"La Chiesa, celebrando Cristo col titolo di re, conclude oggi l'anno
liturgico. Tale conclusione e i testi della liturgia, se ben considerati,
offrono a noi l'occasione per riflettere sul tema della storia. Il
problema della storia è centrale nella cultura e nella sensibilità
d'oggi. Si può anzi affermare che il problema caratterizza la mentalità
e la cultura dell'uomo contemporaneo. Siamo eredi di una tradizione
culturale che via via ha scoperto ed approfondito la storicità
dell'esistenza umana, che ha cercato cioè di determinare che cosa
significhi per l'uomo essere nel tempo, in che cosa consista la
temporalità dell'essere umano.
Nell'approfondimento del problema sono state avanzate diverse ipotesi di
risposta e tentate diverse soluzioni. Un'ipotesi, forse quella oggi
dominante, è che la storia sia guidata e resa profondamente intelligibile
dal principio del progresso. Tutto ciò che avviene nel tempo avverrebbe
sempre obbedendo alla legge del meglio. Nonostante le apparenze,
nonostante gli scacchi, la storia umana avanzerebbe verso tappe migliori
delle precedenti. L'oggi varrebbe più di ieri; il domani sarà
sicuramente migliore dell'oggi. Non sarebbe difficile, se fosse opportuno
in quésta circostanza, ritrovare le radici culturali di tale ipotesi di
soluzione del problema della storia, radici culturali che non sono affatto
estirpate, ma caratterizzano la massima parte della mentalità e della
cultura del nostro tempo. Nonostante alcuni orientamenti di un nuovo
storicismo, nonostante alcune proposte estremamente raffinate di negazione
della storia che vengono dalle correnti strutturaliste, la storia infatti
viene solitamente concepita come progresso.
Accanto a questa visione ottimista della storia umana, ve n'è un altra
secondo la quale la storia (lungi dall'essere progresso, avanzamento ogni
giorno verso il meglio, sicuro fluire di generazioni verso un traguardo di
perfezione guidato da una legge utopica che pone nella "società
futura" il "paradiso terrestre" finalmente realizzato) la
storia sarebbe la registrazione del regresso dell'umanità. Secondo questa
interpretazione, l'uomo non soltanto non avanza, non migliora, non
progredisce, ma continuamente decade.
Coloro che sostengono una tale interpretazione della storia la
giustificano con diverse motivazioni. Per alcuni tutta la storia
dell'Occidente, a partire da quando l'intelligenza umana intuì i supremi
principi della realtà, altro non sarebbe che una decadenza, un lungo
cammino sul "sentiero della notte", e l'attuale società
tecnologica non sarebbe che la conclusione ultima di quel processo di
nullificazione o nichilismo che costituisce la registrazione più completa
dello scacco dell'umanità dell'Occidente, ch'ebbe origine con la perdita
del senso dell'essere a vantaggio del senso del fare. Ne sarebbero prove,
fatti evidenti come il dramma ecologico che l'umanità sta vivendo,
l'illusione prodotta dalle "magnifiche sorti e progressive"alla
quale subentra la registrazione dell'impossibilità per l'uomo di dare
vita ad una convivenza degna dell'uomo stesso.
Con le due precedenti ipotesi o proposte di soluzione ne è stata
sostenuta una terza. Quando Croce (mi sia concesso citarlo anche se nel
corso di una celebrazione liturgica) pubblicò la seconda edizione del suo
libro sulla storia d'Europa nel secolo XIX e teorizzò in esso il
principio della religione della libertà, uno studioso cattolico, Aldo
Ferrabino, gli obiettò di avere proposto un'interpretazione deformante,
perché la storia, se non è regresso, non è nemmeno progresso o utopia.
