La chiesa
vecchia è stata restaurata tra il 2001 e il 2005, come tutti noi di
Chiesanuova sappiamo. Il restauro, molto ben attuato, ha riportato la
chiesa quasi esattamente com'era alla fine del XVIII secolo, quando essa
venne quasi completamente ricostruita per volontà di don Pietro Poli,
curato di Chiesanuova dal 1783 al 1816.
Prima di questa ricostruzione, vi era una precedente chiesetta, costruita
agli inizi del 1600, che fu consacrata il 4 giugno 1629, dal rev. don
Vincenzo Bucchia, delegato dal vescovo di Brescia, mons. Marino Giorgi
(citato come Zorzi in alcuni documenti), che fu vescovo di Brescia dal
1596 al 1631 e apparteneva ad una nobile famiglia veneziana.
In quell'epoca Brescia faceva parte della repubblica serenissima di
Venezia; in Europa era in pieno svolgimento la Guerra dei Trent'anni
(1618-48), una delle più cruenti dell'età moderna. In Germania cattolici
e protestanti si sterminavano a vicenda, i raccolti venivano distrutti
degli eserciti, c'erano carestie e fame diffusa. L'Italia era meno
coinvolta, ma non del tutto immune dalla guerra. Si stava combattendo in
quegli anni la seconda guerra del Monferrato (1628-1631).
Infatti nel 1626 era morto il duca di Mantova e marchese del Monferrato
Ferdinando Gonzaga e gli era succeduto il fratello Vincenzo, di
cagionevole salute e senza eredi. Morto Vincenzo, per evitare che una
dinastia francese s'insediasse nel Monferrato, la Spagna si era accordata
per una spartizione di quel territorio col duca di Savoia Carlo Emanuele
I. Mantova e il Monferrato furono contesi tra Carlo Gonzaga di Nevers,
sostenuto dalla Francia di Luigi XIII e del card. Richelieu, e Ferrante
Gonzaga duca di Guastalla, sostenuto dalla Spagna. In seguito entrarono
nel conflitto anche Carlo Emanuele I di Savoia e l'imperatore Ferdinando
II d'Asburgo al fianco della Spagna, mentre Venezia e il papa Urbano VIII
sostenevano la Francia. Dopo l'assedio di Casale Monferrato, intervenne
l'Imperatore Ferdinando con le feroci truppe tedesche. I Lanzichenecchi,
il cui esercito contava 30.000 fanti e 6.000 cavalieri, scesero dalla
Valtellina, invasero la Lombardia, devastando orrendamente e
saccheggiando. Varcato il confine della Repubblica di Venezia a Cassano
d'Adda, passarono per Robecco e Canneto sull'Oglio, e nel bresciano anche
a Castenedolo, seminando ovunque i germi di una micidiale pestilenza;
sporchi, luridi si diressero verso Mantova ove compivano il tragico sacco
della città. Ne parla anche il Manzoni, nel XXVIII capitolo dei Promessi
Sposi, che però molti insegnanti non fanno leggere agli studenti, perché
considerato "troppo noioso", anche se molto ben documentato dal
punto di vista storico. Proprio durante questa guerra, accadde a Brescia
un fatto di cronaca che ebbe molta risonanza; possiamo immaginare fosse
oggetto di racconti e commenti nelle lunghe serate invernali, che i
contadini di Chiesanuova trascorrevano nelle stalle.
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Il 6
ottobre 1630, Giovanni Grimani, nobile veneziano e podestà di Bergamo,
entrando a Brescia in compagnia della moglie del cavaliere francese La
Vallette, era stato fermato dalle guardie alle porte della città.
Insofferente delle procedure di rito, insolentì il loro comandante,
colpendolo con la spada sguainata. Ne nacque un principio di sollevazione
popolare e il giorno dopo il podestà di Brescia Agostino Bembo si
rifiutò di riceverlo. L'eco dello scandalo giunse fino a Venezia, e il
doge Nicolò Contarini - notoriamente anticuriale - sollecitò severi
provvedimenti contro il Grimani, che però fu salvato grazie alle
pressioni dei senatori filopontifici e alle benemerenze domestiche: suo
padre era stato provveditore generale a Palmanova, il fratello Giovan
Battista ricopriva incarichi di rilievo (poi morirà nell'Egeo al comando
della flotta impegnata contro i Turchi).
