Maurilio Lovatti 

 

 

L'insegnamento sociale di Paolo VI

 

 

Il Cantiere, ottobre 2014

 

 

Quando Paolo VI fu eletto Papa, il 21 giugno 1963, in un brevissimo Conclave durato solo due giorni, il Concilio Vaticano II era iniziato, per volere di Giovanni XXIII, da meno di un anno. Oltre 2500 vescovi provenienti da tutto il mondo avevano cominciato a discutere della necessaria, profonda revisione della vita della Chiesa e dei suoi rapporti col mondo contemporaneo: poteva essere l'inizio del grande rinnovamento della Chiesa, come in effetti è stato, ma non mancavano, soprattutto nella Curia pontificia, cardinali conservatori, che desideravano chiudere rapidamente il Concilio, senza grandi cambiamenti.
Fin dall'inizio del suo pontificato il Papa bresciano si pose consapevolmente il compito di concludere il Concilio con decisioni il più possibile condivise e di attuarlo gradualmente ma efficacemente negli anni successivi. Sapeva bene che in passato, per attuare pienamente il Concilio di Trento (1545-1563) c'erano voluti circa 70 anni ed era consapevole che non sarebbe stato facile vincere resistenze e conservatorismi nella Chiesa. La grandezza del suo pontificato sta tutto nel grandioso paziente e generoso impegno per attuare il Concilio e penso che gli storici del futuro lo ricorderanno soprattutto per questo.
Il rinnovamento della Chiesa ha coinvolto un po' tutti gli ambiti, dalla liturgia alla catechesi, dal ruolo dei laici al rapporto con i protestanti e con le altre religioni. Non è possibile affrontare tutti questi temi, e quindi mi limiterò a delineare i tratti essenziali dell'insegnamento di Paolo VI riguardanti l'ambito sociale e politico.

 

 

 

 

Già nel 1967 Paolo VI indirizzava "a tutti gli uomini di buona volontà" la Populorum Progressio, l'enciclica dedicata al tema dello sviluppo dei popoli. Si rivolgeva a tutti gli uomini e non solo ai cristiani e trattava un tema che secondo alcuni esulava dalle normali preoccupazioni "religiose" della Chiesa. L'ambito economico e sociale fino allora era affidato dalla morale tradizionale alla responsabilità dello Stato, ma rimaneva staccato da considerazioni di tipo etico e morale. Questa enciclica ha quindi segnato un passo nuovo nel cammino della dottrina sociale. È stata una logica deduzione della dottrina conciliare della Gaudium et Spes e della precedente dottrina sociale della Chiesa, della quale ha allargato gli orizzonti passando dalla condizione degli operai, presa in considerazione dalla Rerum Novarum, allo sviluppo dei popoli dell'intero pianeta.
Con la Populorum Progressio, Paolo VI indica lo sviluppo come il grande tema della Chiesa, ma anche dell'umanità tutta sul cammino verso la pace. La pace era la vera preoccupazione anche in quel periodo storico, caratterizzato dalla "guerra fredda" tra le superpotenze, dal conflitto del Vietnam, dall'esplodere dei conflitti nel Medio Oriente. La grande novità di questa enciclica era data dalla constatazione della nuova ampiezza assunta dalla questione sociale, che non riguardava più soltanto una singola categoria, i lavoratori, o una parte di mondo, l'Occidente. Riguardava il mondo intero per quella interconnessione tra popoli sviluppati e in via di sviluppo ormai profonda. Da questo nuovo rapporto conseguiva l'impegno etico a vivere la solidarietà, per cui "le nazioni sviluppate hanno l'urgentissimo dovere di aiutare le nazioni in via di sviluppo".