Nessuna legge garantisce il progresso dell'uomo. Non è scritto da nessuna
parte che la storia dell'umanità sia un continuo avanzamento per il
meglio. Quello studioso, polemizzando con Croce, sostenne che la storia si
rivela come dramma. Né progresso né regresso, ma dramma, perché l'uomo
conosce sì avanzamenti ma anche arretramenti, perché celebra la libertà
ma cade nella schiavitù, perché pensa di aver vinto la guerra e ne
moltiplica a dismisura, perché accanto ad alcuni spazi di autentica
liberazione, moltiplica quelli dell'oppressione, dell'ingiustizia,
dell'alienazione, perché ad un successo conseguito corrisponde quasi
sempre uno e forse più insuccessi.
Se sia o no cristiana questa impostazione della storia, non è il momento
di discuterlo. Personalmente ritengo di si. Dire che la storia è dramma
non significa negare o diminuire i successi ottenuti. Significa che in
essa l'uomo è sempre in una condizione di rischio, potendo vanificare
ciò che ha costruito e, soprattutto, potendo perdere il significato di
ciò che ha fatto e fa. Ma per la concezione cristiana la storia non è
soltanto dramma, è anche "mistero". Non è fuori di luogo
ricordare che in questa festa di Cristo Re, la Chiesa ha scelto come brano
evangelico da leggere nella liturgia la narrazione del supremo momento
della vita di Cristo. Colui che oggi la Chiesa onora col titolo di Re
viene presentato sul trono della croce, là dove il Cristo appare il
vinto, lo sconfitto, là dove nulla può sostenere l'idea che quell'uomo
avrebbe significato l'inizio di un movimento destinato ad attraversare i
millenni. Ma che cos'è il trono della croce, il fatto stesso della
passione di Cristo, se non la prova che la storia umana è dramma e
mistero?
Viene logica per noi, in questa prospettiva, una domanda decisiva: se la
storia umana è dramma, che cosa il cristiano, oggi, con la coscienza
chiara della drammaticità dell'esistenza, deve sentirsi interpellato ad
assicurare, perché nel dramma non vada perduto o resti ignorato il
significato profondo di quanto avviene? Che cosa c'è di cristiano che
deve essere assicurato, così che se il cristiano non lo assicura,
l'umanità sicuramente rimane più povera e più insicura?
Si discute molto oggi, sia in sede scientifica sia in sede operativa, su
ciò che v'è di specifico nel cristianesimo. Si cerca cioè di
determinare che cosa possa e debba distinguere il cristiano in quanto
cristiano.
Non sono in pochi in verità, anche tra i credenti, coloro che considerano
mistificante la ricerca di uno "specifico cristiano", perché
ritengono che il cristiano non deve in nulla distinguersi da chi non lo
è: uomo è, uomo deve rimanere, uguale a tutti gli altri, condividendo
con tutti gli altri uomini quello che appunto chiamano il dramma della
storia. Se si vuole determinare qualcosa di specifico nel cristiano,
dovrebbe essere fissato soltanto nell'essere autenticamente uomo.
A me non sembra che tale impostazione abbia valore. Il problema è però
aperto ed è decisivo.
Lo "specifico cristiano" non può più oggi, nel giudizio di
molti, essere cercato nella direzione della sacralità. Il
"sacro" è in crisi, si va da tempo ripetendo, perché non ha
più la capacità di significazione di un tempo. Se è vero che questo
tempio, luogo sacro, che oggi ci accoglie, rigurgita di persone, di suoni,
di canti, di preghiere, intorno ad una persona da noi tanto amata, è
altrettanto vero che questo tempio, come tutti gli altri della
cristianità, è frequentemente vuoto, lontano dai nostri interessi. Come
è altrettanto vero che il tempio in quanto tale ha perduto la capacità
di significazione anche per numerose coscienze che pure ebbero
un'educazione cristiana. Non il sacro, quindi, sembra oggi costituire lo
specifico per il cristiano. La constatazione può produrre preoccupazione,
perché al sacro noi affidiamo da secoli la testimonianza del
cristianesimo stesso. Anche in questo caso si rivela la drammaticità
della storia, che produce la provvisorietà e l'ambiguità di tutte le
scelte che un cristiano può fare per essere tale nel mondo. Forse che la
caratteristica del cristiano deve essere cercata nel "bene",
cioè nell'ambito della vita morale, dal momento che il bene costituisce
il fine della moralità? Anche su questo punto oggi vi è larga
incertezza. Alcune scuole filosofiche hanno seminato a piene mani il
sospetto intorno al problema morale. Un filosofo francese, Paul Ricoeur,
proprio analizzando l'opera d'uno dei maestri del pensiero contemporaneo,
Sigmund Freud, ha coniato l'espressione "scuola del sospetto".
