«Se le
Acli cessassero di esistere, alla classe lavoratrice italiana mancherebbe
qualcosa, perché le Acli sono entrate nel vivo del mondo del lavoro
italiano, tanto da esserne indissolubili». Così Giovanni Battista Montini,
il 21 dicembre 1954, appena eletto arcivescovo di Milano, si rivolgeva alla
presidenza centrale delle Acli.
Per molti
versi, la storia delle Acli tracciata nel denso saggio di Maurilio Lovatti (Giovanni
XXIII, Paolo VI e le ACLI, Brescia, Morcelliana, 2019, pagine 274, euro
25) si interseca continuamente con quella del «Papa dei lavoratori», come
verrà chiamato Paolo VI. Egli fu tra i primi sostenitori dell’Associazione
Cristiana dei Lavoratori Italiani fondata nel 1944 da Achille Grandi: vi
vedeva una specie di avamposto in territorio ostile, capace di testimoniare
la visione cristiana dell’uomo nel mondo del lavoro.
Sulla base di fonti inedite provenienti da archivi nazionali e privati, il
volume dipana minuziosamente i fili del rapporto tra fede e politica,
chiarisce il ruolo e le responsabilità dei laici nella Chiesa italiana e
mostra l’evoluzione del pensiero sociale cattolico in un arco di tempo che
va dalla preparazione del concilio Vaticano II alla sua recezione e
applicazione. Anni ricchi di riflessioni e di entusiasmo, ma anche convulsi
e problematici.
Una prima pista di indagine riguarda la situazione sociale e politica dell’Italia
dal 1958 al 1978, periodo tra i più promettenti e travagliati dell’Italia
repubblicana: dal boom economico alla contestazione e al terrorismo.
Saldamente ancorata ai valori tradizionali del matrimonio e della famiglia,
la società italiana passa velocemente a una cultura molto più “liquida”
e secolarizzata. Sotto il profilo politico, la Democrazia Cristiana, il
partito di maggioranza che governa dal secondo dopoguerra, lentamente e non
senza resistenze, inizia a tessere alleanze con le forze della sinistra
moderata. Se fino agli anni Cinquanta le ACLI offrono un convinto sostegno
alla “balena bianca” degasperiana e dorotea, esercitando una funzione di
stimolo esterno, più tardi subentra una certa delusione che si traduce
nella presa di distanza da una DC accusata di poco coraggio nel sostenere le
riforme sociali.
Guidate dal presidente Penazzato, nei primi anni Sessanta le Acli spingono
per un piano di sviluppo economico attento alle fasce sociali più deboli,
anche con il sostegno delle forze socialiste. Linea non condivisa né dal
presidente dei vescovi italiani, Giuseppe Siri, né da Luigi Gedda,
presidente dell’Azione cattolica. La sintonia si ritrova a metà degli
anni Settanta, con il passaggio della segreteria democristiana da Fanfani a
Zaccagnini e la “strategia delle larghe intese” sostenuta da Moro, che
mira a un coinvolgimento del Partito Comunista nella compagine di governo,
pur rifiutando l’ideologia materialistica e immanentista, inconciliabile
con i principi di ispirazione cristiana. L’ipotesi del “compromesso
storico” tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista viene però
bruscamente interrotta dall’assassinio di Aldo Moro ad opera delle Brigate
Rosse.
Altrettanto stimolante è la prospettiva che rilegge la storia delle Acli in
rapporto a quella della Chiesa italiana, che in un ventennio vede
avvicendarsi sulla cattedra di San Pietro ben cinque pontefici: Pio XII,
Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. È la Chiesa
che prepara e celebra il concilio Vaticano II, ne incoraggia una capillare
recezione, cercando di vincere le resistenze e di frenare gli eccessi. Il
magistero sociale di Papa Roncalli suscita grande euforia nelle ACLI,
specialmente l’enciclica Mater et magistra del 1961, assai critica
verso il liberismo economico, e la Pacem in terris del 1963. Gli
ambienti aclisti, inizialmente piuttosto tiepidi verso i lavori del Concilio,
ritenuti forse troppo concentrati su questioni strettamente liturgiche o
intraecclesiali, grazie all’opera del presidente Livio Labor, si
appassionano alle tematiche conciliari, specialmente quelle che riguardano l’autonomia
e la responsabilità del laicato e il suo impegno in politica e nell’azione
sociale. Lo stesso Labor scrive: «Il Concilio non è stato per noi, come
forse per altri, un terremoto: nella casa del Concilio ci siamo trovati
subito a nostro agio» (pagina 89).
Con l’enciclica Populorum progressio del 1967, Paolo VI spalanca
nuovi orizzonti all’azione degli aclisti, proponendo un’idea di sviluppo
delle società umane che non si riduca a semplice crescita economica e
stimolandoli a cogliere gli aspetti globali e internazionali della questione
sociale. Nella Octogesima adveniens del 1971 Papa Montini, pur
ribadendo la condanna dell’ideologia marxista, accetta il principio del
pluralismo delle opzioni politiche dei cristiani, tema molto sentito dalle ACLI,
che la Conferenza episcopale italiana farà proprio solo nel 1975, con il
documento base per il convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione
umana. Il convegno, celebrato a Roma nel 1976, segna un riavvicinamento tra
posizioni che erano giunte alla soglia della rottura in occasione del
referendum del 1974, per l’abrogazione della legge sul divorzio. In quella
occasione, alcuni esponenti di spicco delle ACLI si erano schierati dalla
parte del “no”, contravvenendo alle indicazioni del magistero. Pur
dichiarandosi contrari al divorzio, essi ritenevano sbagliata l’imposizione
ai non credenti di una legge basata su argomenti desunti dalla fede.
Utilizzando in modo rigoroso le fonti, con un linguaggio asciutto, che non
indulge alla retorica, lo studio di Lovatti mette in luce come le vivaci
discussioni dentro le ACLI siano lo specchio dell’intera comunità
cristiana che, sollecitata dallo spirito conciliare, si interroga su come
ripensare il rapporto con un mondo in rapida trasformazione, come essere
fermento evangelico in una società che sta perdendo i riferimenti
spirituali, come testimoniare la passione per l’uomo senza svendere la
fede in Dio, come lottare contro le ingiustizie economiche e sociali senza
assumere criteri di lettura e metodi incompatibili con la prospettiva
cristiana.
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