenza[125].
Alla fine degli Anni Cinquanta il Tolkien quasi settantenne aveva “mosso,
fatto e anche ottenuto grandi cose”: il suo SdA aveva incontrato
molte persone entusiaste di esso e ne avrebbe incontrate tante di più. Egli
aveva inoltre sposato la sua “Luthien”, aveva avuto quella famiglia cui
tanto aspirava, aveva incontrato nuovi e congeniali amici, in primo luogo C.
S. Lewis, aveva potuto esprimere la sua vocazione di filologo come
professore alla università di Oxford. Allora perchè quella noia, quella
prigione? Guardiamo
le cose da un altro punto di
vista: ora il magnum opus di SdA era concluso e da esso
Tolkien si era congedato, ora era in pensione e non faceva più
l'insegnante, i figli erano cresciuti ed erano fuori casa, con gli amici e
con Lewis si incontrava molto raramente, Edith e lui stesso cominciavano a
provare in concreto i problemi dell'invecchiamento. Negli scritti filosofici
di quegli anni egli riassume il suo pensiero sulla immortalità; ne esistono
tre specie: 1) quella “vera” che coincide con la morte di chi, come gli
Uomini, ha un “breve spazio
di vita”; 2) quella “folle” di chi è longevo ma diventa Schiavo del
Potere come i Nazgûl; 3)
quella malinconica di chi è longevo ma è sempre meno interessato al futuro
e sempre più al passato, come gli Elfi. Tolkien sta pensando a tre tipi di
vita, uno breve e due lunghi. Cosa ha in mente? Quella breve gli ricorda i
propri genitori e gli amici del TCBS morti giovani, verso cui si sente come
“in colpa” di essere sopravvissuto così a lungo? Quella lunga e folle
gli presenta la – invero in lui assai debole – tentazione di compiacersi
del successo di SdA e di cercare di accrescere la propria popolarità?
Quella lunga e malinconica gli ricorda che le cose importanti della sua vita
sono dietro le sue spalle e ora ha davanti solo un progressivo
invecchiamento e una maggiore solitudine? Tolkien
non era un narcisista come Heidegger (che diede precise disposizioni
testamentarie affinché i propri inediti fossero pubblicati postumi a
cadenze regolari, al fine di far continuare a parlare di sé, infesto
“Spettro Seriale” della cultura![126])
e chiamava piuttosto “deplorevole culto” la popolarità datagli da SdA.
Probabilmente il terzo tipo di vita – la malinconica longevità elfica –
era quello che sentiva maggiormente come rischio per sé stesso, quella vita
di cui scriveva in una lettera di quegli anni: l'immortalità elfica ha
anch'essa una debolezza, perchè gli Elfi rimpiangono il passato e non hanno
voglia di affrontare il cambiamento, e dunque anche loro cercano un
(limitato) Potere, quello di preservare le cose dal cambiamento[127].
Shippey
sottolinea come Tolkien avesse sempre cercato di fermare un cambiamento
importante nel proprio ambito di interesse e attività: la progressiva
estinzione accademica della Venerabile Filologia Comparata[128].
Ma nella lettera che ho appena citato Tolkien scriveva che con la caduta del
Potere di Sauron gli sforzi
elfici di preservare il passato dal cambiamento caddero a pezzi anche essi!
Cosa può significare questa sua idea? viene in mente che con la caduta del
nazionalismo hitleriano gli sforzi dei filologi di preservare il rango sia
accademico sia sostanziale della filologia - che era nata ed era stata
coltivata ai suoi tempi d'oro proprio con scopi nazionalistici![129]
- caddero in pezzi anche essi, o comunque cominciarono a farlo[130].
Mi
viene anche da pensare che Tolkien “in quanto Elfo” (cioè artista e
studioso[131])
abbia trovato “naturale” la propria longevità: e Carpenter ci racconta
che in quegli anni e dopo, fino alla fine, Tolkien continuò indefessamente
a lavorare sia nella fiction sia nella filologia. Ma, “in quanto Uomo”,
la vide proprio così “naturale” (o, piuttosto, “seriale”?) al
pensiero di essere un sopravvissuto sia ai lontani amici del TCBS sia ai
tanti morti della Seconda Guerra Mondiale (tra cui il più grande medievista
del XX secolo, Marc Bloch, assassinato dalla Gestapo perchè membro della
Resistenza francese )? Sono domande a cui è difficile dare una risposta, ma
sembra necessario almeno il porsele, allo scopo di prendere sul serio le
“sperimentazioni artistiche” e le “riflessioni filosofiche” di
Tolkien su Morte e Immortalità ! In
una lettera del 1958 Tolkien precisa che la cosiddetta immortalità elfica
non è la “vera immortalità” ma è “precisamente una longevità
coestensiva alla vita di Arda”[132].
