Si parla
talvolta di declino di Brescia, intendendo con questa locuzione un
ridimensionamento del ruolo e dell'influenza della nostra città e provincia
rispetto al passato (per alcuni questo passato è l'epoca di Boni, per altri
gli anni Ottanta). Per non fare d'ogni erba un fascio, occorre distinguere
almeno tre differenti livelli del declino: economico, infrastrutturale e
culturale. Sul primo punto non vi sono ragionevoli dubbi. Il declino
produttivo è evidente, per la chiusura o il ridimensionamento di molte
industrie, specie nel settore metalmeccanico. Inoltre le tre principali
banche della provincia (S. Paolo, CAB e BIPOP) non sono più da tempo
proprietà di bresciani. Oltre che per il credito alle aziende, le banche
erano importanti come centri di produzione d'energie intellettuali e
creative ed erano capaci d'efficaci interventi nelle sponsorizzazioni di
restauri artistici e d'iniziative culturali.
Dal punto di vista delle infrastrutture, la fiera è chiusa per sempre,
l'aeroporto di Montichiari non decolla e si è rischiato perfino che la
città rimanesse tagliata fuori dalla TAV, se fosse passato l'assurdo
percorso per l'aeroporto. La metropolitana di Brescia può essere pienamente
utile e produrre benefici commisurati ai costi solo se viene prolungata, in
particolare verso la Val Trompia, impresa che attualmente pare di
lontanissima realizzazione. Ma soprattutto sul piano del governo della
città è venuto meno uno tra gli strumenti più importanti, da quando l'ASM
è entrata far parte di A2A, che pur essendo di proprietà pubblica è molto
meno adatta a rispondere alle esigenze locali, pur avendo migliorato, almeno
potenzialmente, la propria efficacia tecnico-economica per le maggiori
dimensioni.
Infine sul piano culturale l'ambizioso progetto di Boni del terzo polo
universitario lombardo, si è realizzato solo in parte poiché, anche
sommando Statale e Cattolica, mancano a Brescia ancora diverse facoltà, sia
scientifiche (come chimica e biologia), sia tecniche (come agraria), sia
umanistiche (come filosofia e scienze politiche). La pinacoteca è chiusa da
tempo e le grandi ambizioni museali della città si son realizzate solo in
parte.
Quali le cause remote di questo stato di cose? Quali i rimedi? Sulle cause
si può osservare come dal 1945 ad oggi, Brescia abbia avuto una
rappresentanza parlamentare e governativa quasi sempre inadeguata. Nel
periodo 1945-70 Boni mandava a Roma quei democristiani che potevano
potenzialmente divenire suoi avversari, a prescindere dalle loro capacità
"di governo", per mantenere inalterata la sua egemonia (per lunghi
periodi fu contemporaneamente Sindaco di Brescia, segretario provinciale DC
e presidente della commissione che sceglieva i parlamentari). Fino al 1968
la rappresentanza parlamentare bresciana era guidata da Lodovico Montini,
che mantenne sempre un profilo prudente di degasperiano moderato. L'unico
parlamentare autorevole, Stefano Bazoli, fu estromesso con la nota
"congiura" del 1953 voluta da Montini, Pedini e Carlo Albini, con
la regia (fino a che punto completamente consapevole?) di mons. Almici. La
conseguenza di tutto ciò fu che Brescia non ebbe un ministro fino al 1975.
Poi negli anni '70 si ebbe una sorta di modificazione genetica della DC
bresciana, con l'affermarsi di un potere abnorme delle correnti, che ha
portato a laceranti conflitti interni (emblematico quello
Martinazzoli-Prandini) con l'impossibilità di giungere a sintesi unitarie.
Sempre negli anni Settanta si assiste all'interno del mondo cattolico ad una
complessa mutazione dei rapporti di forza per quanto concerne il controllo e
la gestione delle attività economiche e culturali, che porta ad un
ridimensionamento del ruolo della curia, accanto al crescere e consolidarsi
delle Fondazioni. Giuseppe Camadini, protagonista di questa strategia,
imprime alla galassia bancario - culturale - editoriale cattolica
un'impronta chiusa, prudente e conservatrice, che rallenta l'innovazione e
non le consente di esprimere tutte le potenzialità. Negli anni del centro
sinistra, l'area socialista e laica, pur con qualche significativo risultato
parziale (ad esempio la cultura con Vasco Frati) non riesce a cambiare
significativamente l'azione amministratrice degli enti locali bresciani.
Infine nel periodo post '68, il maggiore peso dei movimenti partecipativi
(sindacati, consigli di quartiere, ecc.) ottiene obiettivi circoscritti di
valore prevalentemente simbolico che non mutano il modello di sviluppo della
città.
Come uscire dal declino? Sembra quasi impossibile, almeno finche non c'è
consapevolezza. Si dovrebbe partire dalla cultura, cioè dal pensare la
città: servirebbe un'idea forte di città che diventi progetto condiviso.
Ma forse non abbiamo intellettuali autorevoli e impegnati in grado di
innestare questo percorso. Quindi penso che anche un buon sindaco come Del
Bono difficilmente riuscirà ad introdurre correttivi radicali.
Maurilio Lovatti
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