Maurilio Lovatti 

 

 

Era il 4 giugno dell'anno di grazia 1629

 

 

Il Cantiere, giugno 2014

 

 

La chiesa vecchia è stata restaurata tra il 2001 e il 2005, come tutti noi di Chiesanuova sappiamo. Il restauro, molto ben attuato, ha riportato la chiesa quasi esattamente com'era alla fine del XVIII secolo, quando essa venne quasi completamente ricostruita per volontà di don Pietro Poli, curato di Chiesanuova dal 1783 al 1816.
Prima di questa ricostruzione, vi era una precedente chiesetta, costruita agli inizi del 1600, che fu consacrata il 4 giugno 1629, dal rev. don Vincenzo Bucchia, delegato dal vescovo di Brescia, mons. Marino Giorgi (citato come Zorzi in alcuni documenti), che fu vescovo di Brescia dal 1596 al 1631 e apparteneva ad una nobile famiglia veneziana.
In quell'epoca Brescia faceva parte della repubblica serenissima di Venezia; in Europa era in pieno svolgimento la Guerra dei Trent'anni (1618-48), una delle più cruenti dell'età moderna. In Germania cattolici e protestanti si sterminavano a vicenda, i raccolti venivano distrutti degli eserciti, c'erano carestie e fame diffusa. L'Italia era meno coinvolta, ma non del tutto immune dalla guerra. Si stava combattendo in quegli anni la seconda guerra del Monferrato (1628-1631).
Infatti nel 1626 era morto il duca di Mantova e marchese del Monferrato Ferdinando Gonzaga e gli era succeduto il fratello Vincenzo, di cagionevole salute e senza eredi. Morto Vincenzo, per evitare che una dinastia francese s'insediasse nel Monferrato, la Spagna si era accordata per una spartizione di quel territorio col duca di Savoia Carlo Emanuele I. Mantova e il Monferrato furono contesi tra Carlo Gonzaga di Nevers, sostenuto dalla Francia di Luigi XIII e del card. Richelieu, e Ferrante Gonzaga duca di Guastalla, sostenuto dalla Spagna. In seguito entrarono nel conflitto anche Carlo Emanuele I di Savoia e l'imperatore Ferdinando II d'Asburgo al fianco della Spagna, mentre Venezia e il papa Urbano VIII sostenevano la Francia. Dopo l'assedio di Casale Monferrato, intervenne l'Imperatore Ferdinando con le feroci truppe tedesche. I Lanzichenecchi, il cui esercito contava 30.000 fanti e 6.000 cavalieri, scesero dalla Valtellina, invasero la Lombardia, devastando orrendamente e saccheggiando. Varcato il confine della Repubblica di Venezia a Cassano d'Adda, passarono per Robecco e Canneto sull'Oglio, e nel bresciano anche a Castenedolo, seminando ovunque i germi di una micidiale pestilenza; sporchi, luridi si diressero verso Mantova ove compivano il tragico sacco della città. Ne parla anche il Manzoni, nel XXVIII capitolo dei Promessi Sposi, che però molti insegnanti non fanno leggere agli studenti, perché considerato "troppo noioso", anche se molto ben documentato dal punto di vista storico. Proprio durante questa guerra, accadde a Brescia un fatto di cronaca che ebbe molta risonanza; possiamo immaginare fosse oggetto di racconti e commenti nelle lunghe serate invernali, che i contadini di Chiesanuova trascorrevano nelle stalle.

 

 