Arda: cioè questo Mondo! E il Mondo ha continuato ad esistere anche
negli Anni Sessanta e nei primi Settanta: Tolkien certo almeno a quegli anni
era “coestensivo”, ma forse si sentì “svanire” o “sbiadire”
come speculava negli ultimi suoi scritti riguardo agli Elfi durante le Età
degli Uomini? Un
sentimento, una tentazione, credo di sì. Ma – credo - non fu il nerbo
della sua vita: Carpenter ci racconta che gli ultimi anni della vita di
Tolkien furono pieni, se non di relazioni, certamente però
di desiderio di relazioni interpersonali con la moglie, coi
figli, con i fan, con gli ex colleghi, addirittura con gli effimeri ospiti
dell'Hotel Miramar. Cioè credo che egli, in quanto Uomo, fosse riuscito
fino all'ultimo a uscire da sé stesso e dai suoi ricordi, e – attraverso
l'amore delle persone e per le persone
– a proiettarsi nel presente! Ma,
prima di concludere, dobbiamo brevemente volgerci anche a Tolkien “in
quanto Elfo”, e cioè studioso di scienze umane e – soprattutto –
grande artista. Se egli aveva vagheggiato di comporre una “mitologia per
l'Inghilterra” - osserva John Rateliff – il risultato ottenuto è stata
una “mitologia per i Nostri tempi”, perchè SdA è stato tradotto
in 38 lingue, la maggior parte dei suoi lettori non è mai stata in
Inghilterra, e perfino quelli della Germania – la mortale nemica
dell'Inghilterra di sessant'anni fa – preferiscono questo libro alla Bibbia
e ai libri dell'autore nazionale Thomas Mann[133].
Ma già Tolkien poteva percepire l'intenso gradimento del pubblico e se ne
meravigliava, anche perchè in primo luogo aveva scritto SdA per dare
piacere a sé stesso, e per fare un “esperimento” di induzione di
“credenza secondaria”[134]. Cosa
significava “esperimento” per Tolkien? Carpenter fa dire a Tolkien in un
tipico giovedì sera degli Inklings: certi libri risvegliano desideri che
non andrebbero risvegliati, come fanno i libri pornografici, ma i desideri
risvegliati dai libri sulle Fate sono di tipo diverso; chi legge la
pornografia vorrebbe vivere nella realtà situazioni simili a quelle
descritte dai libri (e, quando lo fa, rimane deluso), chi invece legge il
capitolo su Moria di SdA non vuole realmente “sperimentare” i
pericoli di quelle miniere. Gli risponde Lewis: l'immaginazione pornografica
svuota la realtà e la rende meno appetibile, invece il racconto di un bosco
incantato fa sì che un bambino poi apprezzi maggiormente i boschi reali.[135]
E
Shippey scrive una cosa molto interessante a proposito della filologia nel
suo percorso storico: il fiorente sviluppo di questa disciplina nel XIX
secolo permise di scoprire Goti e Unni e altre culture nordiche, e
ai filologi di allora e anche a Tolkien sembrò che si potesse
arrivare almeno vicini a ricostruire i “Mondi Perduti” di quei popoli, e
la tecnica stessa della filologia, che “ricostruisce”, li portava verso
questo desiderio di tipo romantico, che però i filologi di oggi, tra cui
Shippey stesso, giudicano essere di impossibile realizzazione: troppo pochi
sono infatti i documenti rimasti! Se ricostruzione vi può esser di quei
“Secoli Bui”, essa può esser fatta solo con l’immaginazione
romanzesca, come fecero prima William Morris e poi Tolkien stesso.[136]
Qui mi viene da pensare che nella misura in cui Tolkien si accorse dei
limiti della filologia, non solo nel suo declinante ruolo accademico e
sociale di cui si è detto sopra, ma anche
di quelli strutturali ed intrinseci cui si accenna ora, cercò sempre
di più un'altra via per il “re-enactment”di cui sentiva bisogno nella
sua fiction , quella fiction che
a volte chiamava “il mio vero lavoro”. Ma
le cose non sono così semplici: da una parte ancora nel 1961 lavorava come
filologo per l'edizione critica di Ancrene Wisse, e dall'altra le
continue aggiunte e modifiche all'infinito Silmarillion non avevano
più per Tolkien il significato che avevano avuto la composizione di SdA
e quella stessa del Silmarillion quando ancora, anni prima, pensava
di pubblicarlo assieme a SdA. La giovinezza non è come la vecchiata!
Tutto cambia (e passa! ): Tolkien era sempre più cosciente – e lo
esprimeva – che anche come autore di fiction, qualcosa era cambiato, e le
sue risorse non erano infinite.
Shippey, nella sua analisi della fiaba-allegoria Fabbro di Wootton Major
(del 1965), sottolineando che in essa Tolkien si identifica nel fabbro
protagonista, indica come Tolkien in quegli anni percepisse che sia la
filologia sia il Mondo di Feeria (la fiction, la subcreazione
artistica) avessero oramai
terminato di dare il loro contributo a Tolkien come individuo, anche se non
ad altre persone che in altri tempi e in altri modi le potranno coltivare e
portare avanti a modo loro[137].
Cioè – rispetto agli Anni Trenta quando Tolkien, nel saggio sul Beowulf
e in quello Sulle Fiabe, baldanzosamente indicava la potenza
rispettivamente della filologia e della fiction subcreativa – ora, nel
1965, pur continuando a lodarne
i benefici, ne indica invece i “limiti”, sia come risorse salvifiche per
un singolo individuo, sia in sé stesse, in quanto caratterizzate da limiti
intrinseci. È anche questo – penso -
un tolkieniano Elogio della Finitezza: la filologia e la fiction sono
sì dei beni, ma sono dei beni “finiti”, dunque esse sono certamente da
apprezzare, ma non sono da
idealizzare. Ecco,
concluderei, questo convincimento guadagnato in forma esplicita con la
riflessione (con la “filosofia”) solo in tarda età, è stato però
“agito” cioè vissuto, pur senza un'uguale esplicita consapevolezza, da
Tolkien lungo tutta la sua
esistenza. In Tolkien la costruzione fantastica non è mai stata un
sostituto della vita reale (una forma di “pornografia per
intellettuali”): non dei rapporti interpersonali, non dei doveri del
lavoro, non della serietà della ricerca negli studi. Luthien non ha
sostituito Edith, la Terra di Mezzo non ha sostituito la storia d'Europa che
egli attraversava, e gli Annali del Silmarillion non hanno sostituito
le congetture oggettive sui testi medievali. Ma quelle creazioni (“subcreazioni”!)
fantastiche lo hanno aiutato a coinvolgersi maggiormente in queste
esperienze della sua vita. E ciò avvenne anche nell'ultimo tratto di essa
– quello della vecchiaia e della solitudine - quando Tolkien, purtuttavia,
continuava a filosofare e a scrivere sulla longevità degli Elfi e
sulla mortalità degli Uomini. De te fabula docet!
