Il 14
maggio 1971, sei anni dopo la conclusione del Concilio e in occasione
dell'80° anniversario della Rerum novarum, Paolo VI indirizza al
card. Maurice Roy, presidente del consiglio dei laici e della commissione
pontificia Giustizia e Pace, una lettera apostolica che applica i principi
conciliari alla questione sociale e che contiene un forte appello alle
comunità cristiane affinché si impegnino nell'azione sociale.
Fin dall'introduzione Paolo VI, dopo aver rilevato la diversità delle
situazioni delle società in cui le comunità cristiane sono inserite, e
quindi l'impossibilità di proporre “una soluzione di valore universale”,
afferma:
“Spetta alle comunità cristiane individuare – con l'assistenza dello
Spirito santo, in comunione con i vescovi responsabili, e in dialogo con gli
altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà – le
scelte e gli impegni per operare le trasformazioni sociali, politiche ed
economiche che si palesano urgenti e necessarie in molti casi.” (n. 4)
La validità dei principi generali dell'insegnamento sociale della Chiesa
rimane indubitabile, ma per la prima volta le comunità cristiane, nello
spirito conciliare, sono esplicitamente chiamate alla responsabilità
d'individuare concretamente le soluzione adatte al loro contesto, escludendo
ogni forma di deduzione diretta dall'insegnamento della Chiesa. Da questo
punto di vista si può affermare che tramonta la concezione del magistero
sociale della Chiesa come dottrina ideologica compiuta, definita e
vincolante, una sorta di terza via tra marxismo e liberismo economico.
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Nella sua
analisi del mondo contemporaneo, con uno sguardo attento alla complessità e
alle nuove tendenze che emergono dalla realtà sociale, il Pontefice
affronta con realismo i caratteri della civiltà emergente del nuovo
capitalismo, e in particolare i problemi dell'urbanizzazione (la città che
“invece di favorire l'incontro fraterno e l'aiuto vicendevole […]
sviluppa le discriminazioni e anche l'indifferenza; fomenta nuove forme di
sfruttamento e di dominio, dove certuni, speculando sulle necessità di
altri, traggono profitti inammissibili”) dei giovani, della condizione
femminile, dei lavoratori e dei sindacati, delle discriminazioni sociali,
delle nuove povertà, dei mezzi di comunicazione che hanno accresciuto il
loro potere in una civiltà dell'immagine. E' ben consapevole del consumismo
dilagante, fondato su bisogni artificiali indotti. Afferma con coraggio e
preveggenza il diritto all'emigrazione, già formulato dal suo predecessore
nella Pacem in terris (n. 12), invocando la necessità di superare il
nazionalismo per creare “uno statuto che riconosca un diritto alla
emigrazione, favorisca la loro integrazione, faciliti la loro promozione
professionale e consenta ad essi l'accesso ad un alloggio decente dove,
occorrendo, possano essere raggiunti dalle loro famiglie.” (n. 17).
Per la prima volta nell'insegnamento della Chiesa si rileva la gravità
delle minacce per l'umanità derivanti dal degrado ambientale:
“Attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura [l'uomo] rischia di
distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione. Non
soltanto l'ambiente materiale diventa una minaccia permanente: inquinamenti
e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale; ma è il contesto
umano che l'uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un
ambiente che potrà essergli intollerabile.” (n. 21).
Le indicazioni della lettera apostolica sul significato cristiano
dell'azione politica sono esplicite. Innanzitutto Paolo VI ricorda il dovere
del cristiano d'impegnarsi in politica:
“Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli – locale,
regionale, nazionale e mondiale – significa affermare il dovere dell'uomo,
di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà
di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della
città, della nazione, dell'umanità. La politica è una maniera esigente -
ma non è la sola – di vivere l'impegno cristiano al servizio degli altri
[…] Pur riconoscendo l'autonomia della realtà politica, i cristiani,
sollecitati ad entrare in questo campo di azione, si sforzeranno di
raggiungere una coerenza tra le loro opzioni e il Vangelo e di dare, pur in
mezzo ad un legittimo pluralismo, una testimonianza personale e collettiva
della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e
disinteressato agli uomini.” (n.46).
Paolo VI dopo aver richiamato esplicitamente Giovanni XXIII che nella
Populorum progressio aveva scritto che spetta ai laici impegnarsi in
politica senza attendere passivamente consegne e direttive dalla gerarchia,
conferma esplicitamente e autorevolmente il principio del pluralismo delle
opzioni politiche già prefigurato dal Concilio:
“Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da
ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni politiche.
Una medesima fede cristiana può condurre ad impegni diversi. La Chiesa
invita tutti i cristiani al duplice compito d'animazione e d'innovazione per
far evolvere le strutture ed adeguarle ai veri bisogni presenti. Ai
cristiani che sembrano a prima vista opporsi partendo da opzioni differenti,
essa chiede uno sforzo di reciproca comprensione...” (n. 50).
E' passato quasi mezzo secolo da questa importante lettera pastorale, ma non
si può certo affermare che le esortazioni di Paolo VI sulla capacità di
discernimento e sull'impegno sociale e politico delle comunità cristiane si
siano realizzate. Spesso nelle comunità parrocchiali mancano momenti di
formazione civica, sociale e politica, sia per gli adulta, sia nella
catechesi dei fanciulli e dei ragazzi. Il clero spesso non parla di
politica, per quieto vivere o per evitare complicazioni e potenziali
divisioni. I laici tante volte non partecipano e rinunciano a far sentire la
loro voce. Ma l'insegnamento di san Paolo VI rimane forte e chiaro.
Maurilio Lovatti
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