Intanto si diffondeva anche nel bresciano la peste portata dai
Lanzichenecchi. Il primo caso nel bresciano si ebbe a Palazzolo il 13
febbraio 1630: due donne, madre e figlia furono le prime vittime
dell'epidemia. Solo la città di Brescia ebbe circa 11 mila vittime, più
di un terzo degli abitanti. Anche a Brescia, il 12 luglio 1630, accadde il
caso di un presunto untore: un soldato francese fu catturato e ferito in
corso della Pallata, accusato di diffondere la peste.
Un altro episodio, di qualche anno prima, si raccontava ancora nelle
lunghe serate invernali, quello che riguarda il nobile Pietro Chizzola,
amico del conte Antonio Gaspare Martinengo. Il Chizzola si trovava in
carcere nel Ducato di Mantova per diversi reati, ma riuscì a fuggire a
Canneto sull'Oglio. S'impadronì di un altro famoso bandito col quale
aveva conti da regolare, lo fece uccidere e ne spedì la testa al Podestà
di Brescia. Il Signore di Mantova lo bandì dal Ducato e promise una
taglia di diecimila scudi a chi glielo avesse consegnato. Un bravo dello
stesso Chizzola per amor della taglia, o forse assoldato dallo stesso
Duca, proprio a Castenedolo dove il Chizzola si era rifugiato, l'assalì a
tradimento e lo uccise il 17 agosto 1627.
Com'era
Chiesanuova nella prima metà del Seicento? Negli Atti delle visite
pastorali, unici documenti dai quali possiamo avere notizie del nostro
passato non sono riportate le manifestazioni della vita religiosa della
parrocchia. Essendo la popolazione dedita ai lavori della campagna,
possiamo pensare come la vita sia dei proprietari sia dei contadini si
svolgesse secondo il ritmo immutabile delle stagioni e le ricorrenze delle
feste religiose.
Si celebravano le solennità del Natale, dell'Assunta (il 15 agosto, e poi
la festa proseguiva il giorno successivo, festa di S. Rocco, protettore
dalla peste e dalle gravi malattie) e di S. Isidoro, patrono degli
agricoltori, il 15 maggio. Ma nella chiesa di S. Maria Assunta non si
celebravano i riti della Settimana Santa. La popolazione doveva recarsi
nella chiesa dei santi Nazaro e Celso (parrocchia che allora contava circa
7000 abitanti) per la comunione pasquale. In fondo, tre chilometri a piedi
allora non spaventavano nessun fedele. I contadini si vestivano a festa e
varcavano la porta delle mura della città, detta di S. Nazaro, più o
meno dove oggi c'è la fontana di piazza Repubblica.
La vecchia chiesa non era certamente ricca di opere d'arte e d'affreschi,
né di paramenti e suppellettili. Oltre all'altare maggiore è ricordato
solo l'altare di S. Carlo. Non ve n'erano altri.
Le offerte non dovevano essere abbondanti. I contadini erano molto poveri
e le famiglie padronali, quando trascorrevano i mesi in campagna, nelle
loro ville, ascoltavano la messa nelle loro cappelle private e nei loro
testamenti non ricordavano la chiesa Nuova, che non frequentavano, ma
quella di città ove avevano la residenza.
Gli anni, quindi, scorrevano sempre uguali, quando non erano sconvolti
dalle invasioni di eserciti, dalle carestie e dalla peste. Il lavoro era
svolto dai poveri per i ricchi proprietari, su terre che dovevano essere
fruttuose di frumento, cereali e ortaggi per l'abbondanza delle acque, che
sovente erano anche causa di morte per affogamento, specie dei fanciulli.
Le nascite erano numerose, ma solo un terzo dei bambini raggiungeva la
maggiore età. Anche i funerali erano numerosi, e quasi la metà erano di
fanciulli.
L'istruzione dei contadini era data solo dalla dottrina cristiana, che li
obbligava ad imparare almeno le domande e le risposte del catechismo e le
preghiere.
Per quanto riguarda l'assistenza e la beneficenza ai poveri, nel secolo
XVII non troviamo la presenza di Confraternite o Scuole. Alla popolazione
di Bottonaga (e quindi anche dell'attuale Chiesanuova) poiché faceva
parte della parrocchia dei santi Nazaro e Celso, dovevano provvedere le
Confraternite di S. Rocco e della Carità di S. Bartolomeo. Ma negli Atti
delle visite pastorali non si dice se l'assistenza era riservata ai poveri
che vivevano entro le mura della città o anche a quelli che vivevano
fuori. |