[1] Mai in quelle pubblicate in vita, nelle postume una volta cita Platone in The Notion Club Papers a proposito del mito di Atlantide che rimanderebbe a quello di Nùmenor (Sauron Defeated, HarperCollins Publishers, London, 1993, p. 249) e una volta di sfuggita ( a proposito della struttura linguistica del Latino) nelle lettere il poco noto filosofo tedesco Theodor Haecker (Letters, George Allen & Unwin Ltd., London, 1981, n. 338 p. 419), che fu uno dei pochissimi esempi di intellettuale tedesco antinazista, in contatto con la Rosa Bianca; ma il contesto della citazione fa pensare che Tolkien si riferisca al libro di Haecker su Virgilio, letterario e non filosofico (Virgil, Father of the West, trans. by Arthur Wesley Wheen, Sheed & Ward, London, 1934 ). [2]
Letters,
cit, n. 131, p. 151. [3]
Email, 21.08.09. [4]
J.R.R. Tolkien, The Morgoth's Ring, HarperCollins
Publishers, London, 1994, p. 343. [5] Summa Theologiae, Ia-IIae, quaestio 34, art. 2: Tommaso distingue tre tipi di piacere (il piacere è il sentimento che segue il desiderio di un qualcosa ritenuto essere un bene [bonum]) che sono basati su tre tipi di “bonum”: a) “bonum per se”, cioè “per suam naturam” e dunque universalmente tale; b) “bonum conveniens secundum dispositionem” (dunque non universalmente tale) ma tale in relazione ad alcune circostanze “non naturali”, per esempio per un uomo malato alcune piante sono per lui medicinali mentre sono velenose per gli uomini sani; c) “apparens bonum”, quando un uomo è in errore e pensa esser bene ciò che in realtà è un male” . Mi sembra evidente il parallelismo tra il “natural desire”e il “bonum per se”, tra il “personal desire” e il “bonum conveniens secundum dispositionem”, tra lo “illusionary desire”e lo “apparens bonum”. [6]
Humphrey Carpenter, The Inklings, Jaca Book, Milano, 1985,
p. 149. [7] Claudio Testi ha acquistato la copia di Tolkien sul mercato del collezionismo e ha ricevuto una perizia positiva da Carl Hostetter. [8]
The Morgoth's Ring,
cit, p. 320. [9]
Summa Theologiae, Ia-IIae, quaestio 40, artt. 1,3,6. [10]
Summa Theologiae, pars secunda secundae partis, quaestio 18,
art, 4, ad secundum et ad tertium. Su Tomamso d'Aquino come fonte per
Tolkien si veda di Bredley J. Birzer, Aquinas in Michael Drout
(editor), J. R. R. Tolkien Encyclopedia. Scholarship and Critical
Assessment, Routledge, New York and London, 2007, p. 21. [11] Vedi Gergely Nagy, Plato, in J. R. R. Tolkien Encyclopedia, cit, p. 513. E Gregory Bassham ricorda l'uso tolkieniano del termine “demiurgico” riferito ai Valar e preso dal Timeo, Nùmenor ispirata all'Atlantide del Crizia, l'Anello ispirato da quello di Gige ne La repubblica, la reincarnaziondegli Elfi ispirata al Fedone (email, 15.06.09) [12]
John William Houghton, Augustine in the Cottage of the Lost
Play, in Jane Chance (editor), Tolkien the Medievalist,
Routledge, New York London,2003, pp.171-182. E anche dello stesso
Augustine of Hippo, in J.
R. R. Tolkien Encyclopedia, cit, p. 43. [13] Tom Shippey,Tolkien Autore del secolo, Simonelli, Milano, 2004, pp. 162-173. E Gregory Bassham argomenta i motivi per cui è sicuro che Tolkien possedesse il De consolatione philosophiae (email, 15.06.09). [14]
Michale Drout (editor), J. R. R. Tolkien Encyclopedia, cit.
; Wayne Hammond &
Christina Scull, J. R. R. Tolkien Companion and Guide. Reader's
Guide,
HarperCollins, London, 2006. [15]
Letters, cit., , n. 26, n. 49, n. 153, n. 156, n. 183. [16] Ibidem, cit, n. 15, n. 49, n. 52, [17] Ibidem, n. 153, p. 189 (mostrando così implicitamente, mi sembra, di conoscerne qualcuno!). [18] n. 157, n. 211, n. 199 [19] n. 155, n. 84, n. 156: in quest'ultima interessante è notare che “religione” equivale a “mito” (“racconto”, in greco) e a “rappresentabilità” sensibile, come anche dice più volte (senza però mai esplicitarne la spiegazione) nel suo saggio Sulle Fiabe. [20]
n. 84. [21]
Cfr. Tom Shippey Goths and Huns: the Rediscovery of Northern
Cultures in the 19th Century, in Roots and Branches.