Cosa si trova dietro alle cosiddette norme morali? È una domanda che può
sembrare provocatoria, ma che tocca la radice. Abbiamo sempre pensato che
ci fosse l'assolutezza dell'imperativo divino. Orbene, buona parte della
cultura d'oggi afferma che, negando o mettendo tra parentesi il problema
dell'assolutezza dell'imperativo divino, la norma morale può essere
spiegata o come prodotto sovrastrutturale di determinati rapporti di
produzione, o come impostazione ideologica della classe egemone e al
potere, o come stratificazione di natura sociologica di pratiche e di
costumi, ed è in questo senso che intende operare la rivoluzione della
morale.
Difficilmente, dunque, restando nell'ambito della morale riusciremmo a
precisare con sicurezza ciò che è specifico del cristiano e nel
cristiano.
Forse che dobbiamo cercarlo lungo la via dell'"ascetica"?
Secondo un immagine costruita da una prassi secolare, cristiano sarebbe
colui che rinuncia, che si impone una severa, rigorosa disciplina di vita,
che veramente cerca di realizzare il pieno dominio di sé pagandolo con la
mortificazione (come un tempo non lontano si diceva) dei nostri istinti e
delle nostre passioni, che vuole rischiarare con la ragione e la volontà
il "lato notturno" dell'esistenza. Anche intorno all'ascetica,
però, si stanno diffondendo molti sospetti. Anche in ambienti cristiani
l'ascetica viene giudicata spesso l'espressione di un modo di concepire il
cristianesimo che nei secoli non avrebbe prodotto del bene perché avrebbe
ispirato la "fuga" del cristiano dal mondo anziché il suo
"impegno" in esso. Quel non accettare fino in fondo la
condizione umana, cercando un rifugio in alcune tecniche e pratiche di
mortificazione, spiegherebbe l'idea così diffusa dei cristiano come
"persona diversa
Forse che lo "specifico cristiano" dobbiamo cercarlo nello
"spirituale"?. Proprio un anno fa, in una riunione di cristiani,
venne affermato, anzi teorizzato, che è finita l'epoca del preteso
primato dello spirituale sul temporale, che anzi bisogna sostenere il
primato dei temporale sullo spirituale, rovesciando l'asse di una
riflessione millenaria, se si vuole evitare che una pretesa ricerca dello
spirituale finisca col generare l'alienazione dell'uomo oltre che la
deformazione del cristianesimo.
È difficile quindi, nella crisi della cultura, che è poi espressione del
dramma della storia come noi oggi lo stiamo vivendo, individuare che cosa
c'è di specifico nel cristiano. Orbene, senza prolungare oltre la nostra
riflessione, potremmo pensare, prendendone tema da quanto la liturgia
della Chiesa oggi insegna, che la specificità del cristiano se non è
più vista nel sacro, o nel morale, o nell'ascetico, o nello spirituale,
va ancora e sempre cercata nel "santo".
E la santità che forma, cioè costituisce il cristiano. In questo senso
la Chiesa cattolica, riflettendo sul proprio essere e fine, durante il
Concilio di dieci anni fa, ha definito se stessa come "popolo di
Dio" caratterizzato da una "universale vocazione" alla
santità.
Intendiamoci un poco su questo. La santità non è sinonimo di perfezione,
semmai è desiderio, tendenza alla perfezione. La santità non significa
astrazione dalle nostre condizioni umane, non vuoi dire raggiungere lo
stato di non più peccare. In questo senso Cristo solo fu santo, e in un
senso precisato dal dogma la Sua Madre venerata. Tutti noi, dunque siamo,
anche se desiderosi di santità, rimaniamo uomini, e come tali fallibili,
soprattutto vittime di quella radice di tutti i mali che è l'egoismo.
