Il 14
settembre 1981 Giovanni Paolo II, in occasione del 90° anniversario della
Rerum novarum di Leone XIII, pubblica la Laborem exercens, la sua
prima enciclica sociale.
Fin dall'introduzione il Papa dichiara di condividere pienamente la Mater
e magistra di Giovanni XXIII (1961), la Populorum progressio di
Paolo VI (1967) e la Costituzione pastorale Gaudium et spes del
Concilio Vaticano II. In questi documenti, come si è visto nei precedenti
numeri del Cantiere, la Chiesa afferma la sua adesione ai valori liberali e
democratici, critica le tesi del liberismo economico (cioè critica l'idea
che lo Stato non debba intervenire nell'economia) sostiene con forza che
l'economia debba essere al servizio dell'uomo, la destinazione universale
dei beni e il dovere dei Paesi più ricchi di aiutare quelli in via di
sviluppo.
Giovanni Paolo II non interviene ulteriormente su questi temi, perché
ritiene che il magistero della Chiesa, specie a partire dal Concilio, li
abbia ormai acquisiti definitivamente, e sviluppa invece in modo originale
il tema del lavoro umano, che considera centrale:
“L'uomo, mediante il lavoro, deve procurarsi il pane quotidiano e
contribuire al continuo progresso delle scienze e della tecnica, e
soprattutto all'incessante elevazione culturale e morale della società, in
cui vive in comunità con i propri fratelli.” (n. 1)
La funzione del lavoro viene esaminata alla luce delle novità del tempo,
come l'introduzione generalizzata dell'automazione, l'aumento del prezzo
dell'energia e delle materie di base, la crescente presa di coscienza della
limitatezza delle risorse naturali, l'inquinamento dell'ambiente e
l'emergere sulla scena politica dei popoli che, dopo secoli di soggezione,
richiedono il loro legittimo posto tra le nazioni e nelle decisioni
internazionali. Per il Papa queste nuove condizioni ed esigenze
richiederanno un riordinamento delle strutture dell'economia e della
distribuzione del lavoro. Tali cambiamenti, aggiunge, potranno forse
significare, purtroppo, per milioni di lavoratori, la disoccupazione, almeno
temporanea, o la necessità di un “riaddestramento”.
La riflessione del Pontefice parte dalla Genesi, quando all'uomo viene dato
il comando di “soggiogare la terra”, cosa che avviene tramite il lavoro.
Giovanni Paolo II distingue tra l'aspetto oggettivo del lavoro (la tecnica)
e quello soggettivo (il lavoratore come persona, che partecipa con la sua
opera alla creazione iniziata e voluta da Dio).
La tecnica “facilita il lavoro, lo perfeziona, lo accelera e lo
moltiplica. Essa favorisce l'aumento dei prodotti del lavoro, e di molti
perfeziona anche la qualità. È un fatto, peraltro, che in alcuni casi la
tecnica da alleata può anche trasformarsi quasi in avversaria dell'uomo,
come quando la meccanizzazione del lavoro «soppianta» l'uomo, togliendogli
ogni soddisfazione personale e lo stimolo alla creatività e alla
responsabilità; quando sottrae l'occupazione a molti lavoratori prima
impiegati, o quando, mediante l'esaltazione della macchina, riduce l'uomo ad
esserne il servo.” (n. 5).
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Poiché
l'uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, il lavoro non deve mai
ledere o sminuire la dignità dell'uomo. Impegnarsi per la giustizia sociale
comporta la difesa della dignità del lavoratore come persona:
“Per realizzare la giustizia sociale [...] sono necessari sempre nuovi
movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà con gli
uomini del lavoro. Tale solidarietà deve essere sempre presente là dove lo
richiedono la degradazione sociale del soggetto del lavoro, lo sfruttamento
dei lavoratori e le crescenti fasce di miseria e addirittura di fame. La
Chiesa è vivamente impegnata in questa causa, perché la considera come sua
missione, suo servizio, come verifica della sua fedeltà a Cristo, onde
essere veramente la «Chiesa dei poveri». E i «poveri» compaiono sotto
diverse specie; compaiono in diversi posti e in diversi momenti; compaiono
in molti casi come risultato della violazione della dignità del lavoro
umano: sia perché vengono limitate le possibilità del lavoro - cioè per
la piaga della disoccupazione -, sia perché vengono svalutati il lavoro ed
i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto
salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia.”
(n. 8).
Le conclusioni a cui giunge il Pontefice sono significative e per nulla
diplomatiche:
“la giustizia di un sistema socio-economico e, in ogni caso, il suo
giusto funzionamento meritano [...] di essere valutati secondo il modo in
cui il lavoro umano è in quel sistema equamente remunerato. [...] In ogni
sistema, senza riguardo ai fondamentali rapporti esistenti tra il capitale e
il lavoro, il salario, cioè la remunerazione del lavoro, rimane una via
concreta, attraverso la quale la stragrande maggioranza degli uomini può
accedere a quei beni che sono destinati all'uso comune: sia beni della
natura, sia quelli che sono frutto della produzione. Gli uni e gli altri
diventano accessibili all'uomo del lavoro grazie al salario, che egli riceve
come remunerazione per il suo lavoro. Di qui, proprio il giusto salario
diventa in ogni caso la concreta verifica della giustizia di tutto il
sistema socio-economico.” (n. 19)
Altrettanto significativa è anche la condanna di chi approfitta per
interesse della debolezza degli immigrati:
“L'emigrazione per lavoro non può in nessun modo diventare
un'occasione di sfruttamento finanziario o sociale. Per quanto riguarda il
rapporto di lavoro col lavoratore immigrato, devono valere gli stessi
criteri che valgono per ogni altro lavoratore in quella società. Il valore
del lavoro deve essere misurato con lo stesso metro, e non con riguardo alla
diversa nazionalità, religione o razza. A maggior ragione non può essere
sfruttata una situazione di costrizione, nella quale si trova l'emigrato.”
(n. 23)
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