Selected Papers in Tolkien, Walking Tree Publisher, Zollikofen (Switzerland),
2007, pp.114-136. [22]
Beowulf: the
Monsters and the Critics,
in The Monsters and the Critics and other Essays, George Allen
and Unwin,London, 1983 [23]
J.R.R. Tolkien, Sauron Defeated, cit.,
pp. 159, 178. [24] Secondo me del tutto voluta: per esempio nelle versioni preparatorie del saggio Sulle fiabe Tolkien cita Carl G. Jung, ma in quella definitiva cita solo la parola 'archetipo' ma non il nome dello psichiatra zurighese, vedi Tolkien on Fairy Stories, edited by V. Flieger e D. A. Anderson, HarperCollins, London, 2008, pp. 129, 170, 307. [25] Ambientata al Magdalene College la sera di un giorno tra l'autunno del 1940 e il dicembre del 1941; vedi I Giovedì sera in Humphrey Carpenter, The Inklings, cit., pp. 147-172 [26] Contro Karl Marx e il teologo Karl Barth., ibidem, p.154. [27] Da ripetute comunicazioni fattemi da Shippey . [28] Vedi il commento (secondo me giustamente) critico di Shippey verso il padre della filosofia analitica anglosassone G. M. Moore nel suo Tolkien Autore del secolo, cit, p. 185, e anche una sua testimonianza personale su una disputa coi “filosofi” di Oxford (email, 14.07.09). [29]
ibidem [30]
Inside Language. Linguistic and Aesthetic Theory in Tolkien,
Walking Tree Publishers, 2007, pp. 140-141 [31] Simile (anche se non identica alla mia) l'opinione di Patrick Curry: l'opera di Tolkien ha profonde implicazioni filosofiche, ma non si possono trovare dirette connessioni con testi filosofici (email. 21.03.09). E John Garth scrive di non avere mai visto negli inediti tolkieniani alla Bodleian Library nomi di filosofi o temi filosofici e che non vi sono titoli filosofici nelle liste di libri posseduti da Tolkien (email, 26.03.09). E Dimitra Fimi afferma le stesse cose (email, 05.04.09). E questo risulta anche a me essendo andato poi personalmente alla Bodleian e alla English Faculty Library. [32]
Come ricorda W. A. Senior, Loss Eternal in Tolkien's Middle-earth,
in George Clark and Daniel Timmons (editors), J.R.R. Tolkien and His
Literary Resonances, Greenwood Press, Westport – Connecticut,
2000, p. 173. [33]
Ibidem. [34]
Tom Shippey, La Via per la Terra di Mezzo, Marietti 1820,
Genova-Milano, 2005 (The Road to Middle-earth,
HarperCollins Publishers, London, 2005), p. 418. [35]
Tom Shippey, Roots and Branches. Selected Papers in Tolkien,
Walking Tree Publisher, Zollikofen (Switzerland), 2007, pp. 317, 383. [36]
J.R.R. Tolkien, The Morgoth's Ring, cit.: questo libro
assieme a quello delle Letters sono i due volumi tolkieniani più
“filosofici”. [37]
Ibidem, p. 317. [38] Ralph C. Wood. The Gospel According to Tolkien. Visions of the Kingdom in Middle-earth, Westminster John Knox Press, 2003, p. 159. E Anne Mathie (Tolkien and the Gift of Mortality in www.firstthings.com , November 2003) commenta che per Tolkien il “mondo materiale” e il “corpo” non possono essere fuggiti, pena conseguenze terribili. [39] Vedi il saggio di Claudio Testi nel presente volume. [40] The Gift of Ilùvatar, in “The Australian Journal of Theology”, Febr. 2004, issue 2, online. E Shippey osserva che la teologia su “anima e corpo” ci ha messo tempo a svilupparsi e in una delle più popolari raccolte di sermoni anglosassoni si afferma semplicisticamente che l'anima è buona e il corpo è cattivo, nonostante la teologia di Tommaso fosse già nota al tempo, e Tolkien che conosceva questi testi è molto attento a dare pieno valore alla Incarnazione (email, 27.06.09). In effetti ho verificato che tra i libri posseduti da Tolkien (e ora consultabili alla English Faculty Library di Oxford) c'è un Old English Homilies (edited by R. Morris), London, N. Trübner & Co, 1868, tra le quali omelie per es. c'è una intitolata Hic Dicendum est de Quadragesima in cui un concetto fondamentale è “il corpo ama ciò che l'anima odia”, pp. 11-25. [41]
Wood, The Gospel, cit, pp. 158-160 [42]
Casey, The Gift, cit. [43]
Letters,
cit., n. 291, p.371. [44]
Christopher Garbowski, Recovery and Transcendence for the
Contemporary Mithmaker, Maria Curie – Sklodowska University Press,
Lublino, 2000, p. 168. [45] La via per la Terra di Mezzo, cit., p.337 [46] Cfr. Franco De Masi, Il limite dell’esistenza. Un contributo psicanalitico al problema della caducità della vita, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 21; sull'idea freudiana dell'assenza di una rappresentazione oggettiva della morte nella mente umana, si veda anche il saggio di Roberto Arduini nel presente volume. E sui temi del dolore fisico e morale e sulla differenza tra paura e timore, si vedo in questo volume il saggio di Giampaolo Canzonieri. E scrive W. A. Senior, ( Loss Eternal, cit., p. 173) che l'idea principale in Tolkien è quella del doloroso senso di perdita, di cui la morte è solo una delle forme. [47] Franco De Masi, Il limite dell’esistenza, cit., pp. 107-109,129, 96. [48] Vincent