Cos'è allora questa santità? Mi permetto di descriverla ricorrendo a
termini oggi correnti nel linguaggio, e io faccio proprio perché con il
linguaggio bisogna fare i conti anche (forse soprattutto) in questi
problemi. Uno dei problemi più gravi, all'interno della sua vicenda
storica, lo sta vivendo la Chiesa cattolica nella presa di coscienza che
il linguaggio da lei usato non significa più niente per molti, e comunque
significa sempre meno per tanti. Nel dramma della storia il cristiano
riscopre che la santità è l'unico linguaggio capace di essere inteso
oggi, come ieri e come sempre. La santità quindi è nell'ordine dei
"segni". Nella generale crisi della comunicazione umana la sola
santità ci permette di comunicare agli altri il messaggio cristiano. La
santità inoltre è"memoria". Tiene cioè desto, nel contesto
storico in cui viviamo, il "ricordo" che esistono dimensioni
dell'uomo e valori che possono realizzare fino in fondo l'autenticità
dell'uomo.
Il santo è la "memoria di Dio" nella storia, è il segno della
"presenza di Dio" nel tempo. Oggi, come cristiani, non siamo
tanto chiamati a portare nel tempo o cultura, o organizzazione, o segni di
sacralità; siamo tutti, come cristiani, qualunque sia la nostra
condizione (e davanti a Dio siamo tutti veramente uguali) chiamati a
testimoniare il nostro cristianesimo con la santità. Che cosa sia questa
santità la riassumiamo nel gesto finale dei ladrone sulla croce accanto
al Cristo che abbiamo poc'anzi sentito ricordare nell'evangelo:
"Ricordati di me quando sarai nel tuo regno". "Oggi tu
sarai con me in paradiso". La santità è il credere in Cristo, è
prendere sul serio la sua parola, è seguirla contro ogni speranza, contro
ogni nostra fallibilità ed eventuale nostro tradimento. Accettare,
accogliere sul serio e veramente Cristo. Un teologo contemporaneo ha
intitolato un suo libro Il caso serio, intendendo indicare la scelta che
possiamo fare di Cristo nella nostra vita.
Questo mi sembra lo specifico cristiano nel dramma della società d'oggi,
che è dramma di alternanze, conquiste e regressi, di prese di coscienza e
di smarrimenti. Mai le scienze hanno proiettato sull'uomo tanta luce, mai
l'uomo è stato cosi oscuro a se stesso come oggi. Mai abbiamo avuto
davanti agli occhi l'utopia di realizzazioni di rapporti perfetti, mai
come oggi cozziamo contro la "durezza del cuore", come si
direbbe in termini biblici. Ecco, il senso profondo della presenza
cristiana, così come testi liturgici della festa di Cristo Re, come la
fine dell'anno liturgico ce la suggeriscono.
Ed è per noi significativo, vivificante, che abbiamo potuto riflettere
sulla storia e il valore della presenza cristiana intorno ad una persona
che oggi onoriamo, a cui esprimiamo il nostro sincero, devoto affetto. Chi
vi parla è stato suo alunno, da lui ha imparato storia, da lui ha
imparato che la storia è dramma, da lui ha imparato che il cristiano
nella storia deve innanzitutto testimoniare, essere cioè
"segno" e "memoria", deve cioè desiderare la
santità. Come l'ha insegnato a me, alla mia generazione di preti, penso
l'abbia insegnato ovunque nella vita, nello studio, nella disponibilità
agli altri, nella vita ecclesiastica e civile, nella ricerca, talvolta
difesa in forma strenua, della propria intimità, del proprio desiderio di
meditazione e di silenzio. Riprendendo con lui la preghiera, mentre
onoriamo Cristo come Re, chiediamo a Cristo di renderci cristiani"
Fonte:
Franco Frassine, Mons. Luigi Fossati. La storia come dramma e mistero
dell'uomo, Istituto di cultura "G. De Luca" per la storia
del prete, Brescia 2007, pag. 276-282 (riprodotto col consenso
dell'Autore)
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