 

 

 

 

Un'ulteriore novità storica della Populorum Progressio è nella connessione che il Papa stabilisce tra sviluppo e pace del mondo, espressa in un principio che entrerà nella storia: "Lo sviluppo è il nuovo nome della pace". Infatti l'esigenza della giustizia sociale non potrà essere più soddisfatta se non sul piano mondiale. Disattenderla può scatenare la violenza dei poveri, quella che è stata chiamata "la rabbia dei popoli". Non è possibile pensare allo sviluppo di un popolo se a questo si continua a negare l'accesso al commercio mondiale, oppure gli si offrono solo armi per la guerra. La radice di queste novità è una visione dell'essere umano e della società che Paolo VI trae dalla visione antropologica cristiana e dalla filosofia personalista del suo tempo: l'uomo è un essere che trascende se stesso e le sue dimensioni, perché segnato dalla somiglianza con il Dio creatore della sua libertà e dignità, un Dio che è relazione e apertura verso tutti. La Chiesa sceglieva la via dell'impegno storico, si metteva dalla parte degli ultimi, decideva essa stessa d'essere povera con i poveri, fiduciosa soltanto nella forza del Vangelo piuttosto che nella ricchezza dei mezzi. Evangelizzazione e promozione umana diventano così indissociabili. La Populorum Progressio ha indicato la strada di una fede operosa che sa assumere i problemi concreti del mondo. Grazie alla Chiesa, finalmente i popoli della fame e del sottosviluppo, ridotti in questo stato dall'iniqua distribuzione delle ricchezze, irrompono sulla scena del mondo occidentale che continua ostinatamente ad essere cieco e sordo di fronte agli squilibri planetari e vuole difendere per sé le ricchezze accumulate grazie anche allo sfruttamento dei poveri e ad un'economia mondiale priva di regole, se non quelle del mercato e del profitto.

 

 

 

 

Quattro anni dopo, nel 1971, in occasione dell'ottantesimo anniversario della Rerum Novarum, Paolo VI interveniva ancora su questi temi con la lettera pastorale Octogesima Adveniens. In questo testo l'aspirazione essenziale dell'umanità, e quindi della Chiesa stessa, ad una società economicamente più giusta, che già era delineata nella Populorum Progressio, trova una più completa definizione alla luce dei rapidi cambiamenti sociali di quegli anni.
Tra i tanti temi trattati, tre mi sembrano particolarmente innovativi ed attuali:
1) Il diritto all'immigrazione. Paolo VI afferma che è necessario riconoscere un diritto all'immigrazione e all'integrazione degli immigrati. E' dovere di tutti, e specialmente dei cristiani, "lavorare con energia per instaurare la fraternità universale". (n. 17)
2) L'affermazione esplicita e categorica della necessità di salvaguardare l'ambiente naturale. Il Pontefice afferma che l'uomo "attraverso un uso sconsiderato della natura" rischia di distruggerla e di essere, a sua volta, "vittima di siffatta degradazione". Paolo VI richiama la drammaticità dell'inquinamento e rileva come l'umanità rischi di crearsi "per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile". I cristiani devono impegnarsi attivamente, insieme agli altri uomini, per evitare questo pericolo. (n. 21)
3) Per i cristiani come per tutti gli uomini è importante l'educazione alla vita associata. L'affermazione e la diffusione dei diritti inalienabili d'ogni uomo è necessariamente correlativa al riconoscimento dei doveri nei confronti degli altri. La duplice aspirazione all'eguaglianza e alla partecipazione, dice Paolo VI alla luce degli insegnamenti del Concilio, "è diretta a promuovere un tipo di società democratica." Ci sono vari modelli di società, ma "nessuno soddisfa del tutto e la ricerca resta aperta." Di conseguenza il cristiano "ha l'obbligo di partecipare a questa ricerca e all'organizzazione e alla vita della società politica." (n. 24).
Questi insegnamenti oggi possono sembrare quasi ovvi, ma quarant'anni fa apparivano a molti come un segno netto di discontinuità rispetto all'atteggiamento tradizionale della Chiesa su questi temi. Forse proprio per questo la ricezione di questi insegnamenti da parte delle comunità cristiane è stata lenta e non sempre profonda.

 

 

Maurilio Lovatti

 

 

 

 

Il Cantiere,  ottobre 2014,  pag. 17 -  19

 

 

 

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