Ferré, La Mort dans Le Seigneur des Anneaux, « seconde
partie » del libro Tolkien:
sur les rivages de la terre du milieu, Christian Bourgois Éditeur,
Paris, 2001, pp. 253-255. [49] Vedi il saggio di Alberto Ladavas nel presente volume. [50] Letters, cit., n. 208, p. 267. [51] Ibidem, n. 211, p. 284. Su questo punto - pur se in maniera un po' confusa – vedi anche Peter Kreeft : in Tolkien ci sono due Immortalità: quella falsa è la “longevità seriale” , quella vera è un naturale desiderio di Fuga dalla Morte e questa è l'eucatastrofe descritta in Leaf by Niggle, la vera immortalità è un'autopurgazione, autosacrificio; ci sono anche due Morti: quella cattiva è la morte della coscienza ed è legata alla falsa immortalità, quella buona è la morte dell'egoismo ed è legata alla vera immortalità; e Tolkien scrive che gli atti più grandi dello spirito umano sono atti di abnegazione ( The Philosophy of Tolkien, Ignatius Press, San Francisco, 2005, p. 96-100). [52] Letters, n. 212, p. 285. Vedi i saggi di Alberto Quagliaroli e di Andrea Monda nel presente volume. [53] Ibidem, n. 181, p.236 [54] Così John D. Rateliff (“And All the Days of her Life are Forgotten”, in Wayne Hammond & Christina Scull [editors], The Lord of the Rings 1954-2004, Marquette University Press, Milwaukee, 2006, pp. 87-88) riassume questo punto: la proprietà comune a tutti gli Anelli del Potere era il rallentare i decadimento di ciò che è amato e Tolkien lo giudica un errore fondamentale degli Elfi: se i Numenorani vogliono vivere per sempre in un infinito presente, gli Elfi invece vogliono che il passato duri per sempre, entrambi gli errori cercano di frustrare la capacità del futuro di dare i sui propri contributi; ma Iluvatar dà agli Uomini il tempo e la morte che gli permettono di creare, il presente non è una lavagna vergine ma una lavagna che è stata cancellata (perchè il passato deve cedere al presente) mentre gli Elfi aggrappati al passato sono costretti a svanire assieme con esso. [55] Vedi di Nietzsche le Considerazioni inattuali (1873-1876) e di Croce La storia come pensiero e come azione (1938). [56] Tolkien, Letters, cit., n. 153, p.189: gli Elfi rappresentano alcuni aspetti degli uomini reali. [57] Nel Panel Discussion on Mortality and Immortality fatta a Birmingham nel 2005, alla domanda sul perchè gli Uomini giusti (come Aragorn e i primi Re di Nùmenor) vivano a lungo, Harm Scelhaas ha risposto che tanto più una persona può sostenere la vita tanto più apprezza il dono della mortalità alla fine (Tolkien 2005.The Ring Goes Ever On. Proceedings, The Tolkien Society, Coventry, 2008, p. 46). Io dissento e risponderei invece: questa idea della longevità come “premio” è un residuo veterotestamentario in Tolkien (i patriarchi) ed è presente forse nella idea stessa della longevità degli Elfi, stirpe che mai si allea con Melkor e con Sauron; ma è un'idea abortita e anodina, infatti nelle storie di Tolkien vari Uomini giusti (ed Elfi giusti) muoiono prematuramente, e Tolkien non poteva dimenticarsi le vite di molti Santi cristiani o quelle di vari protagonisti del Nuovo Testamento a cominciare da quella di Gesù: l'esser longevi non è affatto una precondizione per apprezzare il dono della mortalità! [58] Nella tradizione del cristianesimo le “cose ultime” sono: la Morte, Il Giudizio, l'Inferno, il Paradiso. [59] Lo “ultimo fine” è detto anche – da un altro punto di vista - “sommo bene”: si tratta sempre della Felicità, vista o come principio (causa finale) delle azioni umane, o come criterio di preferenza nella comparazione dei vari beni tra loro quando sono in conflitto e bisogna scegliere. [60] I limiti dell'esistenza, cit,. p. 23 [61]
Ibidem,
p. 101. [62]
Recovery and Transcendence,
cit., p. 168, corsivo mio. [63] La Via per la Terra di Mezzo, cit., p. 336. Ma Gregory Bassham dissente da chi pensa che la morte non sia punizione del peccato e sia invece inerente alla natura umana; per lui Tolkien ritiene gli Uomini originariamente immortali anche se cambiarono dopo il peccato; si sbaglia Shippey e non c'è contraddizione tra l'essere “dono” (in quanto cura della stanchezza data dal mondo) e l'essere “punizione”(email, 15.06.09) [64]
Summa Theologiae, pars prima , quaestio 10, articulus 1. [65]
Immortality and the Death of Love: Tolkien and Simone de Beauvoir,
in Tolkien 2005.The Ring Goes Ever On. Proceedings, cit.,
p. 127. [66] Letters, cit., n. 156, p. 205. [67]