Il 6 ottobre 1630, Giovanni Grimani, nobile veneziano e podestà di Bergamo, entrando a Brescia in compagnia della moglie del cavaliere francese La Vallette, era stato fermato dalle guardie alle porte della città. Insofferente delle procedure di rito, insolentì il loro comandante, colpendolo con la spada sguainata. Ne nacque un principio di sollevazione popolare e il giorno dopo il podestà di Brescia Agostino Bembo si rifiutò di riceverlo. L'eco dello scandalo giunse fino a Venezia, e il doge Nicolò Contarini - notoriamente anticuriale - sollecitò severi provvedimenti contro il Grimani, che però fu salvato grazie alle pressioni dei senatori filopontifici e alle benemerenze domestiche: suo padre era stato provveditore generale a Palmanova, il fratello Giovan Battista ricopriva incarichi di rilievo (poi morirà nell'Egeo al comando della flotta impegnata contro i Turchi).
Intanto si diffondeva anche nel bresciano la peste portata dai Lanzichenecchi. Il primo caso nel bresciano si ebbe a Palazzolo il 13 febbraio 1630: due donne, madre e figlia furono le prime vittime dell'epidemia. Solo la città di Brescia ebbe circa 11 mila vittime, più di un terzo degli abitanti. Anche a Brescia, il 12 luglio 1630, accadde il caso di un presunto untore: un soldato francese fu catturato e ferito in corso della Pallata, accusato di diffondere la peste.
Un altro episodio, di qualche anno prima, si raccontava ancora nelle lunghe serate invernali, quello che riguarda il nobile Pietro Chizzola, amico del conte Antonio Gaspare Martinengo. Il Chizzola si trovava in carcere nel Ducato di Mantova per diversi reati, ma riuscì a fuggire a Canneto sull'Oglio. S'impadronì di un altro famoso bandito col quale aveva conti da regolare, lo fece uccidere e ne spedì la testa al Podestà di Brescia. Il Signore di Mantova lo bandì dal Ducato e promise una taglia di diecimila scudi a chi glielo avesse consegnato. Un bravo dello stesso Chizzola per amor della taglia, o forse assoldato dallo stesso Duca, proprio a Castenedolo dove il Chizzola si era rifugiato, l'assalì a tradimento e lo uccise il 17 agosto 1627.

Com'era Chiesanuova nella prima metà del Seicento? Negli Atti delle visite pastorali, unici documenti dai quali possiamo avere notizie del nostro passato non sono riportate le manifestazioni della vita religiosa della parrocchia. Essendo la popolazione dedita ai lavori della campagna, possiamo pensare come la vita sia dei proprietari sia dei contadini si svolgesse secondo il ritmo immutabile delle stagioni e le ricorrenze delle feste religiose.
Si celebravano le solennità del Natale, dell'Assunta (il 15 agosto, e poi la festa proseguiva il giorno successivo, festa di S. Rocco, protettore dalla peste e dalle gravi malattie) e di S. Isidoro, patrono degli agricoltori, il 15 maggio. Ma nella chiesa di S. Maria Assunta non si celebravano i riti della Settimana Santa. La popolazione doveva recarsi nella chiesa dei santi Nazaro e Celso (parrocchia che allora contava circa 7000 abitanti) per la comunione pasquale. In fondo, tre chilometri a piedi allora non spaventavano nessun fedele. I contadini si vestivano a festa e varcavano la porta delle mura della città, detta di S. Nazaro, più o meno dove oggi c'è la fontana di piazza Repubblica.
La vecchia chiesa non era certamente ricca di opere d'arte e d'affreschi, né di paramenti e suppellettili. Oltre all'altare maggiore è ricordato solo l'altare di S. Carlo. Non ve n'erano altri.
Le offerte non dovevano essere abbondanti. I contadini erano molto poveri e le famiglie padronali, quando trascorrevano i mesi in campagna, nelle loro ville, ascoltavano la messa nelle loro cappelle private e nei loro testamenti non ricordavano la chiesa Nuova, che non frequentavano, ma quella di città ove avevano la residenza.
Gli anni, quindi, scorrevano sempre uguali, quando non erano sconvolti dalle invasioni di eserciti, dalle carestie e dalla peste. Il lavoro era svolto dai poveri per i ricchi proprietari, su terre che dovevano essere fruttuose di frumento, cereali e ortaggi per l'abbondanza delle acque, che sovente erano anche causa di morte per affogamento, specie dei fanciulli. Le nascite erano numerose, ma solo un terzo dei bambini raggiungeva la maggiore età. Anche i funerali erano numerosi, e quasi la metà erano di fanciulli.
L'istruzione dei contadini era data solo dalla dottrina cristiana, che li obbligava ad imparare almeno le domande e le risposte del catechismo e le preghiere.
Per quanto riguarda l'assistenza e la beneficenza ai poveri, nel secolo XVII non troviamo la presenza di Confraternite o Scuole. Alla popolazione di Bottonaga (e quindi anche dell'attuale Chiesanuova) poiché faceva parte della parrocchia dei santi Nazaro e Celso, dovevano provvedere le Confraternite di S. Rocco e della Carità di S. Bartolomeo. Ma negli Atti delle visite pastorali non si dice se l'assistenza era riservata ai poveri che vivevano entro le mura della città o anche a quelli che vivevano fuori.

 

Maurilio Lovatti

 

 

 

 


 

Il Cantiere, giugno 2014, pag. 13 - 15

 

 

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