Poco più
di un anno dopo la conclusione del Concilio, il 26 marzo 1967, Paolo VI
pubblica l'enciclica sociale Populorum progressio, che sulla base
degli orientamenti conciliari, in particolare delle tesi della costituzione Gaudium
et spes, affronta il grave problema del sottosviluppo di larga parte
dell'umanità, con le drammatiche conseguenze della fame, della ricchezza,
dell'analfabetismo, delle malattie endemiche. Fin dalla sua elezione al
Soglio pontificio, Paolo VI aveva gradualmente raccolto materiali di studio
sulle questioni dello “sviluppo economico, sociale e morale”, poiché
l'argomento era da lui molto sentito. Si era avvalso del contributo di molti
esperti, soprattutto del domenicano padre Louis Lebret, critico severo della
disumanità del capitalismo, che già aveva collaborato alla stesura della Gaudium
et spes, che era morto il 20 luglio 1966, qualche mese prima che
l'enciclica fosse pubblicata. La redazione definitiva del testo
dell'enciclica fu preceduta da sette bozze, tra il settembre del 1964, a
Concilio ancora aperto, al febbraio del 1967.
In generale, l'enciclica non si limita ad analizzare la questione del
sottosviluppo, ma contiene una forte esortazione all'intervento ed al
cambiamento: “Si tratta di un insegnamento di particolare gravità che
esige un’applicazione urgente. I popoli della fame interpellano oggi in
maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La chiesa trasale davanti a
questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio
fratello.” (n. 3)
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La
Populorum progressio introduce e precisa un concetto caro al magistero di
Paolo VI, la Chiesa come esperta d'umanità e capace di proporre una visione
cristiana di sviluppo integrale dell'uomo:
“Esperta in umanità, la Chiesa, lungi dal pretendere minimamente
d'intromettersi nella politica degli Stati, non ha di mira che un unico
scopo: continuare, sotto l’impulso dello Spirito consolatore, la stessa
opera del Cristo, venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità,
per salvare, non per condannare, per servire, non per essere servito.
Fondata per porre fin da quaggiù le basi del regno dei cieli e non per
conquistare un potere terreno, essa afferma chiaramente che i due domini
sono distinti, così come sono sovrani i due poteri, ecclesiastico e civile,
ciascuno nel suo ordine. Ma, vivente com’è nella storia, essa deve
scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo. In
comunione con le migliori aspirazioni degli uomini e soffrendo di vederle
insoddisfatte, essa desidera aiutarli a raggiungere la loro piena fioritura,
e a questo fine offre loro ciò che possiede in proprio: una visione globale
dell’uomo e dell’umanità.” (n. 13).
In questa prospettiva il Papa ribadisce con forza il diritto di tutti i
popoli al benessere, critica il neocolonialismo, il sistema capitalistico
che tutto sottopone alla logica del profitto, ma anche il collettivismo
marxista e propone che le nazioni costituiscano un fondo mondiale per gli
aiuti ai Paesi in via di sviluppo. Per Paolo VI, in linea con la
tradizionale dottrina sociale della Chiesa, il diritto di proprietà e il
diritto alla libera iniziativa e al libero commercio devono essere
subordinati alla destinazione universale dei beni.
Fin dalla sua pubblicazione, l'enciclica è percepita come un fortissimo
richiamo alla coscienza dei Paesi industrializzati, dominanti nell'economia
internazionale, affinché attuino una politica economica più giusta verso
quelli sottosviluppati, e da questo punto di vista registra un altissimo
consenso dell'opinione pubblica interna ed esterna, sicuramente il più
ampio di tutto il pontificato. E tuttavia per la sua radicalità l'enciclica
è accolta con diffidenza e talvolta con malcelate critiche dagli ambienti
della destra economica e politica. Infatti il testo di Paolo VI esprime nel
modo più perentorio la critica al liberismo economico ed alla tesi
dell'assoluto diritto di proprietà che era già presente nelle encicliche
giovannee e nelle conclusioni del Concilio:
“Si sa con quale fermezza i padri della chiesa hanno precisato quale debba
essere l’atteggiamento di coloro che posseggono nei confronti di coloro
che sono nel bisogno: «non è del tuo avere», afferma sant’Ambrogio,
«che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli
appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò
che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi». È
come dire che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto
incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso
esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del
necessario. In una parola, il diritto di proprietà non deve mai esercitarsi
a detrimento della utilità comune”. (n. 23).
La Populorum progressio è di fatto una sorta di pietra miliare del
magistero del Pontefice nei primi anni successivi al Concilio, come
sintetizza lo storico Fulvio De Giorgi, uno dei massimi studiosi di
Paolo VI:
“In un breve torno di tempo, dal 1967 al 1971, Paolo VI convogliò
l'entusiasmo conciliare verso quello sforzo gigantesco di riposizionare le
moltitudini dei fedeli cattolici nel mondo sulla frontiera della libertà,
della giustizia sociale e della pace. Era anche un modo per dare un'anima
sociale e popolare al rinnovamento del Vaticano II: per portare verso una
pastorale di libertà e di liberazione.”
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