John Garth, Tolkien e la Grande Guerra (2003),
Marietti1820, Genova-Milano, 2007, p. 149. Si impone un confronto con la
poetica nota scritta da Freud proprio nel 1915, che gli valse il
prestigioso premio “Goethe” e intitolata Caducità: in essa Freud
racconta di una passeggiata fatta in montagna assieme a un giovane poeta
che, nel mentre ammirava la bellezza della natura circostante, esprimeva
una profonda tristezza al pensiero della
caducità di tale bellezza (Freud,
Opere, Boringhieri, Torino, 1976, vol. 8, pp.173-176). [68] Benedetto Croce, Zur Theorie und Geschichte der Historiographie, Tübingen Mohr, 1915 ; Karl R. Popper, Miseria dello storicismo (1957), Feltrinelli, Milano1997; Popper scrive che pervenne a questa tesi sull'impossibilità di prevedere il futuro nell'inverno 1919-1920 “attraverso una disanima del mitico, impellente avvento della Rivoluzione comunista mondiale”, p. 7. [69]
Another Road to Middle-earth,
in Roots and Branches, cit., p. 380-383. [70] La Via per la Terra di Mezzo, cit., p. 274 [71]
Bill Davis , Choosing to Die: the Gift of Mortality in
Middle-earth, in Gregory Bassham (editor), The Lord of the
Rings and Philosophy, Open Court, Chicago and La Salle, 2003, p. 127
: Davis presenta la metafora di una casa in cui non c'è una porta di
uscita (vita degli Elfi) e di un'altra casa in cui tale porta c'è (vita
degli Uomini), e si domanda dove conduca quella porta, in un posto
degno? Nel nulla? E conclude : sentendosi intrappolati in un mondo senza
via di fuga, gli Elfi invidiano la possibilità dell'annichilimento;
sentendosi incerti e disperati, gli Uomini invece temono che la propria
vita si annichili. [72] Avvicinandosi alla fine della sua lunga vita, Norberto Bobbio scriveva: “Tutto ciò che ha avuto un principio ha una fine. Perchè non dovrebbe averla la mia vita?” (De senectute e altri scritti autobiografici, Einaudi, Torino, 1996, p. 41). [73]
Simon Critchley, The Book of the Dead Philosophers, Granta
Books, London, 2008, pp. 280-281 [74] La Via per la Terra di Mezzo, cit., p. 310. [75] Letters, cit., n. 181, p. 235. [76]
Shippey, La Via per la Terra di Mezzo, cit. , pp.
307-308. [77]
Davis, Choosing to Die, cit., p. 135 [78]
Shippey, email del 05.10.08, in cui aggiunge che Tolkien non
avrebbe dovuto far andare Sam nelle Terre Immortali dopo la morte di
Rosie, meglio sarebbe stato farlo morire nella Terra di Mezzo come nel
viaggio di s. Brendano . [79]
Richard C. West, “Her Choice was Made and her Doom was
Appointed”, in Wayne
Hammond & Christina Scull [editors], The Lord of the Rings
1954-2004, cit., pp. 326-327. [80] Casey, The Gift of Ilùvatar, cit. E Amaranth (Death in Tolkien's Legendarium, sito web della Valar Guild, 2007) sottolinea come gli Elfi reincarnati normalmente rimangono in Aman, e tornano nella Terra di Mezzo solo se hanno una particolare missione da svolgere. [81] La Via per la Terra di Mezzo, cit., pp. 271-273. [82] Vorrei rimandare in questa nota delle frasi di Benedetto Croce sui temi della morte, dell'immortalità, dell'individuo e della sua missione (vedi Frammenti di etica [1922] Laterza, Bari, 1981, pp. 23, 25). [83] In John Garth, Tolkien e la Grande Guerra, cit., p. 242 [84] Letters, cit., n. 181, p. 234. [85] Ibidem, n. 310, pp. 399-400. Sul tema della “missione” interpersonale e ancora più specificamente patriottica che dà senso alla vita e alla morte individuali, si veda il saggio di Simone Bonechi nel presente volume [86] E aggiunge: “è uno dei più tristi finali nella letteratura” ( Tolkien and the Gift of Mortality , www.firstthings.com, November 2003). [87] La Via per la Terra di Mezzo, cit., p. 312. [88] Lettera del 3 Febbraio 1916 citata in Garth, Tolkien e la Grande Guerra, cit., p. 163. [89] Lettera del 30 Agosto 1916 che poi Smith inoltrò a Tolkien, ibidem, p. 247. [90] La Via per la Terra di Mezzo, cit., pp. 427-439. [91] Vincent Ferré, Tolkien, sur le rivages de la Terre du Milieu, cit., p. 274: tomba e monumento, il romanzo perpetua la memoria delle vittime della Guerra dell'Anello, passate alla Storia. [92] Ibidem, pp. 197-199: alleanze e gruppi servono per vivere, le coppie sopravvivono e i soli muoiono, perchè l'individuo si fa prendere dalla ùbris, “la solitude conduit avec certitude à la mort”. E Anna Mathie (The Gift of Mortality, cit.) osserva che invece di desiderare un vita immortale per sè, gli Hobbit (come dovrebbero gli Uomini!) umilmente sperano di passare la vita alle nuove generazioni. [93] Per una sintesi di questo percorso – che nel magistero cattolico è culminato con il capitolo VII (L'indole escatologica della chiesa peregrinante) della costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano II sul “popolo di Dio” - vedi il bel libro di teologia storica e sistematica di p. Ruiz de la Peña, L'altra dimensione. Escatologia cristiana, Borla, Roma, 1981, nei capitoli 5°- 8° e 11°. [94] La Via per la Terra di Mezzo, cit., pp. 291-292. [95]
Cfr. Alex Lewis, The Ogre in the Dungeon, “Mallorn”
issue 47, Spring 2009, p. 15, dove l'autore ipotizza che la “Andrew
Lang Lecture” del 1939 (Sulle fiabe) fu procurata a Tolkien da
Collingwood stesso attraverso un
ex studente del Pembroke College. E anche Shippey ritiene che, pur
Tolkien non essendo un esperto di filosofia, conosceva però Collingwood
e magari aveva interesse per lui (email,
07.02.09). E anche Dimitra Fimi argomenta la sua convinzione che i due
si conoscessero bene (email, 05.04.09). E anche Douglas Anderson ritiene
che i due sia fossero amici sia condividessero alcuni interessi (email,
08.04.09). E Claudio Testi mi segnala un manoscritto catalogato come A
14/2 alla Bodleian Library; in cui Tolkien, dopo aver citato Beda a
proposito del nome 'Britain', cita anche Collingwood e osserva che
Collingwood sta scrivendo sulla Britannia romana e, essendo filosofo non
meno che storico, si
interessa solamente delle fonti scritte di tipo filosofico, ma non di
quelle letterarie nè dei problemi linguistici (email. 07.08.09). Io
personalmente osservo che nel suo libro
Philosophy of Enchantment (Clarendon Press, Oxford, 2005), una
sezione del quale si intitola Fairy Tales, scritto nello stesso
momento in cui Tolkien preparava la conferenza Sulle Fiabe,
Collingwood si occupa di temi quali la diffusione geografica e temporale delle fiabe, del loro riferirsi ad “archetipi”, del
significato della magia, della loro funzione per gli adulti e non per i
bambini. Tutti temi trattati anche da Tolkien. Credo che la recente
biografia di Collingwood (Fred Inglis, History Man, Princeton
University Press, Princeton e Oxford, 2009, pp. 105, 201, 223),
pur, citando tre volte Tolkien, sia molto insufficiente su questo punto
delle relazioni tra i due autori. [96] Tra i filosofi suoi contemporanei Collingwood trovò corrispondenza di idee soprattutto con l'italiano Benedetto Croce sul quale scrisse più volte e di cui direttamente e indirettamente diffuse le idee (soprattutto di filosofia della storia) nel mondo anglosassone, come ricorda William H. Dray, l'autore del più recente e più completo studio complessivo studio su Collingwood (History as Re-Enactment, Oxford University Press, Oxford, 1995, p. 26). Nella sua biografia intellettuale di Croce, Fausto Nicolini afferma che il filosofo inglese col quale Croce ebbe più stretti e frequenti rapporti epistolari e personali fu Collingwood e ne racconta i particolari ( Croce, UTET, Torino, 1962, p. 485). [97]
Vedi The Idea of History.
Oxford: Oxford University Press , 1946,
pp. 215-216,
287, 300. [98]
History of Middle-earth,
voll. 5 e 9. [99]
Verlyn
Flieger, Tolkien’s
Experiment with Time in Aa.Vv. (a c. di P.Reynolds e G. Goodnight), Proceedings
of the JRR Tolkien Centenary Conference, The Tolkien Society &
The Mythopoeic Press, Milton Keynes and Altadena, 1995,
pp. 39 - 44, tradotto in italiano da Roberto di Scala in “Terra di
Mezzo” n. 7, primavera 1998, pp. 7-14. [100] Letters, cit., n. 181, p. 233. [101] Che difficilmente, data la loro diffusione in molti ambienti diversi, Tolkien avrebbe potuto ignorare, come pensa anche Michael Drout: “il rapporto tra Tolkien e i filosofi non è stato ancora esplorato sufficientemente, dunque questa ricerca è importante, purtroppo non abbiamo ancora la lista completa dei libri posseduti da Tolkien; io sarei personalmente scioccato se Tolkien non avesse conosciuto Spengler e Toynbee, ma provarlo è altra faccenda” (email, 22.03.09). [102] Der Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell'Occidente), del 1918. [103] A Study of History del 1934. [104] Die Philosophie in der Krisis der europäischen Menschheit (La filosofia nella crisi della umanità europea) del 1935. [105] Der Mythus des 20° Jahrhunderts (Il mito del XX secolo) del 1934. Si veda una interessante comparazione tra la filosofia della storia di Rosenberg e quella di Tolkien in: Christine Chism, Myth and History in World War II, in Jane Chance (editor), Tolkien the Medievalist, cit, pp. 72-75. [106]
Per esempio: n. 13
pp. 144, 157; n. 211 p. 283, n. 294 p. 376, n. 183 p. 244. Si veda, di
chi scrive, una sintesi e un'interpretazione in Storia reale e storia
immaginaria nel Signore degli Anelli, in “Terra di Mezzo” n. 4,
settembre 1996, pp. 24-35, ristampato in Franco Manni (a cura di), Mitopoiesi.
Fantasia e Storia in Tolkien, Grafo Editore, Brescia, 2005, pp.
85-104. In inglese: Real
and Imaginary History in The Lord of the Rings, “Mallorn”, issue 47, Spring 2009, pp. 28-37. [107] La Via per la Terra di Mezzo, cit., p. 420. [108]
Per queste relazioni tra la “finest hour” dell'Inghilterra e
la composizione del SdA, si veda di me e Simone Bonechi The
Complexity of Tolkien's Attitude Towards the Second World War, in The
Ring Goes Ever On. Proceedings of the Tolkien 2005 Conference, 50 Years of the Lord of the
Rings, The
Tolkien Society, Coventry, 2008, vol. 1, pp. 33-51. [109] Meno pessimista anche di quella di Christopher Dawson, che dal canto suo era meno pessimista di Spengler & C. Tolkien cita più volte Dawson nel saggio Sulle fiabe e il rapporto tra i due viene segnalato da Bradley J. Birzer (J R R Tolkien's Sanctifying Myth: Understanding Middle Earth, Intercollegiate Studies Institute, 2002) e da Gregory Bassham (email, 15.06.09). [110]
“Spengler” (pseudonimo), Tolkien's Ring: When immortality
is not enough, in “Asia Times Online Ltd.” 2003. [111]
W. A. Senior, Loss Eternal in Tolkien's Middle-earth, cit.,
p. 176. Sulla morte collettiva dei
popoli e delle istituzioni nella fiction tolkieniana vedi anche il
capitolo intitolato Le Déclin in Vincent Ferré, Tolkien: sur
les rivages de la terre du milieu, cit., pp. 253-255. [112] Letters, cit., n. 53 p. 65, n. 77 p. 89. [113] Franco Manni, Storia reale e storia immaginaria, in Mitopoiesi, cit. p 91. [114]
Letters,cit., n.153, p.
189. [115]
Si definisce "mentalità" quel nucleo di convinzioni
che accomunano tutti gli
uomini di un certo contesto storico-geografico, indipendentemente
dall'istruzione, dalla genialità personale, dal sesso, dalla
professione, dalla ricchezza, dall'età. Vedi per es. Michel
Vovelle, Ideologies and Mentalities, Polity Press, Cambridge,
1990. [116]
Il Silmarillion,
Bompiani, Milano, 2000, p. 97; Racconti incompiuti, Rusconi, Milano, 1981, pp. 311-317: "Dei
figli di Finarfin, sono l'ultima. Ma il mio cuore è ancora pieno di
orgoglio. Quale mai torto ha commesso la dorata casa di Finarfin che io
debba chiedere il perdono dei Valar o accontentarmi di un'isola in mezzo
al Mare, in origine Aman la Beata? Qui sono più potente." [117]
Diversamente che nei tempi precedenti. Cfr.
Racconti Incompiuti,
cit., pp. 323-327, 332. [118]
Garbowski, Recovery and Transcendence, cit., p.
167 [119]
Following Gandalf,
Brazos Press, Grand Rapids , 2003, p. 109. [120]
Silmarillion, cit., p.
44 [121] Letters, cit., n. 337 p. 418. [122] Cfr. il saggio di Testi nel presente volume. [123]
Humphrey Carpenter, JRR Tolkien. A Biography,
HarperCollins Publishers, London, 1977, pp. 239-243. [124] Letters, cit., n. 5 pp. 9-10. [125] Su questo punto cruciale della sua vita, Tolkien ha un orientamento sostanzialmente diverso dai tanti poeti della Grande Guerra, idealizzanti e nostalgici, che molto bene analizza Paul Fussell nel suo interessante e acuto libro The Great War and Modern Memory (1975), Oxford University Press, , 2000. [126] Vedi quanto documenta Enrico Berti nel suo Una metafisica problematica e dialettica, in Aa. Vv., Metafisica. Il mondo nascosto, Laterza, Bari, 1997, p. 45. [127]
Letters,
cit., n. 181 p. 236. [128]
Fighting the Long Defeat: Philology in Tolkien's Life and
Fiction,
in Roots and Branches, cit., pp. 139-156. [129]
Cfr. di Shippey: Grimm,
Grundtvig, Tolkien: Nationalisms and the Invention of Mythologies,
in Roots and Branches, cit., pp. 80-96. [130] Shippey mi diceva che nel mondo anglosassone la Filologia Germanica è talmente decaduta che al giorno d'oggi non ci sono più giovani filologi in grado di redarre “edizioni critiche” dei testi medievali di quella famiglia di lingue. E il mio vecchio amico della Normale e discepolo di Gianfranco Contini – p. Saverio Cannistrà o.c.d. - mi ha detto che lo stesso vale oggi in Italia e Francia per la Filologia Romanza! [131] Letters, cit., n. 181 p. 236: “gli Elfi rappresentano gli aspetti artistici, estetici e puramente scientifici della natura umana”. [132] Ibidem, n. 212, p. 285. [133] Così in un sondaggio del 2004 presso 250.000 lettori tedeschi: John D. Rateliff,“And All the Days of her Life are Forgotten”, cit., p. 89. [134] Letters, cit., n. 328 p. 412. [135] Gli Inklings, cit., pp. 165-166. [136]
Goths and Huns
, cit., pp. 115-136. Ora, appena pubblicato, abbiamo il più
esplicito tentativo che Tolkien fece in questo senso: The
Legend of Sigurd & Gudrùn
(HarperCollins, London, 2009), in cui egli cerca di risolvere – con la
sua arte – il Königsproblem della
Filologia Germanica. [137] La Via per la Terra di Mezzo, cit., pp. 379-392; leggiamo questo passo: “Su Fabbro di Wootton Major grava una pesante sensazione di sconfitta: Fabbro deve restituire la stella e non tornerà più a Feeria/.../Fabbro è un 'libro di un vecchio' scrive infatti Tolkien (Lettere, n. 299). Alf esiste, però, per inserire Fabbro in una storia più ampia: ci sono stati uomini prima di lui che hanno portato la stella dell'ispirazione prima di lui, in età successive ce ne saranno altri; in ogni caso quella stella, quell'ispirazione è solo un frammento di un mondo che si espande al di fuori della piccola radura di Wootton.”, p. 387. Per un'altra analisi di Fabbro, si veda il saggio di Lorenzo Gammarelli nel presente volume.
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